di Nadia Muscialini
presidente Soccorso Rosa Onlus, già responsabile Centro antiviolenza ospedaliero presso AO San Carlo Borromeo di Milano (www.soccorsorosa.net) 

Cerco di portare il mio contributo parlando di quello che è il lavoro all’ospedale e di ciò che ho capito di questo tema durante gli anni passati ad assistere donne e vittime di violenza domestica. L’ospedale è un luogo molto particolare; è un luogo di sofferenza dove arriva gente malata, spesso in situazioni di emergenza e dove è necessario nella maggior parte dei casi agire in fretta, subito; l’ospedale è un posto di complessità perché vi accedono anche situazioni che non sono prettamente sanitarie, spesso ai problemi sanitari sono associati anche problemi sociali o di altro tipo.
L’ospedale è però anche un luogo di speranza e innovazione, e credo che queste due parole, insieme a creatività, siano fondamentali per affrontare questo tema.
Quando in ospedale arrivano persone con problemi clinici urgenti e complessi vi sono dei protocolli, delle linee guida da seguire, ma è vero anche che non sempre, anzi spesso, questi protocolli, queste strade già definite non possono essere percorse e i sanitari devono valutare e trovare delle strade nuove, percorsi alternativi che permettano di dare risposte a chi chiede aiuto arrivando alla struttura in situazioni di emergenza.
Soccorso Rosa è un centro antiviolenza ospedaliero nato nel 2007 che nel corso degli anni ha avuto modo di accogliere donne portatrici di diversi tipi di disabilità.
Di solito le donne seguite dal team di Soccorso Rosa non vengono in prima battuta al Centro antiviolenza, ma accedono alla struttura ospedaliera perché hanno problemi di salute e necessitano di cure mediche; grazie al fatto che nella maggior parte dei casi i sanitari non si fermano alle problematiche cliniche, ma approfondiscono anche quella che è la vita di una persona, ci sono arrivate così segnalazioni di donne portatrici di disabilità vittime di violenza domestica, impossibilitate a fuggire a causa delle loro difficolta e per questo costrette a subire terribili maltrattamenti.
Per questo genere di utenti non ci sono linee guide da seguire, ma per fortuna si incontra sempre qualcuno che è disposto a fare innovazione e a sperimentare strade nuove. Le vittime di violenza domestica hanno sempre situazioni complesse che necessitano di interventi multidisciplinari e interistituzionali. La presenza di qualche disabilità rende tali approcci ancora più complessi, per cui spesso è necessario avere il coraggio di inoltrarsi in sentieri inesplorati dove ti confronti con pregiudizi e resistenze.
È capitato infatti che per donne in carico ai servizi competenti e con certificazioni di invalidità, la problematica della violenza e maltrattamenti venisse negata o posta in secondo piano.
Ci sono tempi più lunghi, modalità di comunicazione diverse per occuparsi di persone portatrici di qualche tipo di disabilità.
Vorrei quindi a questo punto portare un esempio esemplificativo sia di questo concetto sia del nostro modo di procedere che deve essere necessariamente flessibile, individualizzato e creativo.


La storia di K.
K., 39 anni, anche se ne dimostrava molti di più, aveva una disabilità cognitiva di natura organica probabilmente congenita e presentava evidenti dismorfismi.
Pur non essendo completamente autonoma, se assistita e affiancata adeguatamente, era in grado di vivere da sola e di fare la maggior parte delle cose necessarie alla gestione della vita quotidiana.
K. viveva con il marito, altra persona portatrice di serie disabilità e in carico ai servizi sociali e sanitari di competenza.
La donna aveva anche un grave diabete che a causa di valori glicemici peggiorati in maniera repentina e importante aveva spinto i sanitari ad approfondire con ricoveri in day hospital la situazione clinica fino ad allora sotto controllo. I valori della glicemia fino a quel momento erano stai tenuti sotto controllo dalle indicazioni dietetiche che i sanitari avevano spiegato con cura alla donna e che lei era in grado di gestire a domicilio.
Durante i ricoveri in day hospital dove si fornivano a K. pasti adeguati si riscontrò che i parametri incriminati erano tornati a livelli normali: a questo punto l’infermiera sensibile e attenta che affiancava la donna decise di approfondire con la donna e così riuscì a farsi raccontare ciò che accadeva a casa. L’infermiera scoprì, osservandola, che il corpo di K. era ricoperto di bruciature ed ematomi.
K. le raccontò dietro le sue delicate richieste che il marito le spegneva addosso le sigarette, che faceva la spesa comprando nutella, pizze e altri alimenti che lei non poteva mangiare, inducendo così rialzi importanti della glicemia e anche il coma glicemico.
K. grazie a indicazioni dell’infermiera aveva imparato a scappare di casa, con il suo cane, ogni volta che il marito cercava di aggredirla. Andava al parco vicino a casa dove poteva passare anche tutta la notte per evitare i maltrattamenti del marito, che le sottraeva anche i soldi della pensione per procurarsi alcool e sigarette.
L’infermiera ci chiamò, approfondimmo e cercammo di capire come intervenire perché la donna non rientrava nei parametri usuali delle nostre procedure: K. non era in grado di fare denuncia da sé e, avendo noi l’obbligo di segnalazione come pubblici ufficiali, scrivemmo all’ufficio della Procura della Repubblica dedicato alle fasce deboli. Successivamente abbiamo dovuto inventarci una serie di percorsi alternativi a quelli usuali al fine di riuscire a offrirle protezione e assistenza.
Intanto, nonostante l’abitazione fosse intestata alla donna e lei era in grado di occuparsi di sé oltre che della casa, l’assistente sociale del territorio propose come prima cosa un suo inserimento in comunità, impossibile però con il suo cagnolino che rappresentava per la donna un affetto troppo importante per separarsene.
Se avessimo dovuto attenerci in maniera rigida ai protocolli che avevamo attivi per le vittime, non saremmo riuscite a darle aiuto.
Ad esempio K. non era in grado di agire autonomamente su questioni più complesse della sua routine quotidiana e così quando fu convocata dal medico legale per la valutazione delle lesioni, convocazione che la spaventò molto, non era in grado di andarci autonomamente, così concordammo con il medico legale che per la valutazione medico-legale sarebbe venuta lei in ospedale, luogo conosciuto. Accogliemmo il medico inviato dalla Procura nei nostri locali e facilitammo anche la visita.
In questo caso abbiamo adattato le consuete procedure per le vittime di violenza domestica ai bisogni e alle capacità della signora.
I problemi più grossi riscontrati nella gestione del caso di K. ci vennero dai servizi sociali che avevano in carico sia lei che il marito. Ignorando completamente le nostre indicazioni, del Pubblico ministero e dell’avvocato che difendeva la donna, l’assistente sociale che seguiva il marito insisteva – dopo che era stato dimesso da una comunità terapeutica (dal momento che faticava a trovare una collocazione residenziale per l’uomo) e nei confronti del quale era stato emesso un decreto di allontanamento per proteggere la donna – che K. accettasse il suo collocamento presso la casa coniugale, chiedendo per altro a K. di continuare a offrire assistenza al marito.
La povera donna, incapace di dire di no, si sarebbe così trovata ad assistere al proprio domicilio il l’uomo da cui subiva maltrattamenti e che grazie all’intervento celere del magistrato aveva ricevuto un ordine di allontanamento.

Dai diritti sulla carta alle opportunità di cura
La mia riflessione più generale è la seguente: per la risoluzione di problemi nuovi è necessario dotarsi di creatività e innovazione e, nel caso specifico della protezione e dell’accoglienza delle vittime, anche di una grande umanità.
Sebbene la nostra società sia per legge una società in cui ognuno ha diritto a considerarsi uguale agli altri, vi sono alcune situazioni in cui nella realtà non è così e non si può esercitare concretamente questo diritto all’uguaglianza, come del resto ci ricorda la Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità: se non esistessero discriminazioni non ci sarebbe stata la necessità di promulgarla.
Credo che debba essere impegno di tutti noi fare in modo che i diritti sanciti sulla carta possano tramutarsi in vere opportunità di cura. Credo che le istituzioni, nate per rispondere a dei bisogni, sono fatte di persone e la differenza nel funzionamento delle organizzazioni la fanno le singole persone: ognuno di noi quindi deve agire concretamente affinché un diritto esistente sulla carta si trasformi in possibilità reale di uguaglianza.
Le organizzazioni inoltre dovrebbero collaborare una con l’altra e questo dovrebbe essere l’obiettivo anche di quelle deputate all’assistenza di vittime di violenza o di persone portatrici di disabilità.
Sono da trovare delle strade percorribili per far uscire dalle storie di violenza le donne, nonostante la disabilità congenita o causata dalla violenza stessa!
Quando giungono a Soccorso Rosa delle donne disabili che necessitano il ricovero in una struttura di protezione ci chiediamo dove collocarle perché sorge innanzi tutto un problema di budget. 

La storia di S.
Per un’altra donna con un ritardo cognitivo, un problema di sordità, vittima di abusi e con una patologia organica, chiesi alle strutture di accoglienza della rete del Comune chi sarebbe stato in grado di accoglierla e gestirla con le sue difficoltà.
Il problema più grosso che abbiamo avuto per offrire assistenza a S. che aveva quattro problemi grossi evidenti, scappata in emergenza, senza avere in tasca un certificato di disabilità perché la famiglia dove venivano agiti gli abusi non l’avevano mai voluto far fare, fu il fatto che essa non poteva essere presa in carico dai servizi per disabili perché le mancava la certificazione di invalidità e non poteva essere presa in carico dalle case di accoglienza della rete dei centri antiviolenza perché era un caso troppo complesso e quindi, a causa delle disabilità, non gestibile all’interno di quelle strutture.
Il problema più grosso era quello della presa in carico amministrativa della vittima.
Chi pagava per l’accoglienza?
I servizi sociali per persone con disabilità non prendevano in carico S. perché la certificazione era in corso e la rete antiviolenza non la prendeva in carico perché impreparata a gestire un caso così diverso da quelli usuali.
Inutile dire che a S., nonostante l’evidenza delle sue difficoltà e le resistenze burocratiche ad accettare queste limitazioni, qualche mese dopo è stato riconosciuto, dalla commissione deputata, il 100% di invalidità.
Il punto però è che per la risoluzione di questo caso così complesso abbiamo dovuto lottare contro le procedure delle organizzazioni poco flessibili e sclerotizzate in percorsi che non riescono a gestire la complessità delle vicende delle persone, e chiedere aiuto e attingere alle risorse di una comunità che si occupa dell’accoglienza a persone con disabilità.
Con gli operatori della comunità, che non erano preparati a gestire il problema dei maltrattamenti e abusi, abbiamo poi affrontato anche questo aspetto specifico che si ripercuoteva quotidianamente sulla vita quotidiana e le relazioni con l’ospite.

Gestire l’emergenza
Rispetto al numero totale di casi che gestiamo all’anno che sono tra i 500 e i 600, quelli delle vittime portatrici di disabilità sono sicuramente molto pochi, io credo soprattutto per la difficoltà di accesso e di identificazione della violenza. Quindi non vi sono procedure e sinergie consolidate, ma mettendo insieme operatori e risorse di strutture con obiettivi completamente diversi siamo riusciti a trovare una strada che ci ha fatto fare passi da gigante nella gestione dell’imprevisto e della complessità e ci arricchito tutti quanti.
Ricordiamo che i beni sociali più preziosi sono l’amore, l’amicizia e la soddisfazione di prendersi cura dei nostri cari e la stima e il rispetto dei colleghi. Credo che nel nostro essere individui e operatori socio-sanitari che hanno anche e soprattutto problemi di budget e di risorse, bisogna essere in grado di essere creativi e come con il vestito di Arlecchino cucire insieme ritagli di tessuto (risorse); dobbiamo metterci insieme per capire come unire le risorse e le specificità delle cure e dell’assistenza delle donne vittime di violenza portatrici di qualche disabilità.
Finisco questo mio breve intervento citando una poesia riportata sulla copertina di un testo di Zygmunt Bauman: “Non sei una monade isolata, ma una parte unica e insostituibile, non dimenticarlo, sei un elemento essenziale nel groviglio dell’umanità”. Noi siamo un po’ questo. 
Credo che la differenza nel fare buona assistenza risieda nelle persone, soprattutto in coloro che si mettono in gioco in prima persona. Un altro problema per affrontare la violenza di genere, e non so se ciò sia valido anche per il problema dell’assistenza a persone con disabilità, è che manca un piano nazionale. La realtà, dovuta al federalismo e alla gestione dei finanziamenti da parte dei Comuni, è che una donna, e ciò vale anche per i minori, da Milano non può trasferirsi a Torino perché nessuno paga la retta della struttura, dovendo stare così nelle sue strutture del territorio. Ma se la donna è in fuga come si fa?
Relativamente alle donne vittime di violenza con disabilità ci troviamo in difficoltà a gestire un collocamento di protezione in emergenza, perché non esistono strutture deputate ad affrontare entrambi i problemi o perché i servizi per disabili non si fanno carico dell’inserimento in struttura per il problema della violenza. Questo solo perché non è usuale ed è un tema che non è ancora stato affrontato sistematicamente.
Bisogna quindi creare una rete vera che risponda ai bisogni reali delle persone. Le organizzazioni devono essere flessibili perché sono state fatte per rispondere ai bisogni degli individui e delle famiglie e in questo caso delle donne vittime di violenza portatrici di disabilità.
Quando si riuscirà a passare dalla sistematizzazione dei dettami di una Convenzione alla possibilità che gli interventi divengano dei diritti esigibili per tutti i cittadini, delle donne mancate?
L’Italia è infatti il paese delle donne mancate, degli uomini mancati, degli anziani. Come si riesce a costruire un diritto, perché ciascuna donna colpita da violenza possa vedersi corrisposta anche dal punto di vista amministrativo e soprattutto di costruzione di autonomia per il futuro? C’è una cosa importante, che l’assessore Majorino ha detto e che ho apprezzato. Ha detto che bisogna stare moltissimo su due fronti: da una parte valorizzare la prevenzione, dall’altra il sistema della presa in carico per realizzare percorsi di autonomia, di vita indipendente. Se riuscissimo a settare la politica sul fatto che si agisca su questi campi di intervento, potremmo attrezzare il sistema del welfare italiano, per dare delle risposte a donne disabili oggetto di violenza e vittime anche di altre forme di debolezza. Penso che questo debba essere l’obiettivo cui debba tendere la nostra riflessione. Dalla volontà della riflessione nasce la possibilità di costruire delle domande che abbiano un senso politico e chiamino le politiche pubbliche al proprio senso, veramente politico.

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