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autore: Autore: Alessandra Pederzoli

Sul grande schermo

Grande il successo raccolto dal film “Il Grido” di Pippo Delbono presentato al Festival del Cinema di Roma: secondo lungometraggio dell’autore che esce dopo due anni di lavorazione, a tre di distanza da “Guerra”. Una sorta di documentario che prende le sembianze del film vero e proprio, nonostante lo stile fortemente documentaristico della narrazione. Così come ha del documentario la forma e il modo di esprimere questo viaggio in lambretta dei due protagonisti: il regista e Bobò, entrambi attori di loro stessi. È nel rapporto dei due personaggi che si risolve il senso ultimo del film e, per Delbono, anche dell’esistenza: è nell’aver incontrato Bobò, nell’averlo salvato dalle mura del manicomio che si concretizza l’opera di salvezza del regista. Un percorso autobiografico che racconta l’esperienza fondamentale di Delbono: “Una lavorazione di due anni – spiega l’autore – per estrarre l’essenza di una storia molto più lunga. Non volevo né potevo scrivere una sceneggiatura, né inventare personaggi. La storia era presente lì, come persone, vive. E insieme a questo c’è il mio desiderio di cercare nel linguaggio del cinema la libertà del volo, l’irreale, del sogno, della poesia. Senza perdere la coscienza della verità”. Non solo una dichiarazione poetica, ma un vero e proprio ritratto del suo percorso artistico che passa attraverso il teatro ma ritorna sempre alla realtà. Non ci sono attori: i personaggi mettono in scena loro stessi. Così fa lui e così fa Bobò. Questa coppia che viaggia su quella lambretta e che, nel silenzio di molti momenti, racconta la profondità di una relazione che porta alla salvezza: per Bobò è l’uscita dal manicomio, per Pippo, la riscoperta di una dimensione di vita autentica e vera che, dalla poesia e dalla libertà del volo, ritorna alle persone e alle relazioni che si creano, seppur nel silenzio e nel viaggio in due.
Il film è una coproduzione della Compagnia Pippo Delbono, della Provincia autonoma di Trento con Downtown Pictures, drodesera centrale fies e Teatri Uniti e distribuito dalla Mikado.
Per informazioni ulteriori www.pippodelbono.it.

(Alessandra Pederzoli)
 

Il mio vivere da figlia

Sono il padre e la madre di un figlio disabile che più spesso parlano di progetto di vita per il proprio figlio, che altro non è se non il progettarne il futuro così come, in misura maggiore o minore, un po’ tutti i genitori fanno, creandosi aspettative che sta poi alla vita e alle scelte del figlio esaudire o tradire. Ma di questo si tratta, sia che il figlio sia o non sia disabile: sono quei progetti intorno alla sua laurea, previsioni di quella commozione riservata al giorno del matrimonio, senza pensare poi alla grande emozione del diventare nonni. Tutto come da copione. Seppur nell’autoconvinzone che, nel pieno rispetto della vita del figlio, non crescano insieme a lui le ambizioni perché spetta solo a lui la costruzione e la realizzazione della sua vita. A maggior ragione il genitore del figlio disabile si sente nelle condizioni di poter davvero ragionare su un progetto di vita del figlio, spinto spesso da considerazioni sulla mancata autosufficienza e sulla necessità di assistenza.
Così come si sente parlare di progetto di vita quando si va a chiedere alla persona disabile che sta costruendo una propria vita adulta quali ne siano le ambizioni, quali i valori su cui fondarla, quali le strade intraprese e le scelte compiute. Così si trovano pagine di interviste a ragazzi disabili studenti universitari, a professionisti su sedie a rotelle, a genitori che hanno fatto la scelta di costruire una famiglia e di avere dei figli superando le difficoltà della disabilità.
Oppure è espressione ricorrente nell’ambiente dell’istruzione e nel mondo del lavoro, ambiti fondamentali per la formazione della persona e per la sua realizzazione personale, oltre che professionale. È l’insegnante che parla di come le scelte educative e le strategie di integrazione nell’ambiente scuola volgano alla costruzione del progetto di vita del bambino disabile che muove i primi e significativi passi già a partire dalla scuola dell’infanzia.

Un giorno di qualche anno fa a sangue freddo, un collega alzando la testa dal proprio pc mi chiese: “Senti ma… avrei una curiosità, tu come hai vissuto l’essere figlia di due persone disabili?”. Domanda alla quale credo di aver dato una risposta abbastanza grossolana che penso non abbia soddisfatto la curiosità del mio interlocutore. Ma solo in quel momento mi resi conto che, a dire la verità, io non ci avevo mai pensato. Eh sì, io ero proprio la figlia di due persone disabili. Allora, mettiamola così, non avevo mai messo al primo posto il loro essere disabili rispetto al loro essere genitori.
Forse per questo motivo quella domanda mi arrivò come una doccia fredda: da un certo punto di vista mi sembrò quasi una rivelazione del momento e, in quei pochi secondi intercorsi tra la domanda e il tentativo di risposta, dovetti fare i conti con una valanga di sensazioni e percezioni che avevano proprio a che fare con questo. Prendevo coscienza che avevo due genitori disabili la cui disabilità, in fondo, mi era sempre un po’ sfuggita. E per essere già a mia volta madre di una bambina e, a quel tempo, in attesa di un secondo figlio, non era una rivelazione di poco conto.
Ritornai sulla questione facendo i conti con me stessa, perché quando si ha una rivelazione non si può certo lasciar cadere la cosa come se non fosse successo nulla…Le rivelazioni portano sempre con sé delle conseguenze e sapevo di non voler lasciar scorrere quel fiume di strane sensazioni che mi portavano a ventisei anni a rendermi conto del mio essere di figlia e del loro essere di genitori. Così cercai in me delle risposte che avevano poco a che vedere con quella prima domanda, abbastanza superficiale se vogliamo, nella quale stava tutto e il contrario di tutto. E credo anche di averne trovate.
Come avevo vissuto il mio essere figlia di persone disabili? Lo avevo vissuta da figlia. E come tutte le figlie si innamorano del padre che vedono poco per motivi di lavoro e che incarna l’uomo dei propri sogni, si scontrano con la madre con la quale entrano in una competizione mai finita ma sempre complice; si mettono contro alle regole imposte ma vi sottostanno; fanno un po’ le adolescenti ribelli più per moda che per gusto; vanno avanti a testa bassa negli studi e nelle passioni fino a raggiungere i risultati desiderati e aspirati; tentano di inserirsi nel mondo del lavoro seguendo un po’ i consigli dei genitori un po’ facendo di testa propria; dipendono dalla famiglia ma si credono indipendenti più per autonomia di pensiero che per altro; e così via…in una fitta lista di comportamenti che da generazioni si ripetono più o meno sempre uguali nei processi di crescita dei figli.
Questo è stato il mio essere figlia. Io così ho vissuto la mia esperienza di figlia. E continuo a viverla. Ecco perché non mi tornavano i conti quando dovevo rispondere al collega incuriosito: non trovavo in questa fitta rete di dinamiche e di relazioni del mio essere figlia dentro e fuori la famiglia, l’essere disabili dei miei genitori.
“Non hai potuto fare esperienze che un genitore con le gambe buone ti avrebbe potuto far fare”. Vero. Infatti ne ho fatte altre. Io non sono mai andata a correre con mio papà. Poco male, correre per me è noioso. Non sono andata sulle montagne russe con mia mamma quando siamo andati insieme a Gardaland. Poco male, mi fanno venire il voltastomaco. Non sono andata a famiglia riunita a fare le camminate sui ripidi e scoscesi sentieri di montagna. Questione di pochi anni: dalla quinta elementare in poi ho passeggiato per i monti durante i campi estivi e invernali della Parrocchia.
Ho fatto altre esperienze con le persone. I miei genitori hanno molti amici, conoscenti e legami con persone disabili, perché legati dall’essere membri di associazioni, per esperienze di infanzia e di gioventù; questo mi ha portato a crescere non solo in una famiglia in cui la disabilità era, per forza di cose, la normalità, ma anche in un ambiente esterno altamente popolato da persone disabili.
Ecco, forse il punto sta qui: per me figlia di due persone disabili la disabilità era diventata la normalità e se litigavo con mia mamma me la prendevo con lei per il suo essere troppo apprensiva; se studiavo con mio papà lo facevo perché aveva una bella mente matematica e mi poteva aiutare. La loro disabilità non aveva nulla a che vedere con la loro genitorialità. E quindi nulla a che vedere con il mio essere e sentirmi figlia.
Non so bene quel collega cosa volesse sentirsi dire: forse si aspettava gli svelassi quanto mi era stato di peso il bastone o la carrozzina di mia mamma nella mia crescita, o forse si aspettava dicessi che erano genitori speciali perché disabili e allora più sensibili, più bravi, più comprensivi e tutta una serie di “più” che ci riempiono di luoghi comuni.
Nulla di tutto questo: due genitori normali, il cui essere speciali sta nel loro essere sempre stati dei genitori che c’erano, figure sulle quali appoggiarsi (nonostante il bastone), spalle su cui piangere e intelligenze con cui giocare; impositori di regole da scappare ma punti di riferimento su cui contare. Questo sono stati.
E la cosa che ora mi fa sorridere è che i ruoli sembrano essersi invertiti rispetto alle considerazioni iniziali. È il genitore del figlio disabile che si preoccupa del suo progetto di vita. E in questo caso come la mettiamo? Chi costruisce il progetto a chi?
Beh io credo che nella nostra famiglia ciascuno abbia collaborato in parte alla costruzione di quello altrui e ciascuno ci abbia messo del proprio per farlo. E questo è successo al di là di ruoli e, soprattutto, al di là di chi fosse o non fosse disabile. I miei genitori disabili, soggetti per cui qualcuno avrebbe dovuto pensare a un progetto di vita, si sono trovati invece a pensare alla vita della loro figlia… questa una bella inversione di rotta. Una bella sfida.
 

IN macchina… si vive e si viaggia meglio

Prossima l’uscita di “GuidAbile” quarta pubblicazione della collana “Incontri Coloplast”, di cui la Cooperativa Accaparlante è autrice, preceduta da due guide turistiche che scoprono percorsi accessibili nelle città di Verona e Napoli e da “AbitAbile” una pubblicazione che riguarda l’accessibilità degli spazi domestici.
Una guida dedicata al mezzo di trasporto privato per eccellenza: l’automobile. Molti sostengono come l’auto sia uno dei grandi amori degli italiani. In tutte le nostre case ne è presente almeno una; ormai le famiglie hanno a disposizione un mezzo per ogni componente che spesso evolve nel tempo con la crescita dei figli, per passare dal motorino dei 14 anni alla macchina con lo scoccare della maggiore età. Questo rende come nel nostro paese si affidi all’auto la responsabilità maggiore dei nostri spostamenti. La nostra libertà di movimento sembra essere garantita da un’auto di nostra proprietà o comunque da un’auto con cui potersi liberamente muovere. L’automobile ci permette di non essere vincolati a orari per i nostri spostamenti, come invece i trasporti pubblici ci impongono; sembra essere la possibilità di muoversi senza limiti, se non quelli imposti dalle norme di circolazione vigenti. Se questo è vero per chiunque, lo è a maggior ragione per persone che abbiano problemi di mobilità o di deambulazione, magari a causa di un deficit fisico.
GuidAbile” si propone di essere uno strumento soprattutto utile per chi lo prenda tra le mani, al cui interno trovare tutte le informazioni necessarie a intraprendere il percorso per mettersi alla guida. Una prima parte è dedicata all’iter per prendere la patente o per riclassificare una patente già in possesso (si pensi al caso di una disabilità acquisita o progressiva): a partire dalla visita presso la Commissione Medica Locale, fino ad arrivare all’esame di guida conclusivo. Un secondo capitolo, la sezione più corposa della pubblicazione, è dedicato agli adattamenti dei veicoli e alla presentazione di tutte le soluzioni tecniche approvate dal Ministero dei Trasporti per la guida delle persone disabili: dalla guida in carrozzina ai singoli dispositivi (affiancati dai codici comunitari stabiliti dalla Comunità Europea), quali freno, frizione, centraline per l’azionamento dei comandi elettrici, acceleratore, dispositivi per l’ingresso in auto, ecc. Un terzo capitolo viene riservato alle questioni di natura puramente fiscale e tributaria legate all’acquisto e all’adattamento dell’auto. A chiusura, una panoramica sulle norme di circolazione e sosta quali richiesta del contrassegno, posteggi riservati e circolazione nelle zone a traffico limitato. La pubblicazione è corredata di informazioni utili nelle quali sono riportati i riferimenti dei centri che si occupano di accompagnare la persona in tutto questo iter della “messa alla guida” dislocati su tutto il territorio nazionale.
Una ricca panoramica che rende la natura di “GuidAbile”: uno strumento pensato per persone alla ricerca di risposte pratiche e di soluzioni concrete. Si tratta cioè di un prezioso vademecum ricco di informazioni pratiche per orientarsi nella moltitudine di norme, regolamenti e consuetudini, spesso poco comprensibili ai più, che a volte rendono davvero difficile capire cosa vada fatto e come. Coerentemente con quanto realizzato con la precedente pubblicazione, “AbitAbile”, anche questo lavoro punta molto sul significato fortemente evocativo che l’automobile, così come la casa, ha in sé.

Viaggiare, spostarsi e superare gli ostacoli del movimento
Quando abbiamo cominciato a pensare come doveva essere questa guida, ci siamo posti alcune domande. La macchina pensata solo come un mezzo di trasporto o come uno strumento per l’autonomia? Probabilmente i due pensieri non discostano molto o, comunque, uno non esclude l’altro. L’auto evidentemente è un mezzo di trasporto che ci serve per essere autonomi o, comunque, per migliorare la nostra autonomia. Non solo ci permette di non essere vincolati ai trasporti pubblici ma è un qualcosa che è nostro e che, come tale, può essere personalizzato. Viaggiare su un mezzo che sentiamo essere “nostro” fa spesso la differenza. Così come la casa, anche l’auto non è solo un contenitore cui noi ci adeguiamo: dovrebbe essere più vero il contrario. La macchina, un mezzo per spostarci, che sia invece costruito attorno a noi, secondo una prospettiva completamente ribaltata: anche l’auto può essere a nostra misura. Questo è vero soprattutto quando la persona che si mette alla guida ha difficoltà di movimento e necessità di adeguamenti per poterlo fare. Si tratta a questo punto di apportare delle modifiche al mezzo capaci di integrare le capacità della persona: i dispositivi non sono altro che accorgimenti, talvolta anche molto semplici, che si sostituiscono a movimenti impossibili per la persona al volante. Quando non arriva la mano dell’uomo, arriva la tecnologia.
Chi ha già percorso questo iter sa bene come tutte queste modifiche all’auto in realtà vengano imposte da una Commissione Medica in sede di visita per l’ottenimento dell’idoneità e potrebbe dunque obiettare quanta poca sia la libertà dell’individuo nell’adattarsi il mezzo, per costruirselo a propria misura. In parte è vero. In parte no. Ciascun dispositivo esiste in diversi modelli proprio per andare incontro alle possibilità e alle esigenze della persona che dovrà farne uso. Ed è assolutamente vero come si tratti di dispositivi molto più personalizzabili di quanto non si pensi, nei quali è importante che si ascolti anche la voce della persona per la quale sono pensati. Il ruolo dei Centri di Mobilità spesso va in questa direzione: rendere il più personalizzato possibile tutto il percorso di adattamento dell’auto, a partire dalle prescrizioni delle Commissioni Mediche.
La persona dunque ha sempre un ruolo. Un ruolo fondamentale e mai passivo.

Un’auto a misura
Un’auto costruita attorno alle esigenze, ma anche ai gusti, della persona. Uno strumento per muoversi e per migliorare la propria autonomia. Tutti ricordiamo, credo con piacere, l’arrivo dei 18 anni, per tutta una serie di motivi, non ultimo proprio l’atteso traguardo della patente. E non certo per avere quel pezzo di carta rosa in tasca. La patente è per tutti una meta ambita proprio perché rende la libertà degli spostamenti. Sembra quasi sancire il “non dipendere più da nessuno”. Restringendo il campo e limitandolo più semplicemente a quello degli spostamenti non si va a toccare comunque l’enorme valore che la libertà di spostarsi in autonomia porta con sé. Questo probabilmente è più vero quando si tratta di persone che già nella vita quotidiana godono di autonomie ridotte a causa di un deficit. La persona disabile che arriva a rendersi autonoma nella gestione degli spostamenti aggiunge un pezzo importante a quel puzzle che è la costruzione della propria vita. Allora suonerà diversamente anche solo la scelta di un lavoro che presupponga uno spostamento dalla propria abitazione, si apriranno tutte quelle possibilità legate ai mille movimenti che ormai riempiono la vita di chiunque. Non avere sempre bisogno di qualcuno per viaggiare significa anche acquisire sempre maggior libertà in tutti quei processi decisionali che riguardano la propria vita.
Questo è vero anche per tutti coloro che magari non riescono a guidare ma possono comunque prevedere la messa in uso di un’auto di proprietà che, magari, venga adattata per il trasporto. Adattare un’auto propria e viaggiare con quella è sostanzialmente differenze rispetto al dover dipendere costantemente da taxi o da mezzi adattati di una qualche associazione o ente che si occupa di trasporto per persone disabili. Questi servizi sono assolutamente fondamentali. Ma laddove vi sia la possibilità, la voglia e le risorse per adeguare un mezzo e lasciarlo poi alla guida di qualcuno che si presta a farlo, si tratta comunque di operare nella direzione di un’acquisizione di maggior autonomia. Anche solo per la banalità di poter scegliere quale macchina, di che colore, con quale rampa per salire e con quale tappezzeria per i sedili. E rimane comunque qualcosa di costruito ad hoc. Forse in questo caso non ci sarà la libertà di partire all’orario preferito se non previo un accordo con qualcuno che guida al nostro posto ma… le chiavi saranno sempre nelle nostre tasche. E… anche questa è una bella autonomia e un bel pezzettino di quel puzzle.

 

Questo fratello… un grande fardello!

Il due settembre scorso la BBC1, la celebre emittente pubblica del Regno Unito, ha mandato in onda Coming Down the mountain, un’opera teatrale scritta per la televisione da Mark Haddon, lo scrittore reso celebre anche al pubblico italiano per il suo romanzo Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte, il cui protagonista, tra l’altro è un ragazzo autistico.
Un prodotto originale questo trasmesso dall’emittente pubblica inglese, interessante e coraggioso al tempo stesso, capace di mettere in scena un aspetto che spesso rischia di rimanere in penombra e di essere sottovalutato: i problemi, le difficoltà che possono derivare dall’avere un fratello o una sorella con la sindrome di Down. Una tematica interessante sviluppata dal regista, e autore, in un modo caldo, leggero e, a tratti, anche comico.

Il quindicenne David è depresso. Ma sarà anche arrabbiato e infuriato con il padre e con il mondo intero, oltre che con il fratello. Ben, fratello Down di David è causa dei suoi problemi. David sente il peso di avere un fratello come Ben perché sente la sua vita dipendere da lui: finite le lezioni David non può permettersi il lusso di andare a casa da amici, deve riaccompagnare Ben a casa; David non può uscire con una ragazza, c’è Ben da accompagnare di qua e di là. Ma poi, chi sceglierebbe di uscire con uno che ha un fratello così?
Nonostante tutti questi pensieri David trova una ragazza effervescente, Gail, e improvvisamente sembrano scomparire tutte quelle circostanze che parevano rendere la vita di David impossibile. La tranquillità però non dura a lungo: la famiglia infatti decide di trasferirsi dal quartiere benestante e trendy di Londra a Matlock, dove c’è una scuola speciale, perfetta per Ben. Questo è davvero troppo. David si trova distrutti i suoi precari equilibri di adolescente, ancora una volta a causa del fratello. Gail ovviamente lo lascia per un ragazzo che ha un negozio di tatuaggi perché, passi pure il fratello Down, che già di per sé è un bel punto di domanda, ma un ragazzo che in più vive a Matlock poi no. È troppo.
È pesante la reazione di David che infuria con il padre scaricando tutte le delusioni, le fatiche e soprattutto esplicitando quell’enorme rabbia che si alimenta ogni giorno di più nei confronti del fratello Ben. David ha perso la ragazza, gli amici, la scuola. Tutto per andare incontro a un’esigenza del fratello. Il mondo sembra ruotare intorno a lui, la vita della famiglia, David compreso, è in funzione delle debolezze di Ben. E le esigenze e debolezze di David? Le attenzioni si rivolgono a Ben, il resto si adegua, per forza o per amore, ma si adegua.
David non sopporta più questa situazione e trova come unica soluzione l’uccisione del fratello. Non esistono alternative. Così i due partono per il nord del Galles e se non fossero solo due ragazzi, in un paesaggio sostanzialmente diverso, sembrerebbe di rivedere alcune scene del celebre film Rain man. Insieme risalgono il massiccio di Snowdon e una volta in cima David spinge il fratello con l’intenzione di farlo cadere nel precipizio, in cui avrebbe trovato la morte. Il Down che cade dalla montagna. Del resto, è giusto così: l’equa punizione per chi ha distrutto la vita, già di per sé così difficile, dell’adolescente David.
Tutto come pianificato ma qualcosa va storto: Ben infatti non cade nel precipizio e si ferma molto prima, su uno sperone sul quale si fa qualche graffio ma niente di più. David ha fallito, ha tragicamente fallito nel tentativo di eliminare il problema della sua vita. Ben è vivo e David sembra avere la pacata e rassegnata certezza che proprio da lì si deve ricominciare tutto.
Dopo questa esperienza di vita e morte, tutto sembra mettersi al positivo e il rapporto dei due fratelli comincia ad andare decisamente meglio. David incontra Alice, anche lei frizzante e un po’ selvaggia che accoglie Ben. È sempre così carina con lui… Chissà magari avere un fratello Down può essere un aiuto da sfruttare per trovare delle ragazze…
Poi è Ben a trovare una ragazza e tutto va meglio pure in casa. E David, che è un amante dell’arte, smette di dipingere solo teschi e orrori e comincia a dipingere mucche su deliziosi prati di fiori. E la storia finisce.

Narrazione, se vogliamo, anche abbastanza semplice e poco elaborata. Si tratta poi in fondo di una relazione molto difficile, tra due fratelli entrambi nell’età dell’adolescenza: età di per sé difficile a cui si aggiunge il fatto che uno dei due ha la sindrome di Down. Il maggiore dei due vuole eliminarlo. Poco creativo dunque Haddon, nel creare questa storia; probabilmente ha riservato la sua creatività alla presentazione dei personaggi e delle situazioni. Non è facile rendere una problematica del genere riuscendo anche a fare dell’ironia, non è facile creare dei personaggi che mettono in scena queste dinamiche, che siano credibili e mai patetici o troppo costruiti su frasi fatte. L’intento di Haddon, come riporta in alcune interviste pubblicate da “The Guardian”, è proprio quello di smuovere il telespettatore che si “impoltrisce davanti alla televisione la sera, con il telecomando tra le mani”. Riesce a farlo, facendo sorridere e riflettere allo stesso tempo.
Ciò che è particolare nel prodotto inglese è l’aver spostato l’occhio della telecamera dal soggetto disabile al fratello. Ben in realtà non è il protagonista del film tv: David è il protagonista, dai suoi occhi è guardata la realtà e il mondo inquadrato dalla macchina da presa. È David che conduce la storia, perché è lui a “subire” la disabilità del fratello.
Da un lato dunque vediamo il ragazzo Down coccolato dalla famiglia e ascoltato in ogni sua esigenza, dall’altro vediamo la “normalità” messa in crisi da questa disabilità. Coraggioso Haddon nel compiere un’azione di questo tipo capace di smontare da un lato il buonismo di una relazione normodotato-disabile sempre orientata a vedere il disabile nella situazione di difficoltà e il normodotato nella situazione di chi aiuta (e se lo fa, è pure bravo), e dall’altro di mostrare non solo la difficoltà nella normalità ma anche addirittura la rabbia che la disabilità porta nella vita di questo fratello adolescente.
Un punto di vista particolare e, probabilmente anche molto credibile: gelosie tra fratelli sono all’ordine del giorno, se poi uno dei due ha una qualche forma di disabilità forse il rischio aumenta. Haddon forse ha rischiato. Ha rischiato anche la BBC1 a mandarlo in prima serata. Probabilmente qualche telespettatore ha raddrizzato la schiena su quel divano dello zapping; probabilmente qualcuno, invece, ha storto il naso infastidito, perché colpito nel segno da qualche pensiero di fastidio, almeno una volta nella vita, provato verso la disabilità; qualcuno ne sarà anche stato offeso ma forse qualcuno vi si sarà identificato e non per questo si sarà sentito meno buono. Perché in fondo Ben non muore, David comprende, riconosce la sua rabbia e la tramuta in un qualcosa che lo avvicina al fratello. Senza che il mondo attorno ai due fratelli sia cambiato, senza che Ben sia meno Down, ma con un David evidentemente cresciuto grazie a una esperienza che, nel disperato tentativo di allontanare definitivamente i due fratelli, li avvicina inesorabilmente.

 

Sul grande schermo

Elle s’appelle Sabine. “Lei si chiama Sabine”, l’esordio per Sandrine Bonnaire nelle vesti di regista. Un grande successo al Festival del Cinema di Cannes dove ha portato a casa il premio come miglior film della Quinzaine des Realisateurs. La Bonnaire viaggia vorticosamente nel tempo per raccontare la storia di Sabine, la sorella autistica rinchiusa da anni in un ospedale psichiatrico. Una serie di vicissitudini e di errori medici, un’esperienza traumatica di psicofarmaci e la difficile integrazione in ambienti a dir poco ostili, accompagnano il personaggio di Sabine che solo al termine trova un sottile e delicato equilibrio in una comunità nella quale riesce a ristabilire un contatto con il mondo. Il ritrovamento di alcuni filmati di famiglia che ritraggono e ripercorrono il vissuto di Sabine spingono la regista a raccontarne la storia. Le immagini accarezzano Sabine con leggerezza e maestria intrecciando una narrazione commovente ma non patetica, densa di significati e mai scontata. La vita di Sabine è raccontata con grandi e repentini passaggi temporali: talvolta è il tempo del passato, quello che si vede nei filmati girati durante l’infanzia della ragazza, a cui si alternano momenti in cui tutto sembra procedere in tempo reale. Il pubblico viene condotto ad amare la ragazza attraverso gli occhi della regista. La Bonnaire viaggia nel tempo e sembra quasi voler riparare un torto subito dalla sorella che ora diventa la protagonista di questo racconto a dir poco avvincente ed emozionante. La poesia è densa e riesce a sviluppare un intenso inno alla vita in cui anche la drammatica solitudine si riempie di emozione e di voglia di vivere.

Quel che serve è un “handicap ben visibile a occhio nudo”

Un concorso di bellezza in tv. Fin qui niente di strano. Un concorso di bellezza che è un reality show le cui protagoniste sono ragazze disabili. È il grande successo della tv Olandese, capace di raccogliere il 25% dello share televisivo nel 2006. Ma non solo: un format acquistato da altri stati che nel 2007 ne faranno produzioni simili. La prossima annunciata sarà la televisione Britannica, che ha già dato notizia sul “Times” e sulla cui ambita conduzione già si vocifera; poi a seguire quella francese, tedesca e statunitense. Si tratta di “Miss Ability” e a sfilare sono sì ragazze in costume da bagno ma, condizione fondamentale per essere accettate dal programma, “con un handicap visibile a occhio nudo”. Condizione non di poco conto per capire che stiamo parlando di un reality quantomeno originale e curioso. Sono dodici le partecipanti, belle donne e belle ragazze, in carrozzina o con stampelle, che vestono abiti di alta moda e vivono ospiti in alberghi lussuosi e molto costosi, luoghi da favola. Ciascuna di loro è protagonista di un breve cortometraggio nel quale racconta la propria vita per narrare come sono state affrontate, e poi superate, le difficoltà. Una breve messa in scena che rende quasi cinematografica la vita di queste ragazze che devono poi essere votate da un pubblico di spettatori che, sulla base della visione di questi corti, scelgono e selezionano quelle che sono rimaste in gara, fino a proclamarne una come vincitrice assoluta. Il pubblico giudica proprio in base a questi filmati per valutare non solo chi ha raccontato meglio la sua storia ma anche chi si è dimostrata più forte e saggia nell’affrontare le traversie della vita. Opinabile poi se un cortometraggio sia in grado di rendere la forza con la quale una persona affronta e supera le difficoltà della vita. Del resto questo è il mezzo televisivo e questo lo strumento messo nelle mani del pubblico votante, non certo la conoscenza diretta e approfondita delle storie di queste dodici vite di donne disabili.

Il programma però si è rivelato un enorme successo, è stato ampiamente seguito e ha raccolto grandemente il favore del pubblico, nonostante le numerose critiche negative di esperti televisivi e non solo. Accuse di sfruttamento dell’immagine della disabilità a fini esclusivamente commerciali: donne belle ma disabili, utilizzate per fare share. Diverso è lo scopo proclamato dagli autori del programma che, invece, sostengono come obiettivo primario quello di valorizzare al massimo le ragazze per mettere in evidenza il loro entusiasmo e per far entrare la gente comune in contatto con la realtà che un disabile vive ogni giorno. In questa direzione va anche lo slogan del programma che si legge dalla brochure di presentazione: “Non avete mai sentito un fischio contro una donna in carrozzella? Non avete mai ascoltato un buu verso una bambina cieca. Se la risposta è no, questo programma, che rompe le barriere del moralismo e del politicamente corretto, vi mostrerà il modo per mettere fine a tutto questo”. Con questo slogan e con altre motivazioni dunque i produttori si difendono dalle molteplici critiche arrivate da più parti sostenendo appunto che il format del programma protegga l’immagine dei disabili, per far sentire queste persone assolutamente normali. Azzardano i produttori e vanno oltre per motivare il loro intento di voler mostrare l’ottimismo delle persone disabili. “Spesso i disabili sono considerati patetici e sono compatiti da tutti. ‘Miss Ability’ invece mostra che i disabili, a differenza delle persone senza problemi fisici, sono sempre ottimisti. Essi cercano di superare le loro paure, pensano positivo e desiderano essere trattati come tutte le persone di questo mondo”.

Dunque, vediamo: dodici belle donne disabili sfilano in costume in un concorso di bellezza, vivono ospiti negli alberghi più lussuosi e costosi dell’Olanda prima e della Gran Bretagna prossimamente, girano dei cortometraggi per raccontare la propria vita (ma soprattutto per avere il voto del pubblico) e questo è il racconto della loro vita quotidiana, per andare ad abbattere i pregiudizi della gente normale che non conosce la disabilità. Questo in poche parole l’intento dichiarato. Difficile poi trovare fondamento a queste affermazioni soprattutto quando si pensa che la quotidianità è ben altra. E non solo per quelle dodici ragazze che belle sono e disabili pure ma in questo caso è la seconda caratteristica che vince sulla prima. Una quotidianità falsata. Ma questa è la televisione probabilmente, e non le si può certo chiedere di essere reale nonostante la falsa copertura del reality. La realtà, lo sappiamo tutti, è ben altra. L’occhio della telecamera, per quanto sia bravo il regista, per quanto voglia essere osservatore silenzioso, non può essere presenza discreta a cui nessuno dà peso. Un occhio che non guarda ma osserva seppur negli ingranaggi meccanici e ora, digitali: osserva perché interpreta; osserva perché seleziona ciò che si vede da ciò che non si vede e non si fa vedere. Sorgono alcuni leciti dubbi dunque intorno al dichiarato intento di far vedere attraverso lo schermo la vita reale di queste ragazze. Evidentemente poco passa di quella realtà e di quella quotidianità.

Insomma sembra si tratti di un tentativo di spettacolarizzazione della disabilità che probabilmente ha poco a che fare con il reale e che non lavora certo a favore della conoscenza della persona disabile o della disabilità più in generale. Sappiamo come proprio la conoscenza sia un elemento fondamentale per abbattere pregiudizi, per costruire relazioni all’interno della società. Quando conosciamo qualcosa ci fa meno paura e, se ne siamo meno spaventati, ci risulta più facile aprire all’incontro. Questo è vero in generale: si pensi a quando non conosciamo una persona, difficilmente ci sentiremo a nostro agio se non rompiamo il ghiaccio e non cerchiamo di conoscerla. E quell’imbarazzo diminuirà sempre di più man mano che la conoscenza e la relazione si approfondisce. Questo è vero a maggior ragione per tutta una serie di situazioni che spaventano di più perché devianti dalla norma, come può essere la persona disabile che mette a disagio, o l’extracomunitario o il barbone o chiunque sia troppo diverso.
Quello che fa “Miss Ability” però è creare uno spazio piuttosto parallelo che con la realtà dei fatti ha ben poco a che vedere. E sembra quasi un passo indietro rispetto alle conquiste che il mondo della comunicazione di massa aveva, e in parte sta ancora compiendo, nell’ambito della disabilità. Sembra di essere ritornati alla persona disabile come “fenomeno da baraccone” che attira il pubblico e fa share, ma che sembra abbia poco da dire, in realtà. Si dice che uno degli obiettivi di una comunicazione positiva sia il fatto che sia la persona stessa a raccontarsi; è la persona che, disabile o non disabile che sia, assume la responsabilità di ciò che porta sullo schermo, senza andare però a caccia di voti.
Una vita di conquiste che diventa un racconto per raccogliere un voto. Un cortometraggio e un costume da bagno per tenere sul video gli occhi del telespettatore che, con il telefono in mano pronto per votare, sta a guardare incuriosito. E ciò che incuriosisce, checché ne dicano gli autori, non è tanto la vita combattuta di questa gente ma è proprio la stranezza della trovata televisiva e la curiosità di un mondo diverso che entra in scena. Ma questa, cari autori, non è la quotidianità e tanto meno è capace di rendere la normalità di queste dodici belle ragazze, la cui bellezza, che dire se ne voglia, passa certo in secondo piano. Perché in quel contenitore sono prima di tutto delle disabili che possono anche essere miss ma…l’importante è che abbiano “un handicap ben visibile a occhio nudo”.

 

Sul grande schermo

Siamo nel 1970. Mirco è un bambino toscano di dieci anni con una grande passione per il cinema. Perde la vista in seguito a un incidente: un colpo di fucile lo ferisce agli occhi a otto anni. La legge dell’epoca non permetteva ai non vedenti di frequentare la scuola pubblica, così i genitori sono costretti a farlo rinchiudere in un istituto, il “Chiossone” di Genova. Lì il bambino trova un vecchio registratore a bobine e scopre che tagliando e riattaccando il nastro riesce a costruire delle favole fatte solo di rumori e suoni. L’istituto cerca in tutti i modi di impedirgli di coltivare questo suo hobby ostacolandolo in tutte le maniere. Mirco invece, riuscirà a coinvolgere lentamente tutti gli altri bambini ciechi facendo loro riscoprire il proprio talento e tutta la normalità che vi è in esso.
È ”Rosso come il cielo”: la storia vera di Mirco Mencacci, che pur non vedente, è diventato uno dei più rinomati montatori del suono del cinema italiano (“Le fate ignoranti” e “La finestra di fronte” di Ferzan Ozpetek, “La Meglio Gioventù” di Marco Tullio Giordana). Una storia questa che permette al regista Cristiano Bortone, da un lato, di raccontare la realtà delle persone non vedenti relegati in istituti differenziati, dall’altro di mettere in luce le capacità artistiche di un uomo che ha costruito un successo su una passione che va compagna alla sua cecità. Alla vicenda personale di Mirco si affianca, si sovrappone e si interseca, con maestria del regista, anche la storia della politica del paese di quegli anni. Così le manifestazioni, le incursioni della polizia nell’istituto per separare nuovamente chi fosse normale da chi invece fosse cieco. Quello che si guarda in “Rosso come il cielo” è un bell’equilibrio fra gli aspetti istituzionali, umani e personali, vuoto di ogni retorica e da elementi compassionevoli. Bortone dunque regala una bella favola, una favola moderna che è il racconto di una vita altrettanto moderna.
 

Io continuerò ad arrampicarmi

Io continuerò ad arrampicarmi arrivando in vetta alle montagne. Solamente lassù sono e sarò un uomo libero, libero nel vento. Non importa riuscire a conquistare la vetta più alta del mondo, l’importante è essere lassù.

Così si apre Al di là della Marmolada, la prima raccolta di foto e pensieri di Stefano Melani e delle sue esperienze di arrampicata. Il libro, presentato a Scandicci (FI) e poi a Bologna, racconta il sogno di una vita, la fatica di un’impresa e la soddisfazione dell’arrivo.
Stefano nasce a Firenze nel 1964 ed è affetto da paraparesi spastica dalla nascita. Lavora come impiegato al comune di Firenze e da sempre è vivace la sua passione per la natura in tutti i suoi variegati aspetti.
Una passione viva sin dalla prima infanzia quando Stefano, durante una villeggiatura con la famiglia, si innamora della montagna e delle altitudini. Stefano vuole dare forma concreta a questo amore e decide di raccogliere la sfida dell’altitudine per mettersi in gioco. Da qui un lungo percorso che lo porta a conoscere la montagna sempre meglio. La conosce, la vive e la scala. La figura del padre che ha sempre creduto in lui, l’incontro con il CAI portano Stefano prima a fare escursioni, poi a sperimentarsi con il trekking, fino ad arrivare all’esperienza delle cordate: un punto di arrivo importante e significativo.
La montagna: simbolo di una difficoltà da superare che chiede impegno, volontà e costanza. Ma anche fiducia nelle proprie abilità e nella propria capacità di giocarsi e di costruire le strategie del proprio vivere quotidiano. Questa la sfida di Stefano.

La montagna, colei che molla, colei che tiene, colei che decide e comunque devi sentirti onorato di essere arrivato in vetta e per sempre avrai un pensiero sano.

La salita e l’arrampicata sono il filo conduttore di questo libro fatto di immagini di cui Stefano e la montagna sono i protagonisti assoluti. Sono i brevi e profondi pensieri di Stefano ad arricchire e a rendere ancora più suggestive le vedute di questa imponente Marmolada. Sono pensieri che vanno a fondo nella sua volontà di salire, di superare le rocce per arrivare alla vetta. Un po’ metafora della vita, del resto.
Ciascuna vita è fatta di progetti, di difficoltà, di incontri, di relazioni e di obiettivi. Uno dei grandi obiettivi di Stefano è proprio quello di arrivare a conoscere tanto bene la montagna con i suoi silenzi, le sue bellezze, ma anche i suoi tradimenti, da poterla scalare. Per farlo occorre la tenacia, la costanza di chi mette tutto in gioco per il raggiungimento di un obiettivo.
Vedendo alcune immagini è spontaneo chiedersi perché una persona, e in più spastica, debba giocarsi in un’impresa del genere. Per dimostrare che cosa e a chi. Probabilmente innanzitutto a se stesso.
Quella di Stefano è prima di tutto una sfida con se stesso: riconoscere le proprie difficoltà e mettere in piedi delle strategie per superarle è proprio ciò che gli permette di arrampicarsi su quella Marmolada, così come alla vita. E non è solo. Ecco perché quando racconta le sue esperienze non dimentica mai di ringraziare il padre che ha coltivato per primo la sua passione delle altitudini; così come ricorda sempre quanto la presenza del CAI (Centro Italiano Alpini) sia stata fondamentale per fare ciò che ha sempre sognato di fare. Un progetto che, improvvisamente, da sogno tutto personale e intimo di Stefano diventa un progetto condiviso: Stefano insieme ad altri si avvicina a raggiungere il suo obiettivo. La montagna gli presenta delle difficoltà che devono essere conosciute innanzitutto, poi avvicinate e poi superate. Lo sappiamo bene, non esiste solo un modo per superare una difficoltà. Non c’è una ricetta standard, così come non esiste un solo modo per scalare le vette. Questo gioco di Stefano, che vuole scoprire come salire quella montagna, diventa quasi un dialogo intimo e profondo tra lui e questo silenzioso ammasso di roccia. Una scommessa: superare gli ostacoli, attaccarsi con tenacia a quella roccia e arrivare in cima. Solo là, su quella vetta da cui si vedono tutte le altre vette intorno, Stefano si sente libero. Sente di aver vinto una battaglia e di essere stato in grado di raccogliere una sfida che il silenzio della montagna gli ha lanciato.

E in Al di là della Marmolada probabilmente c’è tutto questo. Tutta quella leggerezza e quella pienezza che si ha quando si vince una scommessa, soprattutto se con se stessi, e quando l’obiettivo è raggiunto. Come Stefano afferma rilasciando alcune interviste a giornali toscani che raccontano le sue imprese “[…] bisogna imparare a convivere con il proprio handicap, accettarlo con serenità. Sulla mia pelle ho imparato che non bisogna arrendersi davanti a chi vorrebbe regalarci un mondo di serie B. La ricerca dell’avventura è uno stimolo anche nella vita di tutti i giorni; è entusiasmante sfidare le difficoltà, lottare per un obiettivo. La montagna ripaga le fatiche con la gratificazione di aver infranto una barriera. I limiti fisici ci condizionano meno di quelli psicologici; tutti possiamo ottenere di più. Basta volerlo”.
Interessante: “La ricerca dell’avventura è uno stimolo anche nella vita di tutti i giorni”. Le scalate di Stefano allora diventano solo alcuni momenti culminanti, in cui questo suo desiderio di arrivare in cima si fa vivo e concreto in qualcosa di grande che “fa notizia”. Ma quello che Stefano racconta e sublima con queste sue imprese è una scalata quotidiana. La sua vita è una grande scalata. Dove i crepacci sono rappresentati dalle difficoltà sul lavoro, i ghiacci da superare sono le relazioni costantemente da curare e gestire, le rocce sono i cinque gradini per entrare al supermercato. Ma la tenacia e la volontà sono sempre quelle: sull’Appennino, sulla Marmolada e nella vita.

Niente ti deve distogliere dal tuo percorso di vita inseguito per anni, appiglio dopo appiglio, rimanendo sempre aggrappato con la mente alla certezza di farcela.

Appiglio dopo appiglio ma con la certezza di farcela. Da quelle foto e da quei pensieri che riempiono il libro emerge questa certezza, con tutta la forza di chi ha una grande fiducia nelle proprie capacità. E sono quelle che Stefano mette in gioco a scalare la montagna e ad affrontare la vita. Conoscersi e essere consapevoli di non potersi accontentare di una soluzione di vita di serie B è per Stefano una partenza fondamentale per costruire piani e progetti, per pensare a se stesso e alla propria vita come a una scalata picconata dopo picconata. O come preferisce dire lui “appiglio dopo appiglio”.
Emerge, oltre a una grande forza di volontà, anche il suo essere e voler essere protagonista della propria avventura. Le sue scelte, i suoi obiettivi, seppur condivisi, sono profondamente suoi e fanno parte di quel grande progetto che è la sua vita, di cui ogni scalata diventa per lui una metafora e un esempio. In un bel pensiero parla del non dare nulla per scontato. La montagna tradisce e può tradire continuamente, così anche il progetto per una vita non può mai essere dato per scontato e mai assodato una volta per tutte. Ogni passo può rimettere tutto in discussione e sono le abilità del bravo scalatore che sanno dove andare a riposizionare il piede per continuare la salita e arrivare in cima.

Affrontare la vetta come la prima volta, guarda, ascolta e senti le forti vibrazioni che sono nell’aria. Niente deve essere dato per scontato.

(Tutte le citazioni sono tratte dal testo Al di là della Marmolada, di Stefano Melani, Edizioni Digigraf, 2007)
 

E se non fosse solidarietà

Il martedì di Unomattina si è arricchito negli ultimi tempi di uno spazio settimanale chiamato “Spazio della Solidarietà”, condotto in studio da Giovanna Rossiello e interamente dedicato alla scoperta e al monitoraggio di esperienze e progetti in “difesa del sociale” (come spiegano all’interno del sito Rai) sia a livello locale che su territorio nazionale.
Il tema della disabilità è stato uno dei temi protagonisti dell’edizione invernale; intensa la ricerca, da parte della trasmissione, di associazioni culturali, sociali e sportive che si occupano proprio della qualità della vita delle persone disabili. È stato intrapreso un viaggio, come leggiamo dal sito di Unomattina, “in quella dimensione del sociale normalmente sconosciuta ai più”. Tema importante ma non unico. La realtà sociale di cui la Rossiello racconta settimanalmente è ricca e variegata. Diventano così protagonisti anche il carcere, tutti quei luoghi in cui l’ospitalità diventa protagonista di una riabilitazione così importante per persone con un disagio psichico o con un vissuto di dipendenza alle spalle, il teatro come apertura alla società e lo sport come mezzo di reintegrazione sociale.
Anche l’edizione estiva del programma mantiene questa rubrica settimanale con l’intento, dice la Rossiello a inizio estate, di raccogliere tutte le esigenze del pubblico per esaudirle all’interno della programmazione estiva. L’inizio di un dialogo con il pubblico, questo che passa attraverso l’invito a comunicare con la redazione per far giungere notizie o argomenti di interesse, oltre a una sollecitazione a partecipare al forum di discussione, aperto sul sito del programma.

Una scorsa alle ultime puntate del mese di maggio e ci accorgiamo che ben due sono state dedicate alla disabilità, in due contesti e con due tagli molto diversi, così come diversi erano gli argomenti trattati. La prima, quella di metà maggio parla di sport, la seconda invece ha come protagonista la mamma di una ragazza disabile grave che racconta la sua esperienza di “bisogno” nel crescere la figlia.
Quella della Rossiello che parla di sport è una bella panoramica tra vari eventi sportivi che vedono impegnati alcuni dei nostri bravi atleti. Lo fa raccontando brevemente come, a partire dalle Special Olympics, giunte ormai alla ventiquattresima edizione, oggi lo sport sia ormai pienamente riconosciuto come uno strumento fondamentale per la piena integrazione nella società di persone con disabilità. Un viaggio in barca con l’“Handy Cup”, una regata che vede coinvolti equipaggi misti di persone disabili e non, insieme per “navigare verso l’integrazione”. E dalla barca a cavallo con la storia di Federico Lunghi, un ragazzo con gravi disabilità che grazie alla passione per l’equitazione è riuscito a fare importanti progressi, fino a intraprendere una vera e propria carriera agonistica di successo. Federico infatti, come mostra il servizio, oggi gareggia in competizione con atleti normodotati, fino a vincere un bronzo e un argento ai campionati italiani assoluti. Un approccio fortemente giornalistico questo della conduttrice che ospita in studio anche Silvia Squassabia, organizzatrice della manifestazione “Un cavallo per tutti, una carezza lunga un giorno”, come a mostrare una consuetudine del programma: avere sempre in studio un ospite o un rappresentate delle associazioni protagoniste, oltre che, talvolta, un testimone o un protagonista diretto delle vicende narrate.
Così succede nell’altra puntata che in maggio si è occupata di disabilità. Una domanda ne ha fatto da filo conduttore: “Quanto ‘pesa’ la disabilità sulle famiglie che hanno in casa un figlio gravemente disabile?”. Problema diffuso annuncia la Rossiello a partire dal comunicato stampa emesso pochi giorni prima della puntata. È ospite un’anziana signora in studio, madre di una figlia nata con una gravissima disabilità psico-fisica.
Una carriera spezzata quella di questa donna, racconta la conduttrice, costretta ad abbandonare il suo ruolo di dirigente ai beni culturali per assistere la figlia tutto il giorno. Ancora una volta una sottile denuncia all’assenza dei servizi per mettere in luce la positività del mettersi in rete: sono i parenti, le associazioni i nodi di questo groviglio di relazioni che si intrecciano intorno a questa figlia che necessita cure e attenzioni continue.
Il contributo dell’ospite va proprio a illuminare la situazione raccontata da questa mamma e proposta con forza dalla conduttrice: si tratta della Presidente di Coface-Handicap (Confederazione delle Organizzazioni delle famiglie dell’Unione Europea con persone disabili) con sede a Bruxelles e fondatrice dell’Unione Famiglie Handicappati. E il discorso si sposta su un piano più burocratico amministrativo per rispondere a tutta una serie di domande di ordine pratico, tipo congedi parentali dal lavoro, prepensionamenti, sostegni economici alle famiglie, ecc.
Da un lato la storia di una vita combattuta, dall’altro un’esperienza rigenerante nel cuore dell’Umbria, a San Venanzo sulle pendici del Monte Peglia. Qui due genitori di un figlio disabile grave hanno trasformato il problema del figlio e della loro famiglia in una risorsa per tutti.
In questa culla di verde la famiglia Sereni Rulli ha costruito e messo in piedi quella struttura che oggi ha preso il nome di Città del Sole: un piccolo angolo di pace pensato per tutti quelli che vivono la disabilità e sono in cerca del riposo o di un ambiente accogliente in cui trascorrere le vacanze. Un ambiente in cui tutto il personale è preparato e capace di raccogliere e soddisfare esigenze che forse non tutti gli albergatori sanno recepire immediatamente. Ogni ospite è a proprio agio.

Due puntate ci mostrano già uno stile che passa prima di tutto dai contenuti trattati ma anche dalle modalità e dai termini che poi vengono scelti per affrontare le tematiche oggetto delle trasmissioni. Quello che fa la Rossiello è interessante. Prima di tutto perché si tratta di un contenitore generalista come può essere il programma Unomattina, poi perché va a toccare una molteplicità di temi che invece spesso rimangono ancora ai margini della comunicazione di massa. Noi dell’Emilia Romagna abbiamo incontrato begli esempi di comunicazione della disabilità (e non solo) nella rubrica settimanale del Tg3 regionale, “Abilhandicap” prima, diventata poi “Società Solidale”. Nulla si conosceva a livello nazionale se non in ambito sportivo con la trasmissione “Sportabilia” all’interno del pomeriggio di Rai Sport, su Rai 3. Questo rappresenta certamente un passo importante, che ricorda un po’ quella bella trasmissione radiofonica di Riccardo Bonacina, in onda tutte le domeniche mattina su Radio24, che dava voce al Terzo Settore ad ampio raggio. Un contenitore generalista dunque su di un programma e una rete a diffusione nazionale.
Cosa non va dunque? Tre elementi lasciano da pensare. Il primo: si tratta pur sempre di una trasmissione ad hoc (trasmissione forse è eccessivo, meglio parlare di “una pagina del Tg1”, come è stata descritta nel sito stesso di Unomattina), e non sono invece notizie che passano all’interno del programma o del telegiornale; un sottile e segreto tentativo di relegare in un angolo. Secondo: l’orario un po’ selettivo, le otto e quaranta del mattino; probabilmente non il modo migliore per raggiungere il largo pubblico che forse è più interessato di quanto non credano i produttori televisivi a quelle che loro chiamano “tematiche sociali”. Terzo: il titolo di questa pagina. Solidarietà. Ma… dove sta la solidarietà del ragazzo che coltiva la sua passione per l’equitazione e riesce a vincere un secondo e un terzo posto ai campionati assoluti di equitazione, gareggiando a fianco dei normodotati? O dove sta in quella “Città del sole” costruita nel cuore dell’Umbria per offrire un luogo comodo di ferie e tempo libero? Forse non c’è. E non per cattiveria. Ma perché non necessariamente quando si parla di disabilità o di immigrazione, o di carcere o di Terzo Settore si deve essere solidali, o sociali, o non so bene quale altra definizione. Forse si può essere e fare notizia e basta. E questo può davvero bastare.

 

La diversabilità che piace. O può piacere

Giunto ormai al terzo appuntamento lo Spazio Calamaio dedicato ai laboratori che hanno impegnato la mattina del 24 novembre, secondo dei due giorni di convegno “Storie di Calamai e di altre creature straordinarie: disabili come educatori nell’esperienza di integrazione a scuola”, in occasione del ventennale del Progetto Calamaio a Bologna. Tra gli altri uno di questi laboratori è stato dedicato al mondo dell’informazione e comunicazione con il titolo “Camerini, trucchi di scena: la diversabilità che piace”, condotto da Claudio Imprudente, Flavia Corradetti e Alessandra Pederzoli con la partecipazione di Nelson Bova, giornalista del Tg3 regionale, ideatore e curatore della rubrica “Abilhandicap” diventata poi “Società solidale”.
Sul filo dei contenuti che hanno accompagnato i momenti di animazione e riflessione su vent’anni di attività nella scuola e nelle realtà associative, anche il laboratorio sulla comunicazione, uno dei momenti di approfondimento tematico, ha guardato il rapporto tra mass media e disabilità sempre nell’ottica di favorire l’affermarsi di un atteggiamento culturale capace di vedere la persona disabile non come oggetto passivo di assistenza ma come soggetto attivo nella società e nella storia, promotore di cultura e cambiamenti.
Questo ha significato prendere in esame una situazione esistente e smembrarla non per coglierne le negatività e le carenze, ma piuttosto per mettere in atto una selezione e un approfondimento che invece andasse a vedere quegli esempi positivi, scoprirne i punti di forza e le strategie. Da qui la scelta di coinvolgere anche Nelson Bova che da anni lavora nel settore delle comunicazioni di massa, e che ha ideato la rubrica che fino a poco tempo fa aveva cadenza settimanale (prima il sabato poi il martedì), “Abilhandicap”, di cui oltre a essere ideatore è stato anche curatore. Una figura che ha aiutato nell’analisi di alcune dinamiche che hanno caratterizzato, e tuttora caratterizzano, questo difficile e ancora problematico rapporto tra media e disabilità.

Ma io sono bello o sono brutto?
Un inizio di laboratorio, se vogliamo, non tradizionale: la proiezione di uno spezzone video in cui i due comici di Zelig, Ale e Franz, seduti sul loro palcoscenico e non sulla solita panchina, discutono sul significato della parola diversabile, tentando ironiche definizioni per concludere rilanciando la palla a chi per primo l’ha lanciata, chiedendo a Claudio: “Ma… Claudio… per te noi siamo belli o siamo brutti?”.
Una battuta che provoca un rovesciamento di medaglia. Dopo aver condotto una gag in cui i contenuti ruotavano intorno al significato di un termine riservato a una categoria di persone, i due comici con una semplice domanda si includono nella categoria e probabilmente generano una confusione tra chi deve stare dentro e chi deve stare fuori: quel ribaltamento che provoca il sorriso.
Claudio Imprudente coglie la provocazione e, rispondendo, accoglie i partecipanti al laboratorio e introduce, in poche parole, i contenuti della mattinata. Un titolo enigmatico, da un lato, che non lascia bene intendere a quale obiettivo voglia tendere. E allora una domanda può aiutare per essere meglio introdotti nel vivo del laboratorio: come può piacere la diversabilità?
Già, perché se qualcosa diventa oggetto di una comunicazione di massa, deve essere interessante quindi, in modo più riduttivo, deve “piacere”; oppure deve fare notizia per rientrare in quei contenitori che fanno più specificatamente informazione. Ale e Franz hanno portato un esempio che rientra probabilmente più nel primo caso, Nelson Bova porta esempi della seconda specie, evidentemente.
Quindi questa disabilità per piacere, ed essere interessante, deve allargarsi per generare un ribaltamento di prospettiva. In modo un po’ diverso e con modalità certamente più giornalistiche, ma non troppo, anche il contributo portato da Bova va in questa direzione.

Mettersi nei panni di
Un altro video. Questa volta è Vito il protagonista della puntata di “Abilhandicap”: uno spazio non dedicato a raccontare grandi imprese di persone disabili o appuntamenti particolari che coinvolgono associazioni, istituzioni o quant’altro ci si aspetta sia oggetto di una rubrica di tipo giornalistico. È Vito che si siede su una carrozzina per entrare in un appartamento che finge essere casa della figlia studentessa universitaria. La ragazza saluta il padre e va a lezione, lasciando a lui in carrozzina il compito di preparare il pranzo. All’uscita della ragazza, Vito incontra tutte le difficoltà che questo ambiente domestico impone e vi si scontra. Altezza dei pensili della cucina, difficoltà a inserirsi al di sotto del piano di cottura, impossibilità di spostare la pentola dal fuoco al lavello… Insomma questo padre non riesce a cuocere nemmeno un piatto di pasta. E la puntata finisce su un primo piano dell’attore.
Non occorre aggiungere molte parole di commento e la “scenetta” di questo padre in carrozzina può bastare da sé a comunicare contenuti al largo pubblico che, in questo caso, è quello della televisione.
Un esempio di televisione certamente positiva perché mette in atto una delle strategie vincenti per parlare di disabilità: il “mettersi nei panni di”. Il vivere la condizione della disabilità e mostrarla con gli occhi di chi non la vive nella propria quotidianità: Vito solo sedendosi sulla carrozzina può riconoscere quegli ostacoli che invece fanno parte in pieno della vita di tutti i giorni della persona disabile e, così facendo li rimanda al pubblico. I telespettatori, per la maggioranza, si identificano con Vito che disabile non è e con lui vivono quel processo di immedesimazione. Probabilmente se a dover cucinare quel piatto di pasta fosse un disabile “vero”, il messaggio non passerebbe nello stesso modo e con la stessa efficacia.

Racconti di vita?
Bova va a avanti e sceglie espressamente di mostrare come anche questa strategia sia il frutto di anni di lavoro e di un percorso compiuto anche dai media per riscoprire un modo per comunicare la disabilità. Lo fa mostrando una delle prime puntate della sua rubrica e va indietro negli anni. È il racconto di una giornata trascorsa a casa di una persona disabile: una disabilità acquisita raccontata attraverso le immagini e il racconto del protagonista accompagnato dalla moglie. Il taglio assolutamente diverso, quello dell’intervista e del racconto di vita: certamente capace di mostrare una situazione al pubblico ma con tutti i limiti che il “racconto di vita” porta con sé. Quello che vediamo nella puntata, ben fatta e priva di toni pietistici o buonisti, è la condizione di questa persona. Quasi un “problema suo”. Non diventa interessante proprio perché manca la possibilità del pubblico di identificarsi con questo racconto. Rimane solo un racconto.
Un modo per facilitare questa identificazione del pubblico può essere anche il mostrare un problema non come un problema di pochi ma come una questione che riguarda tutti. Le barriere architettoniche, per esempio, se mostrate come un ostacolo per la persona disabile rimane un problema di una cerchia ristretta di persone, se mostrate invece come un potenziale appesantimento della vita di tutti, certamente diventano interessanti per tutti. Sempre nell’ottica che la vita facilitata alla persona disabile è una vita più facile e qualitativamente migliore per tutti.

Ostacoli fisici e ostacoli nella relazione
Un viaggio alla ricerca di barriere non di carattere materiale è quello mostrato con gli spezzoni tratti da una puntata di Screensaver, trasmissione di Rai3 ideata e condotta da Federico Taddia, andata in onda il 5 dicembre 2003 a chiusura dell’anno Europeo delle Persone con Disabilità. Anche qui non si racconta la vita di nessuno e non si denunciano diritti negati o barriere alla vita quotidiana. Ma si mostra una giornata vissuta a Bologna con le telecamere nascoste, in cui si è andati cercando l’incontro delle persone con la disabilità. L’incontro diretto: provare un paio di scarpe, prenotare un pranzo di nozze, comperare le fedi, intervistare adolescenti con domande provocatorie per stimolare la loro creatività. Le barriere eventualmente mostrate sono di tipo culturale e mostrano talvolta una difficoltà che, in tutti questi casi, non è della persona disabile ma di chi invece è chiamato a mettersi in relazione con lei.
Ancora una volta si mostra una prospettiva rovesciata: è l’imbarazzo della commessa che deve inginocchiarsi a mettere un paio di scarpe a Claudio in carrozzina, è la difficoltà del ragazzo che deve decidere se quella di Claudio sia una sfida o una “sfiga”, a essere oggetto di questa comunicazione che arriva sullo schermo.
Una chiusura di laboratorio che, guardando al lavoro compiuto e a quanto mostrato e commentato, riassume sinteticamente alcuni punti forti di una comunicazione sulla disabilità che sia vincente e soprattutto efficace. Nessun diritto da rivendicare, nessuna arrabbiatura o tristezza di una vita riservata a pochi. Una disabilità che non è da pensarsi sempre e necessariamente come un oggetto di comunicazione, non “un parlare di”, ma come un punto di vista da cui guardare il mondo, un “parlare attraverso”. E questo vale per le immagini, le parole, le musiche e i colori. Di qualunque comunicazione si parli, sia essa di massa ma anche no.
 

Autonomia=rispetto=fiducia

Uno spazio, questo, dedicato al “progetto di vita”, a tutto quanto ha a che fare, o può avere a che fare, con la creazione di un integrato progetto di crescita e costruzione della vita di una persona. Molti sono i punti di vista dai quali guardare questo tema, oggi così in voga. Tante prospettive e tanti pareri si offrono alla discussione, talvolta anche contrastanti e in disaccordo tra loro; qui intendiamo guardare, attraverso l’esperienza dell’Associazione Abc Liguria (Associazione bambini cerebrolesi) e dell’Associazione Dopodomani Onlus, alla delicata questione dell’autonomia.
Così scrive Giorgio Genta, presidente dell’Associazione Abc Liguria:
Genta: Dopo aver amato, seguito e accudito per tanti anni i loro figli disabili gravi fin dalla nascita, molte delle nostre famiglie si interrogano su quale significato abbia il termine “autonomia” per i loro ragazzi. Vista dall’esterno la questione parrebbe superflua, irreale, una domanda priva di senso. Ma non è così.
Cosa significa per le persone “senza disabilità” il termine autonomia? Fare “da soli”, fare più o meno quello che si desidera, scegliere liberamente, poter disporre di sé? Probabilmente tutte queste cose. Per una persona, per un ragazzo con disabilità grave, talmente disabile da non riuscire talvolta neppure a respirare “da solo”, il termine cambia un po’ di significato ma non perde di importanza.
Crediamo, e soprattutto lo credono i nostri ragazzi, che senza autonomia sia molto meno bello vivere, che si possa avere lo stesso delle forme di autonomia anche se non si riesce a parlare, a muoversi, a nutrirsi da soli. Autonomia per loro significa poter scegliere in libertà con chi comunicare (non importa se con gli occhi, con le mani, con qualsiasi ausilio), con quali indumenti essere vestiti, quale programma televisivo guardare o quale musica ascoltare, dove voler essere portati (in un bel centro commerciale in un’ora di massima affluenza per gli acquisti di Natale!), magari provare l’ebbrezza di un week-end senza i genitori, e anche se l’assistenza sarà un po’ meno puntuale ci sarà una ventata di novità!
Riflessione pubblicata in formula più estesa su diversi periodici e siti web, tra cui Superabile.it e Disabili.com, che ha trovato un’immediata risposta, a sua volta pubblicata su Superabile.it, di Claudio Imprudente che ha ulteriormente allargato il concetto dell’autonomia della persona, per metterla in relazione alla comunità all’interno della quale questa è inserita.
Imprudente: Anche a me, visto dai più come una persona per nulla autonoma, viene chiesto spesso cosa significhi l’autonomia. Rispondo un po’ tutte quelle piccole cose che acquistano grandissimo significato, sottolineate da Genta, ma dico anche che per me l’autonomia è vivere nella collettività. Il mio essere integrato in una società per me significa sviluppare, e mettere al servizio di tutti, le mie potenzialità e le mie abilità… Convivere in questo modo, in un mondo nel quale le risorse di tutti sono a disposizione di tutti, significa anche porsi gli uni di fronte gli altri come persone autonome, seppur non lo si è in molte funzioni vitali e quotidiane.
Imprudente, sulla scia dei ragionamenti portati avanti da Genta, va oltre e allarga la riflessione al tema tanto nominato e tanto urgente del “dopo di noi”. Così prosegue il breve carteggio:
Genta: Piccole cose dal grande significato. In una proiezione extrafamigliare, pensando a quando i genitori non ci saranno più o non saranno più in grado di fornire da soli l’assistenza necessaria, per i nostri ragazzi cresciuti e ormai adulti a tutti gli effetti, la migliore prospettiva possibile è l’integrazione in un dopo-di-noi a dimensione umana o in una casa-famiglia: in questa situazione il concetto di autonomia si evolve ulteriormente e assume particolare importanza la fase di preparazione.
In questa fase, che può e dovrebbe durare molti mesi o anche in certi casi qualche anno, sarà fondamentale il formarsi di un consolidato rapporto tra operatori e ospiti, al fine di permettere ai primi di recepire e comprendere pienamente pensieri e desideri dei secondi, in qualsiasi modo vengano espressi; questo non significa, come per ogni altra persona, che i pensieri vengano sempre condivisi e i desideri sempre esauditi, significa semplicemente che lo saranno per quanto possibile.
Non quindi un disabile grave in una carrozzina spostato come un pacco, parcheggiato come un’automobile, accudito come un animale domestico, ma una persona nella pienezza di dignità, diritti e aspirazioni. Con la fantasia che ha permesso alle nostre famiglie di sognare un domani migliore per i loro figli “senza domani” e qualche volta di realizzarlo, potremmo pensare che scrivendo la costituzione americana il lontano legislatore abbia pensato a loro, prevedendo tra i diritti costituzionali quello alla felicità.
Imprudente: Genta va ancora oltre perché pensa al “dopo di noi”, tema ormai importante e sempre più messo alla nostra attenzione. Dalle parole del presidente Abc Liguria emerge la preoccupazione dei molti genitori che arrivano a un momento della loro vita in cui si chiedono quale sia il futuro dei loro figli: situazioni talmente dipendenti dalle cure e dall’assistenza delle famiglie devono trovare una “sistemazione” per quando la famiglia non possa più essere in grado di essere così fattivamente presente. In quel momento, dove sta l’autonomia del figlio diventato adulto a tutti gli effetti? Ma soprattutto, quale il ruolo fondamentale della famiglia che prepara nel ragazzo questa autonomia? Mi permetto di trovare una risposta io: fondamentale! E qui acquista un significato diverso e ulteriore quell’autonomia di gesti e scelte piccolissime. Diventa un’autonomia che la famiglia stessa, giorno dopo giorno, insegna e prepara per il ragazzo che da loro dipende così strettamente; diventa un tagliare quel cordone ombelicale, così vitale, per inserire il figlio in quella collettività che lo accoglie e nella quale deve prepararsi a vivere. Questa è quella diversa sfumatura e accezione di autonomia che chiama in causa il disabile in primis, ma anche quella rete di relazioni, composta da persone, che lo circonda e lo sostiene.
Chiediamo a Genta di approfondire questa esperienza di “dopo di noi”, per guardarla nei fatti, nel concreto di un progetto che si sta realizzando, sta prendendo forma, entrando a far parte della vita di molti ragazzi e di molte delle loro famiglie.  
Genta: Sull’autonomia fuori della famiglia, anche per i gravissimi, abbiamo costruito la “nostra idea” di un dopo-di-noi particolarmente dedicato ai disabili motori gravi, una struttura residenziale aperta sul territorio, integrata in un centro studi per le esigenze e le aspirazioni delle persone con disabilità; abbiamo collocato il tutto in una grande villa con attorno un bellissimo parco, in un contesto sociale dinamico e partecipe.
Un sogno? Certo, anche un sogno, ma oggi vicino alla realtà: c’è la villa, c’è il parco, c’è la volontà. Il resto verrà. E verrà presto se sapremo coinvolgere la comunità che è intorno a noi.
In questo dopo-di-noi gli ospiti saranno dunque “autonomi” nel senso che abbiamo detto, ma questa “autonomia”, della quale conosciamo così bene il fascino, è un qualcosa di magico che scende dal cielo o è il frutto di una lunga fatica terrena? E soprattutto su cosa si basa e come la si costruisce? Secondo le nostre famiglie si basa e si costruisce sul rispetto.
Rispetto della persona umana, delle sue decisioni, piccole o grandi che siano.
Rispetto che va “usato” fin dalla più tenera età, e che cresce con l’età anagrafica, ed è materia prima per formare la fiducia in se stessi.
Molte di queste nostre famiglie hanno seguito per anni una metodica riabilitativa precoce, intensiva e domiciliare: questa metodica aveva, come tutte, difetti e pregi: il più grande dei pregi era il fatto di essere costruita sul rispetto e sulla fiducia nei nostri ragazzi e questi ragazzi (almeno alcuni di loro) facevano cose incredibili. Oggi le metodiche riabilitative godono scarsa considerazione tra gli addetti ai lavori: speriamo ne goda di più il rispetto per l’autonomia della persona disabile e della sua famiglia, anche quando questa autonomia porta a scelte divergenti da quelle dei professionisti.

 

Giorgio Genta, presidente dell’Associazione Abc Liguria e dell’Associazione Dopodomani Onlus
Claudio Imprudente, presidente dell’Associazione Centro Documentazione Handicap Bologna

Mio figlio? No, la 104 no!

Elisabetta, insegnante in una prima elementare di una provincia toscana e la sua esperienza.
“Iniziamo l’anno con una riunione con i genitori. Non conosciamo ancora i bambini, abbiamo soltanto l’elenco dei nomi e con quelli incontriamo le famiglie. Mancano due giorni e i loro bambini faranno l’ingresso nella scuola primaria. Un’esperienza certamente nuova per i bambini. Ma anche per i genitori. Non tutti hanno confidenza con l’ambiente, non tutti hanno bambini che già frequentano. Per molti è un momento importante, vissuto anche con una certa emozione. I loro bambini stanno diventando grandi.
È un lunedì pomeriggio: un’aula gremita di genitori (alle prime riunioni ci sono sempre tutti, poi con l’andare del tempo si perdono per via), noi insegnanti spieghiamo alcune regole di base per cominciare; iniziamo a buttare le basi per instaurare un rapporto che sia di reciproca fiducia con le famiglie. Finisce la riunione e tutti i genitori salutano ringraziando e se ne vanno. Rimane sul fondo dell’aula una mamma. Impacciata e insicura si avvicina a noi due. Siamo entrambe nuove della scuola, non abitiamo in quel paese e non conosciamo nessuno. Un buon punto di partenza. La mamma si accosta a me per presentare il suo bambino. ‘Sa, è un po’ particolare’, mi dice. Capiamo l’impaccio della signora e ci mettiamo in ascolto. Ci presenta brevemente il bambino dicendoci che vive alcuni stati d’ansia; soprattutto quando si deve allontanare dalla mamma. Che dovevamo imparare a prenderlo con dolcezza e calma.
La mamma se ne va. Rimaniamo un po’ perplesse. Ci sembra un quadro così confuso… Ma evitiamo di farci idee prima di conoscerlo.
Passano i due giorni che ci separano dall’inizio scuola e quel mercoledì mattina arriviamo pronte per questo nuovo incontro. Eccoli. Sono tanti visi un po’ impauriti, un po’ incuriositi e un po’ felici di essere cresciuti. Entriamo nella nostra aula: l’abbiamo preparata per accoglierli al meglio. I genitori entrano e accompagnano i bambini fino al banco e poi li salutiamo tutti insieme. E c’è lui. Le crisi cominciano. Sono davvero crisi profonde, pianti, conati di vomito, urla. La mamma non riesca ad allontanarsi. Rimane in classe. Poi riusciamo con una specie di raggiro a farla andare. Sono passate due ore.
La situazione non migliora per almeno un mese. Ancora una fatica terribile a salutare la mamma, a rimanere in classe. Un’incapacità a comprendere che la scuola è l’ambiente in cui deve imparare a convivere per un bel po’ di anni. Dobbiamo adoperarci per farlo stare bene. Questo ci mette in discussione. Ci richiama a inventare strategie, modi per accogliere tutte le sue difficoltà. Forse questo significa anche ripensare tanti atteggiamenti, tante attività ormai abitudinarie.
Passano i giorni, i mesi. Indirizziamo la famiglia ai servizi di neuropsichiatria infantile: il bambino vive un disagio ‘non normale’, ha bisogno di aiuto. Di un aiuto esperto. La sua ansia gli impedisce di rimanere anche solo dieci minuti seduto alla sua sedia. Figuriamoci se riesce a seguire, anche solo in parte, le attività che vengono proposte ai bambini. Zero! Zero assoluto. Siamo in difficoltà; sì, noi insegnanti ci riconosciamo in una grande difficoltà. Viviamo l’impaccio di non sapere come fare per aiutarlo.
Il bambino ha delle carenze evidenti. Ora supera il distacco dalla mamma, non scappa più, rimane nello spazio classe. Ma evidenzia comunque mancanze notevoli dal punto di vista dell’apprendimento. Ha problemi di produzione linguistica e, ancor più, di comprensione. Carenze di logica. Insomma, senza entrare nel dettaglio… deve essere seguito. Per il suo bene. Abbiamo bisogno anche noi di aiuto: dobbiamo parlare tutti la stessa lingua con lui, abbiamo bisogno di lavorare congiuntamente alla famiglia.
Riusciamo a ottenere, con grande fatica, che il bambino sia seguito dalla neuropsichiatra del distretto sanitario. E dopo un po’ di tempo ci incontriamo insieme alla mamma (il papà non viene mai agli incontri che chiediamo alla famiglia). Come previsto, la dottoressa ci fa un quadro della situazione abbastanza grave. Non si tratta solo di una difficoltà di ansia da distacco dalla mamma, come ci era stato segnalato dalla famiglia. È un situazione ben più complessa. C’è dell’altro.
Senza specificare diagnosi, non è la sede, la dottoressa sostiene la necessità di una certificazione. Il bambino ha bisogno di un sostegno. Propone una certificazione in fascia B (copertura dal 50 al 75%). La mamma rimane interdetta. Sembra accettare, seppur a fatica, la situazione del figlio. Sembra comprendere una necessità oggettiva, per il bene del suo bambino.
Noi insegnati spieghiamo come non si tratti di un marchio indelebile, anzi non è proprio da vedere la certificazione come un marchio. Nessuno dei bambini saprà che l’insegnante nuova è insegnante di suo figlio. Si struttureranno attività che ‘fanno bene a lui’ ma per tutti. Si lavorerà per piccoli gruppi. La mamma accetta. Si rimanda comunque a un incontro tra dottoressa e genitori, entrambi però. Nel frattempo insistiamo per poter dare lavori differenziati al bambino che deve ancora acquisire tutti i prerequisiti per l’acquisizione delle abilità della letto-scrittura e del calcolo matematico. La mamma a grande fatica accetta, anche su parere molto favorevole della neuropsichiatra (non ha senso procedere con il programma come gli altri se ancora deve acquisire i prerequisiti necessari).
Ritorniamo al nostro lavorio di classe, barcamenandoci, alla meglio tra le esigenze di tutti i bambini: tutti diversi, tutti con bisogni speciali e specifici. Aspettiamo fiduciosi una risposta affermativa da parte dei genitori: speriamo che accettino la certificazione per il figlio.
La mamma una mattina all’uscita da scuola chiede di incontrarci, vuole aggiornarci su alcune questioni. Le diamo un appuntamento speranzose. È lunedì pomeriggio, siamo in orario da programmazione; ci siamo tutte: insegnanti di classe e la collega specialista di lingua inglese. Sorpresa per noi è incontrare il padre, che sappiamo essere un osso duro, non facile da convincere.
E infatti. Le nostre speranze vanno in fumo. ‘Di certificazione, non se ne parla proprio’. ‘Abbiamo cresciuto due figli più grandi e cresciamo anche questo’ e soprattutto ‘Mio figlio certificato con la legge 104? Neanche a parlarne’.
Ecco dove sta il problema. Non viene assolutamente accettato dai genitori di intervenire sul figlio con una legge riservata all’handicap. No. Proprio no. È un marchio che i genitori non vogliono per il loro figlio. ‘Non ci interessa che nostro figlio diventi uno scienziato, ma handicappato proprio no’. Cerchiamo di spiegare come la legge 104 sia una legge che tuteli situazioni di necessità e che certificarlo non vuol dire automaticamente chiedere un qualche grado di invalidità, con tutto quello che ne consegue. Ma non c’è proprio nulla da fare.
Non accettano alcuna etichetta. Loro figlio non appartiene a quella categoria. Non riusciamo neppure a interloquire più di tanto. È fuori discussione.”
Un’esperienza raccontata da una voce, quella di Elisabetta, insegnante elementare immaginaria ma nei cui panni, credo, si possano trovare molti insegnanti: storia vera, senza luogo e senza tempo, con nomi fasulli e particolari presi in qua e in là da tante situazioni diverse, messe insieme per rendere il quadro di una situazione nella quale si trovano molti insegnanti ma anche molti genitori.
Evidentemente la famiglia fatica ad accettare. C’è una difficoltà della scuola a rispondere adeguatamente a un problema oggettivo: per avere un aiuto, un appoggio che sia qualificato, bisogna inevitabilmente ricorrere a una legge quadro sull’handicap. Ed è anche comprensibile la fatica della famiglia a mettere in atto un processo di questo tipo. Probabilmente si tratta anche di una questione che ha radici ben più profonde da ricercare altrove, al di là dalla legge che, di per sé, dice tutto e niente.
Evidentemente nella nostra cultura un bambino a cui è affiancato l’insegnante di sostegno, è un bambino a cui viene puntato il dito. Gli viene riconosciuta una qualche differenza (oltre a quelle visibili, manifeste e innegabili) troppo diversa. Quel bambino è l’handicappato della classe. E probabilmente, anche se le insegnanti saranno bravissime a gestire la situazione, sarà un processo quasi inevitabile, con l’andar del tempo. Anche laddove il contesto classe cresca in modo armonico e non sia un luogo discriminante, sappiamo come a casa i bambini sentano dai genitori, dai nonni, dagli zii definizioni diverse. Quello resterà il bambino disabile, handicappato. Del resto, che dire? Ha l’insegnante di sostegno. E questo nella nostra scuola è un marchio. Probabilmente la difficoltà di questi bambini andrebbe affrontata in modo diverso, meno stigmatizzante. La fatica dei genitori a mettere la firma su un certificato che quasi inevitabilmente determinerà tutto questo credo sia più che comprensibile. Dice bene la mamma quando dice “Non voglio e non pretendo che mio figlio diventi uno scienziato!”. Le aspettative non sono per forza aspettative di una vita fatta di studio e di scienza. Questi genitori, quando pensano alla vita del loro bambino, rimangono con i piedi per terra, forse troppo, e l’unica cosa che a loro ora interessa è che non sia riconosciuto come “un diverso”. E questo, credo, ci dovrebbe mettere tutti, chi più chi meno, un po’ in discussione. Come mamme, come padri ma anche come insegnanti e come compagni di classe.

L’autonomia anche in casa

Sono tanti e anche molto diversi tra loro, gli ambiti per i quali si può parlare di autonomia della persona disabile. Nel secondo numero dell’anno 2005 questa rubrica ha ospitato una sorta di dialogo tra Giorgio Genta, presidente dell’ABC Liguria (Associazione Bambini Cerebrolesi), e Claudio Imprudente, direttore di Hp-Accaparlante. Allora il dibattito verteva sul discorso dell’autonomia della persona. Genta: “Cosa significa per le persone senza disabilità il termine autonomia? Fare da soli, fare più o meno quello che si desidera, scegliere liberamente, poter disporre di sé? Probabilmente tutte queste cose. Per una persona, per un ragazzo con disabilità grave, talmente disabile da non riuscire talvolta neppure a respirare da solo, il termine cambia un po’ di significato ma non perde di importanza”. (cfr. Hp-Accaparlante, n. 2/2005)
E da qui i due svilupparono un dialogo su cosa fosse l’autonomia, affrontata anche nel suo risvolto sociale da Imprudente il quale disse: “Per me l’autonomia è vivere nella collettività. Il mio essere integrato in una società per me significa sviluppare, e mettere al servizio di tutti, le mie potenzialità e le mie abilità. Convivere in questo modo, in un mondo nel quale le risorse di tutti sono a disposizione di tutti, significa anche porsi gli uni di fronte gli altri come persone autonome, seppur non lo si è in molte funzioni vitali e quotidiane”. (cfr. Hp-Accaparlante, n. 2/2005)

Questa breve premessa per introdurre l’ulteriore sfaccettatura dell’autonomia in casa. Non servono molte spiegazioni: la casa è il luogo nel quale si tiene fuori il mondo esterno, è lo spazio in cui spesso si dismettono quelle tante maschere che il vivere sociale ci impone. In casa si vivono gli affetti familiari ma si vive anche la propria persona, ci si sente più liberi di essere se stessi. In casa ci si mette a proprio agio, si mangia, si dorme, ci si rilassa, si ha cura di sé e delle proprie relazioni affettive. È il luogo nel quale si sopportano a fatica anche quei piccoli ostacoli, che potrebbero diventare anche valichi insormontabili, che fuori invece si accettano con meno fastidio. La casa, insomma, deve essere nostra, dobbiamo sentirla come un qualcosa di costruito attorno a noi e non viceversa: ci fa soffrire vivere in un ambiente che non sentiamo appartenerci. Nella casa vogliamo essere padroni e non ospiti. Si pensi solo alla scelta degli arredi o anche dei semplicissimi e, a volte, futili complementi che scegliamo solo perché “ci piacciono” e ci aiutano a sentire nostro quell’ambiente che ci deve ri-accogliere ogni sera.
Questo è vero per chiunque. Lo è a maggior ragione per la persona disabile: ma non perché viva più tempo in casa, non è necessariamente così. È soprattutto vero perché se il tema dell’autonomia in casa è scontato per chi non vive la disabilità, non lo è affatto per la persona disabile che invece questa autonomia deve costantemente costruirsela e cercarla, ma non senza averla prima desiderata.
A scanso di equivoci: l’essere autonomo, nel senso del “fare tutto da soli”, non è sempre possibile. Ma questo non solo per le persone disabili: così è per i bambini, per l’anziano, ma anche per la donna incinta che ha bisogno spesso dell’aiuto di qualcuno perché affaticata, o per la persona che si rompa una gamba e che per due mesi debba camminare con le stampelle. Non esisterà dunque un unico grado di autonomia, ma tanti e diversificati in base alle esigenze e potenzialità di ciascuno.

Case accessibili
Certo è che oggi esistono infinite possibilità che aiutano la persona a rendersi il più possibile indipendente anche in casa. Dal punto di vista normativo sono state emanate, nel corso degli ultimi anni, alcune leggi e decreti che vanno proprio in questa direzione, regolamentando l’abbattimento delle barriere architettoniche anche all’interno delle mura domestiche. Stiamo parlando della Legge 13 del 1989 e del Decreto Ministeriale 236 del 1996, attuativo della legge, il quale fornisce indicazioni più concrete e pratiche. E tutto un mondo ruota intorno a questi primi input, mossi poi da esigenze concrete e spesso pressanti di molte persone che sentivano la necessità di “autonomizzarsi”… Da qui il proliferare per esempio di molte iniziative, prima di discussione e poi molto più concrete dal punto di vista della realizzazione, che si attivavano in questo senso. Di fatto oggi in Italia esistono alcune realtà che si occupano di accompagnare la persona in questo percorso di costruzione della propria abitazione come un luogo creato o ri-creato a propria misura, per stare bene e per vivere il più comodamente possibile tra le mura domestiche. Sono centri all’interno del quale confluiscono diverse professionalità per garantire un accompagnamento che sia il più completo possibile, per rispondere a tutti i suoi bisogni nel ricercare le soluzioni ottimali. Ecco che saranno terapisti, educatori ma anche esperti architetti che lavorano nell’ottica del superamento di ogni ostacolo alla vita quotidiana in casa. Questo significa assicurare alla persona la possibilità di elaborare un percorso ad hoc per risolvere molte delle difficoltà legate a quella mancanza di accessibilità che spesso si dà per scontata e che, nella maggior parte dei casi, viene pensata come insormontabile.
Sono talvolta piccole modifiche a essere particolarmente significative, a risolvere situazioni dalle quali non si vede via di uscita. Si pensi per esempio a come accorgimenti assolutamente realizzabili possano voler dire un facile accesso a molti ambienti e a molte funzioni del vivere in casa. Un ripensamento degli ambienti e degli arredi può spesso voler dire aumentarne a dismisura l’usabilità, dove per usabilità si può anche intendere autonomia, perché no.
Solo per fare qualche piccolo esempio, certo non esaustivo. Pensiamo a una cucina, quella che tradizionalmente si vede in tutte le case e in tutti i cataloghi dei mobilieri. Basterebbe modificarne in parte gli assetti per rendere la persona in carrozzina più autonoma. Togliendo i mobili della parte inferiore e lasciando vuoto lo spazio che dal piano di lavoro arriva a terra, la persona in carrozzina riuscirà ad accostarsi a tutti i componenti. Quello spazio “rubato” nella zona inferiore dovrà poi essere invece sfruttato nei ripiani della parte superiore, per esempio. Anche questo per molti potrebbe creare problema, essendo scarsamente accessibile questa zona per chi abbia problemi agli arti superiori o, più in generale, alla persona seduta. Problema superabile grazie alla possibilità di installare dei servetti che elettricamente facciano scendere i ripiani dei pensili all’altezza della persona. Oppure si potranno collocare alcuni pensili a colonna in cui i ripiani usciranno dai confini del mobile, su guide metalliche, per essere facilmente raggiungibili.
Si potrebbero fare descrizioni simili per ogni ambiente; così, per esempio, l’uso di letti le cui reti siano snodabili e movimentate elettricamente per permettere alla persona di raggiungere la posizione seduta e da lì poi trasferirsi comodamente sulla carrozzina. Oppure ancora la modifica dell’armadio, attraverso la scelta di servetti telecomandati che facciano scendere gli appendiabiti superiori. Oppure la scelta di avere in bagno un modello di lavello a mensola e non a colonna in modo da avere molto spazio, per inserirsi con la carrozzina al di sotto di esso e riuscire più comodamente a farne uso.  
Sono piccoli espedienti che dicono come molto si possa fare tra le mura domestiche, per rendere la casa più vivibile e abitabile. Interessante vedere anche come tutte queste possibili scelte, dal punto di vista degli arredi, per esempio, non rientrino nella categoria degli “ausili”; o perlomeno oggi non è più solo così. Questo significa che non è sempre necessario ricorrere a ditte specializzate negli ausili per disabili. Le cucine accessibili oggi sono entrate a far parte della distribuzione di alcune aziende come la Scavolini o la Snaidero (o più semplicemente molti mobilieri e falegnami possono apportare queste modifiche in cucine di serie). Così anche i lavelli da bagno non sono necessariamente quelli che ritroviamo nei bagni d’ospedale o nei bagni pubblici per disabili: molte aziende che si occupano di arredo bagno oggi hanno immesso sul mercato modelli che possono essere accessibili anche per la persona in carrozzina.
Pochissimi e banali esempi per notare come anche il mondo della progettazione domestica stia facendo passi da gigante, proponendo soluzioni che siano sia in risposta ai bisogni di una minoranza di persone, ma che possano anche conciliarsi con il gusto e l’abitabilità di tutti. Sempre nell’ottica, per molti versi ancora da affermarsi, che il mondo accessibile non lo sia solo per alcuni ma lo sia per tutti quelli che lo abitano. 

“Non l’avevo mai notato…”

Questo pezzo nasce da una chiacchierata spontanea con un’amica (ecco perché non compare il papà), non vuol essere uno stralcio di intervista ad hoc, quanto piuttosto un fotografare una serie di pensieri scaturiti proprio a partire da poche e significative parole scambiate con questa mamma.

“Sai cosa vuol dire che io non avevo mai visto un Down prima?”. “Ma no! Impossibile”. “Allora diciamo così: non l’avevo mai notato”.

Proprio così. “Non lo avevo mai notato…” . La dice lunga questa frase. “Io ho vissuto la mia vita tranquilla fino a tre mesi fa: avevo un marito, due bellissimi bambini, il mio lavoro e i miei impegni in parrocchia; e non avevo mai notato un Down. Mai. Non faceva parte della mia vita, quindi, non me ne accorgevo. Eppure ora mi rendo conto che mia figlia, Anita di tre mesi, nata con la sindrome di Down, non è affatto ‘sola’”.

Una presa di coscienza che questa mamma sente addosso come un peso. Non certo avrebbe voluto accorgersi di quanti Down ci siano in giro perché coinvolta così tanto, troppo, da vicino. Parlando con lei mi sono sopraggiunti una serie di pensieri che hanno a che fare proprio con questo “accorgersi” della disabilità. Io non credo che questa mamma non abbia mai incontrato persone come la sua bambina; forse solo non prestava attenzione; forse, invece, non considerava così tanto importante il fatto che fossero Down. Ora invece la diversità che porta sul volto la sua piccola Anita diventa impossibile da non notare e, come la sua, anche quella di tutti gli altri che abitano questo mondo a sua insaputa. Si è messo in moto uno strano meccanismo che ho sempre pensato all’inverso ma che, evidentemente, non lo è affatto. Ho sempre creduto che trovandosi di fronte una persona disabile, la prima cosa da riconoscere fosse proprio la diversità che questa ha in sé. Pensavo anche si trattasse di una caratteristica impossibile da non considerare, anche nel momento in cui ci si mettesse in relazione. Del resto, in ogni relazione esiste il riconoscimento della diversità dell’altro, altrimenti il bello e il piacevole dell’interazione svanirebbe ancor prima di nascere. Così mi sembrava impossibile vivere non notando “diversità” così evidenti. E dico notarle, nel senso più pulito del termine: prenderne atto, considerarla una caratteristica data e innegabile su cui costruire il rapporto, che può essere di qualunque genere. Sappiamo bene come esistano infiniti modi per rapportarsi alla disabilità e alla “troppa diversità” in genere, che dipendono dalla cultura e dal sentire di ogni persona ma anche, evidentemente, dai ruoli che questo rapporto impone.

Questa mamma, ora, sembra non aver mai considerato la disabilità come una componente della sua vita. Certo ora il ritrovarsi una bambina Down implica un bel cambiamento nelle stesse percezioni. Parlando con lei mi sono anche detta che da un lato questo “non accorgersi” fosse più il frutto di una presa di coscienza forse un po’ violenta e invasiva. Probabilmente questi genitori si sono trovati a fare i conti con qualcosa che hanno sempre pensato appartenere ad altri e con il quale non hanno mai nemmeno lontanamente pensato di relazionarsi. Ora la piccola che hanno tra le mani chiede loro di rivoluzionare un sentire che davano ormai per assodato, in una routine di vita che non prevedeva scossoni.
E, per eccesso, sembra quasi che la bambina non sia Anita, dagli occhi azzurri e dai biondi capelli (è veramente una piccola delizia), quanto invece “la bambina Down che nessuno si aspettava e che chiede a noi tante cure”.

“Metterle le mani addosso significa riconoscerle un bisogno che non avevamo messo in conto; significa pensarla come tanto diversa dai suoi due fratelli. Questo è difficile e non è da tutti”.  Ecco quella presa di coscienza forzata che chiama questi genitori, attraverso la loro piccola, ad accorgersi di un mondo fatto di persone che loro semplicemente… non avevano messo in conto.

“Ora che vedo Anita, vedo anche tutti gli altri che vivono i nostri paesi. Mi sono accorta di Edoardo che lavora in comune e che pulisce le strade”. “ Pochi gironi fa, a Messa, lo guardavo sbracciarsi e dirigere il coretto che canta. Ho pensato [e lo dice con gli occhi lucidi] che anche mia figlia tra qualche anno farà cose di cui gli altri sorridono. Questo è molto triste e demotivante”.

Le chiedo se ha guardato bene il volto di Edoardo nel pulire le strade e nel dirigere il coretto della Messa delle 10.00. Dice che no…non ci ha fatto caso. Mentre penso a quante cose dobbiamo imparare a fare caso, quotidianamente, le dico di provare a guardare bene e a pensare che forse quello ottenuto da Edoardo è un bel risultato, compreso il far sorridere i fedeli della Messa.
Questa mamma ancora non riesce a pensare alla bellezza e all’importanza della vita della sua Anita, così come non riesce a cogliere i traguardi della vita di Edoardo, che scopre e conosce solo oggi nonostante i suoi 26 anni in questo paese, in cui anche lei vive. Non sono questi i progetti che lei costruiva per la sua bambina quando ancora non l’aveva conosciuta e la sentiva solo crescere dentro di sé; probabilmente nessun genitore l’avrebbe fatto, nell’attesa. Ora però si trova a dover fare i conti con una doppia, tripla ma forse anche multipla scoperta: la sua bambina sconvolge i suoi progetti, e la sua vita è una grande nebbia, nella quale non sa dove andare e cosa fare.

“Non posso pensare che Anita faccia cose ‘buffe’ come dirigere un coro della Messa facendo sorridere la gente intorno. Mi farebbe male”. E perché mai?… “Si rende ridicola”.
Forse però sono i suoi occhi di mamma, colpita nel vivo, che faticano a vedere quella gioia di Edoardo, in questo caso, ma potrebbero essere molti altri, nell’assumere un ruolo così importante e riconosciuto come il direttore del coretto. La gente sorride, certo. Non credo si tratti di ridicolizzare.
Forse allora pensare alla vita di questa piccola oggi è difficile. Lo è per una serie di motivi, in realtà, non troppo diversi da quelli che rendono difficile pensare alla vita futura di qualunque bambino di tre mesi. Così questa mamma non riesce a pensare a un progetto sulla vita di Anita che non sia quello di “accontentarsi” del far sorridere. Anzi, probabilmente non riesce proprio a immaginare che anche per la sua bambina sarà possibile parlare di “progetto” per la sua vita. Questa mamma sente il vuoto attorno a sé, sente di non avere basi sulle quali crearsi aspettative (e questo forse non è un male per nessun genitore); questa mamma sa per certo, ora che la sua piccola è così tanto piccola, che il futuro non le riserverà nulla che non sia quell’accontentarsi del sorriso della gente che la vede così tanto diversa e così spesso “ridicola”.
Sono tanti i sentire di questa mamma, ma sono ancora di più, credo, i pensieri che ancora non riesce ad avere: non sa quanto quella bambina diventerà adulta così come non sa come, anche per lei, la vita passerà con le sue fasi e i suoi sviluppi; non sa quanto quella vita avrà il suo corso, con le sue gioie, le sue delusioni, i suoi progetti, i suoi risultati e le sue cadute, così come per ogni persona. Certo si tratterà di cogliere e di saper leggere tutti i passi compiuti da Anita e da quanti vivano in contatto con lei. Solo allora, evidentemente, questa mamma riuscirà a cogliere che anche per Anita esiste un progetto: un progetto grande per la sua vita.  

“Ma chi me lo fa fare?”

“Una palla di cannone che ha diviso la città in due!”. Questo è stato l’ospedale psichiatrico, o manicomio che dir si voglia; così lo racconta con una provocazione Ennio Sergio, psicologo del Dipartimento di Salute Mentale di Imola, in apertura di Mai più fuori dai giochi, giornata di lancio della due mesi di iniziative Oltre la siepe, la salute mentale è un diritto di tutti anche il tuo avviatosi il 10 ottobre, giornata mondiale della salute mentale.
Una giornata di gioco, appunto, e di tanto sport che ha coinvolto diciotto squadre nella palestra Cavina di Imola, organizzata dalla polisportiva locale Eppur si muove, associata Anpis (Associazione nazionale polisportive per l’integrazione sociale). In campo le squadre Anpis della regione Emilia Romagna e diversi gruppi di studenti degli istituti superiori di Imola, con un coinvolgimento allargato della cittadinanza e di molti referenti istituzionali che hanno aderito con entusiasmo all’iniziativa e alla due mesi di appuntamenti.
Oltre la siepe prende il via con questa giornata del 10 ottobre, giornata mondiale della salute mentale e chiude il 10 dicembre, anniversario della proclamazione universale dei diritti dell’uomo per rimarcare lo stretto legame tra il tema della salute e quello dei diritti; da qui infatti il sottotitolo della due mesi: la salute mentale è un diritto di tutti, anche il tuo.

La manifestazione è stata aperta da una lettura di alcuni brani tratti dal racconto “Il visconte dimezzato” di Italo Calvino, che hanno fornito l’interessante spunto di paragone, al dott. Ennio Sergio, tra gli ospedali psichiatrici imolesi (dei quali ricorre il decennale della chiusura) e la palla di cannone che ha diviso la città in due. Un luogo di sofferenza e disagio che ha separato la follia dalla normalità sancendo chi fosse “malato”, quindi da ricoverare, da chi fosse “sano”. La chiusura di questi luoghi ha posto la questione dell’inclusione sociale di molti soggetti rimasti fino a quel momento esclusi dalla normale vita collettiva. Ponendosi dalla parte di costoro risulta la difficoltà di tutte quelle dinamiche quotidiane di confronto e di reinserimento in un tessuto sociale e scaturisce la domanda, filo conduttore degli interventi dei referenti istituzionali che hanno dato il lancio alla giornata: “Ma chi me lo fa fare?”.
A partire da qui gli interventi dei molti rappresentanti istituzionali che, in tal modo, hanno dato l’avvio all’iniziativa e il benvenuto ai molti presenti alla mattinata di sport. Così, a turno, tanti tentativi di risposta, che hanno spaziato ampiamente andando a toccare i diversi settori della vita collettiva. Perché, in fondo di questo si sta parlando: di una dimensione personale sollecitata a mettersi in un gioco di relazioni collettive. Non casuale infatti il titolo della due mesi: Oltre la siepe: la salute mentale è un diritto di tutti, anche il tuo. Sono due piani, per loro natura profondamente intrecciati e sovrapposti, chiamati per questo a un costante confronto e interscambio. Da qui gli interventi che hanno dato un taglio all’iniziativa, fotografando anche un’idea ben precisa che ha sotteso la giornata del 10 ottobre e un più complesso lavoro di inclusione sociale della salute mentale.
Alla sollecitazione il vicesindaco Castellari, infatti, risponde sostenendo che i diritti degli altri cominciano dove cominciano i miei diritti: questo significa riconoscere la libertà di ciascuno e il diritto di cittadinanza attiva per tutti. Visani, assessore alla qualità sociale, rilancia e va oltre, per ricordare come la giornata Mai più fuori dai giochi, e iniziative simili, contribuiscano a creare una comunità accogliente, capace di contrastare il riaffiorare di tutte quelle strutture mentali, ostacolo alla reale inclusione. In questa direzione vanno le parole di Poli, presidente del consorzio dei servizi sociali, che sottolinea come l’azione congiunta dei servizi sociali e sanitari valorizzi le reali potenzialità di ogni cittadino. La testimonianza di una mamma poi riporta tutti i presenti a fare i conti con una realtà di fatica e sofferenza vissuta da molte persone, attorno alle quali si crea un vuoto di solitudine; le sue parole indicano come irrinunciabile lo “stare meglio” e come sia importante il contributo agito dalla comunità nel suo complesso. Ecco perché Ravani, direttore della Unità Operativa territoriale del Centro di Salute Mentale, non parla di psichiatria ma di salute mentale, nell’ottica di spostare l’attenzione da una categoria ristretta di individui alla collettività nel suo insieme.
Tutti questi interventi, seguiti da una mattinata di sport vissuto con entusiasmo, partecipazione e grande tifo, hanno inevitabilmente innescato alcune riflessioni che quella domanda, posta a inizio giornata evidentemente ha sollecitato con forza. 
Forse il chiedersi “chi me lo fa fare” non riguarda solo coloro che direttamente, in prima persona lottano ogni momento, per trovare un ruolo e una collocazione nel tessuto sociale dal quale si sentono, e talvolta lo sono realmente, esclusi. Probabilmente è stato vincente seppur nella sua natura provocatoria, l’aver lanciato il quesito ai soggetti che in diversa misura hanno partecipato alla giornata. Provocazione che non si ferma a quegli interventi di apertura e di benvenuto, ma che ognuno è chiamato a portare con sé nella propria vita che continua fuori da quella palestra che rappresenta, evidentemente, un momento e un luogo privilegiato al cui interno si vogliono ritrovare tante risposte. E spesso ci si riesce. Ecco perché è una domanda che si pone sul fondo di ciascuno di noi, chiamato con forza a dover mettere in discussione molto del “dato per scontato” nella costruzione della persona, nell’instaurarsi delle tante e diverse relazioni di cui questa vive. Fa parte della vita di tutti e proprio per questo si tratta di una base di appoggio, un trampolino di lancio anche per la costruzione di questa vita fatta di persone, fatta di una dimensione collettiva della quale nessuno può e deve sentirsi escluso.
Il percepirsi tassello di questa rete di rapporti porta a rivedere costantemente la propria posizione e la posizione degli altri, di tutti gli altri. Domanda e risposta che sì, fanno parte a pieno titolo anche del nostro progetto di vita al cui interno esistono le relazioni e le persone.
Chi me lo fa fare di continuare a lottare se sento premere dentro di me questo male che è il male di vivere. Chi me lo fa fare di spendermi nell’organizzazione di eventi come questi che aprono le porte su un mondo tenuto distante, perché temuto. Chi me lo fa fare di lavorare ogni giorno a stretto contatto con il malessere, la sofferenza, l’indifferenza. Chi me lo fa fare di pormi così tanti interrogativi che mettono costantemente in discussione le mie facili certezze e sicurezze, quelle che l’agio e il benessere ci pongono come primarie per il “quieto vivere”.
Probabilmente il sentire questa vita come una preziosità fatta di tante dimensioni, tanti bisogni, tante e diverse persone con cui condividerla fa sì che a molte domande si possa trovare una risposta. E allora la sollecitazione di quella mamma che nel portare la sua testimonianza chiede e sottolinea con forza il diritto del suo ragazzo “allo stare bene” diventa una risposta efficace: una base per la costruzione della sua ma anche della nostra vita. Un tassello di quel progetto sulla sua e sulla nostra vita che da “lui” non può prescindere.