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autore: Autore: Claudio Imprudente

Regali, doni, pacchi e…pacchetti vita – Superabile, agosto

Siamo in estate indubbiamente, l’atmosfera esterna ce lo ricorda con una certa regolarità. A ricordarcelo anche la marea di campi estivi e campi solari che vengono organizzati in tutto lo “stivale”.
Proprio la scorsa settimana ho partecipato come educatore ad una animazione-formazione rivolta a ragazzi e ragazze dell’Azione Cattolica…ogni volta che sento il nome mi torna in mente il celeberrimo brano di Zucchero, il cui ritornello ad un certo punto ci invitava a “salvare il giovane dallo stress e dalla….”, avete capito…
Comunque, nonostante il consiglio di Fornaciari, l’animazione con l’A.C. si è svolta, ruotando attorno al tema del “prossimo”: chi è il nostro prossimo, cioè, chi è l’altro? E’ un regalo?
Per stimolare i ragazzi, ho ricordato loro che nel periodo natalizio, chi da Babbo Natale, chi da Gesù, chi dalla Befana, più o meno tutti riceviamo dei regali, ma il punto è: a quale categoria appartengono i regali ricevuti? A mio avviso possono appartenere a due categorie principali: quella del regalo-dono e quella del regalo-pacco. Ovviamente i “pacchi” ci fanno paura, li temiamo, ci deludono e vorremmo rispedirli al mittente, perché c’è poco da fare, se un regalo è un pacco difficilmente riusciremo a nobilitarlo e a renderlo un dono.
Come per gli oggetti, così anche per le persone in carne e ossa la distinzione può funzionare: l’altro, il prossimo può essere un regalo-dono o un regalo-pacco, e senza scartarlo non possiamo saperlo. Fin qui il paragone regge: anche di un oggetto non possiamo sapere niente finché non lo liberiamo dagli incartamenti.
Ma le persone, che sono cose vive e mutevoli, ci danno tante possibilità in più, perché “resistono” a qualsiasi classificazione e all’attribuzione definitiva di un valore, di un giudizio. Cosa voglio dire? Con le persone, la fase di svelamento, quella in cui acquisiamo consapevolezza, quella in cui scartiamo, non ha mai fine, si rinnova di continuo e può restituirci dei risultati sempre diversi.
Tanto che, ne sono convinto, le persone in realtà non possono mai essere definitivamente un regalo-pacco; perché sia così, tutto dipende da noi, dalla nostra volontà di cambiarci, di spostare il nostro punto di vista e di tornare su quell’oggetto-persona prima sbrigativamente valutato come “pacco”.
E un bambino disabile cos’è? Un regalo-dono o un regalo-pacco? Leggete questa bellissima lettera, che gioca col termine “pacchetto”, in realtà con un significato leggermente diverso da quello di questa mia piccola introduzione, ma sempre ad intendere qualcosa che ci è dato così, e sta a noi trovare il modo di valorizzare, scartando e riscartando.

Caro Claudio, la mia bimba, Maddalena, è nata con la sindrome di Down, “pacchetto vita” che comprende oltre alla cardiopatia, ad una certa goffaggine fisica ed una notevole somiglianza a Gengis Khan, anche appunto il ritardo psichico.
Penso che avere una testa che funziona sia uno strumento fondamentale per costruirsi una vita che si realizzi nel percorso che tu chiami “dalla sfiga alla sfida”! Probabilmente (mai dire mai!) la mia bambina questo strumento non lo avrà e questo mi fa temere (magari erroneamente) che sarà più emarginata di qualunque tetraplegico con un cervello tale da consentirgli di tessere relazioni interpersonali di un certo tipo e di battersi per i propri diritti in virtù di quell’intelligenza che contempla la consapevolezza!
Non sono sicura di essere riuscita a spiegare bene quello che intendo: Maddalena è la mia quinta figlia (cosa vuoi sono una persona profondamente ottimista e con una grande fiducia nella vita!), perciò la mia esperienza di mamma è quanto meno plurima, ed ho potuto constatare che, se con i figli normali (quelli con un patrimonio cromosomico standard!) il problema è “COSA gli insegniamo!?”, con Maddalena la cosa si ribalta, “COSA IMPARIAMO!?”. E’ lei che ogni giorno ci insegna qualcosa: a non dare niente per scontato, a non essere prevenuti in nessun contesto, a misurare tutte le cose con un altro metro molto più attendibile e vero, capace di mettere al riparo da pericolosi abbagli!
La mia BGM (come noi la chiamiamo – Bambina Geneticamente Modificata!) ha solo due anni e mezzo, eppure ha già cambiato la vita di molte persone, se solo potessi trovare il modo di far capire alla società il valore del suo esserci!!! Con affetto e stima, Valeria.

Non aggiungo niente, mi sembra superfluo. Ricordate solo che, ancor prima di imparare a ricevere o a donare, dobbiamo imparare a scartare i regali, a Natale, a Pasqua e anche sotto l’ombrellone. Scrivete come sempre a claudio@accaparlante.it o cercate il mio torrido profilo su Facebook.

Claudio Imprudente

 

Paganini non ripete due volte…l’educatore sì – Superabile, luglio 2009 – 2

Siamo (siete) in vacanza; tra uno spargimento di crema solare e l’altro siamo alla ricerca di storie leggere e avvincenti, o forse solo leggere…così, per questo articolo, prendo spunto da una di quelle che girano sotto forma di catene di Sant’Antonio su internet, in quantità indigeribili e con promesse mai rispettate, tipo: spedite a dieci amici e per una settimana tutto vi girerà per il verso giusto… Questa l’avevo conservata perché parla di Paganini, che mi è sempre piaciuto, non perché facesse musica, ma perché non ripeteva mai due volte, e in questo mi sento molto paganiano! Come potete immaginare, nelle intenzioni di chi aveva avviato la catena, il racconto doveva essere un invito a non darsi mai per vinti e ad affrontare la vita con passione. Secondo me, però, può rivelare anche altro. Intanto, ecco la storiella: “C’era una volta un grande violinista chiamato Paganini. Alcuni dicevano che era molto strano. Altri, che era “geniale”. Le note magiche che venivano fuori dal suo violino avevano un suono diverso, per questo nessuno voleva perdere l’opportunità di vedere un suo spettacolo. Una certa sera, il palco di un auditorium pieno di ammiratori era pronto a riceverlo. L’orchestra entrò e fu applaudita. Il direttore fu accolto con un’ovazione. Ma quando la figura di Paganini apparve, trionfante, il pubblico andò in delirio. Paganini sistemò il suo violino sulla spalla e quello che si sentì dopo fu indescrivibile. Le note sembravano avere ali e volare al tocco delle sue dita affascinanti. All’improvviso uno strano suono interruppe l’estasi della platea. Una delle corde del violino di Paganini si ruppe. Il direttore si fermò, ma Paganini non si fermò. L’orchestra si fermò. Il pubblico si fermò.
Guardando lo spartito, continuò ad estrarre suoni incantevoli da un violino con dei problemi. Il direttore e l’orchestra esaltati, ripresero a suonare. Ma prima che il pubblico si rasserenasse, un altro suono preoccupante fece crollare l’attenzione degli astanti. Un’altra corda del violino di Paganini si ruppe. Il direttore si fermò nuovamente. L’orchestra si fermò nuovamente. Paganini non si fermò. Come se nulla fosse successo, lui dimenticò le difficoltà e continuò a tirar fuori suoni dall’impossibile. Il direttore e l’orchestra, impressionati, ripresero a suonare. Ma il pubblico non poteva immaginare quello che stava per accadere. Tutte le persone, attonite, esclamarono: “OHHH!”. Una terza corda del violino di Paganini si ruppe. Il direttore si paralizzò. L’orchestra si fermò. Il pubblico trattenne il respiro. Ma Paganini continuò. Come se fosse un contorsionista musicale, strappò tutti i suoni dall’unica corda che rimaneva del suo violino distrutto. Nessuna nota fu tralasciata. Il direttore si animò. L’orchestra fu motivata. Il pubblico passò dal silenzio all’euforia, dall’inerzia al delirio. Paganini raggiunse la gloria. Il suo nome corse nel tempo. Non è semplicemente un violinista geniale. È il simbolo di chi continua ad andare avanti anche di fronte all’impossibile (…)”. Che cosa ci racconta questo aneddoto oltre a quanto è più immediatamente leggibile? A mio avviso ci fa capire che il valore e l’abilità di una cosa e di una persona si definisce solo in rapporto a qualcos’altro o a qualcun altro e non può prescindere dalla conoscenza di quell’ “altro”. In che senso? Paganini sicuramente conosceva il suo violino, e sapeva cosa avrebbe potuto trarre da lui, anche ritrovandoselo tra le mani sempre più menomato e mancante. Quell’unica corda residua era quella corda di quel violino. Ma ammettiamo che Paganini potesse fare lo stesso con qualsiasi violino: il racconto non finisce di svelarci qualcosa. Sicuramente la melodia prodotta con una sola corda era in tutto diversa da quella che sarebbe riuscito a ricavare dal violino ancora integro, poi da quello con tre, poi da quello con due sole corde: ad ogni condizione corrispondevano delle possibilità che non si sarebbero potute ripresentare identiche al mutare di quella condizione. Altre possibilità, non nessuna possibilità. Paganini sapeva che la capacità di creare melodie non dipendeva solo dall’integrità dello strumento, ma da quello che lui riusciva a vedere nello strumento stesso, nelle sue potenzialità che, al diminuire delle corde, a tutti gli altri sembravano sempre meno evidenti e attivabili. Infatti il direttore, l’orchestra e il pubblico si fermano, non sapendo cosa fare, ma la reazione creativa di Paganini è in grado di riattivare in tutti la motivazione, l’euforia, lo stupore…ha degli effetti sul contesto. Paganini e il suo strumento così come l’educatore (e il contesto sociale) con una persona con disabilità: relazioni dalle potenzialità insperate e impensabili. E che dire, cari educatori? Ascoltate Paganini e imparate da lui, ma cercate di ripetere più volte! Anche con 40 gradi all’ombra, il mio indirizzo non cambia: scrivete a claudio@accaparlante.it o cercate il mio profilo su Facebook. Buone vacanze.
Claudio Imprudente

 

La musica è fantasia – Superabile, luglio 2009 – 1

La musica è fantasia. La fantasia è musica. I musicisti, allora, sono fantasiosi (o almeno ce lo possiamo augurare).
Giorni fa mi ha scritto una lettera Paolo Falessi, membro dei “Ladri di Carrozzelle” (www.ladri.com), storica e sovversiva filiale dei “Ladri di biciclette”, da quasi vent’anni attiva in studio e dal vivo. Il nome della band lascia spazio a pochi dubbi, ma per chi non li conoscesse vale la pena tracciarne un po’ le caratteristiche.
I Ladri infatti sono un gruppo di musicisti diversamente abili e non, che propone un progetto volto a fornire un’immagine diversa della disabilità. Lo fanno calcando in prima persona scene e palcoscenici, e questo già potrebbe bastare; registrando dischi (quasi venti, sinora) e anche questo sarebbe sufficiente; proponendo nelle scuole progetti formativi nei quali l’aspetto musicale non è che una componente, forse un addolcente come il miele di Lucrezio…
Il lato più interessante di questa attività di formazione parallela è che la maggior parte degli argomenti affrontati non ha niente a che fare con la disabilità e con l’ esperienza diretta dei componenti della band in questo senso.
Ma siccome la musica è fantasia e i musicisti sono fantasiosi, questo non deve stupirci più di tanto. Anche se sospetto che non sia solo una questione di sensibilità musicale, artistica o di inclinazione alla creatività…
Piuttosto, infatti, sembra esserci alle spalle l’idea per cui argomenti apparentemente distanti hanno effettivi legami, magari sotterranei e non immediatamente palesi, ma ad una seconda analisi davvero evidenti.
Cosa lega, infatti, disabilità, pace, nonviolenza, musica e ambiente? O, meglio, cosa consente di affrontare gli aspetti critici relativi a questi campi con un approccio organico, per cui tutto possa tenersi insieme?
Non vorrei semplificare troppo il discorso, ma ho il sospetto che un filo unisca tra loro tanti aspetti problematici, discriminatori e di ingiustizia che caratterizzano il mondo odierno. E’ immaginabile risolverne e ricomporne alcuni trascurandone altri?
Un percorso che parta dall’esperienza della disabilità e dalla riflessione su temi ad essa correlati può trovare naturali prosecuzioni, incursioni in altri “contenitori di criticità”: la tutela ambientale, la nonviolenza, la politica di pace sono sicuramente tra questi. Mi spiego meglio: non c’è forse un nesso tra la precarizzazione del lavoro sempre più spinta, la riforma della scuola pubblica, l’allentamento delle maglie della “vita” sociale, la competizione come modello delle relazioni sociali e l’esclusione di chi non ce la fa o il fastidio per chi ce l’ha fatta al posto nostro? E’ come se il mondo fosse tendenzialmente “dominato” da logiche di un certo tipo che determinano uno sviluppo simile per cose anche distanti tra loro; ed è esercitando, praticando logiche di segno diverso che possiamo cercare di ribaltare dei modelli consolidati. Un sentire di segno diverso che ci consenta un approccio comprensivo ai problemi.
I “Ladri di Carrozzelle” da anni ragionano attorno ai temi legati alla disabilità e all’handicap: hanno così maturato strumenti, formazione e sensibilità per affrontare problematiche altre, ma non estranee.
Hanno costruito uno modo di guardare alle cose del mondo, e ne propongono all’esterno la validità. Potremmo descrivere questo sguardo sulle cose come un atteggiamento nei confronti del prossimo (e dell’ambiente a noi “prossimo”) che sia inclusivo, rispettoso delle unicità diverse e consapevole dell’interdipendenza tra gli esseri e le cose.
Ecco perché chi vive e condivide la disabilità, avendone già fatto tema “d’indagine”, può proporre un approccio “trasversale” ai problemi in modo credibile e senza rischiare di semplificarne e sminuirne la portata.
Se vedete i “Ladri di Carrozzelle”, allora, non chiamate i carabinieri: non sono briganti, ma solo musicisti fantasiosi. E non è poco…
Scrivete a claudio@accaparlante.it, o utilizzate la mia pagina su Facebook, se come me e i “Ladri” pensate che non esistano singoli interventi per singole emergenze, ma modi di guardare e stare al mondo.

Claudio Imprudente

 

 

La disabilità è una brutta copia? – Superabile, giugno 2009 – 1

C’è una domanda che mi frulla in testa da tanto tempo: “ma i disabili sono belli o brutti?”. Per risolverla, una volta, per la trasmissione “Screensaver”, ho girato tutta Bologna con la telecamera nascosta, curioso di sapere cosa ne pensassero i ragazzi che incontravo.
Questa domanda non ha poi così tanto senso, perché: cosa vuol dire bellezza? E cosa abbiamo in mente quando pensiamo alla bruttezza? Siete sicuri che le idee a riguardo siano ben definite per tutti? Esistono una bellezza “vera” ed una “falsa”? Roberto Ghezzo, che lavora con me al Centro Documentazione Handicap ed è laureato in filosofia, ha detto più volte che l’uomo tende a considerare bello ciò che si caratterizza per originalità e integrità e brutto quello che a lui sembra una copia (imperfetta) dell’originale. E se il disabile è una “copia mal riuscita”…
La questione ruoterebbe, allora, attorno al concetto di vero (l’originale) e falso (la copia).
Ma a me è sempre sembrata vera, ed estremamente umana, una cosa, ovvero che, se ci è impossibile tradurre il “falso” nel “vero”, possiamo invece tradurre ciò che ci è estraneo in ciò che ci è proprio.
Perché su questo “terreno” umano è possibile lavorare: le estraneità alle cose sono in realtà apparenti, modificabili; alle cose estranee ci si può educare, si può convertirle in proprie. E’ ciò che si considera falso che difficilmente si può assumere partendo da un’idea di verità, è ad esso che ci è difficile riconoscere una parte di questa verità.
Il discorso sulla disabilità e le abilità diverse può essere affrontato come questione culturale proprio perché non riguarda un problema di verità e falsità, intraducibili l’una nell’altra, ma di ricerca di un terreno comune. Che poi in fondo non è che il riconoscere la diversità che caratterizza ogni manifestazione della vita, delle cose esistenti. Di più, riconoscere la necessità della diversità perché le cose siano vive e possano esistere.
Infatti il discorso sulla disabilità riguarda ciò che ci sembra estraneo, ma non lo è, riguarda l’apparente estraneità e la reale partecipazione attorno ad alcuni aspetti: i limiti, le abilità diverse, ecc…
Riguarda cioè argomenti su cui può avvenire uno scambio comunicativo.
La comunicazione, e la cultura più in generale e la bellezza, quindi, non sono il terreno dello scontro tra certezze, ma del confronto e dell’intreccio tra possibilità.
Senza negarle, dovremmo riconoscere la necessità e l’irriducibile presenza delle differenze e delle ambiguità come parte del tutto, come costituenti ogni cosa. Non possiamo scegliere tra luce e ombra, razionalità e irrazionalità, bellezza e bruttezza. L’ordine non nasce dall’esclusione e dalla selezione, a meno che non se ne voglia coltivare un’idea limitante e riduttiva.
Tornando alle interviste per “Screensaver”, alla domanda “ma io, secondo voi, sono bello o brutto?”, una ragazzina mi ha dato la risposta che mi è piaciuta di più: “ma sai…sei un tipo”. Niente male, no? E voi cosa ne pensate? I disabili sono belli o brutti? E soprattutto, esiste una bellezza più vera di un’altra? Argomentate, scrivendo, come sempre, a claudio@accaparlante.it o cercando il mio profilo su Facebook.
Claudio Imprudente

 

E oggi parliamo di Costituzione: siamo uomini o caporali? – Superabile, maggio 2010 – 2

Oggi parlare di Costituzione è sovversivo. Tanto più se a parlare di Costituzione sono dei disabili. Un mese fa, in occasione della festa del 1° maggio a Marana-Thà, ho assistito alla rappresentazione teatrale “Siamo uomini o caporali? – la Costituzione va a Teatro” del Teatro di Camelot, e ne sono rimasto davvero colpito. Un po’ perché da anni ormai si parla di Costituzione più per descriverne i presunti limiti o malfunzionamenti o per denigrarla in modo anche aperto e sfacciato che per tesserne le lodi e affermarne l’attualità; un po’ perché lo spettacolo era davvero ben fatto e, al termine, poco mancava che mi proponessi come manager della compagnia, per provare a diffonderne quanto più il verbo…un po’ quello che sto facendo in questo momento…
Ma voi vi ricordate i primi articoli della nostra Costituzione? Ho l’impressione che ultimamente non siano così evidenti e condivisi come forse lo sono stati in tempi meno recenti, forse perché, ed è un rischio che segnalo spesso rispetto a tante cose, abbiamo cominciato a darli così tanto per scontati che non riconosciamo più la loro forza e, peggio, non ci accorgiamo che la loro attuazione è spesso incompleta…e, peggio ancora, che qualcuno li butterebbe volentieri a mare.
Vi rinfresco la memoria, limitandomi ad alcuni di quelli che lo spettacolo “Siamo uomini o caporali?” assume come materia di rappresentazione e di riflessione:
Art. 1. L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione; Art. 2. La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale; Art. 3. Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali; Art. 11. L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.
Niente male, vero? Ditemi se, anche solo eliminando uno di questi articoli, non vi sentireste più scoperti, disarmati, indifesi, “incivili”…sarà anche per questo che il tipo di teatro cui lo spettacolo appartiene viene definito “teatro civile” o “sociale”: si occupa di temi che riguardano la vita della società civile e l’interesse di tutti, cercando spesso di risvegliare l’attenzione su quegli stessi temi.
Peraltro qui il problema non è affermare e difendere il valore nominale di quegli articoli, ma riconoscere che è a partire da quelle parole che è possibile lavorare ad un cambiamento vero dei rapporti sociali. Gli articoli sono, a mio, avviso, un invito ad agire per la loro stessa realizzazione, ci indicano come agire e verso quale scopo tendere. L’obiettivo e il mezzo attraverso il quale perseguirlo.
Lo spettacolo “Siamo uomini o caporali?” si compone di varie scene, ognuna dedicata ad uno dei primi 12 articoli della Carta; una delle caratteristiche è che a recitare sono anche attori con disabilità. La cosa affascinante è che, quasi senza che ce ne accorgiamo, la presenza di questo elemento è già di per sé un modo per far risaltare il valore e le parole della Costituzione stessa: perché si realizza davanti a noi il “miracolo” della creazione della cittadinanza. Al di là degli aspetti di terapia che la pratica teatrale può avere, infatti, il teatro è qualcosa che si fa, e in quanto tale è già un valore. Se in questo fare si coinvolgono persone con disabilità, si producono condizioni di dignità e cittadinanza anche per loro. Questo non è poco…ed è pienamente “costituzionale”!
Mi piace pensare che i Padri Costituenti avessero in mente le implicazioni che possono emergere dal rapporto tra disabilità-cittadinanza-Costituzione: sono implicazioni che ci riguardano tutti, se assumiamo il rapporto della società con le disabilità come superficie sulla quale la società può rispecchiare se stessa ed interrogarsi sui suoi limiti.
E che dire? Contattate l’ “Associazione Culturale Camelot” (ecaldironi@libero.it) e cercate di ospitare nella vostra città lo spettacolo “Siamo uomini o caporali?”: vale più di mille editoriali sull’argomento…
Per rispondermi, invece e come al solito, scrivete a claudio@accaparlante.it o cercate il mio profilo su Facebook.
Buon 2 giugno a tutti!

Claudio Imprudente

 

Boban il tassista di Belgrado…una questione culturale – Superabile, maggio 2009 – 1

Nella vita a volte capitano coincidenze allarmanti. Lì per lì piacevoli, ma poi anche allarmanti.
Arrivati all’aeroporto di Belgrado per partecipare alla conferenza "De-istituzionalizzazione, inclusione sociale e disabilità: i prossimi passi e le esperienze da vari paesi", promosso dalla Cooperazione Italiana allo Sviluppo (Ministero degli Esteri), siamo stati accolti da un tassista dal cognome quantomeno evocativo per un milanista spudorato come me: Boban. Il quale, peraltro, era alla guida di una macchina riadattata al trasporto disabili piuttosto nuova e del tutto simile alla mia. Doppia coincidenza che poteva anche farmi sognare che Boban, il calciatore, fosse diventato il mio autista personale…
Durante i giorni in cui Boban, l’autista non calciatore, è stato a nostra disposizione, abbiamo avuto modo di parlargli e di chiedere alcune informazioni riguardo al suo lavoro e alla situazione dei trasporti per disabili a Belgrado…
A proposito, la città conta circa tre milioni di abitanti ed un numero di disabili che si aggira attorno ai 300.000, non pochi. Del resto, Belgrado, come altre città, ha subìto anni di guerra e mesi di bombardamenti, le cui conseguenze sono facilmente immaginabili, per quanto possiamo inventarci nomi creativi coi quali chiamare certe missioni, tipo “guerra umanitaria”…
Pensavamo a qualche errore di comprensione, dovuto all’inglese che tutti parlavamo in modo un po’ stentato, invece la situazione descritta da Boban è tanto vera quanto incredibile, incredibile proprio perché vera. E perché reali altri aspetti che con il nostro aneddoto hanno molto a che fare. In pratica, l’automobile per il trasporto disabili di Boban era l’unica della città, e nei giorni in cui lui è stato a nostra disposizione, in tutta Belgrado non era disponibile nemmeno un mezzo che potesse garantire quel servizio di trasporto.
Ma la dis-organizzazione dei trasporti di Belgrado non è che il sintomo visibile di una situazione generale che tende all’esclusione sociale tout court delle persone disabili. Le strutture e le politiche sociali, infatti, dipendono direttamente dalla visione che abbiamo di certi fenomeni, dalle priorità che riconosciamo come tali, dal valore che attribuiamo a determinati bisogni, esigenze e desideri. E’ allora la (sovra)struttura culturale a determinare l’esistenza di una precisa struttura organizzativa dei servizi e delle politiche che riteniamo essenziali. E’ dalla visione del mondo che discendono certe pratiche, non il contrario. Cerco di spiegarmi meglio.
Se a Belgrado le persone disabili vivono tutte in istituti, che bisogno c’è di immaginare un sistema di trasporti che possa facilitare la loro azione, la loro visibilità nella scena sociale? Se il pensiero prevalente, la cultura diffusa riconoscono ancora come legittime le politiche di “istituzionalizzazione” delle persone con deficit, prevedo che non sia facile decretare “dall’alto” politiche di segno diverso. Devono prima trovare spazio e diffondersi idee e sensibilità differenti.
So che le cose non sono così semplici e lineari, e che spesso i cambiamenti più significativi sono dovuti alla forza del pensiero di poche persone (Basaglia, ad esempio) o di pochi attori sociali, e che molte istanze si sono affermate dapprima come voglia di riscatto da parte delle famiglie, delle associazioni, etc più direttamente interessate…ma queste, in Italia e altrove, hanno trovato col tempo canali di vario tipo per diffondersi, per intraprendere il cammino che potesse renderle di dominio ed attenzione pubblici. Di farsi cultura condivisa.
A Belgrado, questo il sentire comune, “deistituzionalizzare” vorrebbe dire solamente creare dei problemi laddove non esistono…perché complicarsi la vita? Perché rischiare di immettere sul mercato del lavoro dei potenziali concorrenti?
Quello che manca, evidentemente, non sono le persone disabili, ma una cultura sufficientemente diffusa che, al contrario, voglia problematizzare la questione e renderla oggetto di riflessione e, poi, di azione politica che possa incidere praticamente, materialmente sulla vita di tante persone.
Perché vi ho raccontato l’episodio di Belgrado? Non per fare confronti con la situazione in Italia, ma perché ai miei occhi ha confermato l’importanza dell’aspetto culturale per mantenere alta la “tensione” e l’attenzione su certi temi, proprio qui in Italia. C’è ancora strada da fare e sopratutto tanta “materia” sulla quale vigilare perché non si facciano passi indietro. Non possiamo mai dare per scontata l’impermeabilità del tessuto sociale a certe derive: è necessario di conseguenza portare avanti parallelamente un discorso sui servizi, le leggi e le opportunità materiali, ed uno, ripeto, essenziale, che si rivolga agli aspetti culturali. Ben sapendo che le involuzioni in questo campo sono più difficili da prevedere, cogliere e, poi, contrastare.
Il viaggio a Belgrado è stato quasi un viaggio nel tempo: rispetto alla disabilità sembrava di essere tornati all’Italia degli anni ’60-’70, quando i Beatles spopolavano. Eppure, “ritornato al futuro”, è servito per accrescere la consapevolezza che l’azione di vigilanza nel nostro Paese va praticata con tenacia ancora maggiore: e voi siete tutti arruolati!
Scrivete a claudio@accaparlante.it o cercate il mio profilo su Facebook.
 

La disabilità nella terra dei cachi – Superabile, aprile 2009

Non è un fotomontaggio.
Qualche settimana fa io, Elio e la “sua” band, rimasta nel fuori campo della fotografia, siamo stati invitati a Prato per parlare davanti a centinaia di ragazzi di disabilità ed affini. In particolare, il tema dell’incontro era: “Disabilità: sfiga o sfida?”…il gioco di parole del titolo doveva fare il “gioco” o stare al gioco (scusate il gioco di parole) di Elio, per far capire che l’incontro si sarebbe mosso su dei binari a lui consoni. Si sarebbe giocato in casa sua, dove i significati comuni dei termini sono ribaltati di continuo, le parole non sono mai quello che sembrano, e se ne fa l’uso che si preferisce. A volte sono gli accostamenti di parole a stravolgerne il senso, altre volte l’attenzione al solo “significante” portata all’estremo crea scivolamenti di significato esilaranti. Altre volte ancora…etc etc..
La questione è da sempre aperta, e mai si chiuderà: è giusto affrontare temi così delicati con lo strumento dell’umorismo? Non si rischia di fornire una versione edulcorata, superficiale ed ottimistica di situazioni davvero difficili e rispetto alle quali, letteralmente, ci sarebbe “poco da ridere?”, e via di seguito. Domande mal poste, a mio avviso, e non perché ingiustificate (mai vorrei banalizzare un discorso importante come quello sulla disabilità, tanto più perché un discorso su di essa è un discorso sulle persone concrete con disabilità), ma perché non colgono il nesso stretto tra disabilità ed ironia e, ancor più, autoironia.
Queste sono tecniche cui ricorro spesso, un po’ per indole, un po’ perché servono a sdrammatizzare argomenti piuttosto critici e tutt’altro che leggeri, un po’, ancora, per attirare con più facilità l’interesse del lettore.
Ma c’è una ragione in più, ed è proprio qui che volevo arrivare: l’ironia, e la comicità in genere, si basano sul ribaltamento delle regole su cui si fonda un “sistema”: ecco perché sono proprio il mezzo principe per scardinarlo, rimetterlo in discussione, farne emergere i lati più nascosti. Una persona diversabile quotidianamente è chiamata ad affrontare una realtà le cui regole andrebbero puntualmente ribaltate: sono le sue necessità quotidiane ad imporglielo.
Spesso la comicità, una persona disabile la esercita proprio nell’agire quotidiano, ad un livello, per così dire, preverbale, ovvero prima ancora di fare della sua disabilità strumento o oggetto “ragionato” di ironia. Una volta ero al ristorante con alcuni amici, tra cui Stefania, una collega anch’essa in carrozzina. Arriva il cameriere con una pirofila ricolma di patatine fritte, si avvicina a Stefania per servirla e lei, proprio in quel momento, ha uno spasmo tale che ribalta tutto il vassoio. Il cameriere, esterrefatto, non sapeva che fare: pulire, raccogliere, scusarsi…o mandare tutto in vacca? Ammettiamolo: o lo si vede come un problema, con sensazioni di rigetto o impazienza o, peggio ancora, con atteggiamento pietistico, così da vivere e far vivere la situazione con un enorme imbarazzo, o si ci fa una bella risata su… Una risata liberatoria, che aiuti ad alleggerire i pesi che possono gravare su situazioni apparentemente così drammatiche e difficili da gestire. Ma non a rimuovere quelle situazioni. Ecco perché difendo così spesso la chiave della comicità, dell’ironia e del divertimento per “aprire la porta” della diversabilità e della relazione con essa.

L’ironia e la comicità creano, peraltro, un rapporto di complicità tra me e il lettore. Credo sia anche questo a spiegare il numero delle risposte che ricevo: la voglia di confrontarsi su certi argomenti, certo, ma anche l’idea di non sviluppare questo confronto con una persona lontana ed estranea. Complicità, però, non significa accondiscendenza. Non è certo quello che cerco. Consapevole, infatti, della “parzialità” (non faziosità) di quello che scrivo, sento la necessità che siano altri, i lettori, a comporre insieme a me i pezzi, infiniti, di un discorso sulle cose. L’ironia facilita l’approccio a certi argomenti e stimola, a mio avviso, il desiderio del lettore o, nel caso dell’incontro con Elio dello spettatore, di collaborare alla creazione di una cultura dell’integrazione. Spero di essere riuscito a smuovervi, quindi: mi aspetto risposte numerose, come sempre a claudio@accaparlante.it o cercando il mio profilo su Facebook.

Claudio Imprudente
 

La leggerezza nella differenza – Superabile, marzo 2009 – 2

Una domenica, terminata la messa, un fotografo mi ha fermato e mi ha chiesto gentilmente di prestarmi per uno scatto davanti all’ingresso della Chiesa.
Qualche giorno dopo, lo stesso fotografo mi ha proposto di commentare la foto (quella che vedete sopra) e mi sono venute in mente due cose che avevo pensato proprio mentre lui mi stava immortalando …
Partiamo dai palloncini colorati: in fondo che cosa sono e che idea ci restituiscono, ci stimolano? Sono una realtà leggera, danno gioia, allegria; i bambini si divertono a giocarci, li fanno scoppiare, li fanno volare e li guardano mentre prendono la via del cielo; li lasciano liberi di andare dove vogliono, se li passano l’un con l’altro cercando di non farli cadere; i palloncini si conservano anche dopo giorni come ricordo di una festa a cui si è partecipato e in cui ci si è divertiti. Esprimono la nostra voglia di libertà in due sensi, cioè quello di essere liberi e quello di dare libertà, perché quando li si lascia prendere il volo, anche se si prova dispiacere, si sa che è stata fatta la scelta “giusta”.
Il palloncino è un oggetto che può prendere la forma di tante altre cose: un cane, un fiore, una giraffa, una spada… si adatta alla richiesta del bimbo. Inoltre non è di un solo colore, ma può essere di tanti ed è proprio per questo che la sua sola presenza rende un ambiente allegro. In fondo cos’è una festa senza palloncini? Questi, infatti, annunciano e connotano la festa stessa.
Poi però, mentre attendevo lo scatto fotografico definitivo, pensavo alla frase del pannello sulla mia destra: “la forza della vita nella sofferenza”… oh! Ho sentito un pugno nello stomaco! Non era, peraltro, un caso, che io fossi posizionato a fianco di quelle parole…
Né me ne sono risentito: che male c’è ad essere considerato una persona forte nella “sofferenza”? Al massimo potrei puntualizzare che non proprio di sofferenza si tratta, ma questo non cambia il discorso… Ringrazio per il complimento, anzi.
Eppure, per quanto non fosse una frase di segno negativo, mi sembrava che quelle parole e quei palloncini fossero due presenze inconciliabili. Perché?
Perché l’immagine diffusa delle azioni che si possono compiere per vivere nonostante e insieme alla sofferenza, si portano dietro un’idea di fatica, di lotta continua, di azioni eroiche, dell’individuo che con le sue sole forze cerca di fronteggiare il “male”: un’idea comunque greve, limitante, angusta, l’idea di un risultato che in realtà non è mai raggiunto né raggiungibile, ma sempre incompleto.
Io mi trovavo proprio in mezzo, tra la frase e i palloncini…a tentare di mediare tra questi due supposti estremi. Ecco quello che ho pensato da quella posizione privilegiata: la disabilità sta e deve stare proprio lì, tra queste immagini e stati del mondo, e può rivelarsi un ponte attraverso il quale veicolare immagini diverse.
La disabilità può essere un ponte per superare il limite e l’ostacolo del pregiudizio e delle immagini consolidate, fornendo una rappresentazione che non nega la sofferenza stessa, ma sa parlare di quella e della condizione di chi la vive con la leggerezza ed il colore che noi riconosciamo ai palloncini.
Una chiave per interpretare la realtà in modo non univoco o non schematico, così come la realtà stessa ci chiede. Infatti le cose non stanno esattamente nei termini in cui quella fotografia, senza la presenza del “mediatore”, sembrerebbe suggerirci.
Pensavo, allora, che avrei volentieri cambiato la parola “forza” con la parola “leggerezza”, o “colore”: “la leggerezza nella sofferenza”; “il colore nella sofferenza”.
La disabilità può veicolare questa immagine più lieve e, come dire, più condivisibile con le altre persone. Non perché meno pungente, ma perché per realizzare leggerezza ed effetti di colore si chiede la partecipazione di tutti, e non la forza di un solo individuo.
Scrivete a claudio@accaparlante.it o cercate il mio profilo su Facebook e raccontatemi casi di forza leggera e colorata…

Claudio Imprudente
 

Disabilità da raccontare e per raccontarsi – Superabile, marzo 2009 – 1

Spesso appunto su un foglio gli argomenti di cui mi piacerebbe scrivere, per non dimenticarli e, lo ammetto, per poter rimandare la stesura dell’articolo a tempo indeterminato, dedicandomi nel mentre ad altro…
Altrettanto spesso però sono gli eventi che si presentano con una puntualità tale da eliminare ogni parvenza di casualità e quasi costringermi a riprendere in mano un argomento appuntato magari mesi prima.
Questo articolo nasce appunto da una coincidenza simile, l’incontro tra una vecchia idea, uno stimolo esterno ed un incontro recentissimo: l’idea di affrontare l’argomento scrittura; lo stimolo di una lettrice-ammiratrice, che mi invita a parlare dello “scrivere” ispirandomi ad una frase di Lucio Dalla: “Vedi caro amico cosa ti scrivo e ti dico/ e come sono contento/ di essere qui in questo momento/ vedi, vedi, vedi, vedi,/ vedi caro amico cosa si deve inventare/ per poterci ridere sopra,/ per continuare a sperare”; la partecipazione, qualche giorno fa, ad un convegno a Roma, alla Camera dei Deputati, parte iniziale di un progetto ben più ampio e interessantissimo, dal titolo "Non può il silenzio – La disabilità da raccontare e per raccontarsi" (un laboratorio integrato di scrittura che porterà degli studenti, disabili e non, a confrontarsi con la scrittura e il fascino del racconto, pensato e realizzato dall’Associazione 2SMART e dall’Associazione Magic Pictures in collaborazione con l’Associazione Fuori Contesto. Per info sul progetto: Silvia Belleggia, Magic Pictures; belleggia@gmail.com)
Insomma, ero costretto dai fatti e, ora, sono consapevole che lo spazio è poco per affrontare un tema così vasto. Lo avvicinerò comunque, in due modi.
Intanto vorrei raccontarvi una vicenda apparentemente banale, ma che, ripensata dopo tanti anni, ha forse rappresentato lo stimolo originario dal quale sono partito per scrivere fiabe e libri che parlassero di disabilità e diverse abilità.
La prima volta che mi hanno raccontato la favola di Biancaneve, giocai al toto-nano: volevo indovinare quale dei sette nani l’avrebbe sposata! Ma le mie attese sono state deluse dall’arrivo del bel principe azzurro: era come se Biancaneve venisse salvata da una situazione “sbagliata”, “non perfetta”, ovvero dalla convivenza con l’inferiorità, rappresentata dai nani, per poi tornare a una situazione di normalità. Questo ha fatto sì che il principe mi risultasse sempre particolarmente antipatico, ingrato e superficiale, insomma, il prototipo del “normo-dotato grave”. Così, da scrittore, mi sono impegnato a smontare questo mito della normalità e la rigidità con la quale così facilmente dividiamo il mondo in categorie troppo definite: l’ho fatto attraverso racconti semi-realistici (quelli della mia vita…), racconti di finzione, articoli…
In secondo luogo, ricollegandomi qui all’incipiente laboratorio di scrittura di Roma cui accennavo sopra, vorrei fare un cenno ad un aspetto che mi sta molto a cuore e che nel mio gruppo di lavoro abbiamo sperimentato con successo, ovvero quello di considerare l’aspetto biografico del singolo individuo come elemento narrativo che si può aggiungere ad una narrazione di finzione e fantastica, così rafforzandola. Nell’incontro con una persona c’è sempre l’incontro con il suo passato e vissuto personale, che ci comunicano la sua storia. Ovvero le sue storie personali ed inter-personali che fanno del protagonista un racconto di unicità e coralità ad un tempo.
Lo strumento narrativo-biografico è particolarmente potente proprio quando riesce a coniugare l’esposizione del proprio mondo interiore con la volontà di mettersi in comunicazione con il mondo esterno, rendendo visibile l’identità della persona, con tutti i rischi e le difficoltà che il “mettersi in piazza” può comportare. Questa è un tipo di visibilità ben diversa da quella mediatica: tanto quest’ultima recide i legami con il contesto per vivere di vita propria e si impone come protagonismo assoluto, quanto l’altra si alimenta di connessioni silenziose, di percorsi più sotterranei che arrivano in superficie dopo aver subito un profondo lavorio interiore.
La lettrice che mi proponeva un articolo sulla scrittura, aggiungeva nella sua lettera: “scrivere” è la migliore medicina…tira fuori la parte migliore di noi….se noti nessuno ha più voglia di scrivere….(nemmeno i propri sentimenti…)”. Se avete voglia di smentirla e di farmi conoscere quale è il vostro rapporto con la scrittura o i vostri risultati, rispondete come sempre a claudio@accaparlante.it o cercate il mio profilo su Facebook.

Claudio Imprudente
 

Ciao Uomo in Rosa – Superabile, febbraio 2009 – 2

Mi piacerebbe ricordare un particolare essenziale del primo incontro avuto con Candido Cannavò. Lui era venuto a Bologna per farmi un’intervista che doveva utilizzare per il suo libro “E li chiamano disabili”. Pensavo che si sarebbe trattato di un’occasione piuttosto formale, in cui difficilmente si sarebbe andati oltre l’impegno professionale e il distacco che questo, il più delle volte, richiede e che si sarebbe congedato appena finito di pormi le domande essenziali, quelle per cui si era scomodato.
L’intervista terminò verso l’ora di pranzo, ed io, così, tanto per dire, gli chiesi che intenzioni avesse, se voleva unirsi a noi. Mi rispose che dava per scontato che avrebbe condiviso quel momento con me e gli altri colleghi del Centro Documentazione Handicap di Bologna.
Questo per dire che, pur potendolo fare, non si è accontentato di una relazione fugace e fredda, ma ha cercato di “andare oltre”, di non restare all’interno del ruolo di personaggio famoso o di giornalista, di mettersi in gioco e di “sporcarsi le mani”… e, a pranzo con me, vi assicuro che questa espressione vive in tutta la sua concretezza.
A pranzo abbiamo parlato di tutto, evadendo i confini dei rispettivi ruoli ed incarichi di giornata. In particolare abbiamo discusso di calcio, entrambi in qualità di esperti e appassionati. Il cameriere, riconosciutolo, si è avvicinato chiedendo un autografo; lui, tranquillo, ha lasciato dedica e firma e poi si è rimesso a chiacchierare. La notorietà, evidentemente, era una parentesi all’interno del resto, e non il contrario.
Alla fine ha pagato lui…
Ciao “uomo in rosa”.

Claudio Imprudente
 

Sportabile: informazione, gioco, creatività – Superabile, febbraio 2009 – 1

Da qualche anno a questa parte, seppur scontando una condizione di invisibilità televisiva pressoché totale, le paralimpiadi sono un evento piuttosto conosciuto.
Il caso di Oscar Pistorius, controverso e sul quale non voglio soffermarmi, ha, suo malgrado, contribuito ad allargare il numero di persone consapevoli dell’esistenza di questa manifestazione, che da ormai più di trent’anni si svolge appena terminano le competizioni olimpiche “riservate” agli atleti normodotati, nel medesimo paese che le ospita.
Questa è ovviamente la parte più visibile, la punta dell’iceberg di un fenomeno ben più ampio, e in un certo senso ben più interessante.
Ma cosa c’è sotto? Potremmo dire che è questa la domanda che ha spinto il Centro Documentazione Handicap di Bologna, la Coop. Accaparlante e l’azienda Coloplast a lavorare alla realizzazione di una guida allo sport per tutti, ovvero a tentare di scoprire e descrivere sinteticamente proprio quel “sotto” di cui parlavamo. Il risultato è la guida “Sportabile”, che potrete richiedere gratuitamente a questi recapiti: Coloplast numero verde: 800/018537;
chiam@coloplast.it
Credo che per costruire una logica ed una pratica di “sport per tutti” sia necessario conoscere quali risorse sono disponibili sul territorio; quali enti si occupano di facilitare l’accesso diffuso alla pratica sportiva; quali associazioni, polisportive, società sono attive; quali discipline possono essere praticate e, da ultimo, quali sono le regole che caratterizzano quelle discipline. L’integrazione sempre di più passa per una corretta informazione e per un accesso facile ad essa.
La guida assume un’idea di sport ampia, nel senso che l’attività sportiva viene intesa non solo come pratica agonistica, ma come momento di socializzazione, di svago, di riabilitazione e di terapia. Aspetti che solo in parte coincidono nelle attività sportive cd. adattate.
Come specificato nella quarta di copertina della guida, “se è vero che il desiderio di esercitare un’attività fisica può essere scoraggiato dalla presenza di un deficit, è importante sapere che quest’utlimo incide solo nella scelta dello sport, ma non certo sull’opportunità di farlo”.
Per scegliere, come dicevamo, è imprescindibile una corretta informazione: per questo il volume cerca di fornire un quadro d’insieme del panorama e dell’ “offerta” in Italia, tenendo conto che a volte i percorsi d’accesso non sono ben codificati e conosciuti.
Ad una parte introduttiva che introduce alla storia istituzionale dello sport per disabili e delinea un’idea di attività fisica accogliente e svincolata dalle regole cui siamo abituati (si tratta solo di inventarne ed accettarne di altre…), seguono le descrizioni di dieci sport, per i quali vengono fornite schede tecniche, testimonianze di tecnici e atleti praticanti e tutti i recapiti e i riferimenti utili per accedere agevolmente alle informazioni necessarie ad intraprendere quella disciplina.
La guida riporta inoltre il contributo scientifico di Davide Villa, responsabile, all’interno dell’Ospedale di Montecatone, dell’attività di RGS (Riabilitazione tramite Gesto Sportivo).
La guida, quindi, è un ottimo strumento per informare e, cosa più importante, è un ottimo strumento per invogliare a fare sport, anzi…sportabile.
Scrivetemi delle vostra gesta sportive a claudio@accaparlante.it o sulla mia pagina di Facebook.

Claudio Imprudente

 

“Lo Zì” è di tutti. Tutti sono “Lo Zì” – Superabile, gennaio 2009 – 2

Qualche giorno fa mi trovavo in Puglia per vari incontri con cittadini e studenti…ma questo non è il resoconto del viaggio, perché inizia proprio dalla fine della mia trasferta.
Inizia nel momento del congedo dagli insegnanti della classe che mi aveva ospitato.
Si avvicina a me una maestra, estrae dal taschino della sua giacca un foglietto, davvero piccolo, grigio e spiegazzato, scritto a mano con tratto veloce, come se le fosse venuta in mente una cosa importante all’ultimo momento, e non potesse rinunciare a riferirmela in qualche modo.
Mi lascia il bigliettino e: “Claudio, vedi se puoi contattarlo…secondo me è uno che la pensa un po’ come te…”, senza aggiungere altro.
Nel foglietto infatti erano riportati solamente un indirizzo di posta elettronica, un nome puntato, un cognome e l’indirizzo di un sito web: www.lozi.com .
Criptico, quindi interessante. Cosa si nascondeva dietro questo nome così “inaccessibile”?
Si nascondeva, e si nasconde tutt’ora, uno spettacolo teatrale un po’ particolare, e insieme allo spettacolo si nasconde la persona che lo ha ideato, scritto e, infine, messo in scena. Tutto da solo? Sì, ma a ben vedere non proprio.
Infatti Mimmo Mancini, questo il nome dell’attore\regista, si vede bene dall’attribuirsi tutti i meriti dell’ispirazione e della realizzazione del suo spettacolo. Nelle note di presentazione, scrive:

“Lo Zì” è un monologo ispirato in parte ai miei ricordi di bambino. Ho uno zio completamente disabile, seduto su una sedia a rotelle da sempre.
Da piccolo, quando mi capitava di stare da mia nonna, m’incantavo nell’osservarlo; scriveva senza saper scrivere, sui suoi infiniti quaderni. In famiglia la sua strana grafia simile ad un elettrocardiogramma la chiamavano :le cip e ciapp de “Lo Zì”. (…) La sua faccia così serena, con la mente forse molto lontana dalla stanza in cui si trovava. Questa era la sensazione che avvertivo solo quando scriveva.(…) Oggi penso che il suo disperato bisogno di scrivere sia stato il modo per urlare, in silenzio, al mondo intero il suo naturale bisogno di comunicare.
Questo lavoro è un atto d’ amore nei suoi confronti e nei confronti di chiunque (…) ha bisogno di comunicare, di urlare, non solo in silenzio, i bisogni dell’anima. (…)
“Lo Zì“ dà voce a tutte quelle forme di disagio, di vergogna che destabilizzano le menti di molta gente. (…)
“Lo Zì” vuole urlare al mondo: accettatemi per quello che sono “strepiato” o sano, ma così come sono. (…) “Lo Zì” è in ognuno di noi. Il personaggio di ”Vittorio” vive finalmente quando diventa “Lo Zì”, trova il coraggio di essere, finalmente (…)”.

Mi è subito balzato alla mente un articolo che avevo scritto qualche tempo fa, nel quale ragionavo sulle “prime volte”, come esperienze indimenticabili e, in alcuni casi, in grado di metterci in discussione, di far vacillare le nostre certezze e di farci crescere. Concludevo chiedendo ai lettori di riferirmi la ‘prima volta” in cui avessero conosciuto una persona con disabilità…le risposte, numerose, costruivano un quadro davvero variopinto, fatto di difficoltà, imbarazzi, gioie, fratture…
La “prima volta che non si scorda mai” di Mimmo Mancini ha ispirato, a distanza di anni, la realizzazione di un oggetto artistico. Il suo incontro con la disabilità ha continuato a lavorare a lungo, anche inconsciamente, finché il regista non l’ha ripreso in mano, trovando nella sua esperienza personale le ragioni per un discorso più ampio e coinvolgente.
Da un ricordo piacevole è scaturita una riflessione problematica, politica e pubblica. L’esperienza personale si è trasformata in esperienza sociale. Fantastico!
Perché non tramutate la vostra prima volta in un testo teatrale? Perché non lo spedite a claudio@accaparlante.it o al mio profilo su Facebook ?

Claudio Imprudente
 

Scuola: divieto di inversione a “U” – Superabile, gennaio 2009 – 1

Il dibattito sulla riforma scolastica è ormai da tempo avviato, e sono tante ed autorevoli le voci che hanno espresso opinioni a riguardo, per lo più critiche. Mi è capitato sotto mano, con qualche giorno di ritardo, un bell’articolo di Michele Serra (La Repubblica, 24 settembre 2008), che affrontava il tema, allargandolo ad ogni aspetto della vita culturale, dal punto di vista della “complessità – semplicità”, intesi come modi alternativi di avvicinarsi al mondo e tentarne interpretazioni e rielaborazioni. Il discorso, riferito alla riforma scolastica, in particolare alla reintroduzione del maestro unico, e al di là di questioni strettamente politico-partitiche, regge benissimo e fa emergere spunti piuttosto interessanti.
Serra sostiene che la complessità viene ormai intesa come un lusso che la società, e quindi la scuola, che di essa è parte e spesso specchio, non può più permettersi.
L’editoriale, ovviamente, si articola in modo più compiuto, ma a me interessa integrare alcune riflessioni del giornalista riguardo all’auspicata, da molti, semplicità o semplificabilità del mondo.
Ci sarebbe tanto da dire, questi però mi sembrano aspetti particolarmente paradossali:
– retrocedere ad una visione semplicistica proprio mentre abbiamo a disposizione tutti gli strumenti, anche tecnici, per allargare i nostri orizzonti; e proprio mentre questo allargamento avviene anche a prescindere dalla nostra volontà: è, cioè, un dato di fatto;
– abbracciare un pensiero “semplice” proprio quando l’eterogeneità delle persone, delle loro origini e delle loro culture diventa un elemento vivo e caratterizzante la nostra società;
– fare passi indietro nel riconoscimento dell’inevitabile e irriducibile varietà delle cose dopo che per anni in tanti hanno lavorato perché questo riconoscimento diventasse un sentire diffuso…

Avete presente i segnali di inversione a “U”? Sembra che ci si chieda di intraprendere un cammino di verso contrario rispetto a quello percorso da tanto tempo. Non abbiamo fatto in tempo a ricordare i trent’anni della legge sull’integrazione scolastica; ricorrono i trent’anni della c.d. legge Basaglia…due momenti importanti, per quanto solo aurorali, di un cammino volto anche a mostrare la bellezza delle “cose complicate” e la necessità del complicare per “umanizzare”.
Questo movimento teso al riconoscimento delle differenze, all’integrazione delle diversità, alla complicazione del concetto – contenitore di “umano” non si poteva, non si può realizzare, se alla base c’è un pensiero che semplifica, restringe il campo delle possibilità. Semplificare esclude, tendenzialmente. La semplificazione precede e provoca una perdita.
Non solo, allora, come scrive Serra, gli “strumenti critici (…) rischiano di diventare insopportabili impicci”, ma le persone e le situazioni che creano criticità (e crescita) rischiano di diventarlo.
E’ molto rischioso mettere la scuola nelle condizioni di non poter affrontare questo nodi nella sua proposta educativa, costringendola a ridurre l’insegnamento a trasmissione di nozioni acritica. Proprio perché l’istituzione scolastica sarebbe il primo luogo in cui dovrebbero essere affrontati e discussi.
Mi farebbe piacere che il mio articolo diventasse uno stimolo a segnalarmi tutti i segnali di inversione a “U” che avete già incontrato o, che a vostro avviso, si profilano all’orizzonte. Scrivetemi a claudio@accaparlante.it o cercate il mio profilo su Facebook.

Claudio Imprudente
 

Una sfida per la Chiesa – Il Messaggero di Sant’Antonio, marzo 2010

Nel numero di luglio/agosto del 2009 avevamo affrontato un argomento che mi sta molto a cuore, ovvero il rapporto tra Chiesa e disabilità. In quell’articolo ragionavo sul fatto che, pur essendosi occupata per prima dei disabili e pur avendone riconosciuto presto lo statuto di esseri umani, la Chiesa ha contribuito a creare e rafforzare degli stereotipi, faticando a immaginare la persona disabile come soggetto attivo, credente pieno e restituendo, quindi, anche all’esterno tale rappresentazione. Ripercorrendo quell’articolo, sottolineavo come fossero caratteristiche di quel tipo di rappresentazione l’identificazione tra disabilità e malattia, sofferenza, debolezza e assistenza. E, ancora, l’idea che un normodotato e una persona disabile «rispondano» a progetti divini diversi, per cui la seconda avrebbe una via d’accesso preferenziale alla redenzione e sarebbe per natura già più vicina alla figura di Gesù Cristo. Riassumendo, la Chiesa ha avuto difficoltà a immaginare la persona disabile come credente pieno.
Scrivevo già al tempo che le cose sembravano prendere una piega diversa. È di qualche mese fa la notizia che l’Ufficio nazionale per la pastorale della sanità della Cei ha promosso un Osservatorio permanente della disabilità e della riabilitazione, che fa capo all’Aris (Associazione religiosa istituti socio-sanitari). Scopo di questo nuovo osservatorio, come dice don Andrea Manto (direttore dell’Ufficio nazionale per la pastorale sanitaria della Cei), è «anzitutto quello di “contare i disabili”, per cogliere la portata di un fenomeno i cui dati non sono del tutto chiari e aggiornati». Inoltre, quello di «incentivare la medicina riabilitativa e le reti di relazioni per accrescere vicinanza e condivisione». Don Manto fa anche riferimento alla frammentazione dei dati e degli interventi sulla disabilità e alla necessità, in questo particolare segmento della medicina, di un approccio culturale nuovo per «fare sistema» da parte sia delle strutture ospedaliere e residenziali sia dei responsabili della programmazione e dell’erogazione dei servizi di cura sul territorio. «La disponibilità di informazioni corrette e aggiornate sulle persone con disabilità – prosegue il sacerdote – è presupposto essenziale per un accompagnamento pastorale adeguato e per una pianificazione di strategie d’intervento che favoriscano la loro piena partecipazione allo sviluppo sociale, la tutela dei loro diritti e della loro dignità e la promozione di pari opportunità di accesso a impiego, istruzione, informazione, beni e servizi».

È proprio quest’ultima affermazione di don Andrea quella che, a mio avviso, segnala un cambiamento significativo da parte delle istituzioni ecclesiastiche. Come si può capire, se l’attenzione agli aspetti clinici, medici e assistenziali non viene meno, si pone un accento forte anche su aspetti che definirei politico-istituzionali, etici, antropologici e pastorali. Così come si riconosce la centralità dell’informazione e della cultura quali supporti fondamentali del «fare» e, al tempo stesso, quali obiettivi privilegiati dell’azione. Alla base di questi sviluppi c’è anche una visione antropologica più ricca, complessa e meno deterministica della precedente, grazie alla quale sembrano farsi spazio un’idea e una rappresentazione più articolata della persona con disabilità. Le premesse sembrano buone, ora bisognerà seguire gli effettivi passi di questo nuovo strumento di cui la Chiesa ha deciso di dotarsi. E contribuire a indirizzarli, ricordando che la Chiesa si compone di tutte le persone e comunità che ne sono parte integrante e decisiva. Anch’esse sono chiamate a un cambiamento di paradigma. L’augurio è che si vivano queste aperture importanti della nostra Chiesa con responsabilità, ovvero con attenzione e partecipazione attiva. Attendo i vostri suggerimenti a don Manto: claudio@accaparlante.it.

 

 

Diversità, uguaglianza, giustizia – Il Messaggero di Sant’Antonio, febbraio 2010

Anni fa fece discutere la proposta (poi attuata, credo) di un ministro, il quale voleva sostituire o affiancare in ogni aula di giustizia la scritta «La legge è uguale per tutti» con una che recitava «La giustizia è amministrata in nome del popolo». Ma proviamo a soffermarci sulla frase cui siamo stati da sempre abituati, quella meno recente. È un monito che mi ha sempre turbato, e mi turba ancora: «La legge è uguale per tutti». Di per sé questa esortazione, all’interno di un tribunale, è, o dovrebbe essere, garanzia di pari trattamento per poveri e ricchi, potenti e indifesi, colpevoli e vittime, rei e innocenti. Come disse Lech Walesa, inoltre, «la legalità è il potere di chi è senza potere», quindi strumento democratico per eccellenza, se esercitata a dovere.

Ma leggere così frequentemente quella frase mi spronava ad addentrarmi in un ragionamento che passasse dall’essenza della giustizia all’essenza di ciò che è giusto.

So che le due cose non possono essere separate del tutto, ma vorrei spiegarvi come i miei pensieri ricadessero più sul campo attivo, propositivo della vita di ognuno di noi, quello che riguarda la possibilità di realizzare qualcosa, di fare ciò che più ci piace o ci riesce meglio. E, necessariamente, sulle condizioni «minime» perché questo possa accadere. Sentivo, quindi, il bisogno di ragionare su questioni quali l’uguaglianza, le opportunità e le diversità. Come si possono coniugare, tenere insieme uguaglianza e libertà? E uguaglianza e diversità? E diversità e opportunità?

L’errore più banale è considerare questi termini come oppositivi; ritenere cioè che sia necessario operare una scelta tra di essi, invece che approfondire i modi in cui queste singole istanze possano essere integrate tra loro, e quindi cooperare per un obiettivo condiviso. In quanto, e non credo di sbagliarmi, è come se questi termini contenessero già in sé il medesimo risultato e, in mano nostra, fossero gli strumenti per costruire e garantire le condizioni necessarie alla piena realizzazione di ciascuno. Ecco perché devono essere conservate e alimentate, non potendole mai considerare come date una volta per tutte. Sono dell’idea che se uno tra uguaglianza, opportunità e diversità soccombesse in nome degli altri, quegli stessi cambierebbero di segno, allontanandosi dal loro significato più vero. Ne andrebbe così della nostra capacità di progredire nella realizzazione di un sistema davvero democratico.

Ho il timore che negli ultimi anni si sia diffusa un’idea piuttosto minimale di democrazia, che non prevede l’esercizio della stessa se non come partecipazione elettorale e che si risolve nella delega, anche questa sempre più svuotata di senso (le liste elettorali, ad esempio, sono decise altrove). Essa invece è letteralmente il risultato delle nostre azioni e relazioni e del modo in cui le intendiamo; è nelle nostre mani, non funziona per meccanismi che si auto-riproducono e si mantengono sempre uguali. Siamo noi che determiniamo il suo funzionamento e le forme di questo funzionamento, l’equilibrio fra le varie istanze di cui parlavamo prima.

Il termine «democrazia» è ricco di tante sfumature delle quali è difficile dare un’unica definizione, ma, a mio avviso, può essere così sintetizzato: democrazia non è trattare tutti allo stesso modo, ma ognuno secondo le sue possibilità e abilità. Come vedete, i tre termini di partenza, ovvero diversità, opportunità e uguaglianza (nelle differenze), si ritrovano tutti in quest’unica «formula».

Scrivete se siete d’accordo con questa definizione o anche solo per raccontare dei «gesti» di democrazia, come sempre a claudio@accaparlante.it o cercando il mio profilo su Facebook.