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autore: Autore: Claudio Imprudente

Lettere al direttore

Ciao Claudio,
mi chiamo Luca e ci siamo conosciuti ieri sera, martedì 24 a Guastalla (RE)  in occasione della serata organizzata per il tuo intervento. Sono quello che hai invitato a provare la tabella all’inizio della serata per provare a tutti che poi la cosa tanto difficile non è: l’importante è
farla.
Non voglio comunque star qui a disquisire sulle cose di cui tra l’altro hai ampiamente parlato ieri sera e passo direttamente al motivo della mail che è di carattere tecnico/pratico. Probabilmente è una grossa cavolata o forse addirittura ci hai o ci hanno già pensato e non funziona, ma a me è venuto un pensiero.
Quando ho parlato direttamente con te tramite la tabella, mi è subito venuto in mente il T9 del telefonino. Se ci pensi, per comporre le parole tu guardi le 20 e passa lettere della tabella che corrispondono ad altrettante posizioni e la maggior parte delle volte non c’è bisogno che tu finisca di vedere l’intera parola perchè il tuo interlocutore, in base all’inizio della parola o al contesto della frase, la finisce in anticipo.
Quindi ho pensato:
1) facendo una tabella tipo la tastiera numerica del telefono avrebbe la metà dei tasti che comunque contengono tutte le lettere, quindi sarebbe più piccola e forse più facilmente raggiungibile anche da persone che hanno problemi di mobilità con gli arti;
2) utilizzando un sistema come il T9 del telefonino le parole e le frasi vengono automaticamente composte.
Il tutto andrebbe secondo me elettronicizzato (e penso che tu stia già pensando che così si perde il gusto di guardarsi negli occhi), ma comunque lascio a te e al tuo staff il compito di vagliare l’idea o semplicemente di cestinarla.
Un saluto speciale da un fiero juventino e felice papà di una meravigliosa bimba RETT.

Io un cellulare? E che modello potrei essere? Con la fotocamera o senza? Videofonino o uno di quei bei vecchi citofononi tascabili (si fa per dire) che quasi avevi bisogno dei gettoni per utilizzarli? Di sicuro voglio avere una soneria decente (magari “Voglio una vita spericolata” di Vasco Rossi) e mi piacerebbe essere predisposto di cover intercambiabile con colori sempre vari.
Veniamo ora alle proposte di Luca, tentiamo di analizzarle seriamente. Ha ragione lui, io ritengo che guardarsi negli occhi sia ancora importante, perché permette di rapportarsi a livello di comunicazione fisica e passionale con il mondo della disabilità. La forma più importante di comunicazione. Il contatto diretto (anche dello sguardo) è una via che secondo me può dare ancora molto. Ma questo non significa che io sia contro l’uso degli ausili tecnologici, tutt’altro. La mia campagna in questo direzione è costante, la tecnologia creata ad hoc per persone disabili permette alle scienze applicate di potenziare le loro ricerche per migliorare la qualità della vita di tutti.
Ma nel caso della tavoletta trasparente con su incise le lettere che uso per comunicare, penso che la  tecnologia vada incontro a poche esigenze reali. Un di più non richiesto. Certo se incontrassi una persona con difficoltà agli arti superiori, per lei sarebbe difficile reggere e leggere la mia tavoletta e parlare con me, ma a una persona come me non capita mai di essere sprovvisto di accompagnatore normodotato (non avrei bisogno di tavoletta, altrimenti). Inoltre, quando si parla di comunicazione verbale, credo che un’ottima conoscenza della lingua italiana sia necessaria, e, si sa, sistemi come il T9 spesso fomentano l’ignoranza. Affidarsi troppo alla tecnologia può essere rischioso quindi, anche perché non c’è bisogno di un database elettronico per sapere come finisce la parola. Quindi, senza cestinare l’idea di Luca, dico che fornisce i suoi spunti ma per avallare la mia posizione.
PS: Ho naturalmente volutamente ignorato la sua juventinità per riuscire a trovare la forza per rispondere.
Caro Claudio, ho letto con attenzione il tuo commento al pezzo su Pistorius che ho scritto per il Corriere della Sera. Sinceramente, condivido poco o nulla di quello che hai scritto. Non ho usato nessun tono trionfalistico. Ho solo scritto ciò che accade, ciò che mi ha detto Oscar (che conosco dalla Paralimpiade di Atene), ciò che conosco. Se Oscar va così forte allenandosi solo da un anno non è colpa mia. Perché ti fa male sentir parlare di un disabile che può ottenere risultati straordinari? Se fossero risultati normali, non avrebbe avuto uno spazio di tre quarti di pagina sul maggior quotidiano politico italiano. Fra l’altro, ti è sfuggita una parte non pubblicata sul sito, ma solo sul giornale, dove è spiegato che Gennaro Verni, uno dei maggiori esperti italiani di protesi, ritiene che nel giro al massimo di una decina d’anni, le gare di velocità degli amputati alla Paralimpiade saranno più veloci di quelle dell’Olimpiade. C’è trionfalismo nello  scrivere tutto ciò? Non credo. Solo constatazione di ciò che è e, forse, sarà. Faccio il giornalista, non il sociologo. E, da giornalista, ho seguito sul posto 5 edizioni della Paralimpiade oltre a svariati Mondiali ed Europei. Da Direttore di Tele+ ho dato vita al primo programma settimanale di sport per disabili. Attualmente collaboro, oltre che con Il corriere, con la Gazzetta dello Sport, con SportItalia e con Eurosport proprio riguardo a questo settore. Chiaro: non lo scrivo per vanto, ma solo per tua conoscenza. Ho sempre cercato di fare attenzione al linguaggio e, anche grazie a critiche come le tue, ci farò sempre più attenzione. Ma continuerò a fare il giornalista. E a raccontare storie che credo interessanti. Come quella di Oscar.
Con stima
Claudio Arrigoni

Questa e-mail ha aperto un brevissimo carteggio tra me e il giornalista del Corriere della Sera sul problema (solito) della comunicazione e la disabilità. Nello specifico, la comunicazione riguardo allo sport.
Al di là dell’articolo preso in esame da Arrigoni, la mia attenzione ora vuole concentrarsi proprio direttamente sul problema della comunicazione a riguardo della disabilità, non solo quella riferita al mondo dello sport, anche se questo micro-contenitore si presta sicuramente meglio ad analizzare la problematica.
La mia posizione a riguardo è nota, forse anche troppo. Sono da sempre convinto che il mondo dei media gioca un ruolo fondamentale per la diffusione di un messaggio “corretto” e normalizzante sul mondo della disabilità. È necessario che la stampa (cartacea e non) inizi a prendere coscienza piena del fatto che parlare di disabili in termini straordinari, pietistici o drammatici (nel senso teatrale del termine) nuoce gravemente alla salute della nostra cultura. E non esistono istruzioni o avvertenze che tengano.
Quante volte abbiamo assistito a servizi giornalistici con punte drammatiche degne del miglior cinema hollywoodiano anni ‘50? Quanti amori, tragedie o imprese miracolose ci hanno mostrato? Assistendo a questi nuovi spettacoli mi rendo conto di come cambiano le cose in trent’anni. Sentire parlare di disabilità negli anni ‘70 era pressoché impossibile, ora accede con una certa frequenza, ed esistono anche testate appositamente dedicate all’argomento. Ma i toni ancora non sono quelli più funzionali. È noto, il linguaggio che preferisco è quello ironico, sarcastico, tagliente. Può dare un’immagine più viva e gioiosa delle persone disabili. Ma se non si percorre questa strada, credo che a questo punto sia più conveniente quella della comunicazione asciutta, informativa, senza giudizi o accenti particolari.
Prendendo in esame il mondo dello sport, ad esempio, spesso è solo la forza, l’impresa eroica a uscire fuori (come nel caso dell’articolo di Arrigono, a mio avviso). Ma lo sport non è solo un canale di agonismo esasperato, ma uno dei più utili strumenti di integrazione che abbiamo a disposizione. Molti atleti disabili non risultano in imprese particolari perché semplicemente non hanno interesse ad apparire. La loro vuole essere semplicemente una vita normale, come quelli di qualsiasi normodotato. Nello sport come nella vita.
Vedere i media parlare di disabilità è sempre una conquista, ma se i toni rimarranno sempre quelli del dramma (tragico o eroico) allora ho paura che dovrò ritenermi soddisfatto quando la disabilità non farà più notizia.
Scherzo, naturalmente…

Lettere al direttore

Diversamente dalle altre uscite, per questo numero di HP-Accaparlante sento la necessità di fare una piccola premessa alla rubrica. Entrambe le e-mail riportate, infatti, fanno riferimento a un mio recente articolo intitolato E se i bambini non fanno “OH!”?  In poche battute ho tentato di dare nuovo senso alla H, lettera muta che troppo spesso rappresenta solo handicap e sofferenza. Al solito, per quanto mi è possibile, ho usato quell’ironia che contraddistingue spesso il mio lavoro. Magari utilizzando uno sguardo di un bambino.

Caro Claudio,
ho letto con molto interesse l’articolo che mi hai inviato, condividendo pienamente il tuo punto di vista e restando sempre ammirato di come tu viva la tua condizione come una splendida occasione d’incontro con altre persone e degli altri alla tua presenza tra loro.
Il modo come tu parlavi dell’autoironia mi rimanda alla memoria il ricordo della mia professoressa di italiano al liceo, secondo la quale il grado di intelligenza di una persona e la sua capacità relazionale nella vita adulta si misurano non dal bagaglio di nozioni apprese ed esibite, ma dal grado di autoironia. E da questo punto di vista tu sei senz’altro nella “top ten” dei genialoidi tra quanti abbia conosciuto nella mia vita.
Continuo a parlare della gioia del nostro incontro ad altri amici, qui a Catania come al mio paesello, dai quali ti arrivano molti saluti e un intenso incoraggiamento (insieme al mio, se vale qualcosa) a proseguire sulla strada intrapresa. A uno poi dal sito web ho fatto sentire la tua canzone e gli è molto piaciuta.
Ora ti lascio: devo andare a dare una ripetizione di latino e tra un quarto d’ora devo essere a casa del ragazzino che assisto.
Ti lascio con un fortissimo abbraccio dalla lontana Sicilia.
Angelo

Una canzone di Max Gazzè dice “L’intelligenza sta […] dove c’è il bisogno reale di mettersi a fare un po’ di autoironia” (Autoironia, da La Favola di Adamo ed Eva). Frase che calca la scia della professoressa di Italiano di Angelo.
Sull’autoironia mi sono espresso a più riprese. Sono un suo fan sfegatato, il primo tifoso. Ma mai, nella mia umile vita, avrei creduto di poter rientrare nella “top ten” dell’autoironia. Non mi reggo in piedi dall’emozione, mi tremano le ruote e i ruotini… Cibo per il mio ego.
L’idea che nell’autoironia sia riscontrabile il livello di intelligenza di una persona mi trova, quindi, pienamente d’accordo. Ma bisogna secondo me chiarire le sue modalità di utilizzo, perché l’autoironia non è un semplice punto di vista sulla vita, ma uno strumento con cui affrontare le sfide/sfighe della vita. C’è chi spesso, allora, ricorre all’autoironia (o anche solo all’ironia) per nascondersi un po’, usandola come schermo protettivo per sfuggire dalle proprie responsabilità. Una facile via di fuga per scappare dalle scelte. Un utilizzo spesso diffuso, magari anche comprensibile, ma che va evitato. L’autoironia è e deve essere lo strumento principe per ribaltare le situazioni difficili, per mettere in crisi il sistema scardinandone meccanismi e mal funzionamenti, scoprendone i limiti e le pecche. Anche se Angelo dice che servo da esempio, il discorso vale per tutti, non solo per chi si trova come me in condizioni “particolari”.

Carissimo Claudio, al di là del fatto che il tuo articolo sia il Reportage di un accaduto o il frutto maturo di una brillante fantasia, in effetti, nei bambini (facciano o non facciano “Oh” poco importa) non esistono tutte quelle remore che, invece, grazie alla loro duttilità – che però è anche fragilità – di pensiero, imparano anche fin troppo presto da noi adulti.
Ritengo, per altro, che oggi molte persone affette da disfunzione che creano svantaggi (come vedi continuo accuratamente a non parlare di “diversabilità”) sono più aperte e in grado di mettere più a proprio agio gli interlocutori cui si rivolgono.
Credo fermamente, dunque, che le nostre Realtà associative, che hanno soltanto la pretesa di acquisire e far acquisire dignità e cittadinanza, abbiano contribuito e possano continuare a contribuire non poco all’affermarsi di una più consolidata ed effettiva integrazione sociale.
Silvano Pasquini

Il punto di vista dei bambini, quello disincantato, quello libero dalle scorze della nostra società. Uno sguardo divertito, magari col broncio, oppure vitale. Uno sguardo sempre alla scoperta di tutto, che vede tutto grande e meraviglioso. Solo un bimbo dal suo “paese delle meraviglie” poteva farmi notare le bellezze di una lettera come la H, associandola non a un ospedale, non all’handicap, ma a un elicottero. Proprio quell’elicottero che un bimbo indica con stupore al padre guardandolo attraversare il cielo mentre disegna con un volo basso la cresta delle onde del mare.
Come dice Silvano giustamente, la loro duttilità arriva là dove non arriva il nostro pensiero ormai fin troppo codificato. Non so se lo stesso discorso possa essere valido effettivamente per “persone affette da disfunzione che creano svantaggi”. O meglio, non so se la nostra società sia pronta ad ammetterlo. Io promuovo da tempo l’idea che la diversità di uno svantaggio può ribaltarsi in risorsa per tutti. Magari allora sarebbe ancora meglio con uno sguardo stupito ed entusiasta di un bambino, senza paure e senza remore.

Lettere al direttore

Caro Claudio,
mi permetto di darti del Tu visto che siamo quasi coetanei, nonostante io sia una persona gravemente normodotata,.
Spinto dalle vicende di mia figlia Michela di 11 anni affetta da paraparesi e disturbo generalizzato dello sviluppo, mi sono avvicinato al mondo dei diversamente abili, fino ad allora per me sconosciuto. Ne sono rimasto intrappolato. Sono cosi incappato nella tua produzione letteraria: sono abbonato a HP-Accaparlante, ho letto diversi tuoi articoli e libri: in particolare Il principe del lago che l’altra mia figlia, Chiara, ha letteralmente divorato, e Una vita imprudente.
Ti scrivo per invitarti formalmente  a essere protagonista di un incontro, il cui titolo provvisorio e modificabile potrebbe essere “la disabilità come valore”, che si svolgerebbe al Policlinico A. Gemelli di Roma, Università Cattolica del Sacro Cuore. Questo incontro si dovrebbe svolgere nell’ambito dei “I mercoledì della Cattolica.” in cui vengono invitati a parlare personaggi che per il loro impegno politico, letterario, filosofico, missionario, lavorativo si ritiene possano trasmettere valori.
Penso che Tu potresti fare molto per un auditorio composto da persone, molto, molto gravemente normodotate (studenti di medicina, medici, infermieri, ricercatori e professori universitari): un incontro con Te potrebbe essere soprattutto per gli studenti di medicina, molto formativo e aiutarli a guardare il mondo e le persone con un’altra prospettiva, soprattutto per quanto riguarda la disabilità o la diversabilità: non una prospettiva pietistico-assistenziale o di patologia, ma come “una miniera”. In definitiva potresti contribuire a creare dei medici migliori.
Spero che questo compito ti possa invogliare ad affrontare un auditorio così pesante.
Gli incontri avvengono il mercoledì intorno alle 13 e hanno la durata di circa un ora. La data la puoi scegliere Tu.
Per rendere il tuo viaggio a Roma più produttivo e se puoi fermarti qualche giorno, posso organizzare  altri due incontri con disabili, scuole Associazioni, ecc.
Le spese del viaggio e del soggiorno sarebbero a carico dell’associazione di cui faccio parte: Il sogno, Associazione genitori persone disabili (scusaci per il nome ma è stato scelto prima di conoscerti). Ti promettiamo ristoranti con perlomeno 3 bavaglini (non bagnati) e spaghetti alle vongole.
Spero di poterti conoscere e che tu soprattutto venga ad illuminare menti offuscate.
Un caro saluto

Nicola Panocchia
n.panocchia@virgilio.it
nicola.panocchia@rm.unicatt.it

È stato davvero un onore per il sottoscritto ricevere e leggere una lettera del genere. Un invito dalla Sapienza per un intervento al Policlinico Gemelli è a dir poco gratificante. Non subito, però, sono riuscito a cogliere l’importanza di questa e-mail. E non perché non fosse chiaro il contenuto, o perché fossi stupido io, ma per colpa di una strana deformazione che la mia mente ha ormai assunto e da cui difficilmente si libererà. Forse ai miei aficionados questa mia “anomalia” non risulterà nuova:  spesso mi capita, infatti, di venire invaso da immagini collegate a qualcosa che leggo e guardo in giro, come in questo caso, con la mia immaginazione che subito da “Policlinico Gemelli” mi ha proiettato in una puntata del telefilm E.R. – Medici in prima linea. Proprio durante la mia conferenza scatta un’emergenza improvvisa e i dottori devono scappare dietro George Clooney e Eric La Salle indossando rapidamente i guanti tutti di corsa verso il pronto soccorso e gridando “Presto, una flebo! Il defibrillatore!” e io che nel trambusto generale vengo travolto e finisco in rianimazione e con la lavagnetta dico “Elle-i-bi-e-erre-a, libera!”. Poi mi ridesto e mi accorgo che al Gemelli non è successo niente di tutto ciò e che anzi ci devo ancora andare. Anzi, ringrazio davvero per l’opportunità che mi è stata offerta: credo che per i dottori sia stata un’importante occasione di formazione al tema della diversabilità e sul suo “valore” per la nostra società.

Carissimo Claudio,
(o devo rivolgermi a te con più rispetto, tipo dottor.. .professor.. .giornalista.. .scrittore… ecc…? MAMMA MIA QUANTE "COSE” SEI!!!!!!!!!!!).
Sono Isabella Roda, sorella di Milly, ci hai conosciute a Misano TANTI (ahimè!) anni fa…
Come stai? Sempre alla grande, immagino.
Perché ti scrivo? Per chiacchierare!!!!!!!!!!!!
Dunque: qualche sera fa ero in una libreria di via Degli Orti, Ulisse, che chiude alle 21 e quindi ti invoglia a curiosare (e infatti ci vado spesso).
Mi capita tra le mani "E li chiamano disabili!”; sfoglio, poi realizzo e cerco TE, il ragazzino Claudio, con la deliziosa dolce mamma Rosanna, e ti trovo! Lì, seduta stante, leggo due capitoli.
Torno a casa, telefono a papà (lo ricordi il nostro papà Corrado?), gli racconto il mio incontro con te – inconsapevole! – e mi vien voglia di "leggerti” (sto facendo una faticaccia a scriverti con questi mezzi moderni!).
Capito in piazza Re Enzo e mi viene la curiosità di cercarti in Sala Borsa: CI SEI!
E così adesso sei… a casa mia.
Oggi, come tante domeniche, erano a pranzo qui il mio papà – (86 anni) e mia suocera (95) e ho fatto vedere il libro, sulla cui copertina campeggi col tuo sorriso: papà ti guardava con sincero affetto, mia suocera purtroppo no perché è quasi cieca.
Sfogliando il tuo "Una vita Imprudente", ci siamo sinceramente dispiaciuti per la tua mamma, che tra l’altro ci aveva dato lezioni di matematica, sempre con la sua dolcezza che però era anche fermezza.
E poi ho letto a mia suocera il capitolo scritto da Stefano Toschi, che è suo nipote perchè figlio di sua cognata Laura, infatti mio marito si chiama Toschi. Vedrai che ne parlerà con la Margherita e con la Laura.

Adesso ti saluto anche da parte di papà e della Milly e ti abbraccio.
Ciao ciao ciao
Isabella

Ho scelto di rispondere a questa lettera  perché vorrei smitizzare un’immagine che spesso mi viene attribuita: l’onnipresenza, che viene usata a volte quasi come un’offesa (non in questo caso, è ovvio). Cara Isabella, è vero che sono in libreria, che sono sui giornali e che a volte mi vedi in televisione, ma sono soltanto ologrammi creati da un gruppo di persone che hanno fiducia nelle mie potenzialità. Il lavoro che porto avanti non è mai semplicemente il prodotto del singolo Claudio Imprudente, ma quello di un’intera squadra che mi aiuta, mi stimola, mi invoglia ad andare avanti, mi arricchisce. Siamo tutti ologrammi di un lavoro concentrato sulla pretenziosa idea di poter dar vita a una svolta culturale dell’idea di disabilità nella storia del nostro Paese.
Sai, non pensavo che mi sarei mai potuto trovare a fare anche l’ologramma nella vita. Però pensandoci bene è divertente e mi ricorda la mia infanzia quando amavo giocare con le figurine olografiche con quei mostri che si muovevano grazie a fenomeni di catarifrangenza. Ne ricordo in particolare una con un drago verde pisello che apriva la bocca e sputava fuoco giallo. Chissà se, invece di un drago, tra vent’anni un bambino troverà una figurina con me che muovo gli occhi e indico le lettere su una microtavoletta: “Ciao bimbo, non avere paura del mostro cattivo”.

Lettere al direttore

Risponde Claudio Imprudente

Ciao, sono Alessia.
Sono una ragazza di 26 anni, abito a Bovolone in provincia di Verona.
Ho assistito un paio di volte qui nella bassa veronese a degli incontri organizzati dalla comunità Papa Giovanni XXIII dove eri ospite anche tu e dove ho potuto capire che grande uomo sei.
Ti ho rincontrato tra le pagine del libro di Candido Cannavò e fino alla fine il mio pensiero fisso era quello di poterti scrivere.
Sicuramente avrai tante cose da fare e probabilmente ignorerai la mia e-mail ma io ci provo lo stesso […].
Ti descrivo un po’ la mia vita giusto per farti capire chi sono.
Sono una semplice ragazza, faccio l’operaia in una fabbrica di mobili, lavoro che mi aiuta perché vivendo da sola ho dovuto adeguarmi a quello che c’era, anche se la mia passione è sempre stata il sociale […].
Dimenticavo sono anche innamorata… Della vita ovviamente!!!!!!! Per quel poco che conosco di te lasciatelo dire: sei una bella persona e aspetto davvero una tua risposta […].

Con immenso affetto ti ringrazio

Alessia

Cara Alessia, hai mai ascoltato Sergio Endrigo? Forse no, sei troppo giovane. La mia infanzia invece è stata segnata proprio dalla sua musica e appena sento parlare di mobili mi viene in mente una canzone in particolare, il cui testo sembrava una filastrocca e faceva più o meno così: “Per fare un tavolo, ci vuole il legno; per fare il legno, ci vuole l’albero…” e così via. Il testo era di Gianni Rodari, per l’esattezza. L’unica perplessità che mi è sempre rimasta è: perché per fare un tavolo ci vuole un fiore? Credo che ci sia un’attinenza tra il lavoro che svolgi in fabbrica e la tua passione per l’universo del sociale. In fondo una fabbrica di mobili, per quanto oggi il lavoro sia in gran parte meccanizzato, mette in gioco la creatività e la pazienza… quella richiesta affinché tutti i pezzi combacino alla perfezione. E soprattutto bisogna riuscire ad andare oltre il mobile per scoprire la sua identità e la sua funzione. Un mobile infatti può servire per custodire documenti importanti o semplicemente per riporre gli indumenti. Io per esempio ho un vero e proprio scrigno dove nascondo tutti i miei segreti.
Anche chi lavora nel sociale ha bisogno di creatività e pazienza, anzi, sono due elementi fondamentali. Soprattutto, chi opera nel sociale deve necessariamente assumere uno sguardo che vada oltre i problemi contingenti per concentrarsi sugli orizzonti che si possono aprire. È un paragone affascinante, non trovi? Sarebbe carino se esistesse una filastrocca così: “Per fare un educatore ci vuole un calamaio… per fare un calamaio ci vuole l’inchiostro…”. E per fare l’inchiostro che ci vuole? Ci vuole la voglia di sporcarsi!
Buona macchia a tutti!

 

 

 

Ciao da una ragazza ItaloArgentina. Me hanno parlato un sacco di te… mi sono incuriosita e sono stata a girare su internet per trovare qualcosa che mi parle di te!! Sei stato l’altro giorno al Portico (Padova) ho una coppia di amici (Rossella e Dario Galdiolo) che sono stati con te. Grazie per il modo in che fai conoscere alle persone il vero senso della INCAPACITA… lavoro nel campo della salute, sono una psicologa e veramente quegli che siamo chiamati NORMALI siamo i veri incapaci… di dare amore… di guarda con sincerita negli occhi… di aiutare a chi ha bisogno sensa scrupoli… di regalare un sorriso tan solo perche ci siamo trovati… perdiamo il tempo in litigare per cose stupide… si corre tra il soldi e il bissnes… sembra una garra contro il tempo… mannaggia… sarebbe tanto facile capire che il tempo è sempre l’ stesso e che siamo noi chi passiamo… si vive di corsa sempre in fretta… in nome dal amore si amassa, si pissa, si toglie… sembra che non essiste la pace su cuore… infatti, tu sai di questo… solo volevo ringraziarti che atraverso dal umore sai arrivare nel cuore delle gente e magari qualcuno possa fare un CLIK e fermarsi un momento a chiedersi cosa sta facendo della sua vita… ne sono sicura che le tue parole reusciranno a farllo… e uno solo al meno che possa imparare a vivere di altro modo, sensa invidia sensa odio, sensa paura … uno solo che possa trovare luce nel’anima e nello spirito amore la tua misione sara fatta con felicita… Grazie in nome mio, di Rossella e Dario e di tutti noi che siamo UGUALI A TE!!!! Un abbraccio forte forte da stringere l’anima sensa distanze… da qui… da Buenos Aires!!! a presto……. Ciao

Silvina A. Gramaglia

Cara Silvina, ho sempre desiderato ricevere una lettera dall’Argentina! L’Argentina mi fa subito venire in mente una persona che ha segnato la storia del calcio: ovviamente parlo del “pibe de oro”, da me definito anche “la trinità del calcio”, Diego Armando Maradona. Ma al di là delle mie memorie calcistiche, nella tua lettera mi ha colpito in particolare la frase “siamo uguali a te”, perché è esattamente quello che ho detto durante un mio ultimo convegno in Sardegna. Ti racconto com’è andata: la sera prima della partenza ero ospite da una mia amica per fare quattro chiacchiere. Dopo innumerevoli bicchieri di limoncello, a un certo punto le ho detto: “Io e te siamo vagamente uguali”. Da quel momento per tutta la serata abbiamo continuato a giocare sul significato di quella espressione. Il giorno dopo ho preso il mio aereo Bologna-Olbia-Cagliari, e durante i vari convegni a cui ho partecipato ho utilizzato le riflessioni sul “vagamente uguali” che erano scaturite la sera precedente. E qui la sorpresa: subito la stampa si è appropriata dell’espressione, che è stata riportata in alcuni articoli sui giornali locali. Mai avrei pensato che dalla discussione di una serata tra amici potesse nascere un neologismo! Beh, ho già in mente lo “slogan” per il 2007: semplicemente diversi! Che ne pensi?
Un saluto a tutta l’Argentina e soprattutto a Diego Armando!

Lettere al direttore

Ciao Claudio,
sono una mamma di 24 anni di Poviglio di Reggio Emilia. Mi permetto di darti del tu perché avendo letto il tuo libro e avendoti visto a un convegno a Guastalla (RE) mi sembra già di conoscerti.
Come dicevo prima sono mamma di un bimbo splendido di quasi 4anni di nome Stefano. La sua nascita mi ha cambiato la vita sia in positivo che in negativo. È un bimbo sempre sorridente e non puoi non ridere e divertirti con lui. È una “sagoma”!
È curioso, testone… è luminoso!
Nonostante tutta la sua allegria, la sua vita è tutta una lotta.
È affetto da tetraparesi spastica distonica e da una epilessia lesionale che ci fa impazzire. È una corsa contro il tempo per prevenire ogni malattia che gli farebbe scattare una serie di crisi epilettiche per poi ripartire tutto da capo nell’aspetto motorio e cognitivo. Ogni movimento che vuole fare se lo suda e poi il più delle volte ci rinuncia perché è troppo difficile.
Ammiro e credo molto in tutto quello che fate. Siete grandi!
Ce ne vorrebbero tante al mondo di persone come voi del “Progetto Calamaio”.
Qui a Poviglio nessuno ci pensa a un percorso di sensibilizzazione sulla disabilità. Così noi genitori ci rimbocchiamo le maniche e facciamo tutto da soli per i nostri figli ed è una lotta continua con le scuole, con il Comune, con l’Usl…
Voglio ringraziarti tanto per quello che fai tu con i tuoi amici-colleghi.
Sai, quando siete venuti qui stavo passando un brutto periodo con il mio piccolo e avevo perso le speranze. Tu mi hai insegnato a credere in mio figlio e a non mollare mai. Ancora grazie.
Se doveste ritornare qui nel reggiano ti prego di farmelo sapere. Io e molti altri genitori verremmo molto volentieri.
Con affetto, Emanuela

Cara Emanuela, che dire della tua lettera? Intanto ti ringrazio per tutti i complimenti che mi hai rivolto e l’entusiasmo che dimostri nei confronti del lavoro del Calamaio. In fondo i complimenti sono come delle carezze. Ecco, il termine carezza è uno di quelli che fanno andare avanti il mondo, perché l’atto dell’accarezzare è una micro-dose di fiducia. Il tuo ruolo di madre di Stefano deve essere proprio quello di somministrare carezze, proprio come si fa con una medicina. Mi collego a un concetto caro alla pedagogia dei genitori e che il professor Riziero Zucchi sostiene da anni in tutta Italia, e non solo. Qual è il fulcro della pedagogia dei genitori? Ebbene, è quello che tu fai tutti i giorni con Stefano. Dato che sei la persona che sicuramente lo conosce meglio, sei anche in grado di aiutare le altre figure che gli gravitano intorno a relazionarsi con lui nel modo giusto, e questo crea un importante percorso di consapevolezza per Stefano. Ti sei mai chiesta chi conosce alla perfezione un campo di grano? Il contadino, che ha lavorato il campo per mesi sotto il sole, oppure l’agronomo che ha studiato a lungo sui libri? La risposta è: entrambi, perché il sapere del contadino deve integrarsi con quello dell’agronomo e viceversa. Solo così il campo può far crescere un buon grano. Allo stesso modo, il sapere di un genitore deve arricchirsi con quello medico, pedagogico e psicologico. Solo così il bambino può crescere in autostima e fiducia e affrontare la vita che l’aspetta.
Che dire… buona coltivazione del campo!

 

Ciao Claudio, sono Cristina di Ivrea e a distanza di tre mesi ti scrivo per raccontarti come si è conclusa la nostra esperienza in tenda. Abbiamo optato per dare a tutti i bambini la possibilità di poter dormire a scuola facendo scegliere alle famiglie e così… la scelta è stata per il sì totale.
Venerdì 19 maggio alle 20.00 tutti i bambini dell’ultimo anno scolastico si sono trovati a scuola con le insegnanti e dopo aver salutato i genitori è iniziata la loro avventura da grandi. Cena con pizza e gelato, giochi, discoteca, giro in notturna nel parco della scuola e infine tutti in pigiama ad ascoltare fiabe e racconti. Alle 24.00 tutti a nanna. Quella notte c’è stato un gran vento però le nostre tende erano ancorate benissimo.
È stata un’esperienza splendida sia per noi che per tutti i bambini: in una notte siamo cresciuti tutti insieme. Ne hanno parlato anche i giornali locali!
Ti saluto con affetto, Cristina

Cara Cristina, quando ho letto la tua frase “e infine tutti in pigiama” la mia mente si è precipitata indietro nel tempo a recuperare l’immagine di una vecchia pubblicità in bianco e nero (erano gli anni Settanta credo), la pubblicità della rete per il letto Ondaflex. Nello spot si vedevano due bambini, in pigiama, che venivano sorpresi dalla mamma a saltare sul letto. E partiva subito una canzoncina che faceva “bidibodibù bidibodighé”: mi entrò nelle orecchie allora e ancora mi frulla nella testa. Comunque io non ci credo che a mezzanotte eravate già tutti a letto! Mi immagino questa scena: a mezzanotte e due, come dice Celentano, tutti i bambini si mettono a saltare sui materassini, a piedi nudi e con i pigiami colorati. E per tutto il campeggio è risuonato il gingle “bidibodibù bidibodighé”…

Carissimo Claudio,
ti allego una breve narrazione di mio figlio Luca, stimolata da una recente visita a Gardaland insieme a suo fratello Andrea,  nel caso foste interessati a darne diffusione attraverso “HP-Accaparlante”:
Immaginate di trascorrere, dopo tanta attesa, una bella giornata nel parco divertimenti più grande del vostro paese e, dopo aver rotto le scatole a vostro fratello maggiore per tutta la mattinata e buona parte del pomeriggio insistendo per farvi portare sull’attrazione acquatica che preferite, di essere finalmente accontentati… Proprio in quel momento, vi trovate di fronte una bella signorina sorridente che vi guarda come foste una borsa troppo ingombrante per essere portata sulla giostra e poi chiarisce, dicendo che non potete salire perché ha visto che avete “gli occhi a mandorla”. Come vi sentireste? Delusi? Amareggiati? Incazzati? Beh, provate a chiederlo alla signorina sorridente come si sentirebbe lei e poi ne riparliamo.
Io questa storia l’ho vissuta in prima persona, ma non sono il bimbo con gli occhi a mandorla. Sono il fratello maggiore e mi chiamo Luca. La persona citata sopra è Andrea, bambino dodicenne con la sindrome di Down. Tanto per dire le cose come stanno il parco dei divertimenti di cui vi ho parlato è Gardaland e l’attrazione in questione è “Fuga da Atlantide” …Ma non pensate che sia l’unica sulla quale Andrea non è potuto salire, perché va accomunata al “Madhouse”, al “Colorado Boat”, al “Cinema 4D” e a tante altre. Il motivo è il seguente: i proprietari di questo bel parco hanno avuto la brillante idea di porre dei limiti per i bambini con handicap; in poche parole le persone con handicap mentale non possono usufruire di alcune attrazioni. Ma, secondo voi, un handicap mentale vale un altro? Andrea, per esempio, ha delle difficoltà di apprendimento e motorie, ma non avrebbe nessun problema a salire sulla giostra citata precedentemente, che consiste in un breve percorso nel quale sono inserite due piccole discese, a differenza magari di bambini con altri tipi di handicap. Però, per rendere tutto più semplice, è stato deciso di proibire determinate attrazioni a persone con problemi mentali, che è un raggruppamento esagerato, perché tra gli handicap psichici ce ne sono di tutti i tipi. E non è finito qui: per le persone disabili è obbligatorio entrare da un ingresso apposito, diverso da quello principale: evviva l’inclusione! Ma il tutto è ben organizzato; all’ingresso del parco viene fornito un volantino che illustra la mappa delle attrazioni consentite, con tanto di legenda che spiega il significato dei vari simboli: per i disabili mentali una faccina mezza bianca e mezza nera. Inoltre, all’entrata di ogni attrazione, ci sono dei cartelli che informano chi può salire sulla giostra e chi no.
Credo che sarebbe opportuno riservare lo stesso trattamento ai proprietari del parco divertimenti, per vedere se il sistema da loro ideato gli piace veramente… Perché solo una persona con delle serie disabilità mentali potrebbe mettere in atto una cosa del genere. E ricordiamoci… saranno anche disabili, ma sono sempre persone e spesso anche più sensibili di noi!
Enrico Barone e Luca Barone          

Che dire?

Lettere al direttore

Caro Claudio
sono un ragazzo Caro Claudio,
di 25 anni di Napoli del Movimento Eucaristico Giovanile. Ti volevo semplicemente ringraziare per la tua importantissima testimonianza che hai tenuto a Frascati davanti a tantissimi ragazzi, grandi e piccoli, che sono rimasti meravigliosamente affascinati dalla tua grande persona.
Dopo il tuo discorso ho iniziato a girare un po’ tra i ragazzi e tutti parlavano di te, delle tue parole e di come li avessi colpiti nel cuore.
Non dimenticherò mai la tua grande forza, la tua simpatia (tu e Massimo potreste
fare concorrenza a tanti comici di Zelig!) e soprattutto i tuoi occhi che mi hanno dolcemente scavato a fondo. Tutto qui. Ti saluto con grande affetto e ti porterò sempre nel cuore.
Roberto

Caro Roberto,
anzi, come si dice a Bologna: “ Bella Véz!” (che per gli addetti ai lavori vuol dire “Bella vecchio”), sono stato veramente contento della tua lettera! Sai in questo periodo ho un problema che mi assale ogni volta che salgo in macchina… Si chiama TANGENZIALE. Ti spiego: la stanno allargando da due corsie a tre… Un bel casino! Tu mi dirai: “Grazie della notizia… E cosa c’entra?”. Invece c’entra. Infatti è piena di scavatori che mettono a posto la strada, sembrano dei giganteschi robot intenti a lavorare a un diabolico piano d’attacco alla terra che solo King Kong è in grado di affrontare, anzi sembrano dei mostri che sollevano enormi polveroni radioattivi: armi micidiali e sofisticate ingestibili per noi, anzi dei dinosauri migratori che cercano la salvezza fuggendo dal surriscaldamento terrestre ma già mentre fuggono si squagliano all’insostenibile calore e all’improvviso cambiamento del clima e urlano e si lamentano ruggendo tanto furiosamente che fanno invidia a Steven Spielberg… Va beh, è meglio che smetta di farmi delle birre…
Vengo subito al punto: tu hai paragonato i miei occhi a degli scavatori. Quando l’ho letto mi sono domandato due cose: perché gli occhi di un diversabile scavano? E soprattutto: cosa scavano?  
Beh, scavano le nostre paure, i nostri preconcetti, scavano le false immagini che abbiamo di noi. Ovviamente sollevano un grande polverone ma, vedi, sollevare polveroni non serve se dopo la polvere ritorna nella stessa posizione, bisogna che tu la spazzi via, altrimenti è inutile. Per spazzare via la polvere occorrono degli strumenti adatti: una scopa, un’aspirapolvere, una vaporella, uno straccio, uno spruzzino, un pennacchio, un deragnatore… Tutti strumenti necessari affinché la polvere non si depositi ancora nella stessa posizione e anzi creano uno strato “anti-polvere”. Dove voglio andare a parare? (disse Buffon a Zidane). Non basta essere colpiti nell’emotività dello sguardo di un diversabile ma bisogna avere strumenti per decodificare le sensazioni più profonde per crescere culturalmente. In parole povere la buona volontà è necessaria ma non basta, ci vuole una formazione adeguata. Ciao dal tuo trivellone, TRRR!

 

Buonasera signor  Claudio, sono Mariella una ragazza… proprio ragazza non lo sono più ho 34 anni 2 figlie e un marito, sono iscritta  al corso di laurea in Educatore Professionale a CZ, sono in fase preparativa per la tesi che spero di dare il 31 ottobre prossimo. Questa sarà centrata sui soggetti disabili le grandi qualità che posseggono e sulla riabilitazione sociale. Ho già citato lei nel mio primo capitolo e vorrei rifarlo più in là. Mi sono trovata per caso sul  suo sito e posso dire di essermi innamorata di ciò che lei racconta soprattutto di: SALVE sono un geranio… ecco perché come oggetto ho messo geranio, dire che mi piacerebbe conoscerla è pretendere troppo forse un sogno per me, le chiedo almeno se lei può indirizzarmi su qualcosa di interessante per la mia tesi tanto quanto lo è lei, le lascio i miei più cordiali saluti, so che questo sarà forse come un messaggio in una bottiglia, non avrò mai risposta, ma io spererò ogni sera di ricevere una sua email e il pensiero prioritario ogni giorno sarà di controllare la posta a presto… MARIELLA

Buonasera, sono Jack Sparrow detto anche Trinciasquali sto solcando i mari del sud verso l’isola del tesoro… Il mare è piatto come l’olio di merluzzo che il mio cuoco di bordo mette nella sbobba, il sole scalda tutto e il vento è a favore: ottima giornata per far pulire il ponte al mozzo! In queste condizioni navigare è più facile che bere un bicchiere di rhum. Prendo il cannocchiale e scruto l’orizzonte per controllare la rotta… Corpo di mille balene, ma cos’è quell’affare che galleggia sull’acqua? Per tutti gli spiedini di pesce! È un messaggio nella bottiglia! Il modo più veloce ed efficace per comunicare oggi! Qualcuno mi scrive! Evviva! Butto il mozzo a mare affinché recuperi la mia posta… È la lettera di una educatrice… educatrice? Ma che razza di pesce è? Leggo voracemente, mi chiede dei consigli per la sua tesina… Io conosco solo il mare, ma ci provo lo stesso, in fondo il mare può essere una bella immagine sull’educazione. Nel mare dell’educazione si nascondono molte insidie, rappresentate per esempio dai corsari e dai pirati come me. I corsari (i combattenti regolari) altro non sono che le nostre sovrastrutture, i preconcetti e i pregiudizi sedimentatisi nella nostra cultura e nelle nostre menti. Quelle visioni della realtà che noi assumiamo come date per scontate, inevitabili… e come tali difficili da intaccare. I pirati invece? Essendo storicamente dei “free lance”, rappresentano le nostre “chiusure” individuali, le nostre paure, il nostro imbarazzo di fronte a realtà che ci spaventano e ci turbano. I corsari e pirati ci ostacolano nel raggiungimento del tesoro, ci attaccano e ci minacciano, rallentano il nostro cammino in modo spesso subdolo, nascondendo la bandiera nera che li identifica. Come le nostre paure che possono paralizzarci improvvisamente o restare latenti dentro di noi. Sai qual è il vero significato della bandiera nera dei pirati? Restare in balia delle paure vuol dire rinnegare la vita, annichilirsi, produrre morte: ecco a cosa fa riferimento il teschio! Quindi i pirati vorrebbero issare la loro bandiera nera con il teschio sulla nostra nave e dichiararci sconfitti. Che fare allora? Come arrivare indenni al tesoro? Esiste un solo modo: chiamare i pirati e i corsari con il loro nome, il che significa fronteggiarli e prenderne conoscenza.
Se scopriamo che un pirata si chiama Jack Sparrow detto Trinciasquali, immediatamente la paura che nutriamo nei suoi confronti comincia a scemare… Fuor di metafora: se qualcuno mi guarda e prova imbarazzo senza riuscire a dare un nome a questa sensazione, il suo disagio diventa invincibile. Se un insegnante non trova il modo di valorizzare le abilità di un alunno, questa situazione diventa insostenibile per entrambi. L’educatore è colui che chiama e insegna agli altri a chiamare le cose con il loro nome.
Sai come faccio a sapere tutte queste cose? Proprio qualche giorno fa ho ricevuto via “bottiglia celere” il nuovo libro di Claudio Imprudente, un pesce sgusciante che naviga nelle acque della diversabilità… Il libro si chiama “C’è ancora inchiostro nel Calamaio!”. Ti consiglio di leggerlo, io l’ho divorato come un piatto di pesce fresco appena pescato. Mozzo dammi del rhum buono!
Buona rotta