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autore: Autore: Claudio Imprudente

Un Natale “smerlato”, Il messaggero di Sant’Antonio, Dicembre 2014

Spulciando tra le mie scartoffie ho ritrovato un vecchio articolo, datato 1986, a proposito dei sacchetti della Caritas destinati a raccogliere gli indumenti per i cosiddetti «bisognosi». L’autore dell’articolo, il mio caro amico Andrea Pancaldi, parlava a quell’epoca di «guerra del rusco» (dell’immondizia, ndr) e, riflettendo sugli aspetti culturali del riciclo degli indumenti, notava come essi «ricacciano le persone handicappate nel ghetto, anzi nel bidone del rusco, e alimentano pregiudizi e luoghi comuni dei “normali”». Io stesso ricordo che i sacchetti che alcune associazioni dedicavano alla raccolta degli indumenti usati avevano l’immagine di un barbone banalmente raffigurato nelle sue tipiche sembianze: bastone, toppe sui pantaloni, barba lunga e ciotola in mano. Al suo fianco un altrettanto tipico disabile, rappresentato con un classico plaid scozzese a coprire le gambe (per proteggerle forse dal freddo?).

Trent’anni fa si faceva presto a dire che qualcosa non serviva più a niente e a buttarlo nell’immondizia; nel pieno dell’era usa e getta, anche quello che veniva allora chiamato handicappato, aveva un destino simile, come soggetto che non produce e quindi inutile alla società. Pancaldi concludeva il suo articolo dicendo: «Tra rifiuti e rifiutati il passo è breve».

Facciamo con la bacchetta magica un salto al presente. In questi trent’anni si è ormai compreso come l’usa e getta nascondesse fin troppe controindicazioni. Ce lo dimostrano i cambiamenti climatici causati dall’erosione delle risorse che ci hanno portato a modificare la concezione di ciò che è rifiuto, inserendo quest’ultimo nella grande macchina del riciclaggio.

Ora riciclare è diventata una moda, non solo per quanto riguarda gli indumenti: negozi che vendono usato, siti che propongono idee per riusi e riutilizzi di ogni genere e via dicendo. Il riciclo, da necessità, è diventato dunque sinonimo di creatività. Così sta cambiando la prospettiva, per cui anche il rifiuto, e di conseguenza il rifiutato, non si presentano più in versione usa e getta, ma sono inseriti in un ciclo funzionale all’economia, alla natura e, più in generale, alla vita stessa.

Ma ritorniamo per un attimo a quei sacchetti pieni di indumenti; indumenti irregolari, smerlati, frastagliati, apparentemente brutti e inutilizzabili. Oggi, come dicevamo, qualcosa è cambiato. Così non mi sono sorpreso quando qualche tempo fa ho visto in riviera un negozio di abbigliamento che fa ormai da anni di quell’irregolarità e di quell’unicità il suo cavallo di battaglia. I suoi abiti, insieme agli accessori, altro non sono che pezzi di stoffa, apparentemente da buttare, riassemblati da giovani stilisti per creare opere allegre, utili e originali per la comunità.

Questo marchio e la sua politica di fondo mi sono sembrati rappresentare una metafora e un’immagine perfetta della disabilità. Quindi per questo Natale mi auguro che quella stoffa diventi per tutti il simbolo della propria originalità e della capacità di rinnovarsi. Perché la diversità è variopinta e in perenne trasformazione proprio come il nostro aspetto e le nostre personalità.

Buon Natale a tutti i miei lettori, e scrivete a claudio@accaparlante.it o sulla mia pagina Facebook.

 

Un paradosso sul tetto del mondo, Il messaggero di Sant’Antonio, Giugno 2014

Forza Mario! Come quale Mario? Vi ricordo che tra pochi giorni partono i mondiali di calcio brasiliani e il nostro Balotelli, il Mario nazionale per l’appunto, avrà la responsabilità di farci ancora vivere e godere quelle notti magiche del 1982 e del 2006.

Balotelli: l’immigrato, l’attaccante, il mito. Un personaggio così discusso, sempre al centro di cronache mondane, gossip e chi più ne ha più ne metta, non sempre un esempio positivo, oltretutto, per i milioni di ragazzini che si identificano in lui. Quello che però mi ha sempre colpito della sua figura non è in realtà né il suo stile di vita né le sue bravate fuori dal campo né, in effetti, il suo naturale talento calcistico. È più una questione di paradosso. Balotelli è il simbolo vivente di come certi stereotipi possano essere abbattuti: un ragazzo, immigrato di colore, nato nelle difficoltà, simbolo italiano nello sport più famoso e seguito al mondo.

Una contraddizione vivente, che non dimentica di fare sfoggio di sé, nel tipico atteggiamento di chi, partendo da una situazione difficile, è arrivato al successo. Eppure ho imparato che sono proprio i paradossi gli esempi più concreti e immediati per cambiare un paradigma, una visione. Questo ragazzo italiano di colore, nonostante sia l’emblema dell’ostentazione in campo, credo infatti abbia molto in comune con il mondo dell’inclusione e dell’integrazione e, di conseguenza, della disabilità.

La sua storia ormai la conosciamo tutti. Mario Barwuah nasce il 12 agosto 1990 da una coppia di immigrati ghanesi che, per motivi economici e alcuni problemi di salute, lo affidano, con l’aiuto dei servizi sociali, a una famiglia del bresciano, la famiglia Balotelli appunto. Così è cominciata la leggenda che oggi è sotto i nostri occhi. Evidentemente nessuno allora avrebbe scommesso un centesimo su di lui, in piena linea con tutto ciò che facciamo rientrare nell’etichetta della «diversità».

Come sempre, però, la vita va per la sua strada e trova da sola un modo per dialogare con gli stereotipi che essa stessa ha creato, di solito estremizzando le reazioni di chi prima li fomenta e poi li ostacola.

La presenza di Mario in campo, infatti, palesa molto spesso nell’atteggiamento dei tifosi quanto, nonostante la fama e il successo ottenuti, l’integrazione reale del nostro calciatore sia ancora un work in progress. Già nello scorso gennaio avevo scritto su questa rubrica un pezzo sul razzismo, di come questo può diventare una pregiudiziale, un elemento forte di esclusione, proponendovi un ironico slogan: il pallone è rotondo, il razzismo è quadrato.

Il paradosso, insomma, è sempre in agguato. La nostra società tende a osannare ciò che al contempo emargina, dalle stelle alle stalle e dalle stalle alle stelle… Un ragazzo nero, vestito d’azzurro, con la coppa del mondo, la più ambita, tra le mani. Piazze e città italiane in festa. Questo per me sarebbe il «paradosso» più bello. E voi quale paradosso potreste portare sul tetto del mondo?

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La pioggia su Nelson, Il Messaggero di Sant’Antonio, Maggio 2014

Sapete che differenza c’è tra Italia e Africa? Quando piove, in Italia la gente esclama «governo ladro!»; in Africa, invece, quando piove si dice che «il cielo piange la scomparsa di un grande uomo»… È proprio quanto è successo lo scorso 15 dicembre al funerale di Nelson Mandela, una vera icona, un simbolo politico e morale che ha fatto della sua parola di pace e uguaglianza un’azione capace di cambiare il volto e la storia del suo Paese, il Sudafrica, e non solo.

Protagonista della lotta per la liberazione dall’apartheid, la sua figura ha accompagnato la giovinezza di molti che hanno creduto nelle possibilità di cambiamento proprie della diversità, certamente in termini di integrazione e conquista di diritti, ma anche nell’alternativa offerta da nuove risposte non violente – non per questo meno efficaci! –, capaci di agire sul ribaltamento dell’immagine…Mentre ripercorrevo la storia di Nelson mi sono imbattuto in un racconto, legato al suo periodo di prigionia, negli anni Settanta. Là, nella famosa sezione B di Robben Island, i prigionieri neri erano chiamati da tutti «calzoni corti», a motivo dell’indumento che erano costretti a portare. In realtà era soprattutto un modo per ribadire la loro condizione di «infanti» rispetto al resto della popolazione carceraria. Un’immagine per certi versi umiliante, che fa venire in mente un diffuso modo di porsi nei confronti della disabilità. A essere messi in discussione, infatti, sono due concetti fondamentali dell’autonomia (e quindi della libertà) individuale, ovvero la responsabilità e il potere decisionale, così come avviene nella tipica dinamica adulto-bambino. Due punti critici trasversali che ancora una volta portano in campo i pregiudizi dell’accudimento e della tutela, sempre in gioco nella relazione con la disabilità, soprattutto nella sua percezione sociale. Quello che colpisce, però, è che a Robben Island Mandela non si è limitato a vivere la prigionia in ostilità e rifiuto, ma ha cercato di agire proprio a partire dalla condizione di carcerato, denunciando dall’interno le ingiustizie e facendo leva sulla consapevolezza dei compagni di cella.

C’è una frase del nostro condottiero a cui sono da sempre affezionato, che compare in una celebre poesia: «Io sono il padrone del mio destino / Io sono il capitano della mia anima». È un pensiero che ha fatto da bandiera a tutto il mio percorso e che ben si sposa con la cultura dell’educazione e della disabilità. Mandela ci insegna che la diversità, se vissuta e accettata così com’è, ha in sé un potere sovversivo e rivoluzionario, è l’essenza stessa dello scandalo nel suo significato originario di «inciampo», frapposto nella distanza tra il diritto e il dovere della partecipazione. È un processo faticoso che porta con sé sudore e lacrime, ma che quando giunge alla fine apre definitivamente alla libertà.

Come cantava l’eterno ragazzo Morandi, «Scende la pioggia ma che fa… amo la vita più che mai». Di pioggia ne è scesa su Mandela, ma alla fine ha vinto lui. Grande!

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Il diversamente cielo, Il messaggero di Sant’Antonio, Aprile 2014

È tempo di risurrezioni, il tempo – riflettevamo insieme un anno fa – in cui il sasso del Sepolcro rotola via, così come i macigni e i pesi delle nostre convinzioni possono scivolare fino ad aprire le porte, fino a farci rinascere. Può accadere anche a chi è più cresciuto, a chi pensa di avere idee e personalità ormai fatte e finite e di averle già viste tutte nella vita. È quello che è accaduto al papà di Miriam – bambina con disabilità –, che ha voluto raccontarmi il suo vissuto. Un’esperienza, la sua, che ci insegna a cambiare di posto, a invertire lo sguardo della nostra prospettiva verso direzioni prima neppure mai immaginate.
Ecco in che modo.

«Ci sono due cose in natura che mi appassionano in modo particolare: i sassi e le nuvole. Perché sono due elementi completamente diversi e opposti tra loro, e io sono lì nel mezzo! I sassi si trovano in terra, sono palpabili, hanno una forma propria: è il tempo a raccontare la loro storia. Le nuvole invece stanno in cielo e sono fluttuanti, il loro racconto dura il tempo di uno sguardo.

Perché scrivo questi pensieri? Semplicemente perché ogni tanto ho bisogno di fermarmi e raccogliere quanto ho vissuto nella quotidianità. La “diversità”, sia come esperienza che come ricerca, mi ha davvero aperto a visioni nuove e sorprendenti. Immagina: un cielo senza nuvole sarebbe sempre lo stesso monotono cielo, proprio come il tramonto, magari bello ma sempre con i medesimi colori. A lungo andare annoierebbe. Le nubi in cielo sono arte in movimento, dipingono con colori forti, hanno sfumature impercettibili, danno eco alle giornate e, per i più, determinano “il bello o il brutto” tempo… Mai ripetitive, le nuvole sono sempre in viaggio e fanno, di un cielo, un diversamente cielo.

E così i sassi. Mai uguali l’uno all’altro, e anche se restano fermi nel momento in cui li calpestiamo diventano il nostro viaggio, perché ogni sasso è disegnato dal tempo, prende una forma e assume una precisa espressione. È come dar vita a qualcosa di vivo.

Così, tutte le volte che ho a che fare con persone delle quali occorre scovare o percepire il volto, magari quello più intimo e nascosto, mi ricordo di quanti per convenzione sono stati collocati nella categoria di ciò che è “diverso”. Sì, penso alle persone come mia figlia Miriam, per le quali dobbiamo sempre dare un volto alle cose che fanno e alla loro interiorità. Spesso poi il nostro essere superficiali, la fretta o la presunzione di sapere già, tracciano linee che poi deformano quel volto, incapaci come siamo di coglierne l’originale. (…) Prima ero seduto su una sedia convinto fosse un trono dal quale non sarei più sceso, con quello scettro fatto di esperienze che mi rendeva principe… Cambiare posto, ho scoperto, non è inerzia e sonnolenza, ma al contrario è movimento e attenzione, perché non c’è risurrezione senza trasformazione».

Con questo auguro a Miriam, al suo papà e a tutti voi una serena Pasqua.

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L’integrazione? Si fa in Arena!

Qualche giorno fa passeggiavo in centro a Bologna, ad un passo dalla fontana del Nettuno, quando l’occhio mi è caduto su una pubblicità posta sul retro di uno dei tanti autobus di linea… "Sabato 12 aprile, Progettare e promuovere l’integrazione delle abilità nella scuola inclusiva. Quali buone prassi?, presso il teatro Arena del Sole".Curioso, ho pensato. Non avevo mai visto su di un autobus una pubblicità di un convegno riguardante il mondo della disabilità.

L’iniziativa, promossa dalla Cooperativa sociale Quadrifoglio, si rivolge prevalentemente a insegnanti curriculari e di sostegno, dirigenti scolastici, educatori, operatori, assistenti alla comunicazione, pedagogisti, tecnici AUSL, genitori e a tutti coloro che quotidianamente lavorano per favorire l’integrazione scolastica e sociale dei minori disabili.

"Il Convegno intende presentare alcune esperienze e modalità di intervento realizzate dai soggetti coinvolti nell’attuazione di azioni educative e formative rivolte ai minori disabili per condividere linee di indirizzo, buone prassi e proposte migliorative. Si discuterà su come compiere pratiche educative e didattiche che sappiano realmente rispondere in maniera sempre più efficace e favorire una maggiore qualità dei processi di integrazione ed inclusione di alunni in situazione di disabilità e con bisogni educativi speciali."

Mi piace molto quello che leggo alla fine del programma, sull’obiettivo, che "non è quello di fornire proposte precostituite, ma aprire possibilità nuove di pensiero e di azione."

Lo scenario sarà quello delle grandi occasioni. L’Arena del Sole di Bologna, per chi come me è nato all’ombra delle due torri, è un luogo carico di ricordi, dove dal 1810 musica, arte, politica e cultura hanno sfilato a più riprese, cambiando prospettive e modi di pensare. Speriamo questo succeda anche sabato. Ah, dimenticavo, ci sarò anch’io come relatore! Ci vediamo all’Arena.

Scrivete a claudio@accaparlante.it o sulla mia pagina facebook. (Claudio Imprudente)

 

Una rondine non fa sei stelle, Superabile, Aprile 2014

Una rondine non fa primavera se intorno a lei non fioriscono novità. Proprio qualche tempo fa, precisamente lo scorso 21 marzo, si è celebrata la Giornata mondiale della Sindrome di Down, una delle disabilità più familiari e discusse non solo per la sua frequenza ma anche per le contraddizioni che spesso porta con sé, dalla diagnosi non sempre immediata alle sue risorse e imprevedibilità.

Ovviamente, per l’occasione, ne sono spuntate sul terreno di tutti i colori… a cominciare da due esperimenti mediatici di sensibilizzazione che mi piacerebbe condividere con voi.

Il primo è un video che ha girato molto anche sui social network,

"DearFutureMom" (Cara futura mamma), promosso dal CoordDown, diretto da Luca Lucini in collaborazione con l’agenzia di pubblicità Saatchi&Saatchi, rivolto alle mamme in attesa. Quale sarà il destino di mio figlio? Si chiedono per l’appunto le mamme. A rispondere ci pensano quindici ragazzi e ragazze provenienti da tutta Europa, con sdD, offrendo loro tutte le rassicurazioni possibili, dalle abilità alle possibilità effettive di inclusione sociale e nel mondo del lavoro.

Al di là del desiderio più che legittimo di coinvolgere l’opinione pubblica sul tema mi chiedo sempre quanto queste immagini corrispondano alla realtà di cui facciamo esperienza nel quotidiano. Il rischio è quello di dare una visione se non falsa di certo un po’ edulcorata e di ritrovarci ancora una volta sospesi tra il ruolo di emarginati e quello di supereroi, un concetto detto e stradetto ma ancora evidentemente presente. Ciò non toglie tuttavia l’impegno e il lavoro rigoroso che il CoordDown sta mettendo in atto in questi anni, anche sul piano internazionale, che ha comunque il merito di mettere al centro la voce delle persone con disabilità.

Ad andare ancora più oltre, in termini inclusivi, è stato poi quest’anno il programma "Hotel sei stelle" , in onda il lunedì sera, in seconda serata su Rai Tre. In televisione se ne è già parlato abbondantemente, per esempio a TV Talk con un interessante intervento del regista Claudio Canepari, che ha spaziato tra il concetto di "format" e quello d’integrazione. Perché non si può parlare di un’esperienza comune come la ricerca del primo impiego, anche per persone con disabilità, senza per forza cadere nella riduzione di un format narrativo? Non si può più semplicemente parlarne? Così si chiede il regista e francamente me lo chiedo anch’io… Difficile assumere una posizione netta perché il rischio della spettacolarizzazione è sempre in agguato, eppure la prospettiva è intrigante… E voi, cosa fareste se alla reception di un hotel di lusso vi trovaste di fronte una persona con sindrome di down?

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Caro nipote ti scrivo, Il Messaggero di Sant’Antonio, Marzo 2014

Alcuni giorni fa sono rimasto affascinato da una lettura. Una lettera aperta di Umberto Eco, rivolta al suo piccolo nipote sul tempo che verrà. Una missiva – alcuni di voi l’avranno letta – per entrare in dialogo con una generazione che sta crescendo con ritmi e strumenti culturali molto veloci e frenetici, sicuramente diversi dai nostri. È sotto gli occhi di tutti. Pensate alle abitudini dei nostri figli, dei nostri nipoti attaccati ai computer e bombardati da continue informazioni… Riconoscersi risulta difficile, tanto è mutata la società negli ultimi anni.

Vorrei anch’io, dunque, scrivere a un nipote. A un nipote che ha una disabilità, per regalargli qualche consiglio a partire dalla mia esperienza, dalla mia vita vissuta, perché anche lui possa fare altrettanto, se non di più.

«Caro nipote, ritorno ai banchi di scuola, ai tempi in cui frequentavo le scuole speciali. Sai che cosa erano? Immagina delle scuole costruite e pensate esclusivamente per persone con disabilità, in cui l’unico normodotato è la maestra, divisa tra deficit e abilità davvero differenti tra loro… Forse oggi il tuo compagno di banco ti aiuta a fare i compiti insieme con la tua insegnante di sostegno e poi ti porta a giocare a calcio, a basket o a quello che più ti piace. Tutto ciò non è scontato. È il frutto di anni di fallimenti, prese di coscienza, riflessioni, lotte e conquiste che ci hanno portato fin qui, a un’immagine della disabilità capace di contaminazioni, incontri e confronti con altre discipline ed esperienze. Se oggi c’è ancora qualcosa da fare è proprio recuperare quella voglia lì, il desiderio cioè di non dare nulla per assodato e la capacità di andare sempre oltre, per arrivare, finalmente, a non dover più parlare di integrazione, ma semplicemente a viverla. Sapere quello che c’è stato prima di te è importante. La memoria storica, come ricorda Umberto Eco, è fondamentale per il futuro, tuo e anche mio, perché mi piace pensare che la mia opera possa proseguire in te, nelle tue battaglie e nei tuoi traguardi.

Di certo non ti mancheranno gli strumenti: oggi l’innovazione è a portata di click. Mi permetto però di dirti che questo non basta, perché non è su Facebook che incontrerai lo sguardo degli altri e, soprattutto, non è lì che ne sentirai il peso su di te. Ricordati che, se qualcuno ti guarderà negli occhi e tu abbasserai lo sguardo, avrai perso; ma se tu ricambierai il suo sguardo allora avrai vinto. E su questo, credimi, non c’è ausilio o tecnologia che tenga. Non avere paura del tuo corpo, anche se è deforme. Usalo, mettilo sempre al centro degli altri e sappi essere artista di te stesso. Non vergognarti dei tuoi desideri. Ricordati che sei una persona completa, che potresti anche innamorarti e far innamorare. Il mondo che noi adulti lasciamo in mano a voi ragazzi non è certo “il migliore dei mondi possibili”. Ma questo serve a ricordarti che cos’era qualche anno fa, perché senza conoscere il nostro passato non possiamo cambiare il nostro presente. Ciao e buona vita!».

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Sotto la maschera, Superabile, Marzo 2014

A Carnevale ogni scherzo vale? Il carnevale – le nostre care maschere ce lo confermano – è il tempo dell’eccezionalità, del ribaltamento dei ruoli, del sovvertimento dell’ordine costituito.

Di questo chiacchieravo con i miei colleghi del Progetto Calamaio. Stefania era d’accordo con il mio punto di vista: "Le maschere sono il segno del cambiamento e del rovesciamento di ruoli, in generale sono completamente d’accordo con te. Grazie al nostro lavoro sono andata nelle scuole dell’infanzia e per anni abbiamo drammatizzato varie fiabe, mi sono travestita, ho interpretato diversi ruoli. Con il travestimento ho cambiato la mia solita immagine di persona con disabilità presentandomi con un’altra identità. La disabile protagonista. Un rovesciamento dello stereotipo appunto."

A Mario, il filosofo del gruppo, ho chiesto se avrebbe indossato la sua maschera preferita per tutta la vita, nascondendo così la sua disabilità. La sua risposta è bellissima: " È bello essere spettatore nel grande teatro della vita, scoprire il copione svolgersi poco per volta, rivestendo le maschere emozionali di tutti: protagonisti, comprimari, caratteristi e figuranti. Saltellando, freneticamente o pacatamente, da un ruolo all’altro, è stuzzicante vestire i panni altrui e i propri in una girandola vorticosa di successi e fallimenti. La maschera che si indossa muta sembianza a seconda delle diverse circostanze nelle quali ci si trova ad agire e ciclicamente torna ad emergere nella sua integrità. La vita conduce in direzioni che non sono sempre dettate dal timoniere, dal titolare della maschera che, dunque, adatta le sue caratteristiche più peculiari all’ambiente circostante, perdendo e ritrovando un filo conduttore che non gli appartiene ma che sente comunque suo. È più che naturale, in questo gioco di ruoli, desiderare di rivestire compiti e immagini diversi per accettare, maggiormente e di buon grado, la realtà che si sta vivendo. È fondamentale però non staccarsi troppo dal proprio copione e saperne sposare la sua tipicità unica ed irripetibile. Infatti, uno dei segreti per vivere quanto più possibile bene, è accettare le infinite maschere del proprio essere con la curiosità tipica del fanciullo che inizia a scoprire il mondo".

Tiziana, la più giovane del gruppo, mi ha confidato di aver cambiato la sua maschera tante volte, dovendo adattare la usa disabilità ai contesti più differenti. Tra le tante considerazioni ed esperienze è emerso comunque un concetto fondamentale condiviso da tutti. Va bene la maschera il giorno di Carnevale, ma per il resto dell’anno cerchiamo di essere noi stessi. D’altra parte la disabilità è stata fin troppo nascosta. E’ ora di mostrarci per quello che siamo. Cosa ne pensate? Scrivete a claudio@accaparlante.it o sulla mia pagina facebook. (Claudio Imprudente)

 

Il camaleonte di Tatiana, Superabile, Febbraio 2014

Ma che ci fa un Camaleonte verde sulla mano di una persona disabile? Vi sembra un fatto più possibile o più impossibile?
No, non voglio proporvi uno scioglilingua ma un’interessante riflessione a partire da una fresca lettura “Impossibili possibilità “ per l’appunto (Erickson edizioni), un libro di Tatiana Vitali, educatrice disabile che con la sua famiglia, insieme alla pedagogista Rita Mastellari e all’esperto di Comunicazione Aumentativa Alternativa Francesco Ganzaroli, ha raccolto la sua esperienza autobiografica in un racconto, semplice quanto efficace, che si apre all’esperienza creativa della diversità, attraverso l’incontro e l’incrocio di più voci, tra cui la prefazione di Andrea Canevaro.
Il camaleonte, che Tatiana ha scelto come immagine della sua copertina, è il classico simbolo del cambiamento, emblema di adattamento a nuove forme e colori a seconda delle sfide che ogni giorno si troverà ad affrontare. Ma dove si posa quest’astuto e simpatico animale? Su una mano “rattrappita”, quella dell’autrice, appoggio insolito ma proprio per questo né fermo né neutro. Perché quella mano può anch’essa farsi camaleonte, capace di cambiare il contesto su cui lei stessa agisce e si posa con la sua presenza.
“Impossibili possibilità”, lo dice il titolo, è un libro fatto di contraddizioni e di ambiguità, che continuamente s’intervalla di schiaffi e di carezze, tra difficoltà di partenza e improvvise risoluzioni.
Ma che differenza c’è tra schiaffo e carezza? La differenza è labile e per lo più è una questione di equilibrio e di dosaggio di forze. Dipende da chi lo dà ma anche da chi lo riceve. Il limite, ci insegna Tatiana, è faticoso ma è anche uno stimolo, una risorsa che va coltivata, per essere duttili e cambiare il contesto così come il camaleonte cambia colore.
E voi, quanto siete stati camaleonti nella vostra vita? Scrivete a claudio@accaparlante.it o sulla mia pagina facebook.
Claudio Imprudente

 

Quattro chiacchiere con Salvatore Usala, Superabile, Febbraio 2014

Mentre ammiravo il panorama mozzafiato che mi offriva il vecchio bastione di Cagliari, in una soleggiata mattinata di fine autunno, ripensavo a quell’uomo incontrato il giorno prima…

Salvatore Usala non ha bisogno di presentazioni, il suo coraggio, la forza d’animo sua e dei ragazzi del "Comitato 16 novembre" stanno finalmente conquistando un po’ di spazio sui media nazionali. Approfittando della sua presenza gli ho fatto alcune domande… Combattere e arrabbiarsi ma credere ancora in un futuro migliore. Salvatore ne è davvero la testimonianza. Ecco uno stralcio della nostra conversazione.

Ho letto che la condizione dei malati di Sla viene accumunata a quella dei terremotati… Sai bene che io vivo a San Giorgio di Piano, tra Bologna e Ferrara… Sentite davvero di essere così abbandonati dalle istituzioni?
In tante regioni c’è una totale indifferenza per i malati gravissimi che hanno un bisogno assistenziale vitale di 24 ore. Parlo di assistenza a tracheostomizzati, ventilati 24 ore, casi di coma e tutti coloro che possono morire se lasciati soli anche pochi minuti. Le regioni preferiscono spendere 100.000€ per ricoveri in istituti e nulla per le famiglie che si prendono cura del congiunto. Si vende la casa, si abbandona il lavoro, un vero terremoto.

Come avete intenzione di proseguire questa giusta battaglia?
Abbiamo preparato un progetto sul modello Sardegna, "Restare a Casa". In sintesi prevede la libertà di scelta con un finanziamento alle famiglie pari al 50% del costo in istituto. Ci sarebbe un risparmio notevole per finanziare i nuovi livelli di assistenza e il fondo per la non autosufficienza. Purtroppo in Italia non è facile fare riforme nell’interesse del popolo.

Cos’è che ti spinge a persistere?
Una convinzione ineludibile: bisogna lottare per le cose senza le quali la vita non avrebbe senso. Comunque sono onorato e gratificato di essere utile ai disabili pur essendo in condizioni critiche. Guai a piangersi addosso, le battaglie vanno fatte, nonostante la guerra di certi partiti, sindacati e associazioni che prendono tangenti dalle lobby.

Assistenza domiciliare… quale soluzione? Ho letto che basterebbe davvero poco per garantire l’assistente domiciliare a tutti…Cosa propone il comitato?
In Italia si spendono 20 miliardi per ricoverare disabili, anziani e malati in istituti, una cifra impressionante. Vediamo tutti i giorni sui media i trattamenti vili ai quali vengono sottoposti gli utenti. Gli imprenditori del settore sono spesso improvvisati, l’unico loro scopo è solo fare profitti. Il nostro obbiettivo è la "Libertà di Scelta", si risparmiano miliardi. In Sardegna il numero di ricoverati è la metà della media nazionale. Alla fine vinceremo, ne sono certo.

Grazie Tore… Ci vediamo al prossimo mirto!
E voi cosa ne pensate?Scrivete a claudio@accaparlante.it o sulla mia pagina facebook.

Claudio Imprudente

(10 febbraio 2014)

 

Prendiamoci un po’ in giro, Il messaggero di Sant’Antonio, Febbraio 2014

«A carnevale ogni scherzo vale» dice il proverbio, perché sotto le maschere si può davvero nascondere di tutto. Il carnevale – il nostro caro Arlecchino ce lo conferma – è infatti il tempo dell’eccezionalità, del ribaltamento dei ruoli, del sovvertimento dell’ordine costituito. La festa è il momento in cui è il servo che la fa da padrone per svelare con il sorriso il profilo sotteso agli innumerevoli volti del potere e della socialità.

Spesso si dice che la maschera che scegliamo è una parte, se non addirittura lo specchio, della nostra personalità più profonda, e che grazie al travestimento ci concediamo di muoverci, di parlare e di comportarci come altrimenti non oseremmo. E così i poveri diventano ricchi, i belli brutti, e viceversa. La tradizione poi non si risparmia, e aggiunge molto altro alle nostre maschere della personalità. Si tratta non solo di costumi e oggetti caratteristici, ma anche di difetti fisici e di vere e proprie disabilità.

Alle origini, storpi e zoppi omaggiavano il carnevale con la loro stessa immagine, in un girotondo ai limiti della dannazione. Poi la prospettiva si è ribaltata, e il difetto fisico si è fatto «carattere», anomalia che diverge dal contesto e che si carica di mistero, di originalità e, talvolta, addirittura di eroismo. Ciò che è interessante è come qui si inseriscono i concetti di diversità e di disabilità. In queste settimane dedicate al paradosso, infatti, la società si presenta in tutte le sue sfaccettature, senza costringerci allo stupore e concedendosi al suo stato più puro. Lì tutto è possibile perché tutto è «normale», e così anche la disabilità entra in maniera naturale e spontanea nel mezzo della vita. Ma che cosa succede al di là, vale a dire a chi la maschera la porta davvero su di sé? Quante volte, infatti, la nostra identità si nasconde dietro la maschera, un’identità che spesso facciamo fatica ad accettare, a mostrare e a prendere in giro?
In questo senso, il carnevale ci offre l’occasione per giocare con noi stessi. Vi faccio un esempio. Vi ricordate Happy days, il telefilm ambientato a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta? Una volta, da ragazzino, ho deciso di travestirmi come il suo protagonista, non il giovane Ricky Cunningham, ma il suo amico Fonzie, con tanto di brillantina e giacca di pelle, a tutti noto per la sua ironia, per la bellezza e per la capacità di risolvere in un lampo ogni situazione. Un vero e proprio ribaltamento di categoria, soprattutto a quei tempi, indossare i panni di un personaggio tanto forte, spavaldo e soprattutto autosufficiente. Eppure, ho scelto di mettermi in gioco, di prendere in giro me e la mia dipendenza dagli altri, di liberare la paura di aver sempre bisogno di qualcuno. La maschera ci permette di mostrare un’altra faccia della medaglia, di superare il limite senza nasconderlo. E siccome anche quest’anno il carnevale è arrivato, tra gli schiamazzi, le stelle filanti, i coriandoli e le maschere che folleggiano, io vi chiedo: che maschera indosserete?

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Mentre la Befana ritorna a casa…Superabile, Gennaio 2014

Ce l’abbiamo fatta! Mentre la Befana se ne ritorna nei suoi appartamenti il 7 gennaio 2014 il Centro Documentazione Handicap di Bologna entra finalmente nella sua nuova sede, in Via Pirandello 24 nel quartiere Pilastro.
Qualcuno di voi forse ricorderà la telenovela di terremoti, tubi rotti, crepe, comitati di salvaguardia e ricostruzione, girotondi e abbracci che ha accompagnato la vita del Centro nell’ultimo anno e mezzo, sfollati dalla storica sede di Borgo Panigale e riuniti in città in due sale dell’AIAS di Bologna grazie alla quale siamo riusciti a continuare a esistere e soprattutto resistere, motivo per cui la ringraziamo di cuore.
Nuove sfide ci attendo per il nuovo anno, input di rinnovamento e di ampliamento di contenuti e prospettive, dove il patrimonio della Documentazione potrà crescere e svilupparsi, grazie alla riapertura della Biblioteca con nuovi volumi e una sezione tutta dedicata ai ragazzi. Uno spazio aperto a letture, corsi, laboratori di formazione per scuola e Università ma non solo, un luogo dove contaminare con la nostra presenza e essere contaminati, a livello cittadino come a livello nazionale, dall’incontro con la cultura dell’integrazione.
Un ritorno alla missione originaria del Centro: fare rete con tutti i contesti per alimentare e coltivare l’humus politico e sociale su cui abita la disabilità.
Che dire…anno nuovo vita nuova, nuova sede e nuovo indirizzo per nuovi progetti e nuove avventure! Vi aspettiamo in Via Pirandello 24! Scrivete a claudio@accaparlante.it o sulla mia pagina facebook.
Claudio Imprudente

 

Il razzismo? E’ quadrato! , Messaggero di Sant’Antonio, Gennaio 2014

Ormai nei nostri stadi i fischi ai giocatori di colore sono all’ordine del giorno, regalando del nostro Paese un’immagine di certo non molto ospitale… Il pericolo del razzismo è sempre in agguato e cresce nei tempi di magra, quando è facile mettere in atto meccanismi di rivalsa scorgendo nell’altro, in cui ci si specchia, lo spettro del rischio. Eppure, chi di noi non ha uno zio d’America, emigrato in cerca di fortuna in terra straniera?

A questo proposito, qualche tempo fa a Milano ho preso parte a un’interessante manifestazione antirazzista, legata per l’appunto al gioco del calcio. Sto parlando di un torneo davvero inclusivo, nato nell’ambito del progetto «W il calcio!» e dedicato alla memoria di Arpad Weisz. Chi era costui? Nato nel 1896 a Solt, in Ungheria, da famiglia ebrea, Arpad è un punto di riferimento storico tra gli appassionati del pallone e non solo. Già allenatore del Bologna e dell’Inter, la sua figura si è distinta a suo tempo soprattutto per la passione che sempre lo ha legato alla cultura calcistica e che ne ha fatto un testimone attivo d’inclusione, nonostante la prematura morte nel 1944 per mano dei nazisti.

Così, mentre guardavo la partita, ho avuto una specie di folgorazione. Mi è venuto da pensare: «Il pallone è rotondo, il razzismo è quadrato». Fateci caso: il pallone porta in sé l’idea e la forma del cerchio, che avvolge, ingloba, che permette di guardarci l’un l’altro mantenendo lo sguardo sullo stesso livello. Il quadrato, all’opposto, è figura emarginante che può indurci a sostare sugli angoli. Il quadrato ha quattro spigoli: il primo si chiama «pregiudizio», il secondo «non riconoscimento dell’altro», il terzo «essere costretti in un sistema chiuso», infine, il quarto «non lasciarsi coinvolgere».

Il pallone, inoltre, può rimbalzare, saltare, passare da un piede all’altro, è in continuo movimento. Il quadrato invece è statico, rimane racchiuso nei suoi confini. Così, il pallone è illimitato tanto quanto il limite è il tratto del quadrato. Sostare sui margini senza gettarsi al centro del campo significa proseguire su binari paralleli che non si incontrano mai, e di conseguenza generare spigolature isolate. Il pallone, al contrario, ci insegna a uscire dal campo e a rientrarci da angolazioni diverse.

Una metafora semplice, certo, quella del pallone e del quadrato, che tuttavia rende bene l’idea e l’immagine del razzismo, che è un limite dello sguardo, una strettoia che non conosce, perché sceglie di non voler uscire da sé.

Quello che colpisce, inoltre, nonostante l’impegno di molti per azzerare le distanze, è la libertà linguistica, la «normalità» con cui oggi vengono perpetrate certe accuse, negli stadi ma anche su piani ben più alti, come se i luoghi comuni – inibiti dalla cultura o dall’educazione – trovassero lì un’esplosione che sa di uso comune più che di eccezionalità. La diversità genera pregiudizio perché fa paura, perché non la conosciamo. Per questo la evitiamo o la insultiamo: un comportamento che, lasciatemelo dire, in fondo è la stessa cosa.

Ciò detto, io me ne ritorno in campo, tra la polvere, a ricordare le gesta di Arpad Weisz. E voi, vi sentite più rotondi o più quadrati?
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Un Natale a tutta birra, Messaggero di Sant’Antonio, Dicembre 2013

Ci siamo. Le luci iniziano ad accendersi, nei balconi, nei negozi, nelle strade. Le statuine del presepe vengono spolverate, i vivai brulicano di persone a caccia dell’albero giusto. La televisione propone continuamente programmi e spot che ci ricordano, proprio come quelle luci, come sia caldo, bianco e dolce il Natale. E come sia il caso di correre a far regali…

Nonostante la crisi, infatti, la pubblicità ci chiama allo shopping. Eppure quest’anno, tra dolciumi che ci fanno sentire più buoni, giocattoli imperdibili e diamanti per sempre ho notato qualcosa di diverso.

Una nota birra irlandese ha scelto una comunicazione particolare e rischiosa. Lo spot mostra una partita, forse un allenamento, di basket in carrozzina. Al termine della competizione, a sorpresa, tutti gli atleti si alzano. Tutti, tranne uno. La scena finale poi li ritrae tutti insieme al pub a gustarsi una birra.

Appena finito di guardare lo spot, ho iniziato a rifletterci sopra. Perché un marchio di birra così noto a livello mondiale utilizza la disabilità per pubblicizzarsi? La birra, nell’immaginario collettivo, non vuol dire gioventù, compagnia, freschezza e festa? Che c’azzecca tutto questo con la disabilità? La disabilità non viene forse associata con i termini opposti?

Considerazione prima: qualcosa è cambiato. Se una multinazionale di quel calibro, con esperti di marketing e comunicazione di primo livello, considera la disabilità un traino per il proprio prodotto, vuol dire che qualcosa a livello socio-culturale si sta modificando, non fosse altro che dal punto di vista dell’immagine.

Nel mondo globalizzato, la pubblicità è di certo una delle componenti sociali che aiutano a formare gli stili di vita delle persone, facendo loro conoscere il prodotto, forse plagiandole. Ma certo, nel bene e nel male, influenza la nostra società. Vedere in prima serata normodotati e persone con disabilità fare sport insieme e condividere una birra al pub è un messaggio che ci piace, e che alcuni anni fa non era pensabile.

Seconda considerazione: il rischio strumentale. La multinazionale in questione non ha di certo fatto una pubblicità per cambiare la prospettiva sull’handicap o per fare integrazione. L’ha realizzata per vendere un prodotto, per migliorare la propria etichetta. Qui si corre il rischio, plausibile, di interpretare la disabilità come puro mezzo utilitaristico, «sfruttandola» a fini commerciali. Sarebbe un film già visto: il povero sfortunato disabile usato per fare tenerezza, diciamolo pure, per impietosire. E si sa, visto che a Natale siamo tutti più buoni…
Lo spunto pubblicitario però è di certo innovativo ed è giusto discuterne. Nell’insieme credo che tutto questo sia positivo, una testimonianza di cambiamento che sposta il livello della discussione a uno stadio successivo, dalla presenza alle esigenze di normalità. Purtroppo, il rischio di svuotare e inflazionare la disabilità, lo sappiamo, è sempre dietro l’angolo.

Chissà se tra un bollito e una pasta al forno, al pranzo natalizio con i vostri parenti non parta questo dibattito.
Voi cosa ne pensate? Vi auguro buone feste.
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E’ uscito il magico Alvermann, Superabile, Dicembre 2013

Vi ricordate il magico Alvermann? Forse qualche brizzolato come me, essendo un cult della generazione ’70. Sto parlando di una serie televisiva, trasmessa sulla TV dei ragazzi, che aveva per protagonista un simpatico folletto… Questa l’ispirazione ideale per un ironico gioco che ha dato il nome allo spazio libero di commento che il Centro Documentazione Handicap ha dedicato negli anni alla letteratura, alla poesia, alla musica e all’opinione sulla rivista HP-Accaparlante.

Una rubrica eclettica che ci parla di diversità nel senso più ampio del termine, tra immaginazioni e esperienze concrete. La diversità infatti non si esaurisce mai in se stessa ma porta con sé un’eco di storie, di percorsi che hanno accumunato voci e persone in obiettivi ambiziosi, come quello di costruire ponti tra chi parla e chi legge. Ci sono gli adulti che spesso ci restituiscono episodi di crisi, inadeguatezza e rinascite e ci sono i bambini, protagonisti centrali de Il magico Alvermann con i loro sogni e le loro fantasie, capaci di sovvertire la direzione di sguardo dei grandi.

"Essere, semplicemente essere, è una sfida", ecco il titolo di uno dei tanti interventi che si sono succeduti in questi anni. Un titolo a me particolarmente caro per l’immagine che ci propone e il senso di cui si fa testimone.

Il titolo della rubrica invece porta con sé un errore di trascrizione, una "n" finale in aggiunta all’originale che non fu mai corretta e che si è scelto di mantenere a sottolineare l’aspetto della diversità.

Oggi Il magico Alvermann è diventato un libro, Erickson edizione, a cura del Centro Documentazione Handicap, in uscita come quarto numero della rivista HP-Accaparlante di quest’anno per festeggiarne i trent’anni. Si tratta di "trenta Alvermann", una raccolta, ovvero, di trenta articoli scelti tra tutti quelli comparsi sulla rivista dalla sua prima edizione. Attraversamenti, incontri e scoperte che ci parlano di futuro. Insomma, un ottimo regalo di Natale! Buona lettura!

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Claudio Imprudente