Skip to main content

autore: Autore: di Annalisa Brunelli e Giovanna Di Pasquale

12. Pagine amichevoli per “lettori riluttanti”

Irene Scarpati è direttore editoriale di biancoenero edizioni, una casa editrice indipendente nata a Roma nel 2005. La casa editrice riprende idealmente l’esperienza degli anni ’70 della biancoenero edizioni d’arte, di cui ha voluto mantenere lo spirito di sperimentazione e ricerca. Il suo piano editoriale trova nel concetto di accessibilità il cardine dei progetti e delle collane di arte e narrativa. Nascono così i suoi progetti di lettura per ragazzi, che sono essenzialmente progetti di integrazione, per incoraggiare alla lettura anche chi, per un motivo o per un altro, fa fatica a leggere.

 Come e perché nasce una collana di narrativa per i bambini dislessici?
Il perché è semplice: una piccola casa editrice deve pensare la sua linea editoriale cercando di intercettare bisogni non soddisfatti, spazi non esplorati dell’offerta editoriale.
In Italia, al contrario di altri paesi europei, testi di narrativa per bambini con difficoltà di lettura non esistevano.
“leggimi!”, la nostra prima collana, è nata dall’incontro di biancoenero edizioni con la Sinnos editrice, è stato un progetto comune.

Quali sono le caratteristiche di un libro per bambini dislessici?
Va fatta una premessa: ai bambini con difficoltà di lettura si propongono libri adatti a una fascia d’età inferiore, perché più semplici. Il nostro primo obiettivo è stato invece quello di proporre delle storie che fossero adatte alla fascia d’età cui ci rivolgevamo, storie divertenti, piacevoli, che valesse la pena pubblicare.
Poi naturalmente ci sono tutti quegli accorgimenti sintattici e tipografici che agevolano la lettura, che da tempo sono stati codificati e che noi abbiamo messo a punto assieme a esperti.
Il carattere di stampa è stato appositamente studiato per i bambini dislessici, differenziando le lettere speculari (quelle che fanno fare maggiore confusione: d-b, p-q, etc.) e accentuando ascendenti e discendenti rispetto all’occhio medio del carattere.
L’impaginazione lascia una lunghezza irregolare delle righe (non giustificate a destra) in modo che queste possano seguire il ritmo della narrazione. Inoltre, in questo modo, non si spezzano le parole per andare a capo.
Infine, la spaziatura dei paragrafi e delle battute di dialogo: un modo per rendere la pagina più leggera e amichevole, perché ci siano dei “traguardi” facilmente raggiungibili.
Per quanto riguarda l’aspetto sintattico, un’attenzione particolare è rivolta al soggetto dell’azione, che deve essere sempre ben chiaro, eliminando tutte quelle possibili ambiguità che sono spesso presenti nei testi e che, per un lettore insicuro, sono ostacolo e motivo di ulteriore insicurezza.
Infine si cerca di limitare la concentrazione di “parole difficili”, perché l’arricchimento lessicale sia graduale e calibrato. Semplicità ma non impoverimento.

E per i ragazzi più grandi?
Biancoenero ha aggiunto poi altre collane, per raggiungere anche altre fasce d’età. La collana “Raccontami”, per esempio, raccoglie i classici della letteratura per ragazzi. Vede applicati gli stessi criteri sintattici e tipografici, ma adattati a lettori più grandi.
È importante infatti che i nostri libri siano per tutti e che anche il loro aspetto non li costringa in una sorta di “ghetto”, trasformandoli in una specie di strumento terapeutico.
“Raccontami” inoltre ha un CD audio, non tanto per aiutare la lettura, quanto per far recuperare quegli elementi – ritmo e intonazione – che, chi ha difficoltà di lettura, ha interiorizzato meno.
Ed è appena uscita “Grandi!”, collana per giovani-adulti. Una narrativa diversa, di tipo giornalistico, che propone ai ragazzi il racconto delle “vite speciali di eroi normali”, modelli insomma molto lontani dagli stereotipi dominanti. Abbiamo iniziato con il mitico Zàtopek, grande atleta e uomo coraggioso.

Perché parlate di “Alta leggibilità”?
Abbiamo chiamato il nostro progetto di lavoro “Alta leggibilità” perché volevamo rivolgerci non solo ai dislessici, ma anche, ad esempio, a quella realtà in continua crescita nel nostro paese che sono i “lettori riluttanti”: ragazzi che per tanti diversi motivi hanno diffidenza nei confronti della lettura; ragazzi non di madre lingua italiana, o che magari non hanno acquisito particolare familiarità con i libri.
È un tema, quello dei lettori riluttanti, che in altri paesi come la Gran Bretagna è molto dibattuto e affrontato seriamente. Da noi magari se ne parla, sciorinando deprimenti statistiche, ma si fa poco per affrontarlo e in generale per adottare politiche efficaci per la promozione della lettura.
Il progetto “Alta leggibilità”, per quanto piccolo, vuole essere il nostro contributo.

Altri progetti per il futuro?
Nel futuro c’è “Zoom – la lettura si avvicina”: una nuova collana di narrativa per i bambini della scuola elementare con un font tutto nuovo, che sarà gratuita per tutte quelle istituzioni scolastiche e non che desiderino adottarla!

Per saperne di più:
www.biancoeneroedizioni.com

5. Riuscire a fare qualcosa insieme

Intervista a Stefano Rulli
L’idea di girare questo documentario
L’idea di girare questo documentario mi è venuta in modo abbastanza casuale. Non era possibile pensare di fare un film insieme a Matteo ma neanche andare al cinema; non sono mai stato al cinema con Matteo perché lui dopo cinque minuti vuole alzarsi.
Inizialmente l’idea era di fare un documentario sull’esperienza della Fondazione Città del Sole, di cui io sono vicepresidente e Clara Sereni è presidente, che si occupa di esperienze per il tempo libero e di vita per persone con problemi psichici consistenti. I Casali, dove ha sede la Fondazione, sono uno spazio dove facciamo del turismo per tutti, volevamo raccontare, testimoniare l’esperienza delle persone che frequentavano questi Casali ormai da alcuni anni.
Durante un week end in cui ero lì a fare le riprese, Matteo è venuto sul set e a un certo punto si è messo tra me e la macchina da presa. Inizialmente ho pensato che volesse impedire la ripresa perché si sentiva a disagio: il cinema è una cosa che gli ha sempre creato problemi soprattutto riguardo a me, forse perché sa che è una mia grande passione, quasi un amore difficile da contrastare. Poi questa cosa è avvenuta un’altra volta e l’operatore, che è amico di Matteo e lo conosce da tanto tempo, mi ha fatto notare che forse Matteo voleva esserci anche lui dentro il film. E allora ho provato a fare una ripresa, una delle poche cose rimaste delle prime riprese, la scena del taglio dell’albero nel bosco. Abbiamo provato a vedere cosa sarebbe successo se si filmava una scena fra me e Matteo da soli, e quando lui si è messo lì a tagliare quel ramo mi sembrava ci fosse un po’ tutto il sentimento che Matteo aveva rispetto al rapporto con la macchina da presa che ci stava filmando. Da un lato c’era il desiderio di fare una cosa con me, dall’altro c’era la paura di non farcela, ma in fondo io ho sentito che Matteo ce la poteva fare, aveva voglia di farlo. Così abbiamo fatto delle riprese che riguardavano il rapporto fra me e Matteo e altre che riguardavano invece gli ospiti dei Casali. Via via mi sono reso conto che la prima parte era la più complessa però forse anche la più interessante, sicuramente per me e per Matteo. Matteo non sa né leggere né scrivere, quindi quel rapporto che spesso esiste tra un padre e un figlio, legato a insegnargli a leggere, aiutarlo a leggere, a parlare di un libro, è un’esperienza che noi non avevamo avuto. Fare insieme questo film aveva dentro quell’emozione, riuscire a fare una cosa dove stavamo insieme in qualche situazione che apprendevamo tutti e due; lui l’apprendeva perché certo non ha mai fatto l’attore nella sua vita, ma anch’io l’apprendevo perché non avevo mai fatto un documentario come regista, quindi era un terreno su cui ci muovevamo tutti e due con uno spazio di scoperta e con qualche cosa che ci univa. Senz’altro è stata un’esperienza importante, per noi prima di tutto.
Poi ho pensato che potesse essere utile per raccontare un po’ dall’interno a chi non la conosce che cosa si prova a vivere questa esperienza. Spesso c’è una visione ancora più cupa, più rigida dell’esperienza che vivono le persone che hanno dei problemi. Noi siamo una famiglia problematica, non solo lui; il problema è capire che là dentro c’è comunque la vita, c’è speranza, ci sono aspettative, ci sono litigate, ma c’è la vita.
Matteo per noi sa comunicare e volevo sapere se poteva accettare il film o no. Allora l’abbiamo rivisto insieme, a casa, ed è stata la prima volta che abbiamo visto un film insieme a Matteo. Il film era ancora più lungo di adesso, un’ora e mezza, e alla fine mi ha chiesto di rivedere la scena in cui piange. La scena che più avevo paura di fargli vedere era la scena che più l’aveva colpito: è come se gli fosse arrivato questo sentimento, che quel dolore nostro si potesse vedere, si potesse rappresentare e se ne potesse parlare.

Mettere in scena il mio rapporto con Matteo
In questo documentario ci sono anche alcune scene molto private, personali. Credo che la sostanza anche più drammatica, più conflittuale ci sia tutta, mi sembra di averla messa senza particolari censure. Il terreno è molto delicato, cioè decidere se mostrare questi momenti così privati e anche momenti che hanno una loro drammaticità. Mi sembrava importante perché senza raccontare quei conflitti avrei raccontato un rapporto edulcorato, e non sarebbe stato un racconto di un rapporto reale. Quindi non potevo fare altrimenti: se accetto di mettere in scena il mio rapporto con Matteo non posso raccontare solo lui che canta. Cantare è stata una conquista molto complicata per Matteo, lui non riusciva a sentire nemmeno la canzone del suo compleanno. Per arrivare a quel punto, Matteo ha dovuto superare dentro di sé, nel rapporto con me, dei momenti molto drammatici. Quello che ho cercato di fare è di evitare la spettacolarizzazione compiaciuta: nel film, dopo il canto nel salone, si vede che Matteo parte e esce di campo, si sente il rumore di una sedia…  Io non ho fatto vedere la scena dove l’aggressività di Matteo esplode in maniera ancora più forte, poteva essere molto spettacolare ma non era quello che a me interessava comunicare. Era più interessante per me raccontare il dopo, cioè quel momento in cui l’elaborazione di quell’aggressività diventa sofferenza, diventa qualcosa che lui fatica a pensare perché non ha una capacità astrattiva forte. È
come se parlando con lui tu cercassi di ricostruire il senso di quello che è accaduto. Il cinema è anche morale, il modo in cui tu giri le riprese e fai delle scelte non sono solo tecnici ma anche morali.
Avevo dato alcune indicazioni all’operatore, sapevo che ci sarebbero stati dei momenti in cui io non potevo essere regista ma potevo solo essere presente dentro quella situazione, perché il rapporto con Matteo avrebbe prevalso sulla dimensione cinematografica in senso stretto. In quel caso il regista diventava automaticamente lui e doveva sapere che si doveva attenere ad alcune regole di fondo. La prima è quella di non tagliare: normalmente un operatore quando sente una cosa un po’ noiosa stacca per risparmiare pellicola e poi riparte quando c’è un’altra cosa interessante. L’altra è di fare degli zoom cioè di stringere: quando c’è una cosa molto forte normalmente in televisione si stringe perché è quella che fa spettacolo. Tutta la sequenza della crisi di Matteo nella camera è girata con un’inquadratura unica, proprio perché era importante che si capisse che non era una cosa costruita. Credo che sia importante capire la differenza rispetto al cinema normale, anche il cinema migliore: quando nel cinema si racconta la crisi c’è per esempio una frase drammatica che provoca una reazione, poi quella reazione dopo un minuto si ricompone perché uno ha detto una cosa intelligente, perché è intervenuto lo psichiatra bravo; ci sono quei tempi lì perché il cinema va di fretta. Però la percezione che uno ha attraverso il cinema di una crisi psichica è una percezione abbastanza magica che non corrisponde alla realtà. Allora l’ho voluta raccontare con tutti i suoi tempi morti, proprio così come si genera: Matteo parte spesso in situazioni di aggressività su frasi che sembrano apparentemente prive di qualunque contenuto violento; poi, andandole a rivedere, vedi che sono diverse. Io stesso quando le ho riviste mi sono reso conto che ero stato molto più violento di quello che pensavo e ho deciso di mantenerle nel film proprio per questo; quando mi rivedo provo sempre un certo disagio per quelle scene, non per la violenza di Matteo ma per la mia aggressività. In alcune domande che gli pongo, in un certo mio modo di chiedergli ordine continuamente, regole, di chiedergli sempre di più – lui fa una cosa e gliene chiedo subito un’altra – mi sono reso conto che c’è in me un elemento di aggressività di chi in fondo lo vorrebbe normale. Cioè se tu fai un passo io te ne chiedo due, se tu ne fai due te ne chiedo cinque, allora in quella dinamica dove apparentemente la sua aggressività è un po’ sproporzionata, non è sensata, invece c’è qualcosa: lui è una persona dalla sensibilità fortissima, lui avverte questo carico di aspettative e io ho pensato che fosse giusto mettere in scena anche questo perché credo che possa riguardare anche altri genitori. Quella spinta, quel desiderio, quel sogno di normalità poi te lo porti dentro e laddove viene percepito come negazione di quello che tu sei come persona reale diventa un elemento di dolore, per Matteo ma penso anche per altre persone. Per me la cosa più difficile da mettere in scena sono a volte proprio le mie frasi più banali, quelle che apparentemente sembrano più normali quando, per esempio durante la festa di matrimonio lui a un certo punto ha uno scatto verso di me che gli ho detto di venire a ballare. Non gli ho chiesto niente di speciale. Ma lui, prima, per dire quei due versi di poesia a memoria, ha fatto una grande fatica, è la prima volta che l’ha fatto nella sua vita, ha trovato la forza di affrontare una festa, tante persone, tutti gli occhi concentrati su di lui ed è riuscito a dire una frase in qualche modo d’amore perché lui voleva molto bene a quei due sposi. Quindi lui aveva fatto già un grande sforzo per stare dentro la realtà e comunicare con gli altri e io gli ho chiesto qualcosa di più. Gli ho chiesto non se voleva ballare, ma gli ho chiesto di essere normale. C’è una grande violenza in quella frase. Per quello che ho potuto, ho cercato di tenere anche questa contraddittorietà dei miei comportamenti come genitore.
Normalmente il mio lavoro mi porta molto fuori: quando stai dentro un film, dentro alcuni personaggi, ti rapiscono emotivamente e per Matteo questa assenza così violenta è qualche cosa di inaccettabile tant’è vero che io ero giunto alla conclusione di non lavorare mai in sua presenza. Quando Matteo rientrava, smettevo di lavorare perché avevo l’impressione che ci fosse come una sorta di gelosia rispetto al lavoro. Aveva ragione lui: è vero che quando sto dentro una cosa, il cinema, che mi coinvolge molto, faccio una gran fatica a condividere altre cose, è un lavoro dove il coinvolgimento emotivo è sempre molto forte. Per una persona come Matteo che vive di un bisogno di comunicazione emotiva più che razionale, avvertire quella lontananza è qualche cosa di non tollerabile.
Questo documentario è un’esperienza conclusa, che sta dentro la nostra vita. Spesso mi chiedono se dopo quel film Matteo è cambiato, se è cambiato il nostro rapporto. In realtà credo che questo film sia stato possibile perché il rapporto era cambiato prima. Matteo non avrebbe potuto partecipare a questo film se dentro di sé non avesse avuto quella disponibilità a entrare con me in una relazione diversa. È vero che, dopo, il nostro rapporto è cambiato, ma non per il film ma perché il film stava già dentro un sentimento di possibile cambiamento.
Nel 1975 ho fatto un altro film documentario, Matti da slegare: è il primo lavoro che ho realizzato, mi sono avvicinato al cinema con un film che si occupava della malattia mentale, è stata un’esperienza importante a livello personale perché è stata lì la scoperta della malattia mentale, non avevo mai avuto esperienze di quel tipo. Raccontava la storia delle dimissioni dall’ospedale psichiatrico di Parma, dei primi tentativi di uscita dall’ospedale con la riforma Basaglia che era già nell’aria. Quell’esperienza è stata molto ricca, però mi ricordo che c’era una parte che mi mancava in quel film: eravamo riusciti a raccontare molto di quei personaggi e delle loro condizioni sociali che spiegavano in parte la loro emarginazione, la loro diversità, però non eravamo riusciti a entrare nel racconto della loro vita familiare, dei loro sentimenti più privati. C’era una difficoltà, un imbarazzo, è difficile poter dire che hai raccontato il sentimento della malattia mentale se lo racconti solo stando dall’altra parte. Per caso mi sono trovato nella condizione di poter fare Un silenzio particolare, non era stato affatto programmato, non avevo pensato a farlo ma poi è come se Matteo mi avesse cercato. Il legame fra Matti da slegare e Un silenzio particolare è forse questo fatto di aver potuto raccontare, questa volta dall’interno, quell’esperienza che prima avevo potuto filmare soltanto stando dall’altra parte.
In una scena del film, un giovane padre mette la sua bambina di pochi mesi in braccio a Matteo. Ho molto apprezzato e ammirato questo gesto, il coraggio di questo padre. Glielo riconosco con grande gratitudine, è molto importante che esista un clima, un gruppo di persone, una cultura per cui c’è qualcun’altro che fa quel passo che a volte tu non hai il coraggio di fare. Io non avrei mai potuto chiedere a un padre di mettere una bambina in braccio a Matteo. È stato lui che ha dato una lezione a me non solo di coraggio ma di fiducia in Matteo. Di quella situazione mi ricordo in particolare il coraggio del padre e poi Matteo con questa ragazzina che mi dava una certa apprensione fino a quando lui ha detto ridendo “Ma la butto?”.  Ecco, quando l’ha detto ridendo ho capito che poteva addirittura scherzare su quello che sentiva che mi passava nella testa. Quando lui mi legge nella testa un pensiero, mi guarda e me lo dice, forse io sono abbastanza prevedibile ma è come se vedesse il mio pensiero. La sensazione di tenere in mano quella vita era un po’ quello che Matteo ha provato a fare anche dopo, la sua vita con qualche fatica lui l’ha ripresa in mano. Adesso lui lavora, per quello che riesce, in una cooperativa che fornisce attrezzature all’ospedale, vive in una casa con degli amici, fa delle attività pomeridiane, ci vediamo una volta ogni quindici giorni, ci sentiamo per telefono, io abito in un’altra città adesso… Per cui questa sua vita un po’ tremolante se l’è abbastanza costruita.

Raccontare nel modo giusto una storia che riguarda la disabilità
Per raccontare nel modo giusto una storia che riguarda la disabilità, la cosa più difficile per me è cercare di raccontare queste persone come persone. Non è un gioco di parole: spesso la persona che ha dei problemi viene raccontata per i suoi problemi, non per il suo essere persona. Queste persone hanno delle caratteristiche che sono proprio loro, raccontarle come persone significa cogliere ciò che sono come persone. In questo film ognuna di queste persone ha qualcosa per cui tu te la ricordi, io spero non per la sua diversità. Quando Ugo parla del suo sentimento, della sua sofferenza d’amore mi dice qualcosa di così profondo che riguarda anche me cosiddetto normale. La ragazzina Down che racconta che è innamorata di un ragazzo che è innamorato di un’altra non me la ricordo perché ha la sindrome di Down, me la ricordo perché è una persona particolarmente profonda e coraggiosa rispetto ai suoi sentimenti. O quando quel poeta alla festa dice “io vorrei che mia madre fosse fiera di me”. Questo è stato anche il sogno della mia vita quando ho cominciato a scrivere la prima sceneggiatura o si leggeva il mio nome sul giornale… La cosa più difficile, la cosa che sarebbe opportuno fare anche quando si parla di persone con delle disabilità, è quella di raccontarle sempre come persone e non come casi, problemi da affrontare, da risolvere. Spesso, quell’esperienza che uno vive, quella sensibilità particolare che queste persone hanno, può anche comunicarci qualcosa che noi non capiamo o non sappiamo.

Un silenzio particolare

Il titolo del film nasce da una frase che dice Matteo a un certo punto, non ha un senso preciso, è come se quel silenzio che lui sogna sia il silenzio di quelle sue paure, di quelle sue ossessioni, è un sentimento di pace. Un silenzio particolare è quel silenzio non fuori ma dentro di te. Penso che sia un’aspirazione, un desiderio che non riguarda solo Matteo ma anche altri di noi.
Il rapporto fisico sta dentro quella disponibilità a vivere insieme delle emozioni; laddove le parole sono più difficili, i pensieri sono più difficili, i corpi sono importanti per capirsi, comunicarsi delle cose.
Quando tu racconti, scrivendo dei testi, il disagio mentale, la malattia mentale, sei tu che fai una sintesi di tutte le cose che sai, che hai letto, studiato, visto, poi le devi mettere dentro un racconto dove tu scegli i tempi, tu scegli quando quel personaggio esprime una crisi, scappa, torna, si innamora… Quindi è una scelta razionale, controlli tu il racconto, il personaggio, lo controlli sempre, anche se sta raccontando una persona che non si controlla. Ho girato questo film nello stesso periodo in cui ho scritto con Gianni Amelio e Sandro Petraglia il film Le chiavi di casa che è proprio la storia di un padre che rivede suo figlio malato, anche con un forte disagio psichico, dopo tanti anni, e cerca di stabilirci un rapporto. È stato veramente un caso sovrapporre quell’esperienza di scrittura di un personaggio, di una relazione tra un padre e un figlio con quei problemi, mentre giravo questo film.
La percezione diversa è che girando Un silenzio particolare io non potevo controllare niente, io non la sapevo la storia. Il montaggio è stato molto importante: ci sono trenta ore di materiale filmato e quando sono andato a vederlo, ho visto qualcosa che mentre giravo non solo non sapevo e non avevo previsto, ma non avevo neanche capito. Lì c’è stata un’esperienza più di apprendimento per me, mi sono guardato come un personaggio. Invece quando scrivi tu per il cinema, sei tu che decidi se mandare il personaggio di qua o di là, quindi c’è il pericolo di essere sempre un po’ schematici, a volte tu hai un’idea in testa, la vuoi realizzare e quindi in qualche modo la attui. Spesso il cinema è affascinato dalla pazzia, o dalla sua parte più spettacolare, drammatica o da una specie di mito un po’ bucolico per cui “matto è bello”. Invece penso che, proprio perché sono persone, ci sono dei momenti in cui i “matti” li ami da morire e altre volte non li sopporti, altre volte ti fanno male, ti fanno paura. Bisogna accettare che possono suscitare questi sentimenti come li può suscitare qualunque altra persona, non si capisce perché dovrebbe essere diverso.
L’altra cosa che non amo tanto nel cinema italiano è quando vedo delle immagini edulcorate delle persone che stanno male. Quando una persona sta male magari non è simpatica, ma non è una sua colpa, è una condizione, quindi se uno vuole rappresentarla nella sua realtà, appunto come persona non come santo né come fenomeno da baraccone, bisognerebbe raccontarla con questa complessità di forza, di poesia, però anche di dolore, dolore che può diventare qualcosa di difficile da vivere per chi ci sta insieme. Io parlo come genitore per l’esperienza che ho vissuto. Ognuno non se lo sceglie il suo destino, dentro questo percorso credo di vivere una vita molto ricca anche di conoscenze e di emozioni, a volte difficili da vivere: questo film mi ricorda momenti molto belli, alcune scoperte di Matteo molto emozionanti. Una volta Matteo disegnò una specie di cerchietto chiuso sulla parete e dato che lui non aveva mai fatto niente, non sapeva proprio scrivere, mi ricordo quel gesto lì come l’emozione che uno può avere se il figlio si laurea. Tutto è rapportato alla vita che tu hai, alla relazione che tu hai e quindi puoi vivere emozioni molto forti sia in positivo che in negativo. Questo può capitare nella vita di ogni genitore, avere un figlio che ti dà emozioni molto positive o molto dolorose.

Stefano Rulli
Stefano Rulli è nato a Roma nel 1949. Laureato in lettere con una tesi su neorealismo e critica cinematografica, nel 1975, assieme a Marco Bellocchio, Silvano Agosti e Sandro Petraglia, realizza il film-documento Matti da slegare, forse ancora oggi il più significativo documento filmato sul mondo della malattia mentale e sul perché fosse necessaria la legge Basaglia. Dopo aver contribuito alla crescita e all’affermazione di un certo cinema italiano, scrivendo (sempre insieme a Petraglia) sceneggiature come Il ladro di bambini, La meglio gioventù e Le chiavi di casa, Rulli torna dietro la macchina da presa, a trent’anni di distanza, sperimentando, stavolta in prima persona, che cosa significa vivere con qualcuno che, scomodo al cuore e alla ragione, viene da altri definito “matto”, per svelare il più intimo, personale rapporto che lo lega a Un silenzio particolare. Presentato nella sezione Cinema Digitale a Venezia 61, racconta del difficile rapporto tra Matteo e i suoi genitori, la scrittrice Clara Sereni e Rulli stesso.

4. Coltivare un figlio come un bonsai

Intervista a Daniela Rossi
Genitori e figli
Se penso al passato ricordo che la mia parte razionale ha impiegato molto a comprendere che Andrea era sordo. Un anno e due mesi, ma dentro di me direi che l’ho sempre saputo. Avvertivo impressioni, sensazioni rapide ma non affioravano alla ragione tanto da diventare un pensiero definito.
Se rivivessi la stessa esperienza oggi non starei così male perché conosco la sordità e so cosa significa essere la mamma di un bambino sordo. Certo mi dispiacerebbe ma non credo verserei una lacrima.
Ci sono addirittura aspetti della personalità di Andrea che in parte sono legati alla sordità e che io adoro. Questa difficoltà non è solo una cosa che toglie, è anche una cosa che dà, per esempio un’incredibile capacità di provare empatia, di comprendere gli stati d’animo di chiunque, di accorgersi della minima incongruenza tra quello che si dice e quello che si sente. Quando le parole si colgono con difficoltà c’è un maggiore e profondo investimento sulle espressioni del volto, su quello che esprime uno sguardo. Ho notato questa attitudine in mio figlio già quando aveva due anni. Se dicevo “Che bello” ma tra dieci pensieri ce n’era mezzo che forse così bello non era, lui immediatamente se ne accorgeva.
Ho avuto il grande vantaggio di poter trascorrere con lui molte ore, di non avere impegni che mi portassero via, quindi non c’è stato neanche un episodio di non comprensione tra me e lui. Quando vedo, e l’ho raccontato nel libro, certi film americani dove un bambino sordo indica la zuccheriera ed emette un suono e la madre che vive con lui da otto anni non riesce a capire che suo figlio vuole lo zucchero, mi sembra davvero strano anche perché tutti i bambini non parlano prima dell’anno ma le loro madri sono in grado di comprenderne i bisogni.
Andrea si è espresso a lungo anche con gesti inventati da lui. Erano facilmente comprensibili per tutti, gesti comuni che molti usano ma sottolineati in modo più colorito ed espressivo che li rendeva chiarissimi. Io li ho sempre accolti e utilizzati a mia volta fino a che, quando Andrea acquisiva prima un suono sostitutivo, poi le parole complete, decadevano spontaneamente. Mio figlio ha potuto quindi esprimersi in tutti i modi, con suoni, mimica facciale, gesti, nella massima libertà espressiva fino alla conquista del linguaggio.
A un bambino sordo, a un figlio sordo devi dedicare molta più attenzione, energia. Sarebbe auspicabile per tutti ma lo è soprattutto per le persone sorde dato che manca o è molto carente un canale importante d’informazione. Quando ad esempio facevamo una passeggiata ai giardini insieme al figlio udente di un’amica, lui tornava a casa con ore di chiacchiere ascoltate, con nomi di fiori, di piante, bambini e cose, mentre mio figlio imparava solo quello che io intendevo insegnargli quel giorno. Se mi fermavo e dicevo “petunia”, lui forse poteva ricordare “petunia”. È tutto un altro vivere quindi, un impegno fatto d’amore, avendo la possibilità di dedicarcisi. Penso che un buon modo per salvare veramente un figlio sordo, per offrirgli tutte le possibilità, è “coltivarlo” con attenzione e amore… Come un bonsai, con la massima cura, senza dargli l’idea che a lui manchi qualcosa, che sia carente. Aiutandolo a sviluppare le sue doti. Allora crescerlo ha il fascino di una vocazione, gli si offre una presenza molto calda, attenta, raffinata nel cogliere tante cose. Nessun terapeuta può fare questo lavoro. A scuola anche l’insegnante di sostegno può fare i salti mortali ma non riuscirà a fare quello che può fare un genitore.
Sia io che il padre di Andrea, di fronte alla proposta di un impianto cocleare, abbiamo detto immediatamente no. Quando il medico ha mostrato l’apparecchiatura e spiegato che il bambino avrebbe subito un’anestesia totale e un’operazione lunga ci siamo detti: in nessun caso possiamo metterlo su un tavolo operatorio a 14 mesi. Avevamo entrambi amici medici che ci hanno aiutato a capire, in base ai residui uditivi di Andrea, che l’intervento non era neppure necessario.
Altri amici hanno cominciato a insistere pesantemente perché gli insegnassimo il linguaggio dei segni. Io come mamma, come essere umano che ama la libertà e anche come psicologa, non lo ritenevo adeguato alle opportunità oggi accessibili alle persone sorde. Mi sono rifiutata di andare verso mio figlio con un linguaggio diverso da quello della sua famiglia e dei suoi amici prima di verificare le sue possibilità.

La storia in teatro, la storia in TV
Andrea non ha letto tutto il libro. Io non glielo ho imposto né suggerito. Ci sono stati momenti in cui era incuriosito, in cui ha voluto sapere di alcune situazioni, del “dottore cattivo” come lo chiama ancora adesso. Solo in quell’occasione ha letto qualche capitolo.
Ha visto invece lo spettacolo teatrale che è stata un’esperienza molto forte. Anna Rita, la protagonista, ha dato una carnalità, una corporeità a questa vicenda che ha avuto l’effetto di una bomba emotiva per tutti e soprattutto per me e Andrea che eravamo in prima fila. Lui ha visto tutto questo dolore e ne ha voluto di nuovo parlare con me. Gli ho spiegato ancora quella che è la verità: il dolore era legato alle modalità di comunicazione della diagnosi. Mi è stata data in un modo davvero disumano.
Dal mio libro è stato tratto anche uno sceneggiato per la RAI. Per esigenze televisive sono stati modificati alcuni particolari ma devo dire che come produzione è stato fatto il possibile. Purtroppo l’idea di partenza è che il pubblico televisivo, costituito anche da un’ampia fascia di persone molto anziane, non sia particolarmente colto o brillante quindi si tende a semplificare. Detto questo ci sono due o tre scene che valgono da sole tutto il film e di questo devo ringraziare la regista. Il film, la prima volta che è andato in onda, è stato visto da oltre 6 milioni di spettatori. Ci sono state poi due repliche. C’è una scena molto bella dei genitori storditi di fronte alla serie di esperti, che rende perfettamente l’esperienza vissuta da me e da molti altri: uno dice una cosa, l’altro ne dice una opposta. Un’infinità di ipotetiche soluzioni che vengono proposte mentre il bambino sfuma all’orizzonte, non è più centrale. È la sordità a diventare protagonista insieme a tutto ciò che si presume possa “risolverla”.

Gli incontri

Positivo è stato l’incontro con l’ingegnere che prepara gli apparecchi che da 14 anni utilizza mio figlio. È una persona sobria, preparata e franca. La prima che non ha cercato di forzarmi a seguire il suo credo, anzi mi ha detto “Non mi sento di assumermi la responsabilità di realizzare apparecchi per suo figlio” perché Andrea allora era molto piccolo e non aveva ancora imparato a parlare.
Ho dovuto insistere molto per ottenerli.
Era stato positivo anche l’incontro con l’unica associazione che ho frequentato: la Fiadda. Lì siamo stati accolti con un sorriso e con l’idea che ogni bambino sordo andasse considerato un bambino che, se seguito con amore e impegno, può fare tutto. Queste sono parole che in certi momenti ti salvano la vita e la salvano al bambino perché ripristinano una fiducia nel genitore, gli permettono di essere tale con tutte le sue energie.
Io sono stata una madre molto itinerante. Assurdamente ho avuto spesso problemi con le persone che avrebbero dovuto aiutare mio figlio proprio a causa dei suoi apparecchi ad alta tecnologia perché era il primo bambino in Italia a portarli, non li conosceva nessuno e per questo non erano accettati. Trovo che sia stata una grave mancanza di apertura mentale e di informazione. Erano apparecchi elaborati da ricercatori universitari, fatti controllare negli Stati Uniti, apparecchi prodotti da persone qualificate e io nel farli conoscere avrei dovuto essere rispettata. Invece a volte sono stata costretta a cambiare centro di riferimento e persino città.
C’è stata una chiusura che non esito a definire sospetta e giudizi negativi nei confronti degli apparecchi portati da mio figlio espressi da persone che, in una maniera o nell’altra, avevano interessi nel commercio di altre apparecchiature per non udenti
Mio figlio a un anno e due mesi ha avuta una diagnosi di sordità totale, assoluta, diagnosi che si è poi rivelata falsa grazie ad accertamenti successivi fatti negli ospedali di Ginevra, Losanna, Roma.
Sono tornata in quel primo centro quando Andrea aveva nove anni. A quel punto conoscevo bene la sua situazione uditiva e ho voluto fare questa prova, mi sono detta: adesso vediamo cosa dicono. Incredibilmente si è ripetuta la stessa scena: Andrea mi ha riferito di essersi trovato per circa tre minuti davanti a una decina di persone con il camice bianco che lo guardavano serie. Da questo incontro è uscito con una diagnosi di sordità profonda assoluta.
A Ginevra per dirmi quanto era sordo mio figlio l’hanno testato per tutto un pomeriggio. L’hanno portato a passeggiare, a mangiare, l’hanno fatto giocare con i trenini, con strumenti musicali; osservandolo e giocando con lui non indossavano il camice. Hanno persino ascoltato me e quello che avevo da dire senza preconcetti del tipo “la madre è troppo coinvolta”.

Le rappresentazioni
La famiglia, dopo la diagnosi, ha costituito a volte un problema. Questo proprio per il tipo di handicap che è la sordità. Tutto sommato se hai un figlio con un altro tipo di handicap la gamma delle possibilità nel recupero sembra più definita.
I ragazzi con la Trisomia 21, ad esempio, trent’anni o quarant’anni fa erano quasi tenuti nascosti, vestiti sciattamente, non stimolati. Adesso hanno forme di autonomia allora inimmaginabili e hanno dimostrato quello che possono fare, anche se un limite oggettivo, oltre un certo livello, esiste. La sordità è più complessa, oltre a essere l’handicap meno conosciuto dai genitori udenti, proprio perché è abbastanza raro e non si vede. È una difficoltà che ti può portare, l’ho visto conoscendo tante persone sorde, a vivere una vita normale oppure una di isolamento, malessere, gravi carenze. Ci sono tutte le possibilità ma bisogna guadagnarsele con impegno, cura e tante attenzioni. Il genitore deve essere molto presente ma capace di stimolare e accompagnare il figlio all’autonomia.
Penso che quello che manca oggi per comprendere il problema sia la parola dei ragazzi sordi. Tutto viene gestito dagli udenti: genitori udenti, medici udenti. Se invece il genitore è sordo, in un certo senso il figlio ha la strada facilitata ma il percorso dell’ENS è un’altra realtà. Oggi comunque, quando qualche genitore mi chiede informazioni rispondo: “Cercate persone sorde, adulti sordi, fatevelo raccontare da loro che cosa volevano da bambini, come si sentivano”.
Il bambino oggi è un po’ relegato nell’angolo, come se non esistesse più. Gli adulti e gli esperti si prendono le sue orecchie e le studiano, le portano in giro.

Daniela Rossi
Nata a Sanremo il 15 luglio 1957, giornalista pubblicista iscritta all’Albo dal 1986, laureata in Psicologia all’Università La Sapienza di Roma nel 1990, iscritta all’Albo degli Psicologi dal 1992. Dopo la collaborazione a quotidiani e riviste ha esordito con il romanzo Il mondo delle cose senza nome (Roma, Fazi editore, 2004, e in uscita per i Tascabili Bompiani nel 2010) pensato come una lettera d’amore al figlio in cui narra vicende personali e familiari riflettendo sulla fragilità dei rapporti, sulla fallibilità umana, sulla paura e il coraggio. Il libro, che ha vinto il Premio Anima 2005 per la Letteratura, è stato tradotto in lingua tedesca e coreana. Da questo romanzo è stato tratto il film Tutti i rumori del mondo prodotto da Fulvio e Paola Lucisano per RAI International Film, diretto da Tiziana Aristarco e interpretato da Elena Sofia Ricci, Stefano Pesce e Gioele Dix. Il mondo delle cose senza nome è anche il titolo della trasposizione teatrale del romanzo, prodotta dal Teatro dell’Opera di Roma con l’ensemble strumentale e il Corpo di Ballo dell’Opera. Protagonista è l’attrice Anna Rita Chierici, che ha elaborato l’adattamento per il quale è stata a sua volta vincitrice del Premio Anima 2008 per il Teatro.

3. Sono quello che sono perché lei mi ha trasformato

Intervista a Igor Salomone
La scrittura è un modo di esprimermi
Ho scritto a penna solo il mio primo libro poi trascritto pazientemente su una macchina elettrica ma da allora ho sempre usato il portatile. Non riesco a scrivere diversamente, penso con il portatile davanti, penso mentre scrivo.
Scrivo un po’ da sempre, mi è sempre piaciuto, ho pubblicato diversi libri, testi tecnici rivolti a un pubblico professionale; faccio il pedagogista e ho insegnato all’Università quindi i libri in qualche modo appartengono alla mia esperienza un po’ da sempre anche se primariamente sul versante professionale.
Con questo però il percorso è stato molto diverso. Un giorno, ho portato mia figlia a giocare con gli aerei. Io abito vicino a Linate e, assillato da un problema che si ha di solito con i figli, a maggior ragione se si hanno dei figli disabili, di che cosa proporle, di che cosa fare insieme a lei, mi son detto andiamo all’aeroporto lato atterraggio, andiamo a vedere gli aerei che atterrano. Mi hanno sempre affascinato, come credo che affascinino tutti i bambini, questi aggeggi pesanti che volano, che atterrano e ho inventato lì per lì con lei questo gioco del grattare la pancia agli aerei. Quando son tornato a casa, ho sentito il bisogno di  raccontarmi queste cose e ho cominciato a scrivere e lì è nato il primo capitolo.
Questo testo ha preso le prime mosse quindi in un modo molto diverso dalle altre cose che ho scritto, perché non c’era un progetto, non mi son messo lì dicendo adesso scrivo un libro, men che meno mi son messo lì dicendo adesso scrivo delle cose che poi pubblico, che invece è quello che avevo fatto in precedenza con gli altri miei lavori. Ho scritto perché sentivo il bisogno di scrivere.
Il professor Charmet nella presentazione di Milano ha detto che ci sono dei libri che urgono e questo è uno di quelli che urgono di essere scritti, premono. Questo ha premuto dentro di me prima ancora che sapessi o decidessi la possibilità di farlo diventare un libro. Più o meno a metà, ho cominciato a pensare a pubblicarlo, per cui tutte le motivazioni sono ricostruite a posteriori, a posteriori posso dire che ho avuto bisogno di scriverlo perché ho avuto bisogno di elaborare, di capire.
Scrivendo capisco molto di me, di quello che penso, di quello che faccio, di quello che desidero. Dopo ho capito di aver scritto perché avevo bisogno di mettere mano alla difficoltà della mia paternità, all’estremo disagio che avevo accumulato negli anni, non solo e non tanto per il fatto di avere una figlia disabile ma per l’aver smarrito completamente il ruolo paterno. Ho avuto bisogno di far affondare il più possibile questo nodo per poi riuscire a ripescarlo avendone qualche chiarezza in più.
Da quando è uscito Con occhi di padre, e ormai sono più di due anni, sto attraversando l’Italia parlandone e parlando attraverso il libro. Tutte le volte, devo compiere lo sforzo di trattenere il pedagogista, il teorico che è in me: io sono qui perché ho avuto un’esperienza di paternità di un certo tipo, perché su questo ci ho scritto e, certo, sono anche un pedagogista.
Cos’è cambiato? È cambiato tantissimo perché questi due anni sono stati segnati professionalmente e personalmente in modo profondo dall’esperienza della pubblicazione. Ho incontrato e sto incontrando centinaia di persone, sicuramente è un periodo di grande ascolto, di grande viaggio e comunque di crescita professionale e culturale. Stanno cambiando delle cose per me anche professionalmente.
Questo libro è stato un outing, è stato il momento in cui ho detto che, oltre a essere un formatore, sono un genitore che ha un figlio disabile. Voi potete immaginare le facce degli operatori con cui fino al giorno prima andavo a fare il consulente pedagogico. Non è stato semplicissimo perché di solito gli operatori con i formatori parlano male dei genitori perché si possono in qualche modo sfogare…
Devo dire che ora mi sento libero, adesso questa cosa è pubblica e mi ci devo misurare perché quando vado a parlare sono insieme un pedagogista ma anche un genitore e queste due parti non riesco più a tenerle separate, le devo far giocare insieme e sto imparando a fare questo intreccio necessario, importante, in cui parla la mia esperienza personale e la mia esperienza professionale senza che si fondano o si confondano, però ci sono entrambe.

Luna
Il fatto è che io dovevo riuscire a trovare una dimensione in cui prendermi cura di mia figlia che non fosse scimmiottare le cure di mia moglie. Bisogna tener conto che la madre di Luna è una madre con la emme maiuscola, di quelle con una capacità di cura straordinaria, di quelle che vedono sempre prima quello che tutto il resto del mondo non vede. La madre di Luna è una di quelle madri con una capacità di attenzione, di ascolto che è irraggiungibile; io ho dovuto convivere col fatto di non riuscire mai, dico mai, a capire in anticipo qualcosa rispetto a lei. Ho dovuto convivere con questa frustrazione perenne di fronte all’impossibilità di essere neanche la brutta copia delle sue capacità di cura e ho dovuto per forza chiedermi “Va beh ma io cosa devo fare? Qual è il mio compito?”.
Oggi si parla spesso della crisi della paternità ma questa crisi per me nasce anche dal fatto che sento che mi è stato chiesto come padre, indipendentemente dal fatto che mia figlia sia disabile, un impegno su un piano che fa fatica ad appartenermi.
Io sono figlio unico, non ho avuto cugini piccoli da curare, quando mi hanno messo mia figlia in braccio, da subito perché è nata in casa, credo di non essermi mai sentito tanto impacciato. È come se io da una parte non avessi alle spalle un bagaglio personale ma non c’era neanche il bagaglio culturale. Gli uomini non hanno da nessuna parte del mondo e della storia avuto un ruolo significativo nella vita di un bambino sotto i due anni. Ce lo stiamo inventando ma è una cosa recente, è una cosa di qualche decennio a esagerare, e allora il papà tiene il bambino e allora gli dà il biberon e allora lo tiene sul petto, addirittura prima che il bambino nasca cerca di immaginare di averlo nella pancia, e tocca la pancia… Ma son tutte invenzioni recenti e alle nostre latitudini. Fino a quarant’anni fa il padre per i bambini così piccoli era una figura assolutamente inesistente.
Poi i bambini crescono, allora cominci ad arrivare tu.
Crescono, ma se non crescono?
Quando una bambina ha cinque anni e urla ancora e tu non sai se ha sete, ha sonno, ha fame, le scappa la cacca, ha male da qualche parte, è incazzata, questo vuol dire attraversare un’esperienza che ti chiede costantemente un’attenzione al bisogno dell’altro, bisogno immediato, primario. È come se perpetuasse il rapporto con il neonato e questo oggettivamente rende difficoltosa da morire la possibilità che il tuo ruolo come padre trovi qualche spazio.
Dopo aver passato anni a sentirmi del tutto inutile oltre che impotente, ho cominciato a cercare un’altra strada che non fosse quella di fare il vice sostituto, male, di mia moglie ma che fosse quella di provare a capire di che cosa io potessi prendermi cura nell’esperienza di Luna. Non è un caso che questo libro inizi con quel gioco fatto all’aeroporto di Linate perché in quel momento io ho sperimentato qualcosa che istintivamente capivo poteva essere sulla strada giusta, ho sentito che mi si apriva la possibilità di prendermi cura non solo del corpo di Luna, dei suoi bisogni, delle sue fatiche, delle sue sofferenze.
Ho sentito che avevo bisogno di trovare la strada per prendermi cura delle possibilità che Luna incontrasse il mondo, che Luna avesse un ruolo, che potesse esplorare, che anche lei al suo livello di capacità e con la sua età potesse provare a entrare in contatto con il mondo e che io potessi portarcela. È da lì che è iniziato il mio processo di emersione dalla situazione; non è un caso che poi, un paio di anni dopo, sono ritornato lì in quel posto a grattare la pancia agli aerei a Linate, lato atterraggio e c’erano un sacco di padri con bambini che facevano la stessa cosa. Non credo che l’abbiano fatto perché mi han copiato ma perché evidentemente quella è una cosa da papà ed è la strada che sto ancora seguendo, esplorando, che sto ancora cercando di capire.
Del resto, scrivere questo racconto in sé è stato un atto paterno perché ha voluto dire rendere pubblico un mondo privato; potevo scriverlo e lasciarlo in un cassetto, ma pubblicarlo ha voluto dire ok mondo io ho avuto questo problema, io ho questo problema, io questo problema lo sto affrontando in questo modo, questo problema lo sto vivendo e mi sta creando queste difficoltà ma non è un problema solo mio. È un problema mio che io voglio narrare agli altri, che possa essere anche degli altri. Credo che questo sia un compito paterno e per lo meno la madre l’ha riconosciuto in modo straordinario e ha lasciato che lo facessi sostenendomi moltissimo.
La madre non avrebbe potuto scrivere un testo sul suo rapporto con Luna ed è stata ben contenta che l’abbia fatto io, parlando del mio rapporto con Luna.
La madre di Luna, oltre a essere una di quelle madri, come dicevo, con la emme maiuscola, è anche una madre leonessa. Racconto spesso questo aneddoto: nella parte di Milano dove abitiamo, una zona abbastanza centrale ma che fa ancora abbastanza quartiere, Luna è conosciuta da tutti. Mi capita sovente di girare per il quartiere e c’è gente, che io non ho la più pallida idea di chi sia, che saluta Luna. Al tempo stesso però quando Luna gira con me e quando Luna gira con sua madre succedono delle cose completamente diverse. Succede che quando gira con me le persone si avvicinano, quando gira con sua madre no. Non è facile avvicinarsi a Luna quando sua madre le è a fianco ma non perché lei ringhi o minacci di picchiare qualcuno ma perché si vede che lei è lì a protezione di Luna, che bisogna passare da lei per poter avvicinarsi a Luna, e poi è in grado di lanciare delle occhiate preventive assolutamente efficaci e bloccare interi eserciti perché questo è il compito che lei in qualche modo si è assunta nei confronti di sua figlia, proteggerla, proteggerla da tutte le minacce, proteggerla all’ultimo sangue. Quello che ha portato Luna al parco giochi sotto casa dove abbiamo conosciuto un sacco di gente, sono stato io. La madre quando gira cerca sempre di evitare i punti di massimo assembramento ma non perché la voglia nascondere. Sia io che lei siamo assolutamente fieri di nostra figlia, di come è fisicamente, di come si presenta, di quanto piace alle persone, la troviamo bellissima, quindi non è che abbiamo problemi di questo tipo, di impatto, ma lei tende a dire “State lontani da mia figlia, cos’è tutta questa confidenza?”. Non lo dice con le parole, lo dice con l’atteggiamento mentre io la lascio più andare, l’ho sempre lasciata andare verso le persone, verso le situazioni e questo vale anche per il racconto dell’esperienza.
La sua reazione iniziale al mio lavoro è stata molto ambivalente perché era forte e potente l’incontro con la scrittura anche perché forse erano le prime parole un po’ coerenti che riuscivo a dire, riusciva a vederle e vedeva me anche sotto un’altra prospettiva. Non sono riuscito a farmi dire il suo punto di vista su quello che scrivevo, lei diceva questa è una cosa bella, molto bella, ma è una cosa tua e io credo di non aver mai parlato di lei nel testo perché io non parlo di Luna ma del mio rapporto con Luna quindi è ovvio che parli di me. Credo sia arrivata proprio ad accettare esplicitamente che è stato il contributo particolare che io ho dato alla nostra esperienza di genitori quella di scrivere ciò che lei non avrebbe mai potuto scrivere.

Liberarsi dalle retoriche per poter capire
Credo di aver scritto queste pagine proprio perché avevo bisogno di capire che amore fosse il mio nei confronti di Luna. Sicuramente ho avuto bisogno di liberarmi da una serie di luoghi comuni, di retoriche. La disabilità è piena di retoriche e noi genitori di figli disabili ci nutriamo di retoriche. Io ho avuto bisogno di liberarmene nel senso che le sentivo strette.
Come molti genitori, ho frequentato anche le associazioni di genitori di figli disabili. Quando i bambini sono piccoli c’è la tendenza di andare a far parte delle associazioni non dei disabili in senso generico ma di quelli che hanno il problema di tua figlia. Questi luoghi dove i genitori che hanno i figli con lo stesso problema si incontrano talvolta tendono a diventare anche dei luoghi dove ce la raccontiamo un po’ su. Siccome l’esperienza è dura per tutti, quando ci troviamo abbiamo bisogno di farla diventare una cosa normale, tanto abbiamo tutti più o meno lo stesso problema. Ancora adesso facciamo gli incontri a Natale, prima dell’estate e sembriamo un gruppo di genitori che ha dei figli con problemi molto simili ma giochiamo a fare i normali che però hanno fatto un po’ di fatiche e che ci capiamo solo tra noi.
Una delle retoriche che gira è che, in fondo, è come se fossimo chiamati a compiere una missione. Quest’idea che si debba disperarsi perché siamo sfortunati o addirittura ritenersi in qualche modo assegnati di un compito da una qualche divinità perché siamo quelli eletti mi sembrano due strade prive di senso. Un figlio è come è, e ognuno si deve misurare con il “com’è” di suo figlio che può essere disabile ma anche no, che può non avere problemi poi magari a quattordici anni ha un incidente in motorino o sviluppa una sindrome psichiatrica. Forse una delle cose che è possibile imparare in un’esperienza di questo tipo è che la gerarchia delle sfighe non è così scontata, non è così ovvia, non c’è chi è più fortunato e chi lo è meno lungo una gerarchia che dipende dal tipo di dramma, non è così semplice paragonare tra loro le tragedie, non è così facile poter dire quale tragedia è più tragedia di un’altra tragedia.
Allora ho avuto bisogno di pensare radicalmente questa situazione, di liberarmi da molte retoriche per poter capire cosa voleva dire per me amare Luna, perché non potevo tollerare di amarla perché era disabile oppure non potevo neanche tollerare di amarla perché era mia figlia, nonostante fosse disabile. Credo di aver cominciato a sentirmi libero e quindi ho cominciato a capire con la pancia, con il cuore, con l’emozione, cosa volesse dire per me amare Luna quando ho cominciato a sentire che cosa lei mi permetteva di essere, che cosa la sua esistenza ha permesso a me di diventare, cosa il mio rapporto con lei ha fatto di me. E non era un destino, non credo che le cose siano scritte da qualche parte, poteva andare in un modo completamente diverso.
C’erano mille situazioni nella vita i cui bivi potevano portarmi altrove ma dal momento in cui Luna è nata si è creata questa possibilità che ho cercato di raccogliere. Io sento ora che ciò che mi lega a lei è esattamente ciò che lei ha fatto di me, ciò che la sua esistenza ha creato, trasformandomi. Faccio fatica adesso a pensarmi a prescindere da lei perché io sono quello che sono non solo perché sono qui ma sono quello che sono perché lei mi ha trasformato. E questo, è vero, non vale solo per chi ha un figlio disabile; questo credo che valga, che possa valere per chiunque abbia un figlio, se se lo permette.

Ridisegnare la socialità
Credo che avere un figlio disabile rimappi completamente le relazioni sociali. Succede anche nell’avere figli in generale, ma il figlio disabile dal punto di vista sociale è uno tsunami, è un terremoto pazzesco, fa letteralmente sparire all’orizzonte persone che non ti saresti mai aspettato sparissero, fa comportare altre persone in un modo assolutamente imprevedibile che ti costringe a farle sparire all’orizzonte; poi compaiono le persone più insospettate, più insospettabili con una capacità di esserci, di essere presenti che ti stupisce e tutto questo ridisegna completamente la socialità, in modo molto forte.
Su questo scoglio si sono infrante non tanto le persone ma le relazioni con alcune persone, si sono infrante amicizie pluridecennali ora scomparse. O perché sono scomparse realmente o appunto perché, come racconto, si sono permesse cose che non si dovevano permettere assolutamente di fare. Bisogna anche vedere in che momento della tua esperienza accade questo, ci sono momenti più drammatici, più tragici, momenti più difficili e lì tutte le relazioni sono immediatamente messe alla prova, pesantemente messe alla prova e molte non superano questa prova. Però, ripeto, la cosa importante è che altre compaiono magicamente, in modo inaspettato, nuovo. Questo dipende tanto dalle persone, dai genitori, ma dipende tanto anche dai figli. Noi abbiamo, questo sì, la fortuna di avere una bambina di una socialità assoluta, l’esatto opposto di un bambino autistico. Ogni tanto per scherzo mi vien da dire che se vendessi gli abbracci di Luna un tanto al minuto diventerei ricco perché ogni volta che qualcuno prende un abbraccio di Luna vedo un’espressione che parla da sola perché un abbraccio di Luna è talmente privo di qualsiasi doppio senso, di qualsiasi malizia, è talmente immediato, è talmente fresco, insomma è l’abbraccio che ognuno di noi vorrebbe avere e questo è anche una fortuna, perché Luna è assolutamente ricercata soprattutto dagli adulti e quindi questo non fa da ostacolo al fatto che ci siano delle persone che si vogliono avvicinare.

Il silenzio lo imparavo da lei
Io non sono un frequentatore di chiese, o meglio sono un frequentatore di chiese ma perché mi piacciono come posti, come luoghi, perché li ho sempre trovati carichi di energia ma non sono un frequentatore delle liturgie che ci sono nelle chiese, e mi ha sempre colpito come Luna, sin da piccola sembrava percepire l’atmosfera che c’era in una chiesa. Lei, quando vede un sagrato e dei gradini, mi tira verso la chiesa e non ha nel suo bagaglio di esperienze il fatto che io la porti in chiesa, ma quando andiamo in giro e vede una chiesa ci si infila e mi trascina e mi porta un po’ in giro poi arriva alle panche e si siede e io mi siedo vicino a lei e stiamo lì un po’. Lei sta in silenzio, guarda, osserva, ascolta, sembra più ascoltare per la verità.
Io sono curioso per natura e lei pure e devo dire che uno dei motivi per cui amo un sacco mia figlia è che mi incuriosisce, mi stupisce e la guardo e la osservo e cerco di capire che cosa fa, perché sta facendo certe cose, come mai appare così sensibile, così attenta. In certe situazioni, quello che emerge o almeno che mi ha colpito tantissimo è il guadagno, quel famoso guadagno difficile da vedere nella disabilità, cioè che cosa ti offre in più quella cosa che ti manca. A Luna manca il linguaggio, le manca proprio il linguaggio simbolico. Questo vuol dire che ha la testa libera. Noi siamo pieni di parole, io poi sono uno che col linguaggio ci ha vissuto, ne ha fatto una professione, faccio la meditazione la mattina per sgombrare la mente che è sempre piena di parole, di pensieri. Lei non ne ha bisogno, lei ha la testa sgombra e allora sente di più e riesce a percepire delle cose che io devo prima spegnermi per riuscire a percepirle.
Nel libro racconto di una visita alla chiesa di Sant’Eustorgio. Quella volta è stato potente perché abbiamo assistito a una messa, in filippino credo. A Milano, in diverse chiese si fanno messe per le varie comunità cattoliche nelle lingue d’origine, per cui ovviamente io non capivo niente. Già non è che sia un grande esperto di liturgia e per giunta era anche in una lingua straniera per cui non capivo niente io e non capiva niente lei, in termini di parole. Però l’atmosfera era talmente potente che io e mia figlia siamo rimasti seduti in fondo alla navata ad ascoltare un pezzo di messa in assoluto silenzio tutti e due, ma io il silenzio lo imparavo da lei. Ero preoccupato che lei facesse confusione ma in realtà lei stava in silenzio e grazie al fatto che lei stava in silenzio, stavo in silenzio anch’io. Io stavo in silenzio guardando e ascoltando il suo silenzio ed è stata un’esperienza fantastica, un’esperienza di grande spiritualità in cui non credo c’entri la fede ma la spiritualità, intesa come ciò che si riesce ad ascoltare quando si smette di parlare, quella dimensione dell’esistenza che, pieni di parole, rischiamo sempre di non cogliere.

Presidiare il futuro
E quindi il futuro. Qui c’entra la mia professione: chi si occupa di educazione se non ha un po’ di ottimismo può anche cambiare mestiere, però ci vuole anche molto ottimismo in certi momenti della vita individuale e collettiva.
Avere gli occhi puntati sul futuro fa male se non si vede niente né personalmente né socialmente, viviamo in un mondo difficile, un mondo estremamente precario, assolutamente instabile, che cosa sarà fra dieci anni chi lo sa… Poi tu hai un figlio disabile e il tuo futuro in qualche modo è già segnato… Io ho alcune certezze, per esempio sono sicuro che mia figlia non avrà problemi di droga anche perché dovrei iniettargliela io nel senso che non è fisicamente in grado di drogarsi, quindi non avrà problemi di droga. Non rischierà di ammazzarsi su un motorino perché il suo livello di autonomia è talmente basso che non correrà questi rischi. Però sicuramente non avrà figli.
Siccome Luna è figlia unica, io so già che non diventerò mai nonno, poi son figlio unico anch’io per cui non posso neanche essere zio, lei non ha cugini quindi è un futuro molto piccolo, molto ristretto, molto corto.
Il problema, per me come padre, è che anche se mia figlia mi sopravvive e mi sopravvive bene, avrà qualcuno che si prenderà cura di lei, che le vorrà bene, che le starà vicino fino speriamo a tardissima età, comunque il futuro finisce lì, non va oltre, finisce con lei e l’essenza dell’umano, come scrivo, è trasmettersi, ma trasmettere non vuol dire insegnare qualcosa a tuo figlio, vuol dire insegnare qualcosa a tuo figlio perché lo insegni a qualcun altro, questa è la trasmissione.
È la trasmissione attraverso le generazioni, ma io so già che la trasmissione attraverso le generazioni non ci sarà perché finirà lì e quindi con questa prospettiva io non dovrei credere nel futuro, non dovrei neanche dirmi che il mio ruolo come padre è avere uno sguardo sul futuro. Che poi è un futuro vicino, dove vai quest’estate, cosa facciamo quando avrà finito la scuola, dove la mandiamo, il futuro è con chi starà quando noi saremo vecchi e non ce la faremo più ma è un futuro piccolo, è un futuro angosciante e al tempo stesso estremamente piccolo.
E allora il trucco che ho cercato di elaborare e di mettere in pratica è che qualsiasi cosa succeda a me, alla madre di Luna e a Luna, per me quello che conta è di aver lasciato qualcosa a qualcuno, di aver lasciato qualcosa a lei certo, di aver lasciato qualcosa alla madre certo, ma di aver lasciato qualcosa a tutti quelli che ci incontrano, e allora lì il futuro c’è. Poi, il mondo va a rotoli, non lo so può darsi, non è nella mia giurisdizione, ma se il mondo non andrà a rotoli, se qualcosa della mia, della nostra esperienza con Luna resta attaccata all’esperienza di altre persone per me questa è una cosa importante ed è il mio modo di presidiare il futuro.

Igor Salomone
Nato il 18 ottobre del 1956, Igor Salomone è laureato in filosofia. Nel 1985 ha contribuito a fondare, a Milano, dove vive e lavora, lo Studio Dedalo, aprendo un profilo alto di consulenza pedagogica che ancora oggi segna i percorsi di molti professionisti dell’educazione. Docente universitario, ha insegnato dal 1999 al 2005 presso la milanese Facoltà di Scienze dell’Educazione.
Dopo diversi libri di taglio tecnico, scrive Con occhi di padre (Enna, Città Aperta Edizioni, 2006),  sulla sua esperienza di paternità con la figlia Luna. Molto più di un diario non segreto, il libro è forza, provocazione, divertimento, riscatto – anche – dello sguardo dei padri. È un testo nato durante le vacanze, quando l’esperienza dell’insegnante restava come ordito e quella dell’uomo diventato padre di Luna regalava la trama ai pensieri e agli sguardi.
Al libro ha dedicato un blog con questa motivazione: “Ogni libro parla a qualcuno. Anche Con occhi di padre, ultimo nato, per me prezioso e inesauribile. Incapace di esaurirsi, cioè, nell’esser stato scritto. Questo spazio è dedicato a chi, avendolo ascoltato, ha voglia di dire cosa ha sentito”.