Intervista a Stefano Rulli

L’idea di girare questo documentario
L’idea di girare questo documentario mi è venuta in modo abbastanza casuale. Non era possibile pensare di fare un film insieme a Matteo ma neanche andare al cinema; non sono mai stato al cinema con Matteo perché lui dopo cinque minuti vuole alzarsi.
Inizialmente l’idea era di fare un documentario sull’esperienza della Fondazione Città del Sole, di cui io sono vicepresidente e Clara Sereni è presidente, che si occupa di esperienze per il tempo libero e di vita per persone con problemi psichici consistenti. I Casali, dove ha sede la Fondazione, sono uno spazio dove facciamo del turismo per tutti, volevamo raccontare, testimoniare l’esperienza delle persone che frequentavano questi Casali ormai da alcuni anni.
Durante un week end in cui ero lì a fare le riprese, Matteo è venuto sul set e a un certo punto si è messo tra me e la macchina da presa. Inizialmente ho pensato che volesse impedire la ripresa perché si sentiva a disagio: il cinema è una cosa che gli ha sempre creato problemi soprattutto riguardo a me, forse perché sa che è una mia grande passione, quasi un amore difficile da contrastare. Poi questa cosa è avvenuta un’altra volta e l’operatore, che è amico di Matteo e lo conosce da tanto tempo, mi ha fatto notare che forse Matteo voleva esserci anche lui dentro il film. E allora ho provato a fare una ripresa, una delle poche cose rimaste delle prime riprese, la scena del taglio dell’albero nel bosco. Abbiamo provato a vedere cosa sarebbe successo se si filmava una scena fra me e Matteo da soli, e quando lui si è messo lì a tagliare quel ramo mi sembrava ci fosse un po’ tutto il sentimento che Matteo aveva rispetto al rapporto con la macchina da presa che ci stava filmando. Da un lato c’era il desiderio di fare una cosa con me, dall’altro c’era la paura di non farcela, ma in fondo io ho sentito che Matteo ce la poteva fare, aveva voglia di farlo. Così abbiamo fatto delle riprese che riguardavano il rapporto fra me e Matteo e altre che riguardavano invece gli ospiti dei Casali. Via via mi sono reso conto che la prima parte era la più complessa però forse anche la più interessante, sicuramente per me e per Matteo. Matteo non sa né leggere né scrivere, quindi quel rapporto che spesso esiste tra un padre e un figlio, legato a insegnargli a leggere, aiutarlo a leggere, a parlare di un libro, è un’esperienza che noi non avevamo avuto. Fare insieme questo film aveva dentro quell’emozione, riuscire a fare una cosa dove stavamo insieme in qualche situazione che apprendevamo tutti e due; lui l’apprendeva perché certo non ha mai fatto l’attore nella sua vita, ma anch’io l’apprendevo perché non avevo mai fatto un documentario come regista, quindi era un terreno su cui ci muovevamo tutti e due con uno spazio di scoperta e con qualche cosa che ci univa. Senz’altro è stata un’esperienza importante, per noi prima di tutto.
Poi ho pensato che potesse essere utile per raccontare un po’ dall’interno a chi non la conosce che cosa si prova a vivere questa esperienza. Spesso c’è una visione ancora più cupa, più rigida dell’esperienza che vivono le persone che hanno dei problemi. Noi siamo una famiglia problematica, non solo lui; il problema è capire che là dentro c’è comunque la vita, c’è speranza, ci sono aspettative, ci sono litigate, ma c’è la vita.
Matteo per noi sa comunicare e volevo sapere se poteva accettare il film o no. Allora l’abbiamo rivisto insieme, a casa, ed è stata la prima volta che abbiamo visto un film insieme a Matteo. Il film era ancora più lungo di adesso, un’ora e mezza, e alla fine mi ha chiesto di rivedere la scena in cui piange. La scena che più avevo paura di fargli vedere era la scena che più l’aveva colpito: è come se gli fosse arrivato questo sentimento, che quel dolore nostro si potesse vedere, si potesse rappresentare e se ne potesse parlare.

Mettere in scena il mio rapporto con Matteo
In questo documentario ci sono anche alcune scene molto private, personali. Credo che la sostanza anche più drammatica, più conflittuale ci sia tutta, mi sembra di averla messa senza particolari censure. Il terreno è molto delicato, cioè decidere se mostrare questi momenti così privati e anche momenti che hanno una loro drammaticità. Mi sembrava importante perché senza raccontare quei conflitti avrei raccontato un rapporto edulcorato, e non sarebbe stato un racconto di un rapporto reale. Quindi non potevo fare altrimenti: se accetto di mettere in scena il mio rapporto con Matteo non posso raccontare solo lui che canta. Cantare è stata una conquista molto complicata per Matteo, lui non riusciva a sentire nemmeno la canzone del suo compleanno. Per arrivare a quel punto, Matteo ha dovuto superare dentro di sé, nel rapporto con me, dei momenti molto drammatici. Quello che ho cercato di fare è di evitare la spettacolarizzazione compiaciuta: nel film, dopo il canto nel salone, si vede che Matteo parte e esce di campo, si sente il rumore di una sedia…  Io non ho fatto vedere la scena dove l’aggressività di Matteo esplode in maniera ancora più forte, poteva essere molto spettacolare ma non era quello che a me interessava comunicare. Era più interessante per me raccontare il dopo, cioè quel momento in cui l’elaborazione di quell’aggressività diventa sofferenza, diventa qualcosa che lui fatica a pensare perché non ha una capacità astrattiva forte. È
come se parlando con lui tu cercassi di ricostruire il senso di quello che è accaduto. Il cinema è anche morale, il modo in cui tu giri le riprese e fai delle scelte non sono solo tecnici ma anche morali.
Avevo dato alcune indicazioni all’operatore, sapevo che ci sarebbero stati dei momenti in cui io non potevo essere regista ma potevo solo essere presente dentro quella situazione, perché il rapporto con Matteo avrebbe prevalso sulla dimensione cinematografica in senso stretto. In quel caso il regista diventava automaticamente lui e doveva sapere che si doveva attenere ad alcune regole di fondo. La prima è quella di non tagliare: normalmente un operatore quando sente una cosa un po’ noiosa stacca per risparmiare pellicola e poi riparte quando c’è un’altra cosa interessante. L’altra è di fare degli zoom cioè di stringere: quando c’è una cosa molto forte normalmente in televisione si stringe perché è quella che fa spettacolo. Tutta la sequenza della crisi di Matteo nella camera è girata con un’inquadratura unica, proprio perché era importante che si capisse che non era una cosa costruita. Credo che sia importante capire la differenza rispetto al cinema normale, anche il cinema migliore: quando nel cinema si racconta la crisi c’è per esempio una frase drammatica che provoca una reazione, poi quella reazione dopo un minuto si ricompone perché uno ha detto una cosa intelligente, perché è intervenuto lo psichiatra bravo; ci sono quei tempi lì perché il cinema va di fretta. Però la percezione che uno ha attraverso il cinema di una crisi psichica è una percezione abbastanza magica che non corrisponde alla realtà. Allora l’ho voluta raccontare con tutti i suoi tempi morti, proprio così come si genera: Matteo parte spesso in situazioni di aggressività su frasi che sembrano apparentemente prive di qualunque contenuto violento; poi, andandole a rivedere, vedi che sono diverse. Io stesso quando le ho riviste mi sono reso conto che ero stato molto più violento di quello che pensavo e ho deciso di mantenerle nel film proprio per questo; quando mi rivedo provo sempre un certo disagio per quelle scene, non per la violenza di Matteo ma per la mia aggressività. In alcune domande che gli pongo, in un certo mio modo di chiedergli ordine continuamente, regole, di chiedergli sempre di più – lui fa una cosa e gliene chiedo subito un’altra – mi sono reso conto che c’è in me un elemento di aggressività di chi in fondo lo vorrebbe normale. Cioè se tu fai un passo io te ne chiedo due, se tu ne fai due te ne chiedo cinque, allora in quella dinamica dove apparentemente la sua aggressività è un po’ sproporzionata, non è sensata, invece c’è qualcosa: lui è una persona dalla sensibilità fortissima, lui avverte questo carico di aspettative e io ho pensato che fosse giusto mettere in scena anche questo perché credo che possa riguardare anche altri genitori. Quella spinta, quel desiderio, quel sogno di normalità poi te lo porti dentro e laddove viene percepito come negazione di quello che tu sei come persona reale diventa un elemento di dolore, per Matteo ma penso anche per altre persone. Per me la cosa più difficile da mettere in scena sono a volte proprio le mie frasi più banali, quelle che apparentemente sembrano più normali quando, per esempio durante la festa di matrimonio lui a un certo punto ha uno scatto verso di me che gli ho detto di venire a ballare. Non gli ho chiesto niente di speciale. Ma lui, prima, per dire quei due versi di poesia a memoria, ha fatto una grande fatica, è la prima volta che l’ha fatto nella sua vita, ha trovato la forza di affrontare una festa, tante persone, tutti gli occhi concentrati su di lui ed è riuscito a dire una frase in qualche modo d’amore perché lui voleva molto bene a quei due sposi. Quindi lui aveva fatto già un grande sforzo per stare dentro la realtà e comunicare con gli altri e io gli ho chiesto qualcosa di più. Gli ho chiesto non se voleva ballare, ma gli ho chiesto di essere normale. C’è una grande violenza in quella frase. Per quello che ho potuto, ho cercato di tenere anche questa contraddittorietà dei miei comportamenti come genitore.
Normalmente il mio lavoro mi porta molto fuori: quando stai dentro un film, dentro alcuni personaggi, ti rapiscono emotivamente e per Matteo questa assenza così violenta è qualche cosa di inaccettabile tant’è vero che io ero giunto alla conclusione di non lavorare mai in sua presenza. Quando Matteo rientrava, smettevo di lavorare perché avevo l’impressione che ci fosse come una sorta di gelosia rispetto al lavoro. Aveva ragione lui: è vero che quando sto dentro una cosa, il cinema, che mi coinvolge molto, faccio una gran fatica a condividere altre cose, è un lavoro dove il coinvolgimento emotivo è sempre molto forte. Per una persona come Matteo che vive di un bisogno di comunicazione emotiva più che razionale, avvertire quella lontananza è qualche cosa di non tollerabile.
Questo documentario è un’esperienza conclusa, che sta dentro la nostra vita. Spesso mi chiedono se dopo quel film Matteo è cambiato, se è cambiato il nostro rapporto. In realtà credo che questo film sia stato possibile perché il rapporto era cambiato prima. Matteo non avrebbe potuto partecipare a questo film se dentro di sé non avesse avuto quella disponibilità a entrare con me in una relazione diversa. È vero che, dopo, il nostro rapporto è cambiato, ma non per il film ma perché il film stava già dentro un sentimento di possibile cambiamento.
Nel 1975 ho fatto un altro film documentario, Matti da slegare: è il primo lavoro che ho realizzato, mi sono avvicinato al cinema con un film che si occupava della malattia mentale, è stata un’esperienza importante a livello personale perché è stata lì la scoperta della malattia mentale, non avevo mai avuto esperienze di quel tipo. Raccontava la storia delle dimissioni dall’ospedale psichiatrico di Parma, dei primi tentativi di uscita dall’ospedale con la riforma Basaglia che era già nell’aria. Quell’esperienza è stata molto ricca, però mi ricordo che c’era una parte che mi mancava in quel film: eravamo riusciti a raccontare molto di quei personaggi e delle loro condizioni sociali che spiegavano in parte la loro emarginazione, la loro diversità, però non eravamo riusciti a entrare nel racconto della loro vita familiare, dei loro sentimenti più privati. C’era una difficoltà, un imbarazzo, è difficile poter dire che hai raccontato il sentimento della malattia mentale se lo racconti solo stando dall’altra parte. Per caso mi sono trovato nella condizione di poter fare Un silenzio particolare, non era stato affatto programmato, non avevo pensato a farlo ma poi è come se Matteo mi avesse cercato. Il legame fra Matti da slegare e Un silenzio particolare è forse questo fatto di aver potuto raccontare, questa volta dall’interno, quell’esperienza che prima avevo potuto filmare soltanto stando dall’altra parte.
In una scena del film, un giovane padre mette la sua bambina di pochi mesi in braccio a Matteo. Ho molto apprezzato e ammirato questo gesto, il coraggio di questo padre. Glielo riconosco con grande gratitudine, è molto importante che esista un clima, un gruppo di persone, una cultura per cui c’è qualcun’altro che fa quel passo che a volte tu non hai il coraggio di fare. Io non avrei mai potuto chiedere a un padre di mettere una bambina in braccio a Matteo. È stato lui che ha dato una lezione a me non solo di coraggio ma di fiducia in Matteo. Di quella situazione mi ricordo in particolare il coraggio del padre e poi Matteo con questa ragazzina che mi dava una certa apprensione fino a quando lui ha detto ridendo “Ma la butto?”.  Ecco, quando l’ha detto ridendo ho capito che poteva addirittura scherzare su quello che sentiva che mi passava nella testa. Quando lui mi legge nella testa un pensiero, mi guarda e me lo dice, forse io sono abbastanza prevedibile ma è come se vedesse il mio pensiero. La sensazione di tenere in mano quella vita era un po’ quello che Matteo ha provato a fare anche dopo, la sua vita con qualche fatica lui l’ha ripresa in mano. Adesso lui lavora, per quello che riesce, in una cooperativa che fornisce attrezzature all’ospedale, vive in una casa con degli amici, fa delle attività pomeridiane, ci vediamo una volta ogni quindici giorni, ci sentiamo per telefono, io abito in un’altra città adesso… Per cui questa sua vita un po’ tremolante se l’è abbastanza costruita.
Raccontare nel modo giusto una storia che riguarda la disabilità
Per raccontare nel modo giusto una storia che riguarda la disabilità, la cosa più difficile per me è cercare di raccontare queste persone come persone. Non è un gioco di parole: spesso la persona che ha dei problemi viene raccontata per i suoi problemi, non per il suo essere persona. Queste persone hanno delle caratteristiche che sono proprio loro, raccontarle come persone significa cogliere ciò che sono come persone. In questo film ognuna di queste persone ha qualcosa per cui tu te la ricordi, io spero non per la sua diversità. Quando Ugo parla del suo sentimento, della sua sofferenza d’amore mi dice qualcosa di così profondo che riguarda anche me cosiddetto normale. La ragazzina Down che racconta che è innamorata di un ragazzo che è innamorato di un’altra non me la ricordo perché ha la sindrome di Down, me la ricordo perché è una persona particolarmente profonda e coraggiosa rispetto ai suoi sentimenti. O quando quel poeta alla festa dice “io vorrei che mia madre fosse fiera di me”. Questo è stato anche il sogno della mia vita quando ho cominciato a scrivere la prima sceneggiatura o si leggeva il mio nome sul giornale… La cosa più difficile, la cosa che sarebbe opportuno fare anche quando si parla di persone con delle disabilità, è quella di raccontarle sempre come persone e non come casi, problemi da affrontare, da risolvere. Spesso, quell’esperienza che uno vive, quella sensibilità particolare che queste persone hanno, può anche comunicarci qualcosa che noi non capiamo o non sappiamo.

Un silenzio particolare

Il titolo del film nasce da una frase che dice Matteo a un certo punto, non ha un senso preciso, è come se quel silenzio che lui sogna sia il silenzio di quelle sue paure, di quelle sue ossessioni, è un sentimento di pace. Un silenzio particolare è quel silenzio non fuori ma dentro di te. Penso che sia un’aspirazione, un desiderio che non riguarda solo Matteo ma anche altri di noi.
Il rapporto fisico sta dentro quella disponibilità a vivere insieme delle emozioni; laddove le parole sono più difficili, i pensieri sono più difficili, i corpi sono importanti per capirsi, comunicarsi delle cose.
Quando tu racconti, scrivendo dei testi, il disagio mentale, la malattia mentale, sei tu che fai una sintesi di tutte le cose che sai, che hai letto, studiato, visto, poi le devi mettere dentro un racconto dove tu scegli i tempi, tu scegli quando quel personaggio esprime una crisi, scappa, torna, si innamora… Quindi è una scelta razionale, controlli tu il racconto, il personaggio, lo controlli sempre, anche se sta raccontando una persona che non si controlla. Ho girato questo film nello stesso periodo in cui ho scritto con Gianni Amelio e Sandro Petraglia il film Le chiavi di casa che è proprio la storia di un padre che rivede suo figlio malato, anche con un forte disagio psichico, dopo tanti anni, e cerca di stabilirci un rapporto. È stato veramente un caso sovrapporre quell’esperienza di scrittura di un personaggio, di una relazione tra un padre e un figlio con quei problemi, mentre giravo questo film.
La percezione diversa è che girando Un silenzio particolare io non potevo controllare niente, io non la sapevo la storia. Il montaggio è stato molto importante: ci sono trenta ore di materiale filmato e quando sono andato a vederlo, ho visto qualcosa che mentre giravo non solo non sapevo e non avevo previsto, ma non avevo neanche capito. Lì c’è stata un’esperienza più di apprendimento per me, mi sono guardato come un personaggio. Invece quando scrivi tu per il cinema, sei tu che decidi se mandare il personaggio di qua o di là, quindi c’è il pericolo di essere sempre un po’ schematici, a volte tu hai un’idea in testa, la vuoi realizzare e quindi in qualche modo la attui. Spesso il cinema è affascinato dalla pazzia, o dalla sua parte più spettacolare, drammatica o da una specie di mito un po’ bucolico per cui “matto è bello”. Invece penso che, proprio perché sono persone, ci sono dei momenti in cui i “matti” li ami da morire e altre volte non li sopporti, altre volte ti fanno male, ti fanno paura. Bisogna accettare che possono suscitare questi sentimenti come li può suscitare qualunque altra persona, non si capisce perché dovrebbe essere diverso.
L’altra cosa che non amo tanto nel cinema italiano è quando vedo delle immagini edulcorate delle persone che stanno male. Quando una persona sta male magari non è simpatica, ma non è una sua colpa, è una condizione, quindi se uno vuole rappresentarla nella sua realtà, appunto come persona non come santo né come fenomeno da baraccone, bisognerebbe raccontarla con questa complessità di forza, di poesia, però anche di dolore, dolore che può diventare qualcosa di difficile da vivere per chi ci sta insieme. Io parlo come genitore per l’esperienza che ho vissuto. Ognuno non se lo sceglie il suo destino, dentro questo percorso credo di vivere una vita molto ricca anche di conoscenze e di emozioni, a volte difficili da vivere: questo film mi ricorda momenti molto belli, alcune scoperte di Matteo molto emozionanti. Una volta Matteo disegnò una specie di cerchietto chiuso sulla parete e dato che lui non aveva mai fatto niente, non sapeva proprio scrivere, mi ricordo quel gesto lì come l’emozione che uno può avere se il figlio si laurea. Tutto è rapportato alla vita che tu hai, alla relazione che tu hai e quindi puoi vivere emozioni molto forti sia in positivo che in negativo. Questo può capitare nella vita di ogni genitore, avere un figlio che ti dà emozioni molto positive o molto dolorose.

Stefano Rulli
Stefano Rulli è nato a Roma nel 1949. Laureato in lettere con una tesi su neorealismo e critica cinematografica, nel 1975, assieme a Marco Bellocchio, Silvano Agosti e Sandro Petraglia, realizza il film-documento Matti da slegare, forse ancora oggi il più significativo documento filmato sul mondo della malattia mentale e sul perché fosse necessaria la legge Basaglia. Dopo aver contribuito alla crescita e all’affermazione di un certo cinema italiano, scrivendo (sempre insieme a Petraglia) sceneggiature come Il ladro di bambini, La meglio gioventù e Le chiavi di casa, Rulli torna dietro la macchina da presa, a trent’anni di distanza, sperimentando, stavolta in prima persona, che cosa significa vivere con qualcuno che, scomodo al cuore e alla ragione, viene da altri definito “matto”, per svelare il più intimo, personale rapporto che lo lega a Un silenzio particolare. Presentato nella sezione Cinema Digitale a Venezia 61, racconta del difficile rapporto tra Matteo e i suoi genitori, la scrittrice Clara Sereni e Rulli stesso.

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