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autore: Autore: di Massimiliano Rubbi

L’estetica dell’accessibilità. L’esperienza della compagnia teatrale Graeae

Per molti attori hollywoodiani (normodotati), l’interpretazione di un protagonista con disabilità è stata cercata come la consacrazione di una professionalità, spesso premiata con i massimi riconoscimenti; ben più raro è che un attore o un’attrice con disabilità, quando riescono a emergere, vengano scelti per personaggi che non siano incentrati sul loro deficit. Ancor più raro, se possibile, è che l’accessibilità delle rappresentazioni sceniche sia garantita non appiccicandovi gli strumenti tecnici necessari, bensì integrandoli entro il testo artistico stesso.
Il superamento per via estetica di queste barriere è al centro dell’esperienza di Graeae, compagnia teatrale londinese che dal 1980 unisce attori e tecnici disabili e normodotati. Ne chiediamo di più a Jenny Sealey, direttrice artistica della compagnia dal 1997.

Come descriverebbe la storia e la mission della Graeae Theatre Company?

La visione artistica di Graeae comprende quattro elementi chiave:
• una varietà di opere teatrali scritte da autori disabili e non disabili, che ci permetta di coprire l’ampio spettro del teatro e il linguaggio della rappresentazione;
• una varietà di modelli educativi, che agisca come un catalizzatore per ispirare la creatività di una nuova generazione di autori teatrali;
• opportunità globali di rappresentazione, scrittura e formazione tecnica, che diano forma a un lascito durevole di persone sorde e disabili come corpo di talento da impiegare nell’industria creativa;
• esplorazioni estetiche dell’accesso, che diano forma al teatro come un’esperienza unica sia per i creatori che per i pubblici.
I piani artistici di Graeae prendono sempre forma dalla mission della compagnia di ottenere pari opportunità per le persone disabili che lavorano in tutti gli aspetti del teatro professionistico. La compagnia ha sviluppato uno stile di programmazione e un’estetica totalmente nuova che l’hanno resa una concorrente per un posto nel mainstream. Graeae ora si ritrova annunciata come una compagnia che fa da pioniera, che è difficile da “incasellare” a causa dell’ampia diversità di stili e pratiche che il suo lavoro abbraccia. La comprensione della compagnia di “diversità accessibile”, diversità culturale e diversità di stile teatrale dà forma e permea ogni aspetto del piano artistico e della filosofia del gruppo.
Graeae non è solo una compagnia teatrale, in quanto formazione, educazione e ruolo di sostegno sono un nucleo essenziale della filosofia del gruppo. La visione continua è di usare il teatro, la formazione e l’educazione per promuovere l’inclusione e per lavorare per cambiare la paura sempre diffusa della differenza, e l’atteggiamento secondo cui attori disabili possono solo interpretare personaggi disabili, e il pubblico sarà offeso vedendo attori disabili interpreti in un’opera che non tratti di disabilità.

Avete mai avuto esperienze di rappresentazioni teatrali o laboratori indirizzati al pubblico più giovane, anche nelle scuole, o che coinvolgessero direttamente gli studenti come attori o staff di supporto? Come sono state vissute queste opportunità dagli studenti?
Graeae ha una lunga storia di lavoro di sviluppo per i giovani. Le opere teatrali più recenti, entrambe di Mike Kenny, sono Diary of An Action Man [Diario di un uomo d’azione] e Whiter than Snow [Più bianco della neve ].
Diary of An Action Man è stata una coproduzione con il teatro per bambini Unicorn. Il cast include tre attori disabili e un attore non disabile. L’opera segue il viaggio di un ragazzino che ha un papà immaginario, ma poi ci si rende conto che il suo vero papà è vivo ma ha lasciato la casa di famiglia. Le lingue utilizzate nell’opera sono inglese e Lingua dei Segni Britannica. La scrittura è realizzata in modo da essere accessibile a pubblici di ciechi.
L’opera è stata in tour a livello nazionale, con le scuole che venivano alla sede del teatro. Abbiamo ricevuto critiche eccellenti e il riscontro da insegnanti e giovani è stato molto positivo, soprattutto perché tanti bambini si identificavano con il personaggio principale e la sua relazione con i suoi genitori divorziati.
Whiter than Snow è stata una coproduzione con il Teatro Stabile di Birmingham. È una rielaborazione della storia di Biancaneve dalla prospettiva dei nani. L’opera è ambientata in un paesaggio di guerra e scienza, e usa riferimenti alla sperimentazione di Mengele sulle persone disabili e lo sradicamento delle persone disabili durante l’olocausto. Il cast è tutto di disabili, ma con solo tre attori di bassa statura. C’è un’interprete di lingua dei segni sul palco come personaggio in costume nell’opera, e fa parte del cast usando il linguaggio dei segni per il pubblico sordo.
C’è un programma di laboratori che sono andati nelle scuole (per disabili, non disabili e integrate) e ha esplorato la natura, l’educazione e chi ha diritto di dire che i disabili non possono essere scelti come interpreti in un’opera teatrale. Il gruppo dei laboratori è composto di facilitatori e attori disabili e non disabili. Il lavoro fornisce ruoli di modello positivi della disabilità per giovani disabili e non disabili, e permette alle persone di usare un processo creativo per smantellare atteggiamenti e pregiudizi che si possono avere sulla disabilità. Graeae svolge inoltre laboratori nelle università esplorando il nostro processo creativo unico, usando lingua dei segni e descrizione narrativa audio per comunicare a un pubblico sordo e cieco.

Ci può parlare di buone (e cattive) esperienze e pratiche tra attori e tecnici disabili e non disabili nelle prove sul palco e nelle rappresentazioni? Avete colto indizi in questo per una società più inclusiva?
Sono in Graeae da 11 anni e ho avuto solo molte esperienze positive di lavoro tra attori, autori, amministratori e produttori disabili e non disabili. Credo che se tutti capiscono il modello sociale della disabilità e abbracciano l’inclusione e la partecipazione, e tutti i requisiti di accesso sono predisposti in modo appropriato, allora tutti nell’ambiente di lavoro sono alla pari.
L’unico caso in cui ci sono problemi è quando professionisti non disabili non sono abituati a lavorare con persone disabili, non sanno come impegnarsi nei differenti modelli di discorso, stili di comunicazione o fisicità delle persone.

Qual è la vostra relazione con i drammaturghi che presentano le loro opere alla vostra compagnia? Avete mai avuto problemi o idee a proposito del loro testo o dell’adattamento teatrale in riferimento alle caratteristiche della vostra compagnia?
La nuova scrittura è la linfa vitale di Graeae. Stiamo portando avanti nuovi schemi di scrittura in collaborazione con writernet, BBC Radio, Paines Plough e il gruppo di autori Royal Court Young People. Commissioniamo ad autori sia disabili che non disabili. Negli ultimi 11 anni abbiamo commissionato 9 nuove opere e abbiamo avuto almeno 12 letture di scena come parte del progetto Display 4 con writernet, e anche Paines Plough Wild Lunches, che consiste in “uno spettacolo, una torta e una pinta di birra” nella sede del teatro all’ora di pranzo. Abbiamo altre tre commissioni in itinere – una è per un nuovo luogo di scrittura, una deve andare nelle scuole e la terza è un musical.
Graeae elabora temi e idee con un autore e un gruppo di attori da una a due settimane per generare materiale per un’opera teatrale. L’autore se ne va per scrivere una prima bozza. Io ho una relazione molto stretta con il gruppo durante lo sviluppo del copione e rispetto a come l’accesso artistico (uso del linguaggio dei segni e descrizione narrativa audio) possa essere integrato nella scrittura. Io e il manager letterario di Graeae abbiamo sviluppato un corso di perfezionamento di scrittura che esplora l’accesso come forma d’arte, e ci rivolgiamo anche al problema di come scrivere sulla disabilità.
Graeae riceve copioni da autori che non conoscono il raggio d’azione della compagnia e pensano che vogliamo solo fare rappresentazioni sulla disabilità. Diamo loro opinioni, ma se davvero vogliamo fare una rappresentazione su questioni di disabilità vogliamo commissionarla a un autore che ci interessa.

Quali sono i vostri progetti futuri nella rappresentazione scenica e nella formazione?
La compagnia ha una solida storia di sostegno ad artisti emergenti, e recentemente ha ricevuto incoraggiamenti dall’Arts Council England a esplorare piattaforme di rappresentazione più vaste per artisti disabili le cui competenze attengono a arte performativa, farsa, esibizione solista, lavoro site-specific e all’aperto. Il potenziale della diversità di piattaforme aumenta la visibilità dell’artista disabile e fornisce la possibilità per il suo lavoro di essere integrato indipendentemente entro generi differenti.
Graeae ha fornito la prima opportunità professionale per un gran numero di attori sordi e disabili. La compagnia è attiva nell’offrire sviluppo professionale continuo per gli ex-attori. Graeae ha da sempre un impegno a formare attori, e per 5 anni abbiamo gestito un corso di formazione dove abbiamo formato 49 attori che ora lavorano in teatro, cinema, TV e radio. Ora lavoriamo con scuole di arte drammatica per accertarci che il loro processo di costruzione, marketing e reclutamento e la loro pratica di formazione siano accessibili. Stiamo anche lavorando su progetti di relazioni esterne che incoraggino giovani con disabilità a fare domanda per le scuole di arte drammatica.
Graeae offre ripetutamente consulenze di casting e promuove attori quando siamo contattati da compagnie teatrali, aziende cinematografiche e TV. La compagnia sta sviluppando 12 artisti associati, la maggior parte dei quali hanno concluso precedenti corsi di formazione per attori. Tutti hanno recitato o scritto per la compagnia, e gestiscono laboratori, letture di copione, corsi di sviluppo e formazione, e svolgono un importante ruolo di ambasciatori.
Graeae ha un posto unico nel teatro del 21° secolo. È la sola compagnia che usa attivamente il processo teatrale per garantire che la lingua dei segni e la descrizione audio siano fermamente integrate con l’intera produzione, e non solo aggiunte in via eccezionale per spettacoli. Se un’opera teatrale richiede un approccio più tradizionale a linguaggio dei segni e descrizione audio, la compagnia tuttavia sviluppa il lavoro al proprio interno e utilizza l’opportunità per formare nuovi interpreti di linguaggio dei segni e descrittori audio.
La compagnia è vista sempre come un “rischio” dal mondo del teatro mainstream, dal momento che osiamo avere attori disabili in narrazioni che tradizionalmente sono state sempre e solo impersonate da attori non disabili (es. Bent di Martin Sherman – un cast maschile tutto di disabili ed etnicamente vario –, Blasted [Dannati] di Sarah Kane, The Changeling [Gli incostanti], ecc.) ed esporre la complessità dell’accesso a tutti i pubblici. Comunque, abbiamo passato gli ultimi 10 anni a costruire alcune relazioni molto forti con il Lyric Hammersmith, il Teatro Stabile di Birmingham, i teatri New Wolsey di Ipswich e Soho e la compagnia Suspect Culture, e continueremo a fare coproduzioni non solo per condividere nuovi processi teatrali, ma per dare ai nostri attori l’opportunità di lavorare con altre compagnie di alto profilo. Le coproduzioni danno anche ai nostri partner una consapevolezza del lavorare con persone disabili e una penetrazione globale nell’eccitante processo di creare teatro accessibile.
Abbiamo un contatto in corso con il Giappone. Ho diretto un adattamento di Bodas de Sangre [Nozze di sangue] di Garcia Lorca con un cast di disabili e non disabili al teatro pubblico di Setagaya a Tokyo nel 2007. Inoltre, abbiamo due nuovi spettacoli all’aperto in coproduzione: uno si chiama The Medal Ceremony, ed è una rappresentazione che fonde esibizioni sui trampoli con attori a terra che combinano abilità fisica e linguaggio dei segni per indicare il momento della consegna di una medaglia, mentre The Rhinestone Rollers sono 8 signore che usano carrozzine elettriche, che danno un significato totalmente nuovo al ballo di gruppo – quest’opera è disponibile per festival di arte di strada.
La nostra relazione con la più ampia ecologia del teatro è vitale non solo per promuovere le capacità di attori disabili, ma anche per aprire il potenziale di opportunità per scrittori e registi disabili e per dare forma alla pratica attuale.
La nostra collaborazione più recente è stata con BBC Radio4, dove due scrittori disabili hanno adattato Il Gobbo di Notre Dame con un cast di disabili e non disabili. L’opera è stata diretta da registi BBC. I laboratori di Whiter than Snow partono a febbraio 2009, e lo spettacolo debutta il 3 marzo e va in tour fino ad aprile.
Alla fine di aprile Graeae si sposterà finalmente nella sua nuova casa, che avrà uffici, spazi di prova e una stanza creativa in cui scrittori, artisti associati e professionisti lavoreranno. Sarà la prima volta in 30 anni che la compagnia avrà una propria casa.

Per informazioni:
www.graeae.org

Le cooperative sociali: un modello che l’Europa apprezza, ma stenta a diffondere

Oltre 7.000 cooperative sociali a fine 2005, di cui 1.700 nate dal 2001 in poi (il che fa ipotizzare oggi numeri ancor più alti), che impiegano 245.000 lavoratori stipendiati e producono un valore di quasi 6,4 miliardi di euro: i numeri della cooperazione sociale in Italia la rendono una entità economica e sociale di grande rilevanza, che però non trova riscontri paragonabili in alcuno Stato europeo. Molti paesi guardano con interesse a questa esperienza italiana, soprattutto come modalità di integrazione di lavoratori svantaggiati, ma la politica europea tende a riflettere e favorire le forme più diffuse, o quelle più diffuse in paesi più abili nell’attività di lobbying, valorizzando ben poco la cooperazione sociale come modello da condividere nel concreto.

Le caratteristiche di un modello
Secondo la legge 381/1991, “le cooperative sociali hanno lo scopo di perseguire l’interesse generale della comunità alla promozione umana e all’integrazione sociale dei cittadini attraverso la gestione di servizi socio-sanitari ed educativi e lo svolgimento di attività diverse […] finalizzate all’inserimento lavorativo di persone svantaggiate”. Più significativa appare la descrizione data in letteratura della “impresa sociale”, che si distingue tra gli attori dell’economia sociale per la marcata dimensione produttiva (mentre nelle forme associative l’attività economica è funzionale alla vocazione primaria di rappresentanza) e per l’elevata partecipazione degli stakeholders, ossia per una tendenziale gestione democratica (assente nell’impresa classica).
Quanto si ritrova questo modello nelle organizzazioni che gestiscono servizi socio-educativi o promuovono l’inserimento di lavoratori svantaggiati nei Paesi europei, e nelle politiche comunitarie? Può essere utile tenere a mente che le cooperative nascono storicamente a fini di mutualità tra i soci che le costituiscono – ad esempio, le cooperative di consumo o di credito sorte nel XIX secolo. Per le cooperative sociali la mutualità (che è quanto tutela anche la Costituzione Italiana) si estende giuridicamente all’intera comunità, ma per ciò stesso si ridefinisce nella sostanza; ne deriva che esse risultano un’anomalia nel movimento cooperativo tradizionale, avvicinandosi a organismi di diversa origine e orientamento, quali le associazioni benefiche (da questo deriva la contraddizione teorica per cui le cooperative sociali italiane sono di diritto sia “a mutualità prevalente” sia “organizzazioni non lucrative di utilità sociale”).
Se il concetto di cooperativa sociale è una (felice) anomalia, non stupisce che l’Italia ne sia la punta avanzata in Europa. L’unica altra nazione che a oggi presenta una realtà altamente sviluppata di impresa sociale risulta la Spagna, anche per la forte attenzione dello Stato al movimento cooperativo sociale, che a partire dal 1999 ha portato a una normativa di favore molto simile a quella italiana. Per lo stesso motivo, una nuova normativa specifica (limitata però all’inserimento lavorativo), un grande sviluppo si è riscontrato in Polonia dal 2006, con 140 cooperative sociali nate in pochi mesi. All’estremo opposto nella scala della rilevanza delle cooperative sociali stanno i paesi in cui le loro funzioni sono storicamente assegnate allo Stato, o a enti mutualistici in senso stretto: quest’ultimo è il caso della Germania, mentre l’esempio più evidente del primo sono i paesi scandinavi, dove però recenti dinamiche di riduzione del welfare state hanno aumentato l’interesse per il modello dell’impresa sociale. Altrove, il quadro è reso più complicato dal fatto che la forma associativa, a differenza che in Italia, consente il pieno svolgimento di attività di impresa: di conseguenza, è difficile dire se le associations sans but lucratif francesi e belghe, o le Instituições Particulares de Solidariedade Social portoghesi, siano effettivamente diverse dalle cooperative sociali, o se al di là di una questione nominale siano a esse assimilabili (tenuto comunque presente che la loro attività si concentra nell’erogazione di servizi più che nell’inserimento lavorativo).

Le difficoltà del tertium
Come si è visto, sembra esistere una correlazione tra il riconoscimento giuridico di vantaggi costitutivi e fiscali alle cooperative sociali e il loro sviluppo. Quanto tali agevolazioni promuovono uno sviluppo reale del movimento, e quanto soggetti diversi accedono a esso come pura conformazione di comodo? In breve: di tutte le cooperative sociali che nascono, quante sono vere? La questione declina in modo evidente un generale rapporto ambivalente che i “cooperatori sociali doc” vivono con la politica e il legislatore, di cui in Italia si è avuta la prova con il dibattito a cavallo dell’approvazione della legge sulle cooperative sociali, e delle norme attuative, nei primi anni ’90. Da un lato, infatti, chi costituisce imprese per erogare servizi o offrire opportunità lavorative a persone in situazione di svantaggio cercherà di vedere riconosciuto il proprio sforzo (al di là dei casi in cui tale riconoscimento diventa necessario, in contesti di mercato in cui non si potrebbe competere senza agevolazioni); dall’altro, ogni provvedimento di favore si tradurrà in norme generali che non potranno essere tagliate su misura della singola cooperativa esistente, né, una volta fissate, impedire ad altri operatori economici di adeguarsi formalmente a esse, per attingere ai medesimi benefici, senza condividere lo spirito del movimento. Lo stesso problema si pone quando si tratta di ridefinire, come vedremo, le quote minime di lavoratori svantaggiati in una cooperativa di inserimento, o quando occorre allargare la definizione di “lavoratore svantaggiato”. In sintesi, lo sviluppo della cooperazione sociale giustamente promosso dalla politica verrà da alcuni giudicato un suo traviamento – e d’altronde il rischio che la forma giuridica soffochi la sostanza sociale sarà sempre reale.
Una ambivalenza simile, e collegata a queste, attiene non alle norme, ma ai servizi concreti. Come ha notato Gianfranco Marocchi, presidente del consorzio Idee in Rete, l’impresa sociale, a partire dalla crisi dei sistemi di welfare europei negli anni ’70, è stata il cardine delle politiche di de-pubblicizzazione conservatrici (attuate peraltro anche da governi progressisti), ma al tempo stesso si pone come tutela dei ceti emarginati, a volte da queste stesse politiche. Di conseguenza, l’estensione del volume economico di attività delle cooperative sociali (e del loro ruolo di modello) può essere attribuita al ruolo di mero regolatore che si ritaglia l’attore pubblico, o anche all’assorbimento in un mercato pagato dagli utenti di servizi che erano in precedenza forniti gratuitamente, o a tariffa sociale – un processo che cozza con la funzione di rappresentanza degli interessi delle fasce deboli che le stesse cooperative sociali intendono svolgere.
Infine, e più in generale, l’interesse dell’impresa sociale come modello sta nel trovare una propria via tra l’economia (sempre meno sociale) di mercato e gli interventi puramente assistenzialistici; nella prassi concreta, però, questo obiettivo può tradursi in scelte che portano la cooperativa sociale “fuori di sé”. Ad esempio, almeno fino alla riforma del 1999, in Spagna alcune imprese sociali con maggiori prospettive di mercato tendevano a costituirsi come entità for profit, per non apparire all’esterno unità produttive di serie B, mentre le cooperative sociali di inserimento lavorativo erano viste dai loro lavoratori come un’occupazione temporanea in attesa del reinserimento nel mondo del lavoro “normale” – un’auto-percezione che presuppone un mondo ideale in cui le imprese tradizionali assorbono direttamente tutti i lavoratori svantaggiati, eliminando la stessa ragion d’essere della cooperativa sociale. Viceversa, nei Paesi Bassi diverse imprese sociali sono state assorbite verso una pura concorrenza, implicando l’esclusione sistematica dei lavoratori con competenze meno utili sul mercato e quindi l’annullamento, su opposte basi, del valore della cooperazione sociale.

I laboratori protetti e l’Unione Europea
Un caso esemplare della difficoltà della cooperazione sociale italiana nel farsi modello di riferimento, ma anche della complessità del quadro in cui essa si muove, riguarda le nuove norme comunitarie sugli aiuti pubblici ammessi per l’inserimento lavorativo di soggetti svantaggiati, inserite nel Regolamento UE n. 800 del 6 agosto 2008, noto anche come GBER (General Block Exemption Regulation). Il testo del GBER definisce “posto di lavoro protetto” quello in un’impresa nella quale almeno il 50% dei lavoratori è costituito da lavoratori disabili, con una terminologia che richiama espressamente i “laboratori protetti”, di origine più assistenziale che imprenditoriale, diffusi in molti paesi europei. Con una analoga logica di separazione, il GBER include tra i “lavoratori svantaggiati” un’ampia platea di categorie (poco scolarizzati, ultra50enni, membri di minoranze linguistiche, e anche sottorappresentati su base di genere nel proprio settore produttivo), mentre i “lavoratori disabili” sono trattati a parte, seppure con un regime economicamente più elastico; le altre tipologie di lavoratori svantaggiati riconosciute dalla legislazione italiana, come tossicodipendenti, alcolisti, detenuti ammessi a misure alternative, non vengono citate (se non indirettamente, in quanto disoccupati di lungo periodo).
Il mondo della cooperazione sociale italiana (e non solo: sulla stessa linea il commento al Regolamento di CEPES – Confederación Empresarial Española de la Economía Social) non può riconoscersi in questa formulazione, che i bandi nazionali e regionali per contributi allo sviluppo delle imprese sociali devono oggi rispettare. Sergio Della Valle, presidente della cooperativa sociale “L’Agorà” di Pordenone, trova nel GBER la conferma che “in Europa la legislazione che si occupa di inclusione lavorativa di fasce deboli richiama altre esperienze, in particolare quella francese e tedesca”. Per i lavoratori con disabilità, invece, Dalla Valle nota che la cooperazione sociale riesce a dare concretezza al recente utilizzo del termine “inclusione” al posto di “inserimento”: “la costruzione di percorsi in cui la persona svantaggiata può arrivare ad essere protagonista del proprio lavoro, quello che già da tempo è definito come il passaggio dalla relazione di aiuto alla relazione di scambio”. Fabrizio Valencic, team manager di un progetto Italia-Slovenia per lo sviluppo di imprese sociali transnazionali, individua il valore aggiunto della cooperazione sociale rispetto ai laboratori protetti nella sostenibilità: “l’impresa sociale italiana in forma di cooperativa sociale garantisce inserimenti lavorativi ‘reali’ di soggetti svantaggiati, con costi di sostegno (contributi statali) ridicoli e trasformando costi di welfare in risorse fiscali per la comunità”.
D’altro canto, le organizzazioni internazionali che rappresentano i laboratori protetti (ma anche diverse forme di impiego di persone disabili) si dichiarano soddisfatte della nuova normativa. In particolare, Workability Europe così commenta, nel marzo 2008, la quota minima di lavoratori per essere riconosciuti “posto di lavoro protetto” inserita nella terza bozza del GBER (poi approvata): “La soglia del 50% rappresenta adeguatamente la realtà delle imprese protette in Europa oggi. Workability Europe sconsiglierebbe di rivedere questa soglia al ribasso, poiché questo porterebbe il concetto di ‘impresa protetta’ più vicino a quanto è noto come ‘impresa sociale’ – un’entità con struttura, mission e statuto del tutto differenti”. E tuttavia, in altra parte del medesimo commento, si rileva che “è stata usata una terminologia positiva: ai laboratori/aziende protette ci si riferisce come ‘imprese’, il che corrisponde al loro ruolo di mercato oggi”. Diventa quindi difficile giudicare se a contrapporsi, nell’azione di lobbying comunitaria che ha portato alla stesura finale del GBER (come in quelle che verranno), siano due modelli culturalmente in antitesi o due posizioni basate sugli attuali assetti giuridici nazionali, la cui armonizzazione in sede europea, come si è già argomentato, non potrà mai lasciare del tutto appagate le realtà esistenti. Rimane comunque paradossale che, dopo quasi trent’anni di progetti transnazionali in cui la cooperazione sociale italiana è stata conosciuta e apprezzata, l’Unione Europea rimanga legata a opzioni di carattere più assistenziale – e meno in linea con gli obiettivi di Lisbona da essa stessa proposti.

La crisi come opportunità
La riduzione dell’occupazione in corso in questi mesi come effetto della crisi finanziaria, abbinata ai tagli di spesa pubblica e alla riduzione delle commesse private, sembrerebbe una mannaia sotto cui molte belle parole sul modello della cooperazione sociale rischiano di cadere. Eppure, gli operatori interpellati sembrano ottimisti, trovando nell’impasse delle imprese for profit una possibile opportunità di rilancio di altri modelli su scala europea. A detta di Valencic, “fino a oggi ognuno si è tenuto stretto il proprio sistema più o meno assistenziale, più o meno costoso, ma l’attuale situazione economica (per la sua natura non congiunturale) può rappresentare un’opportunità di sviluppo per l’economia sociale, per le sue caratteristiche di attenzione alla persona, alla comunità, al territorio, all’ambiente”. La cooperazione sociale può offrire un modello anche per nuove fasce di emarginazione sociale, purché si faccia trovare pronta al processo, di cui già diversi anni fa Carlo Borzaga riscontrava l’ineluttabilità, di estensione del perimetro dei lavoratori svantaggiati: “la sfida” afferma Della Valle “è di riuscire a esportare un modello di inclusione lavorativa come il nostro, che ha capacità di offrire alle persone progetti che integrano lavoro, formazione, partecipazione consapevole all’impresa, inserimento sociale”.
Per il successo di questa campagna, però, all’azione della classe politica italiana in Europa deve affiancarsi un’autopromozione del mondo della cooperazione sociale, che stenta a decollare a causa delle piccole dimensioni delle imprese e dei loro ristretti margini operativi, che impediscono adeguati investimenti in comunicazione e scambi internazionali. Inoltre, la prassi delle cooperative dovrà tenere fede al modello valoriale che esse propongono, evitando di incorrere nelle distorsioni cui le espone, come abbiamo in parte visto, la loro natura di “terza via” tra impresa tradizionale e servizio a gestione pubblica. “Autogestione, una testa un voto, diversità come risorsa, lavoro di rete e relazioni con il territorio” conclude Della Valle “sono aspetti, valori, che la cooperazione sociale italiana deve poter far arrivare in Europa”.

Diversamente danesi. Politiche per la disabilità in Danimarca: un altro mondo auspicabile?

Nella discussione sui modelli di welfare e di mercato del lavoro, un ruolo di modello (anche se non necessariamente positivo) viene spesso riconosciuto alla Danimarca. La caratteristica principale del modello danese, che solo in parte si uniforma a quello degli altri paesi scandinavi, consiste in una forte sicurezza sociale, sostenuta da un alto livello di tassazione, correlata a un netto orientamento alla vita indipendente e all’attività lavorativa. Nello specifico del mercato del lavoro, questo sistema si traduce nel concetto di flexicurity: flessibilità della prestazione lavorativa (ovvero vincoli e indennizzi molto bassi al licenziamento), generosi sussidi di disoccupazione collegati però a “politiche di attivazione” che impongono l’accettazione di un posto di lavoro non appena esso si renda disponibile – questi tre elementi sono sovente definiti il “triangolo d’oro” del modello danese. Il sistema della flexicurity si è imposto in Danimarca all’inizio degli anni ’90, e ha portato a minimizzare la disoccupazione, aumentare la quota di cittadini occupati a livelli da record mondiale (specie per la componente femminile) senza con questo diminuire la coesione e l’inclusione sociale. Il successo di questa esperienza ha portato studiosi e organi politici dell’Unione Europea a proporne l’importazione in altri paesi europei, Italia inclusa, e indirettamente all’analisi del modello sociale danese in riferimento alla politica sociale, tra cui le politiche per le persone con disabilità.
Il Centro per le Pari Opportunità per le Persone Disabili (Center for Ligebehandling af Handicappede), costituito nel 1993 dal Parlamento danese con finalità di raccolta e diffusione di informazioni specialistiche, rende disponibili sul proprio sito web alcune pubblicazioni in inglese sui principi fondamentali della politica danese per la disabilità. L’analisi dei documenti consente alcune valutazioni generali su come un modello sociale “di tendenza” funziona nel paese che l’ha inventato, e su quali problematiche potrebbe aprire la sua importazione in contesti nazionali differenti.

Tutto gratis, a cura di tutti
I principi della politica per l’handicap in Danimarca sono individuati diversamente a seconda delle pubblicazioni, ma due punti particolarmente significativi sono comuni. In primo luogo, spicca la totale gratuità di tutte le misure di compensazione, vale a dire gli interventi tesi a garantire pari opportunità alle persone con disabilità, eliminandone o riducendone l’handicap: è una parte fondamentale della politica danese per l’handicap che la compensazione sia gratuita per l’individuo e sia garantita indipendentemente dal reddito o capitale della persona e della sua famiglia. La fiscalità generale copre integralmente le spese connesse, senza richiedere, come è frequente (e molto discusso) in Italia, una “compartecipazione dell’assistito” o della sua famiglia. Questo principio si traduce, tra l’altro, nel rimborso di tutti gli “extra-costi” che la persona disabile deve sostenere in ragione della propria disabilità, laddove non vengano forniti servizi individualizzati (naturalmente gratuiti). Per quei costi che possono solo in parte essere imputati alla disabilità, invece, sono previsti contributi monetari parziali, ad esempio su beni durevoli non adattati: una lavatrice, un’asciugatrice o altro materiale di cucina, che non sono costruiti in modo speciale per persone disabili, ma che consentono all’utente di compiere funzioni quotidiane. Il sostegno verso i beni durevoli è garantito al 50% del prezzo del prodotto, che quindi diventa proprietà dell’utente. Occorre ricordare che in Italia simili sistemi di rimborso parziale si applicano, almeno formalmente, per strumentazioni necessarie in connessione al tipo di disabilità e solo per utenti individuati latu sensu in stato di disagio economico; la persona danese con disabilità deve solo preoccuparsi del fatto che “il beneficiario stesso paga qualsiasi riparazione dei beni e anche la loro sostituzione”.
La gratuità per tutti può essere compresa meglio avendo presente il secondo principio, quello denominato della “responsabilità di settore”, sintetizzabile nell’assunto che al fine di ottenere una piena partecipazione nella vita di una comunità, tutti i settori devono essere coinvolti e assumere la propria parte della responsabilità che il principio dell’equalizzazione delle opportunità sia raggiunto. Le pari opportunità per la persona disabile non vengono garantite da uno o più organismi specializzati, afferenti con ogni probabilità all’area socio-sanitaria (la politica per la disabilità non può essere ridotta a politica sanitaria o politica sociale), ma affidate a tutti gli operatori dei settori che hanno a che fare con l’accessibilità nel suo senso più ampio: dai trasporti alla costruzione e ristrutturazione abitativa, dalla vendita al dettaglio alle tecnologie dell’informazione. La responsabilità della creazione di un mondo sociale a misura di persona disabile è insomma di tutta la società, e non è delegabile. Di conseguenza, il gran numero di strutture nazionali che in Danimarca si occupano di disabilità (Consiglio delle Organizzazioni delle Persone Disabili, Consiglio per la Disabilità, Centro per le Pari Opportunità per le Persone Disabili, Ombudsman – Difensore Civico, comitato interministeriale per l’area della disabilità) intende garantire la migliore definizione di norme e la fornitura di un supporto tecnico per la loro applicazione da parte di tutti, e il ruolo dell’associazionismo di settore risulta, almeno idealmente, consultivo più che di gestione e cura diretta di servizi. Diventa pertanto più comprensibile la ratio della gratuità indifferenziata nella fornitura dei servizi a compensazione: può apparirci ingiusta (e rimane comunque generosa), ma è coerente con l’idea delle pari opportunità come premessa di un corretto vivere sociale, la cui attuazione è sulle spalle di tutti, tramite il sistema fiscale ma non solo.

“Un paradiso con alcuni serpenti”
Un mondo perfetto, dunque? Naturalmente no, innanzitutto perché quanto citato costituisce solo in parte un sistema consolidato di diritti esigibili, e per il resto un modello cui tendere a partire da situazioni non ideali. Per fare un esempio molto concreto, la scelta del dottore è spesso soggetta ad alcune limitazioni se il paziente utilizza una carrozzina. Ben pochi medici di base hanno adattato il proprio studio in modo da renderlo fisicamente accessibile. Al di là della inevitabile discrepanza tra essere e dover-essere, però, nel “modello danese” si possono individuare alcuni difetti, in parte connessi alla sua stessa genesi, su cui importatori troppo frettolosi dovrebbero riflettere. In questo, utili spunti forniscono gli studi del CARMA, il centro di ricerca sul mercato del lavoro dell’Università di Aalborg.
Un primo enorme problema è quello della sostenibilità economica nel tempo. A causa dell’invecchiamento della popolazione, della riduzione tendenziale degli orari di lavoro e anche delle aspettative crescenti sui sistemi di welfare (difficilmente si rinuncia volentieri a conquiste sociali già ottenute), il bilancio di tali sistemi è in sostanziale deficit: i dati ufficiali attestano che nel corso di una vita, ogni danese riceverà più benefici e servizi dal settore pubblico di quanto contribuisca in tasse. Questo nel Paese con la più alta pressione fiscale del mondo (tassazione sul reddito media intorno al 47%, aliquote marginali fino al 63%), e dopo che i governi liberal-conservatori in carica dal 2001 hanno invano cercato di ridurre tale pressione fiscale di fronte a spese crescenti. La riforma fiscale approvata nel maggio 2009 appare tesa a spostare il carico fiscale (ad esempio dai redditi ai versamenti pensionistici) senza ridurlo complessivamente in maniera radicale, ma una “resa dei conti”, che riallinei il peso del fisco alle medie europee tagliando sostanzialmente il welfare (o per lo meno il suo carattere universale, a prescindere dal reddito individuale e familiare), non può essere esclusa – ciò tuttavia equivarrebbe all’implosione del modello stesso.
Un’altra sfida potenziale attiene al livello di decisione delle politiche per l’handicap. Va premesso che in questo ambito il passaggio chiave è stato, nel 1980, il decentramento delle competenze dallo Stato alle amministrazioni di contea e locali, che ha portato alla chiusura degli istituti residenziali statali a favore di sistemazioni abitative più piccole e integrate nel contesto sociale. Di conseguenza, il decentramento delle politiche sociali è stato considerato positivo per decenni, ma oggi ne emerge almeno un limite: la definizione di politiche e risorse esclusivamente sul piano locale, senza un forte quadro di riferimento nazionale (equivalente ai nostri LEA), potrebbe dissolvere la “cittadinanza dei diritti” della persona con disabilità, rendendo sensibilmente diverso il quadro dei servizi da contea a contea. Se si aggiunge che l’Unione Europea, il terzo livello normativo possibile, non ha mai brillato per capacità di fissare diritti esigibili per i suoi cittadini con disabilità, emerge la necessità di un costante equilibrio e coordinamento tra politiche nazionali e locali.
Infine, nell’analisi della struttura stessa del modello danese è opportuno soffermarsi sul bilanciamento tra collettività e individualismo. Il sistema di protezione sociale in Danimarca si fonda storicamente su un accordo del 1899 tra datori di lavoro e sindacati, e si è sempre sviluppato come frutto di accordi tra parti sociali forti, riconosciuti più che promossi dal potere statale. Si è quindi costituito un anomalo mix tra orientamento al lavoro come dimensione sociale preminente, confronto individuale con il mercato del lavoro e strutturazione di tutto il sistema attraverso accordi collettivi, orientati da un robusto senso civico. In che misura l’anomalia coincide con l’irripetibilità, specie rispetto a nazioni segnate dal “familismo amorale” o dal centralismo decisionale pubblico? Come ha influito sugli accordi collettivi il passaggio dalla “comunità” alla “società”, nel loro senso di archetipi sociologici? In che modo la rilevanza dell’occupazione lavorativa nella costruzione del senso di cittadinanza si riflette nella considerazione sociale delle persone con disabilità, per le quali il lavoro può anche risultare inattingibile? Esiste una connessione tra l’assunto che il fatto che come cittadino non si debba dipendere dalla propria famiglia o amici per l’aiuto in compiti personali come la cura quotidiana per i figli, la cura personale e l’igiene costituisce un importante elemento del modello di welfare danese, e il fatto che ci sono anche parecchi bambini che vivono in un istituto, perché la famiglia non può dare ai figli il trattamento necessario od occuparsi del compito da sé, in alcuni casi con una soluzione residenziale permanente? Le risposte a queste domande vanno inevitabilmente ponderate prima di esportare i fondamenti della società danese in contesti nazionali differenti, magari abbagliati dalle indagini statistiche annuali secondo cui gli abitanti della Danimarca risultano il popolo più felice del mondo.

Corpi per ballo: idee di integrazione e progetti formativi della compagnia di danza Candoco

Quale disciplina artistica è più fisica della danza? E pertanto, quale ambito estetico sembrerebbe più inaccessibile alle persone con disabilità motorie o sensoriali? Da quasi vent’anni la compagnia britannica Candoco costituisce la negazione di questa apparenza e lo spostamento dei confini della danza, con la sua pratica di integrazione di ballerini con diverse abilità in esibizioni professionistiche di forte impatto innovativo, e con un ricco programma di formazione coreutica per tutti. Ne abbiamo discusso con Stine Nilsen, co-direttrice artistica della compagnia dal 2007.

Può descrivere brevemente la storia e la mission della Candoco Dance Company?
Candoco è una compagnia di danza contemporanea composta di ballerini disabili e non, che intende produrre esibizioni di danza creativamente ambiziose, che divertano e ispirino il pubblico.
Uno degli scopi principali di Candoco è forzare i confini della danza contemporanea e ampliare la percezione delle persone di cosa è la danza e chi può danzare, mostrando come “il virtuosismo non è limitato ai ballerini normodotati”. Candoco vuole eccitare essendo audace, ispirare essendo eccellente e mettere in dubbio essendo diversa.
Candoco è stata fondata nel 1991 da Celeste Dandeker e Adam Benjamin. La compagnia si è sviluppata da seminari guidati da Celeste e Adam, ed è rapidamente cresciuta fino a diventare il primo soggetto nel Regno Unito a essere una compagnia professionistica di danza specializzata nell’integrazione di ballerini disabili e non.
La compagnia ha conquistato forte acclamazione dalla stampa, dal pubblico e da colleghi nei mondi di danza ed educazione. La richiesta per l’opera della compagnia ha portato a un formidabile programma di spettacoli, sia nel Regno Unito che all’estero – con visite in oltre 50 Paesi, in Europa, Australia, America del Nord e del Sud, Asia e Africa. La compagnia attualmente è in tour per circa 20 date ogni anno nel Regno Unito, e per un certo numero di date internazionali attraverso il British Council e promoter indipendenti.
La direttrice artistica Celeste Dandeker (nominata Ufficiale dell’Ordine dell’Impero Britannico), che si è ritirata da questo ruolo nel 2007, ha commissionato 30 nuove opere di esibizione per la compagnia a coreografi del Regno Unito e degli USA, rinomati a livello internazionale. Questa ambiziosa politica di committenza è la spina dorsale del successo della compagnia, e continua nel 2008/09, con i nuovi co-direttori artistici Stine Nilsen e Pedro Machado che hanno commissionato opere a Hofesh Shechter e Nigel Charnock.
Di pari importanza per Candoco è il suo estensivo programma educativo, che viene tenuto dai ballerini della compagnia e da un team di artisti associati alla compagnia, il che rende Candoco un’esponente di spicco della pratica di danza inclusiva. La filosofia della compagnia è che la danza è accessibile a tutti. Migliaia di persone in scuole, università e nella comunità più ampia partecipano ogni anno al programma educativo di Candoco nel Regno Unito. Il repertorio di esibizioni della compagnia mostra alle persone cosa si può realizzare, e il suo lavoro educativo le invita a realizzarlo loro stesse. Questa si è dimostrata una combinazione vincente.
Il lavoro pionieristico di Candoco ha portato a una proliferazione di gruppi integrati nel Regno Unito e ha creato una richiesta alle strutture educative di aprire i loro corsi a studenti disabili. Il Corso di Danza della Fondazione Candoco per studenti disabili, il primo nel suo genere nel Regno Unito, è cominciato nel settembre 2004 ed è stato attivo per tre anni, La compagnia è ancora impegnata nel fornire strade alternative perché persone disabili si formino professionalmente, ed è ora finanziata su progetti dal Learning and Skills Council per lavorare con scuole di orientamento professionale allo sviluppo di formazione accessibile all’orientamento.
La compagnia ha sede a Londra, con un ufficio ad Islington e una sala di studio ubicata in ASPIRE (il Centro Nazionale di Formazione presso il Royal National Orthopaedic Hospital) nel quartiere suburbano di Stanmore.

Come vengono vissuti i vostri programmi di esibizione e educazione dagli studenti e dal pubblico giovanile?
Stiamo gestendo tre compagnie giovanili di danza per giovani disabili e non, dai 14 ai 25 anni. Sono un’eccitante opportunità di lavorare fianco a fianco con i ballerini professionisti di Candoco e con coreografi ospiti. In particolare, Cando 2, la compagnia giovanile di danza “ammiraglia” di Candoco, è in attività con successo da oltre cinque anni, e in questo periodo la compagnia si è esibita a festival di danza ed eventi come il lancio di Youth Dance England [l’organizzazione nazionale di danza giovanile, ndt], e al fianco della compagnia principale Candoco alla Royal Festival Hall.
Stiamo anche tenendo seminari educativi in scuole e università, per sostenere il nostro lavoro di esibizione e impegnarci con i giovani e i loro insegnanti per consentire loro di contestualizzare la pratica di Candoco, che cosa facciamo, chi siamo e il lavoro che produciamo. Candoco celebra gli individui e il loro potenziale creativo, cercando di coltivare lo sviluppo di ballerini e coreografi di tutte le età, esperienze e abilità.
Uno dei corsi che offriamo è un programma residenziale di coreografia. Alcuni mesi fa, due dei nostri ballerini hanno lavorato con 15 ragazzi dai 12 ai 15 anni, per tre giorni. Hanno realizzato un pezzo di 5 minuti, che è stato mostrato subito prima dell’esibizione di Candoco, sullo stesso palco. La risposta dei ragazzi è stata grande, è piaciuto loro fare il pezzo che avevano realizzato insieme con i ballerini (basato su esercizi creativi ispirati dallo spettacolo in programma). Il riscontro del loro insegnante è stato che non li aveva mai visti concentrati così duramente e così a lungo (oltre un’ora senza fare pause!). L’insegnante era anche impressionato dalla disciplina e dalla professionalità che i ballerini avevano instillato negli studenti.

Ci potete parlare di buone (e cattive) esperienze e pratiche tra ballerini e persone disabili e non nelle prove e nelle rappresentazioni? Avete colto indizi in queste esperienze per una società più inclusiva?
Inclusività e integrazione sono al cuore di tutto quel che Candoco fa – mettendo l’individuo (e non la disabilità) al centro del nostro lavoro, capiamo che ogni persona/ballerino (disabile o no) ha un ricco vocabolario di movimento da cui possiamo attingere e imparare.
Per gli stessi motivi, perciò, lavoriamo con tutti i ballerini per capire come meglio collaborare e creare un buon lavoro di danza. A volte i bisogni di una persona disabile hanno anche a che fare con la sua personalità, non solo con la sua disabilità, pertanto è importante pensare alla persona, non alla disabilità.
Ci sono esempi specifici di come la compagnia ha imparato molto sui metodi di lavoro dei diversi ballerini coinvolti. Per esempio, lavorare con una ballerina sorda nella compagnia ha aperto la coscienza di tutti a quanto sia importante una comunicazione chiara e semplice. Abbiamo avuto bisogno di prenderci più tempo per assicurare che tutte le informazioni venissero comunicate a tutti nello stesso momento, piuttosto che diffondersi informalmente; abbiamo anche imparato un po’ di lingua dei segni, che ci ha aiutato in situazioni di insegnamento quando uno studente è sordo. Ma la ballerina sorda era anche non inglese – spesso abbiamo ballerini non nati in Inghilterra nella compagnia, e questo ha portato alla mia attenzione che c’è sempre bisogno di una comunicazione chiara, ed essa è al cuore di un ambiente di lavoro positivo ed efficiente.
Lavorando con alcuni ballerini che hanno usato una carrozzina o altri ausili per la mobilità, sono divenuta consapevole dello sforzo e tempo extra che spesso essi usano solo allo scopo di andare o venire dal lavoro, o di fare altri compiti quotidiani. Scoprire come muoversi insieme, come partner di danza o all’unisono, a volte richiede un po’ più di tempo per pensare, perché non possiamo fare supposizioni a proposito di come si muove l’altra persona. Ciò ha prodotto che farsi domande e risolvere problemi è una parte preponderante di come lavora Candoco, e che i ballerini devono impegnarsi nel lavoro.
Penso che tutti i punti sopra indicati – comunicazione chiara, farsi domande su come lavorare e risolvere problemi – siano buone esperienze per una società più inclusiva.

L’interazione tra esecutori disabili e non ha avuto influenze nel produrre opere d’arte innovative, o comunque diverse dal solito?
Certamente! Noi, come compagnia, crediamo che le differenze nella fisicità si aggiungono a un raggio più ampio di vocabolario del movimento, e perciò spostano i confini della danza e si aggiungono per produrre un’opera di danza innovativa. Un esempio artistico: quando la ballerina sorda aveva bisogno di cominciare il suo assolo all’inizio della musica, che la ballerina non poteva sentire, il coreografo ha fatto battere il piede a tutti gli altri ballerini sul pavimento. Questo è diventato un tema del pezzo.
Un altro coreografo ha creato costumi che non rivelavano se i ballerini fossero disabili o meno, e perciò si concentravano sulla qualità del movimento e sulle capacità dei ballerini, piuttosto che sull’“effetto wow” di una compagnia inclusiva di ballerini.
Un altro coreografo ha usato un ballerino senza gambe per interpretare il ruolo di Dio, e questo ha sfidato l’immagine di Dio di alcuni.
Ci sono stati molti duetti belli e innovativi fatti con un ballerino non disabile e uno in carrozzina; si può vedere come esempio il video promozionale della nostra stagione 07/08, nella sezione “Video” del nostro sito web.

Quali sono i vostri prossimi progetti nell’esibizione di danza e nella formazione?
Uno dei nostri progetti è Moving-Bodies, un nuovo programma di sviluppo regionale che sta avendo luogo in 5 regioni nel Regno Unito (Londra, Essex & Herts, South West, Yorkshire e Galles) tra il 2008 e il 2011, finanziato dalla Paul Hamlyn Foundation. Il programma continuerà a spostare i confini della danza come forma d’arte, estendendo la natura della danza contemporanea come movimento che sfida le convenzioni stabilite nella danza occidentale. Lavoreremo con una gamma di persone, dai bambini della scuola elementare agli artisti affermati, offrendo attività pratica con ballerini e project manager di Candoco per aumentare qualità, comprensione e preparazione del lavoro di danza.
ADAPT (Accessing Dance and Performance Arts Training) è un altro progetto, finanziato dall’LSC (Learning and Skills Council) e tenuto in cooperazione con l’Urdang Academy, che consiste in una serie di seminari per insegnanti di danza e arti performative. Lo scopo principale del progetto è dare a giovani di talento la migliore opportunità possibile di avere con successo un’audizione per un Dance and Drama Award [una borsa di studio parziale per scuole private di danza e arte drammatica, ndt] o una scuola di formazione; nel riconoscimento della varietà degli studenti che fanno domanda per i programmi di arti performative in tutto il paese, teniamo un corso basato sulla pratica perché gli insegnanti:
• sfidino le percezioni e le idee di cosa davvero siano le buone pratiche e l’insegnamento inclusivo;
• sviluppino competenze, comunicazione e fiducia nel lavorare con una classe varia ed eterogenea;
• si ispirino l’un l’altro a fare nuove domande ed esplorare nuovi modi di lavorare;
• coltivino il talento, così che i nostri studenti e colleghi abbiano la migliore opportunità di raggiungere il loro potenziale creativo.
Stiamo anche raccogliendo fondi per lanciare il nostro Schema di Praticantato di Danza nell’autunno 2009. Apriremo le porte del nostro studio a due artisti selezionati per anno, così che possano guadagnare conoscenza pratica, di prima mano, del lavoro in una compagnia di danza professionistica. I praticanti saranno pagati per il loro impegno di 10 settimane, e offriremo anche assistenza finanziaria rispetto a viaggio e sistemazione per garantire che i candidati non siano esclusi su basi economiche, geografiche o bisogni personali di viaggio (per esempio, l’inaccessibilità della metropolitana di Londra per utenti in carrozzina).
La partecipazione è aperta a chiunque, ma sarà data priorità a ballerini disabili con sede nel Regno Unito, che soffrono la mancanza di possibilità integrate di formazione entro il settore della danza. Saranno in seguito considerati artisti che non abbiano lavorato come professionisti in una compagnia di danza, o anche individui disabili che mostrino interesse per l’arte della danza.
Stiamo al momento raccogliendo le circa 10.000 sterline richieste per questo progetto, e speriamo di poterlo lanciare presto, così che i ballerini coinvolti possano essere in una posizione più forte per creare e cercare opportunità nel mercato competitivo della danza.

Un sogno lungo 10 anni: l’European Disability Forum dal 1997 al 2007

Di Massimiliano Rubbi

L’European Disability Forum (EDF), il principale organo consultivo a livello europeo formato da associazioni di persone con disabilità, ha recentemente pubblicato sul proprio sito web, www.edf-feph.org, un opuscolo intitolato “10 anni di storia”, con cui viene dettagliato un breve resoconto delle attività svolte tra il 1997 e il 2007. Una prospettiva più ampia di quella della stretta attualità permette di vedere come una quantità di scelte politiche che oggi diamo per scontate siano in realtà frutto di evoluzioni lunghe – e spesso tardive – all’interno del di per sé sofferto processo di integrazione europea. Inoltre, l’analisi di quanto fatto e di quanto rimasto da fare rende possibile individuare le linee guida di lungo periodo entro cui è auspicabile si muovano le politiche continentali per la disabilità.

Una storia per gradi
L’EDF ricorda innanzitutto come le politiche per la disabilità adottate in Europa fino ai primi anni ’90 fossero basate su programmi creati da professionisti, soprattutto del settore sanitario, e a tale “comunità” rivolti, senza un coinvolgimento nemmeno indiretto delle persone con disabilità. Solo nel 1993, con il Programma Helios II e il primo Anno Europeo delle Persone con Disabilità, l’handicap venne messo “sotto i riflettori” di Bruxelles, e soprattutto venne accettata l’importanza di discuterne con le associazioni di rappresentanza. Proprio per garantire una voce autorevole e (tendenzialmente) uniforme delle persone con disabilità a livello europeo, negli anni successivi si fecero sforzi per costituire un unico corpo consultivo indipendente, che prese forma nel 1997 con la nascita ufficiale dell’EDF.
Il quadro delle attività dell’EDF può essere sintetizzato in quanto l’opuscolo afferma a proposito del lavoro svolto in vista dell’allargamento a est dell’Unione nel 2004: “Il più grande successo non è stato raggiungere gli esiti attesi, ma il processo in sé”. Molti dei risultati sin qui ottenuti dall’EDF non sono infatti soluzioni concrete a problemi specifici, quanto percorsi capaci di generare mutamento culturale e organizzativo. L’esempio più evidente, benché avviato prima della costituzione dell’EDF e soltanto completato da questo, è la campagna per l’inserimento di un riferimento alla disabilità nei testi fondativi europei, conclusa nel 1997 con l’articolo 13 del Trattato di Amsterdam, il primo a riferirsi specificamente alla disabilità come terreno per la lotta alla discriminazione. Un risultato non particolarmente significativo in sé può diventarlo quando considerato parte di un processo più ampio, che porta i disabili a essere, nelle parole dell’EDF, “da persone invisibili a cittadini visibili”.
L’evoluzione delle attività dell’EDF negli anni successivi conferma questa natura di processo a lungo termine, e ne evidenzia il carattere “incrementale”, con piccoli passi uno sull’altro. Nel 2000, infatti, dopo una forte azione di lobbying dell’associazione, veniva approvata la prima Direttiva Europea riguardante la disabilità, all’interno della disciplina generale per le pari opportunità in ambito lavorativo. Non è un caso che il primo affacciarsi della tutela delle persone disabili a livello di Unione si riferisca all’ambito dell’occupazione/occupabilità, che è il “taglio” con cui l’UE da decenni inquadra più di frequente le politiche sociali. Anche in questo caso, dunque, la scelta di una linea di azione da parte dell’EDF rispecchia, e non sovverte, gli orientamenti della macchina politico-burocratica europea.
Tre anni dopo, nel 2003, veniva celebrato l’Anno Europeo delle Persone con Disabilità. Questo evento, che secondo l’EDF in genere l’UE utilizza “per suscitare consapevolezza su un certo argomento in cui la sua competenza è limitata”, nasce questa volta dal basso e con la partecipazione diretta degli interessati (attuando il motto “niente su di noi senza di noi” fatto proprio da molte associazioni di settore), e con una campagna largamente decentrata tra le associazioni dei vari Stati, più che governata da Bruxelles.
Gli anni successivi vedono il miglioramento, e in molti casi la costituzione, dei Consigli Nazionali delle persone disabili nei 10 Stati divenuti membri nel maggio 2004, e poi, nel 2006, l’inserimento di una clausola nei nuovi programmi di finanziamento europei per garantirne la non-discriminazione nei confronti delle persone disabili.

In volo verso il futuro
Uno dei risultati più tangibili dell’attività dell’EDF viene raggiunto nel giugno 2006, con il Regolamento in materia di trasporto aereo. Dopo una prima bozza di inizio 2004 in cui i diritti dei passeggeri con disabilità erano trattati solo a livello di indirizzo generale, lo sforzo del Forum, direttamente contrapposto alle lobby di linee aeree e aeroporti, ha portato a un Regolamento che “rende illegale la possibilità di negare l’imbarco sulla base della disabilità o di imputare al passeggero aereo disabile che richiede assistenza qualsiasi costo aggiuntivo” (prassi molto comuni prima dell’approvazione della normativa).
Il prossimo obiettivo dichiarato dell’EDF è l’approvazione di una direttiva europea globale che protegga i diritti delle persone con disabilità in tutti i campi della loro vita. Una bozza di questa direttiva era già stata predisposta in occasione dell’Anno Europeo nel 2003, ma la Commissione ritenne prematura questa normativa, soprattutto temendo un’opposizione degli Stati membri – fondata, non è irragionevole supporre, sul fatto che molti campi in cui essa necessariamente inciderebbe (servizi sociali, riabilitazione, scuola…) ad oggi trovano una regolamentazione europea molto debole e sono disciplinati sostanzialmente a livello statale o addirittura regionale. Nel 2007 la campagna per una direttiva globale, su un testo aggiornato, è stata ripresa dall’EDF, e ha ottenuto 1.294.997 firme a livello europeo, consegnate al Presidente della Commissione Barroso il 22 novembre 2007. L’opportunità di questo approccio “olistico” ha trovato una conferma diretta nella sua adozione all’interno della Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, che l’Assemblea Generale ha votato nel dicembre 2006.

Un bilancio (non troppo) critico
La storia di dieci anni di EDF può lasciare l’impressione, come si è già detto, di un’attività svolta molto in linea di principio e meno in vista di obiettivi concreti. Va però considerato che un rilievo di questo genere può essere mosso a tutta l’organizzazione della UE, che deve affidare in larga parte agli Stati nazionali il recepimento concreto delle proprie regolamentazioni generali (un limite il cui superamento è allontanato nel tempo dalle bocciature della nuova Costituzione Europea nel 2005). L’EDF stessa se ne dichiara consapevole affermando nel proprio testo: “Anche se alcuni potrebbero credere che l’Unione Europea è lontana dalle preoccupazioni del cittadino e ha un impatto limitato sulle nostre vite, la realtà è molto diversa. I miglioramenti e i successi compiuti a livello UE fanno una chiara differenza a livello di base, benché sia vero che a volte il processo può richiedere parecchi anni”.
L’attività dell’EDF, tra successi e qualche fallimento dichiarato, va dunque considerata entro questo quadro di medio-lungo periodo, e in particolare rispetto alla capacità di generare un mutamento di mentalità, più lento ma anche più stabile e non reversibile: il passaggio da un modello medico della disabilità (in cui l’integrazione risulta una concessione) alla sua considerazione come “questione di diritti umani”. Si tratta, a ben vedere, di un percorso parallelo a quello svolto sul piano culturale da realtà di vario genere (associazioni, gruppi culturali…) in relazione sia al tema specifico dell’handicap sia a quello più generale della diversità, ma sviluppato qui dall’interno delle istituzioni comunitarie, le più “burocratiche” che siamo abituati a immaginarci, e tuttavia con rilevanti successi nel giro di pochi anni.
Se dunque non ci attendiamo dal Forum le dimostrazioni clamorose (e in genere inconcludenti) pro-disabilità che caratterizzano alcune associazioni di rappresentanza italiane e non solo, potremo valutarne il percorso futuro all’interno delle istituzioni europee sulla base della capacità di mantenere una voce autonoma e di ottenere miglioramenti progressivi per i 55 milioni di europei con disabilità.

Happy together? Le prospettive dei centri diurni in un Regno Unito che invecchia

Di Massimiliano Rubbi

Negli ultimi anni, e ancor più negli ultimi mesi, siti giornalistici e blog britannici hanno riportato riduzioni nei servizi sociali ad anziani e adulti con difficoltà di apprendimento da parte di diversi enti locali. Riportando l’attacco di un articolo pubblicato dal “Guardian” il 22 novembre 2007, “quasi i tre quarti delle autorità locali in Inghilterra stanno razionando i servizi sociali per escludere decine di migliaia di persone vulnerabili dall’aiuto rispetto a funzioni fondamentali della vita quotidiana”. Dal momento che, come vedremo, la tendenza è a ridurre i servizi rivolti agli utenti con bisogni meno marcati, le prime strutture a “saltare” sono spesso i centri diurni o comunque i servizi a carattere meno intensivo. Al di là delle proteste per il venir meno di possibilità locali di integrazione, i tagli si collocano all’interno di un dibattito articolato, e non ancora concluso ma comunque avviato dalle autorità britanniche, su come consentire una dignitosa coesione sociale a una popolazione in inesorabile invecchiamento e dunque di fronte a costi crescenti.

Una scala scivolosa
L’articolo del “Guardian” delinea a livello nazionale con quali modalità vengono effettuate le riduzioni di servizi. I bisogni dei singoli utenti anziani e disabili vengono classificati su una scala a quattro gradini: “bassi”, “moderati”, “sostanziali” e “critici”. Secondo il quotidiano, che cita la CSCI (Commission for Sociale Care Inspection – una commissione indipendente governativa di indagine sulle politiche sociali), il 73% degli enti locali stava considerando l’ipotesi di ridurre l’erogazione dei servizi ai soli utenti con bisogni almeno “sostanziali”, e almeno 3 autorità locali (che complessivamente coprono quasi mezzo milione di abitanti) erano intenzionate a limitare i servizi a chi ha bisogni “critici”, ossia persone in pericolo di vita o a serio rischio di abuso o abbandono. Il distretto londinese di Harrow ha addirittura difeso davanti alla Corte Suprema questa scelta, ma ha dovuto soccombere nel dicembre 2007; la pronuncia giudiziale evidenzia come eccessive restrizioni violino l’obbligo legislativo di eliminare la discriminazione contro le persone con disabilità, ma non mette in discussione (come alcune associazioni di tutela richiedono) il sistema complessivo dei “criteri di eleggibilità” che definiscono e limitano l’accesso ai servizi in base ai bisogni.
Quando in una famiglia non ci sono abbastanza soldi, si iniziano a tagliare le spese voluttuarie, piuttosto che provare a spendere meno su tutto. La scelta compiuta dai consigli locali a corto di fondi, che concentrano le proprie spese su chi ha le massime necessità sacrificando gli utenti in situazione meno grave, non risulta quindi a prima vista irragionevole. Tuttavia, l’abbandono dei servizi a minor intensità porta con sé un rilevante paradosso.
Mencap è un’associazione di rappresentanza delle persone con disabilità mentali, tra le più attive nel monitorare la questione dei tagli ai servizi; Sam Heath, responsabile del suo ufficio stampa, rileva come riducendo i servizi per gli utenti meno gravi “i consigli locali non si danno una mano, perché sembrano dimenticarsi di investire in servizi che ridurranno i costi successivi, come investire nel portare le persone con disabilità mentali all’impiego o a servizi di basso livello per impedire alle persone di avere bisogno di servizi di alto livello e alto costo”. Date le premesse, una delle tipologie di servizi più a rischio di chiusura sono i centri diurni: Heath afferma invece che questi “sono molto popolari e molto importanti. Sono spesso l’unico momento in cui questo gruppo di utenti lascia la propria casa […] Fornire semplicemente un centro diurno non è sufficiente; c’è anche bisogno che ci sia un’attività significativa. Per esempio, a Merton, dove le persone che prima stavano sedute a non fare nulla nei centri diurni hanno cominciato a prendere parte a un corso d’arte (artigianato, visite mensili a gallerie d’arte, ecc.) e/o a un caffè gestito da persone con disabilità mentali. Il risultato per coloro che partecipano è stato incredibile – migliore concentrazione, miglior comportamento. Un altro uomo che conosco fondamentalmente era abituato a stare seduto al suo computer senza fare nulla e senza lasciare mai la sua stanza. Un centro diurno con un programma piuttosto ambizioso ha portato un reale cambiamento nella sua vita – ora è sposato e ha un lavoro!”. Tagliare i servizi per le persone con bisogni minori rischia quindi di rendere tali bisogni insopprimibili nel tempo, e dunque i comuni, nel perseguire un risparmio immediato, potrebbero tagliare il ramo su cui stanno seduti.
Un altro elemento destabilizzante è costituito dal fatto che la gravità dei bisogni dell’utente non è un dato univoco, ma il frutto di una valutazione passibile di discrezionalità da parte degli operatori sociali. In effetti, l’attribuzione a una delle quattro categorie di cui si è detto è regolata a livello nazionale dalle FACS – Fair Access to Care Services, un insieme di linee guida stabilite dal sistema sanitario nazionale. A dispetto di questo, però, Denise Platt, presidentessa della citata CSCI, ammette che “chi ottiene o non ottiene aiuto varia non solo tra, ma anche entro lo stesso ambito locale. In pratica, i criteri possono essere interpretati in modi diversi dallo staff locale”. Heath conferma come a Mencap “non piace concentrarsi troppo sui criteri, perché il modo in cui i comuni interpretano e forniscono i servizi significa che molti dei ‘comuni sostanziali’ sono peggiori di quelli ‘non meno di critici’”.
La necessità di tagliare, per una prevedibile eterogeneità dei fini, ha comunque contribuito alla positiva tendenza dalla residenzialità/istituzionalizzazione dei servizi alla vita indipendente. Heath sintetizza la storia recente dell’assistenza affermando che in passato la maggior parte delle persone con una più profonda disabilità cognitiva viveva in ospedali segregati gestiti dal NHS (servizio sanitario nazionale inglese). Tutti tranne uno ora sono stati chiusi (e quell’uno sta chiudendo), benché rimangano alcuni ‘Campus NHS’ (e anch’essi stanno chiudendo). La maggior parte delle persone fu spostata in sistemazioni residenziali (alcune abbastanza grandi, ma per lo più con circa una dozzina di persone all’interno). Anche queste stanno chiudendo, in misura minore, e quante più persone possibile sono incoraggiate e/o aiutate a vivere indipendentemente – o almeno in sistemazioni “di rifugio” (il proprio appartamento in un edificio costruito per garantire assistenza). Resta comunque ambiguo quanto questo invito all’indipendenza sia di comodo: “I centri diurni stanno chiudendo in tutto il Paese. A volte questo è nascosto come ‘modernizzazione per consentire alle persone di scegliere i servizi’ – in realtà si tratta di risparmiare denaro”, conclude Heath.

Un futuro plumbeo?
Finora, per brevità, ho sempre descritto le restrizioni ai servizi come “tagli”; ciò che inquieta è che la definizione non è corretta. Infatti, le spese per il welfare in Gran Bretagna segnano nel tempo un incremento nemmeno trascurabile, ma i costi generali dello stesso crescono più velocemente (per le maggiori necessità di formazione, i salari più dignitosi degli operatori, l’aumento di costi vivi come la benzina…), e soprattutto cresce vertiginosamente il numero di utenti potenziali dei servizi, principalmente per l’invecchiamento demografico generale. Il rapporto 2006-07 della CSCI sulla cura sociale in Inghilterra (disponibile su www.csci.org.uk, sezione “About us” – “Publications”) fornisce preziose statistiche in merito, e ad esempio chiarisce che tra il 1997 e il 2006 le persone che hanno ricevuto assistenza domiciliare sono calate da 479.000 a 358.000, ma il numero totale di ore è cresciuto perché è lievitato il numero medio di ore ricevute – a causa della tendenza a servire solo gli utenti più gravi, ma anche per il loro autonomo incremento legato alla più alta aspettativa di vita (in generale e per le persone con disabilità). Come dimostra un sondaggio curato dall’associazione Age Concern nell’aprile 2008, il problema di un decoroso invecchiamento sembra del resto molto sentito dalla popolazione britannica, indipendentemente dal proprio livello di reddito (e dunque dalla presumibile possibilità di garantirselo da sé), ma senza grandi aspettative: 4 persone su 10 non sono fiduciose che nella propria vecchiaia saranno trattate in maniera rispettosa e dignitosa.
Il costo del mantenimento della qualità e dell’ampiezza degli attuali servizi riscontra una crescita non sostenibile nel tempo, e di qui gli sforzi di contenimento, che però, come abbiamo visto, non obbediscono a una razionalità complessiva. Per questo, nel maggio 2008 il Segretario di Stato alla Salute britannico Alan Johnson ha lanciato un’istruttoria pubblica della durata di sei mesi sul futuro dei servizi di cura e sostegno. Partendo dal presupposto che nel corso di 20 anni si prevede un aumento del 50% del costo per le provvidenze economiche alle persone disabili, e che la spesa per i servizi sociali agli adulti potrebbe triplicare in termini reali entro il 2041, il ministero ha allestito un sito web  in cui è possibile esprimere le proprie opinioni sul futuro dei servizi sociali, e ha avviato in alcune contee un progetto sperimentale da 39 milioni di euro per l’uso di tecnologie a distanza (telecontrollo, telesorveglianza sanitaria) nella cura di persone con bisogni sociosanitari complessi.
Anche se gli esiti sono tutti da definire, il dibattito sul futuro del welfare di fronte all’invecchiamento in Gran Bretagna sembra dunque avviato, e condivisa la necessità di una sua riforma in prospettiva (mentre in Italia le proposte di Fondo per la non autosufficienza stentano ad affermarsi, e non hanno comunque una significativa visione che abbracci il corso dei prossimi decenni). Intanto, però, i centri diurni chiudono, stretti nella tenaglia tra l’opportunità di mantenere i servizi a favore degli utenti più gravi o non sostenuti a livello familiare e la già discussa prospettiva della vita indipendente. L’elemento che sembra sfuggire all’ordine del discorso, i cui cardini sono la scelta individuale e la sostenibilità economica, è il bisogno di socialità: bisogno non misurabile, ma aspetto essenziale dell’umanità del servizio fornito (almeno se l’uomo è “animale sociale”…); bisogno le cui risposte, tra l’altro, sarebbe forse possibile reinventare in forme meno economicamente gravose di quelle che conosciamo, senza per questo lasciarle alla episodica buona volontà di singoli gruppi di auto-aiuto od organizzazioni volontarie. La caccia alle idee è aperta: quale sarà il centro diurno del XXI secolo?

L’orlo della follia: il progetto ProMenPol e le tendenze europee in ambito di salute mentale

Di Massimiliano Rubbi

La salute mentale, nonostante le significative evoluzioni della psichiatria e della cultura negli ultimi decenni, resta per molti associata a un servizio destinato ai “matti” – una categoria ben definita e nella quale si sarebbe sdegnati di essere inclusi. Eppure l’Unione Europea, citando alcuni studi, indica che il 27% dei cittadini europei affronta nella propria vita problemi di salute mentale. Più che individuare la numerosità di un gruppo, questo dato indica la labilità dei suoi confini; di qui la necessità di un approccio positivo e generale alla salute mentale, come componente della salute di tutti i cittadini e perciò da promuovere nell’intera popolazione.
In questa prospettiva si colloca ProMenPol, un progetto europeo avviato nel gennaio 2007 che punta a rendere disponibili conoscenze standardizzate per la promozione del benessere mentale, come parte integrante delle politiche sanitarie e sociali complessive. Del progetto, e di questo nuovo approccio al tema della salute mentale, abbiamo parlato con Katrin Zardo, psicologa dell’Istituto Federale tedesco per la Sicurezza e la Salute Lavorativa di Dortmund che coordina il progetto.

Che cos’è in breve il progetto ProMenPol?
ProMenPol (Promoting and Protecting Mental Health – a sostegno della politica attraverso l’integrazione di ricerca, approcci e pratiche attuali) è un progetto di 36 mesi intrapreso da partner di Germania, Austria, Irlanda, Finlandia, Estonia, Grecia, Belgio e Paesi Bassi. Il progetto è un’Azione di Coordinamento finanziata dalla Commissione Europea entro il 6° Programma Quadro di ricerca. È guidato dall’Istituto Federale per la Sicurezza e la Salute Lavorativa tedesco (BAuA – Bundesanstalt für Arbeitsschutz und Arbeitsmedizin).
Il progetto mira a sostenere le pratiche e le politiche per la promozione della salute mentale nel periodo 2007/2009 in questi tre contesti: scuole, luoghi di lavoro e residenze per anziani. Obiettivi specifici di ProMenPol sono:
• identificazione e ri-confezionamento degli strumenti per la promozione e protezione della salute mentale entro tre contesti – scuole, luogo di lavoro e residenze per anziani;
• produzione di un sistema di gestione delle conoscenze sistematico e facilmente navigabile, popolato di informazioni utili, fonti chiave e collegamenti web importanti;
• organizzazione di una serie di progetti pilota di implementazione per valutare e recensire la base di conoscenza e gli strumenti di lavoro;
• produzione di un insieme di principi di politica multi-settoriali progettati per promuovere e sostenere iniziative sulla salute mentale più fattive e mirate in ognuno dei settori;
• creazione di collaborazione sostenibile tra gli attori chiave del progetto per diffondere i risultati nelle fasi finali del progetto e oltre.
Ogni anno ProMenPol organizza una conferenza per operatori professionisti cui segue un laboratorio di politiche per decisori politici nazionali ed europei. Questo consentirà un mutuo scambio di informazioni a proposito della salute mentale positiva tra esperti e un opportuno feedback per i responsabili della progettazione di servizi e politiche. Nel nostro sito web, www.mentalhealthpromotion.net, è possibile avere informazioni, iscriversi alla nostra newsletter trimestrale e consultare un volantino in italiano del progetto.

Come descrivereste gli obiettivi del progetto in relazione alla promozione del benessere mentale e alle altre linee guida proposte dalla UE nel campo della salute mentale?
Molte delle politiche, della ricerca e dei materiali pratici disponibili nel campo della salute mentale trattano della malattia mentale nelle sue varie forme. Comunque, il progetto ProMenPol si concentra sulla promozione e protezione positiva della salute mentale, cioè il mantenimento di un buon benessere mentale e la protezione della salute mentale da influenze dannose.
Pertanto, il progetto sta utilizzando l’ICF (Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Salute e della Disabilità) per categorizzare gli strumenti nel suo database online. A differenza della ICD (Classificazione Internazionale Statistica delle Malattie e dei Problemi di Salute Collegati), l’ICF mette le nozioni di “salute” e “disabilità” in una nuova luce. Riconosce che ogni essere umano può sperimentare un decremento nella salute e di conseguenza sperimentare un certo grado di disabilità. La disabilità non è qualcosa che capita solo a una minoranza dell’umanità. L’ICF quindi rende “tendenziale” l’esperienza della disabilità e la riconosce come una esperienza umana universale. Spostando la messa a fuoco dalla causa all’impatto, essa colloca tutte le condizioni di salute su una medesima posizione, consentendo loro di essere comparate utilizzando una metrica comune – il “righello” di salute e disabilità. Inoltre, l’ICF prende in considerazione gli aspetti sociali della disabilità e non vede la disabilità solo come una disfunzione “medica” o “biologica”. Includendo fattori contestuali, in cui sono elencati i fattori ambientali, l’ICF consente di registrare l’impatto dell’ambiente sul funzionamento della persona.
Parlando in generale, l’approccio del progetto è molto in linea con concetti rilevanti della UE, come la salute in ogni approccio alle politiche o la prospettiva della durata della vita. In aggiunta, il progetto si concentra particolarmente sul collegare decisori politici, professionisti e ricercatori attraverso i nostri eventi, ad esempio il nostro workshop annuale sulle politiche. In questo modo ProMenPol aiuta a identificare gli obiettivi politici e a contribuire all’azione.

A partire dalla vostra esperienza, pensate che politiche e buone pratiche sulla salute mentale nei diversi paesi UE siano ben integrate, o c’è ancora un forte bisogno per l’integrazione e il confronto tra operatori?
Molti paesi nella UE hanno politiche, strategie e piani di azione che includono un impegno alla promozione e prevenzione della salute mentale. Purtroppo, questo non sfocia necessariamente in azione. D’altro canto, ci sono esempi di buone pratiche nella promozione e prevenzione in stati membri e in paesi candidati che non hanno ancora un piano di azione nazionale. Nel complesso, penso che ci sia ancora un forte bisogno di integrazione tra operatori diversi, cioè di vivere veramente l’idea della salute (mentale) in tutte le politiche.

Nella promozione generale del benessere mentale, quali ruoli rispettivi ritenete che abbiano gli operatori della salute mentale e le “persone in genere” coinvolte in relazioni con persone mentalmente malate, come parenti, vicini, colleghi di lavoro, amici, e in che modo tali categorie potrebbero cooperare a questo scopo?
In ProMenPol abbiamo adottato un approccio per contesti, riconoscendo che la salute è creata e vissuta dalle persone entro i contesti della loro vita quotidiana: dove imparano, lavorano, giocano e amano. È in questi contesti che occorre adottare misure per proteggere e migliorare la nostra salute e la salute di chi sta intorno a noi. Proprio per questa ragione alle nostre conferenze si possono incontrare manager delle risorse umane o insegnanti di scuola piuttosto che, per esempio, uno psicoterapista. Ma questo anche perché noi non abbiamo a che fare solo con i malati mentali, ma con il benessere mentale della popolazione generale.
Sotto questo aspetto, la competenza degli operatori della salute mentale è ancora molto richiesto in merito al trattamento dei malati mentali, così come per dare alla luce la base di conoscenze al fine di poter formare le “persone in genere” nei loro modi rispettivi.

Su un piano più generale, quali paradigmi e azioni culturali pensate che siano richiesti per creare un contesto non discriminatorio per la malattia mentale?
La creazione di un contesto non discriminatorio richiede azioni a vari livelli e non può essere ottenuta nel breve periodo. A livello politico, occorre che la legislazione assicuri uguaglianza di opportunità, ma forse ancor più importante è che i politici agiscano come modelli di ruolo nei termini dei propri rispettivi atteggiamenti e comportamenti. Lo stesso si applica a giornalisti, insegnanti, datori di lavoro, ecc. Quindi, le campagne di informazione potrebbero volersi concentrare su questi gruppi di influenza, ma alla fine ciò dipende da ognuno di noi. Un approccio che ha dimostrato di essere piuttosto efficace è l’inclusione di persone che sono state colpite da condizioni di salute mentale, ad esempio il lavoro in “trialog” (utenti, famiglie e professionisti della salute mentale).

ProMenPol, secondo quanto è esposto nel suo sito web, si concentra su tre contesti: “scuole, luoghi di lavoro e residenze per anziani”. Come considerate un quarto contesto, che è anch’esso rilevante per le persone mentalmente malate e più probabilmente ricade nel burn-out, cioè la famiglia?
La famiglia è decisamente un contesto molto critico, che può essere un fattore sia protettivo che di rischio a proposito della salute mentale di ogni membro. In ProMenPol abbiamo scelto di concentrarci su contesti che possono essere influenzati anche a un livello organizzativo. Comunque, la famiglia può ancora essere inclusa in modo trasversale in ciascuno degli altri contesti.

In Italia, a partire da alcuni eventi di violenza che hanno coinvolto persone mentalmente malate, alcuni osservatori hanno contestato la scelta di chiudere i manicomi fatta nel 1978 sulla base delle concezioni psichiatriche di Franco Basaglia. Da un punto di vista europeo, l’opzione della de-istituzionalizzazione per le persone mentalmente malate è acquisita o è ancora sfidata da visioni più “contenitive”? E quale visione abbraccia il progetto ProMenPol a proposito del “posto nel mondo” delle persone mentalmente malate?
Come già detto parlando della ICF, l’esperienza di qualche tipo di disabilità è un’esperienza umana universale. Chiunque può essere colpito dalla malattia mentale, e chiunque stia soffrendo di tali condizioni dovrebbe avere l’opportunità di partecipare alla società nel massimo grado possibile. Per quanto ne so, peraltro, non c’è una visione comune a livello europeo a proposito della questione su in quale grado e in quali modi le persone dovrebbero essere istituzionalizzate, poiché gli stati membri stanno mantenendo la responsabilità principale per la fornitura delle cure sanitarie.

Per informazioni:
ProMenPol
BAuA – Bundesanstalt für Arbeitsschutz und Arbeitsmedizin
Gruppe 1.2: ProMenPol
Friedrich-Henkel-Weg 1-25
44149 Dortmund – Germany
Fax +49 (0)231-9071-2537
Sito web: www.mentalhealthpromotion.net

Katrin Zardo (project manager): Tel. +49 (0)231-9071-2303 – E-mail zardo.katrin@baua.bund.de
Dr. Karl Kuhn (project leader): E-mail kuhn.karl@baua.bund.de

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