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autore: Autore: Roberto Ghezzo

L’acqua calda

“Se un medico cura le malattie può fallire o avere successo, se invece cura i pazienti ha sempre successo”. E’ una frase del Dottor Patch Adams, protagonista del film omonimo, interpretato da Robin Williams. Scopriamo l’acqua calda o è un uovo di Colombo? Eppure, specialmente in ambito educativo o riabilitativo, ma non solo, qualche volta scoprire l’acqua calda è la cosa meno banale da fare.
Ridere in corsia fa bene? Banale: ci accorgiamo, dentro di noi, di averlo sempre saputo. Eppure se ci sono dei luoghi abbandonati dal sorriso e intrisi di grigiore, sono proprio gli ospedali o i centri di riabilitazione.
La fiducia aiuta lo sviluppo di un bambino. Ovvio. Eppure la famiglia, luogo della fiducia per eccellenza, raramente viene coinvolta nel processo di riabilitazione. Perfino in ambito scolastico la collaborazione con la famiglia molto spesso è tabù. Quella che Riziero Zucchi chiama la pedagogia della mammetta, che va riscoperta, che ha delle basi scientifiche, che ha delle risorse proprie, viene sfruttata pochissimo.
La riabilitazione deve partire su una base comunitaria, formando i volontari e le famiglie, che sono le prime risorse per un disabile. E’ chiaro come il sole. Eppure nei paesi in via di sviluppo, dove spesso il sole batte forte, per molti anni si è pensato di risolvere i problemi unicamente impiantando ospedali, portando un approccio tecnico e specialistico. Un approccio che poi ha favorito la delega a pochi, tipico meccanismo del colonialismo. Per fortuna, dalla metà degli anni ’80, il progetto Riabilitazione su Base Comunitaria (RBC), voluto dall’Organizzazione Mondiale della Sanità in collaborazione con varie ONG, , sta portando i suoi frutti in tutto il mondo. Vien da dire fuorché nel nostro, perché leggendo (anche alla luce dell’intervista a Marco Grana) l’articolo di Brian O’Toole, sono molte le ragioni per guardare a sud. E’ l’ultimo articolo, quello della sezione “ai confini della riabilitazione”, che per questo numero si dovrebbe chiamare la riabilitazione senza confini.
Acqua calda o uovo di Colombo? Per dir la verità, noi di HP, che diffidiamo sempre dei sensazionalismi, preferiamo l’acqua calda. Al limite è bene diffidare anche dei detti e proverbi, perché come diceva mia Zia Teresina: “I veci ne ga magnà i schei e ne ga assà i proverbi” (I vecchi ci hanno mangiato i soldi e ci hanno lasciato i proverbi).

Handicap e gioco

C’è una accezione della parola handicap che ha caratteristiche di positività e la traduciamo con la parola difficoltà. Positiva perché se noi riusciamo a connettere l’handicap-difficoltà ad un gioco allora scopriamo il valore dell’handicap, valore che non esiste in sé ma esiste in quanto inscritto in un sistema di regole, in un sistema di giocoProviamo a ripensare al collegamento tra handicap e deficit in relazione al gioco, tema che già da un po’ stiamo tentando di affrontare sulle pagine di HP. Premetto che ci sono molti tipi di giochi (noi abbiamo preso in considerazione in questo caso soprattutto quelli con regole) e come dice Wittgenstein, non esiste una unica logica sottesa a tutti i giochi linguistici, non esiste il Gioco dei giochi, che racchiude in sé il significato di tutti gli altri. In altri termini non pretendo di dire la verità ultima sul gioco perché equivarrebbe a svelare il mistero della natura umana ma a esplicitare alcuni meccanismi di funzionamento, alcune connessioni tra handicap e gioco.
Esistono due accezioni della parola handicap: una sicuramente negativa, tradotta con i termini svantaggio e ostacolo. In questa accezione l’handicap va per quanto possibile ridotto, va combattuto con tutta la creatività di cui siamo capaci.
Ma un’altra accezione della parola ha caratteristiche di positività e la traduciamo con la parola difficoltà. Positiva perché se noi riusciamo a connettere l’handicap-difficoltà ad un gioco allora scopriamo il valore dell’handicap, valore che non esiste in sé ma esiste in quanto inscritto in un sistema di regole, in un sistema di gioco.
L’handicap è come il sale, elemento non affrontabile in sé ma fondamentale se si riesce a connettere ad altro, ai cibi: da ciò trae il suo valore. Già da tempo diciamo che dell’handicap in quanto tale non ci importa nulla semplicemente perché, in sé, l’handicap non ha senso. L’indifferenza, tanto combattuta e stigmatizzata, verso il cosiddetto “mondo dell’handicap” è giustificata, anche solo per il fatto che questo mondo non ha senso di esistere, o per meglio dire è disabitato, come Cartagine è stato distrutto e sopra i Romani hanno cosparso il sale. Qualche volta la sensazione che si prova ad entrare in un centro residenziale per soli disabili equivale ad addentrarsi in una salina, in una landa desolata senza vita.

Bianchi e Neri

La categoria del gioco diventa allora fondamentale. Ma proviamo ad approfondirla meglio: in che rapporto sta l’handicap-difficoltà con le regole del gioco? La prima cosa interessante da riscontrare è questa: da un certo punto di vista si ribalta la concezione per cui l’handicap deriva dal deficit in rapporto all’ambiente. In realtà in ogni gioco c’è già un handicap-difficoltà di vario tipo. Ogni gioco che merita questo nome ha in sé una difficoltà che costituisce il sale del gioco. L’handicap, nell’accezione di difficoltà, preesiste al deficit. Quello che si chiama deficit è uno scarto tra un elemento del gioco e le regole o le condizioni abitudinarie e usuali per poter giocare. Pensiamo al gioco degli scacchi: ogni giocatore parte con lo stesso numero e tipo di pezzi. Il Bianco ha le stesse potenzialità del Nero (a parte un leggero vantaggio iniziale per il fatto di fare la prima mossa). Proviamo ad introdurre un deficit: togliamo ad un giocatore, ad esempio al Bianco, una torre. Dal punto di vista del “materiale” si è creato uno svantaggio per il Bianco. In una partita tra due giocatori a pari livello di “abilità” la situazione del Bianco sarebbe già compromessa. Man mano che cresce il livello di abilità dei giocatori, e diminuisce l’incidenza del caso, della fortuna nel gioco, questo deficit diventa sempre più determinante. Un GM (grande maestro) di scacchi contro un GM che gioca con una torre in meno fin dall’inizio della partita ha quasi il 100% di probabilità di vittoria (a meno che non commetta una svista madornale e non giochi al suo livello). Abbiamo con questo esempio due tipi di handicap: un handicap preesistente al deficit, la difficoltà nel gioco degli scacchi, ciò che rende appassionante il gioco, e dall’altra una ulteriore difficoltà determinata dal deficit di un giocatore, difficoltà che in questo caso è realmente uno svantaggio tutto a carico però di un unico giocatore. C’è infatti da osservare che questo svantaggio si tramuta in vantaggio per il giocatore avversario che di fatto si trova ad avere un pezzo in più.

La vita è bella

Ma dobbiamo analizzare meglio la questione. Se ci pensiamo bene, qual è lo scopo del gioco? Si gioca a scacchi per mille motivi, ma il più importante sicuramente è la bellezza stessa del gioco: c’è un piacere di giocare. Ne “La vita è bella” di Benigni è evidente la ricerca di senso nelle cose, nei giochi che ci troviamo a vivere per varie ragioni. La ricerca di senso è il dato più importante, quello che è importante è il piacere di giocare, il piacere di condizionare e non solo essere condizionati dagli avvenimenti. Non è a questo punto nemmeno il gioco ad essere determinante ma la ricerca di senso nelle cose che accadono. Di fatto, da dati apparentemente oggettivi si arriva, nella storia raccontata dal film, alla ristrutturazione del significato. Ricordate la scena in cui il tedesco del campo di concentramento illustra le regole del campo e di volta in volta Benigni le traduce in un gioco per il proprio bambino? E’ importante il gioco ma è più importante il perché si gioca, la bellezza che sta nel gioco, che non va ridotta al gioco stesso, non va confusa con il gioco. Il soldato tedesco vuole imporre un sistema di regole: il padre-Benigni non accetta di giocare a quel gioco e lo cambia. La sua genialità sta nel cambiare il gioco apparentemente lasciandolo immodificato: lasciando immodificati i “dati oggettivi” ma trasfigurando totalmente agli occhi del figlio il significato di questo dati. Il soldato tedesco vuole fare paura perché lui rappresenta la razza superiore: nel gioco di Benigni il soldato tedesco vuole fare paura perché non vuole che il bambino vinca il carrarmato.
Se un gioco non valesse più la pena di venire giocato evidentemente dovremmo cambiare le regole o cambiare (come Benigni) il significato al gioco, perché non è l’uomo per il gioco ma è il gioco per l’uomo. La vita è un insieme di giochi ma non è la risultante di questi giochi: nessun gioco è assoluto ma la vita sì. Ecco perché il film di Benigni non si intitola “Giocare è bello” ma “La vita è bella”. Se il gioco diventa l’assoluto si rischia di fare la fine del medico tedesco che è talmente preso dai suoi indovinelli e giochi di parole, tanto da perdere il contatto con la realtà, disumanizzandosi.

Adattare, inventare, integrare

Se la presenza di un deficit impedisce di giocare abitudinariamente un gioco ci sono alcune strade possibili. La prima è una non-strada, cioè si smette di giocare: l’handicap del secondo tipo, ovvero lo svantaggio causato dal deficit, è talmente aumentato che conviene non giocare. E’ una specie di suicidio del gioco stesso. Ciò avviene perché si assolutizza il gioco, ovvero si ritiene che non sia tanto importante chi gioca e la sua ricerca di piacere e di senso, ma sia importante il gioco stesso. Se non ci sai giocare, amen…torna un’altra volta, torna in un’altra vita, sono problemi tuoi. L’altra strada è il gioco adattato, ovvero giochiamo lo stesso gioco ma cambiando le regole, introducendo degli ausili che permettono comunque di giocare nel modo più simile al gioco originario. Una ulteriore strada è il gioco speciale, ovvero si inventa un gioco che una persona con deficit riesce a fare, un gioco completamente nuovo e originale. Sto riproponendo la classificazione delle discipline sportive per disabili: le specialità degli sport adattati (il basket in carrozzina eccetera); gli sport speciali (il torball, ad esempio, giocato solo dai ciechi). Esiste una terza distinzione: gli sport integrati, giocati sia da atleti normodotati che disabili (gli unici due esempi per ora sono il calcio in carrozzina e il calcio a sei).
Ciò che alla fine è essenziale è il giocare, non l’insieme dei giochi storicamente esistenti. Giocare ovvero sperimentare la bellezza nel gioco, chiamiamolo il piacere del gioco.

Handicap, deficit e piacere

Nei giochi con regole il piacere è dato da una equilibrata interazione tra handicap e regole e l’handicap è determinato dalla connessione tra le abilità-potenzialità e le regole (il limite). Come si è detto prima, se l’handicap aumenta troppo o diminuisce troppo non ci si diverte. Esempio: tra due giocatori di scacchi ci si diverte quando i giocatori hanno le stesse abilità visto che le potenzialità, nel senso dei pezzi in campo, sono uguali. Il divertimento nasce da un confronto possibile tra due giocatori, tra due abilità. Se un maestro di scacchi gioca con un dilettante può trar piacere per molti motivi ma da un punto di vista strettamente scacchistico non si può più di tanto divertire perché vince facilmente. Per lo stesso motivo il dilettante si sente schiacciato dalla superiorità del maestro, e va incontro ad un risultato scontato della partita. E’ interessante notare che se in questo caso affibbiamo un deficit al maestro, togliendogli una regina e privandolo così di forze “materiali”, allora forse questo riequilibra le sorti della partita, aumentando l’handicap-difficoltà del maestro e diminuendo l’handicap del dilettante. Paradossalmente in questo caso al deficit non corrisponde in realtà un handicap come svantaggio, ma un handicap più gestibile, meglio distribuito tra i giocatori. L’handicap aumenta il piacere della partita, perché il risultato non è più scontato. Un altro caso in cui si può tentare di equilibrare l’handicap in presenza di un deficit, si verifica quando, in una partita tra due giocatori equivalenti in abilità, togliamo una torre ad uno ma la togliamo anche all’altro. La somma di due deficit tra due avversari ricrea una situazione di equilibrio.
La conseguenza di questo ragionamento è che non è corretto dire, come invece diciamo, che mentre il deficit è oggettivo, immodificabile, l’handicap è soggettivo e in movimento, quindi si può diminuire o aumentare. Anche il deficit, sebbene sia più oggettivo, più misurabile, in realtà non esiste in sé ma nel confronto tra una normalità-abitudinarietà del gioco e una situazione di originalità (come nel caso della mancanza di un pezzo nella formazione del Bianco o del Nero, nel gioco degli scacchi). Oltre a questo, è sì giusto affermare che il deficit esiste in questo rapporto, ma ciò che ci interessa non è il deficit in sé ma il suo significato in rapporto al gioco, le conseguenze del deficit in rapporto al gioco. Arriviamo al caso limite in cui il deficit del maestro (che gioca senza la regina contro un dilettante) aumenta il piacere del gioco, equilibra le sorti della lotta tra Bianco e Nero, rende l’handicap-difficoltà gestibile. Possiamo dire che il significato del deficit dipende dalla qualità dell’handicap-difficoltà del gioco, dalla gestibilità di questo handicap.

Professione educatore

Educatori si nasce o si diventa? Difficile rispondere, quasi quanto è stata ed è difficile la strada per la definizione della figura professionale dell’educatore. Cerchiamo di fare il punto sul decreto 520/98, che per adesso è l’ultima parola del Ministero della Sanità su questo argomento, intervistando Francesco Crisafulli, presidente dell’Anep (Associazione Nazionale Educatori Professionali).

Cosa ne pensa ANEP del Decreto 520/98?

Per esprimere un parere sul Decreto, occorre brevemente ricordare alcuni passaggi determinanti che hanno segnato la storia degli educatori professionali nel nostro Paese. Nel settembre del 1990 una sentenza del Consiglio di Stato annullava il cosiddetto Decreto Degan (D.M. 10 feb. 1984) che, pur nei suoi limiti, dava agli Educatori Professionali un profilo valido nella nazione. Come è noto il Decreto legislativo 502/92 prevedeva una riforma delle professioni sanitarie ognuna delle quali doveva essere riconosciuta attraverso un Regolamento ministeriale che, oltre a definirne un profilo professionale, ne stabiliva anche il percorso formativo. Dopo una complicata trattativa, nella quale anche la nostra associazione aveva partecipato con spirito di collaborazione ma con forti perplessità rispetto alle richieste del Ministero, veniva fuori una figura professionale “ibrida” che metteva insieme (non per nostro volere) i Tecnici della Riabilitazione psichiatrica e psicosociale e gli Educatori Professionali: il famoso “Tecnico dell’educazione e della riabilitazione psichiatrica e psico-sociale” (Regolamento Ministero della Sanità 7 gennaio 1997). Il Ministero dell’Università, mostrando una sorprendente attività decretativa, come suo dovere, pubblicava il Decreto 10 settembre 1997 che istituiva il Diploma Universitario per il Tecnico dell’educazione e della riabilitazione psichiatrica e psico-sociale. Mentre l’associazione si preparava ad esprimere il suo dissenso su tale figura, il ministro Bindi, intervenendo al Convegno internazionale dell’Associazione internazionale degli educatori, l’AIEJI, (svoltosi a Brescia nel giugno ’97) si impegnava a riprendere in esame il nostro profilo professionale ed a collocare su un “binario morto” il profilo di tecnico dell’educazione e della riabilitazione psichiatrica e psico-sociale. Si faccia attenzione alle date perché devono passare due anni prima della pubblicazione del nostro Decreto.
Passiamo ora al parere sul Decreto. Il 520 è un buon Decreto, almeno per la sua parte nella quale definisce il profilo professionale e l’abilitazione all’esercizio della professione; lo è un po’ meno dove prevede la formazione presso la facoltà di medicina e chirurgia in collegamento con le facoltà di psicologia, sociologia e scienze dell’educazione; d’altra parte la scelta, per il Ministero, è stata obbligata in quanto si parla comunque di una professione che opera nel campo sanitario. In ogni caso quello che anche a nostro parere rappresenta il limite del Decreto sarà, speriamo presto, superato dalla riforma dell’Università che prevede l’autonomia didattica degli Atenei ed introduce il sistema degli obiettivi formativi e dei contenuti minimi qualificanti. Non ci saranno più le facoltà di riferimento ma una serie di crediti da acquisire in un percorso formativo definito.

A che punto siamo con l’istituzione dell’Albo degli Educatori Professionali?

Gli educatori professionali hanno due proposte di Legge depositate in Parlamento (Progetto di legge – n. 1504 – e n. 771) ma nell’ultimo periodo c’è stato un interessante intervento dell’autorità antitrust che, insieme al parere del Governo, hanno fermato l’iter dell’istituzione di nuovi Albi. L’antitrust dice, in sostanza, che coloro i quali hanno conseguito un titolo abilitante dopo aver superato un esame di Stato, dovrebbero essere liberi di fregiarsi di tale titolo indipendentemente dall’iscrizione all’Albo; idealmente si potrebbe pensare di poter fare a meno dell’Albo ma praticamente è molto difficile, come categoria, tutelarsi se non esiste una legge nazionale che riconosca la professione e che definisca dei rappresentanti per le trattative con lo Stato, le organizzazioni sindacali, il privato sociale. E’ di questi giorni la notizia, ma purtroppo non posso confermarla, che dal Governo sia arrivato il via libera per riaprire la questione Albi: lavoreremo affinché venga riaperto anche il nostro capitolo.

Chi gestirà la formazione degli educatori professionali?

Mi sembra che il dubbio degli anni scorsi su chi deve e dovrà fare la formazione degli EP, l’Università o le Regioni e gli Enti Locali, sia superato dagli eventi. Il Decreto 520/98 prevede la formazione presso l’Università; il Ministero della Solidarietà sociale è disponibile a emanare un Decreto sul profilo professionale simile a quello della Sanità e quindi con lo stesso iter formativo; la Legge 42/99 (Disposizioni in materia di professioni sanitarie) ha già stabilito le equipollenze dei titoli conseguiti presso scuole non universitarie (1) – (2) con il DU; il Decreto Legislativo di razionalizzazione del Servizio Sanitario Nazionale nell’istituire l’Area delle prestazioni Socio-Sanitarie prevede personale formato all’Università con Diploma Universitario.
Rispetto alla questione riqualificazione in servizio il Ministero della Sanità sta definendo, per il suo personale, i criteri attraverso i quali titoli anomali o lunghe esperienze lavorative verranno rese equivalenti al DU (2) anche attraverso corsi di riqualificazione. Il Ministero ha assicurato che ci mostrerà detta tabella ed in quella sede faremo presente che tali corsi, pur con l’attenzione alle diverse situazioni lavorative e territoriali, dovranno essere sia qualitativamente che quantitativamente svolti con il riferimento e nel rispetto della formazione di base e dei suoi piani didattici.

Non pensi che ci sia una contraddizione tra quello che realmente è e fa un educatore professionale e il fatto che a definire la sua figura sia il Ministero della Sanità?

Potremmo parlare di contraddizioni se le tappe della definizione della figura professionale le avessimo stabilite noi; viceversa l’associazione si è vista costretta a salire sul treno della definizione in ambito sanitario per due ragioni importanti: la prima è che una parte degli educatori professionali nel nostro paese lavora presso le Aziende di Unità Sanitaria Locale; la seconda è, per le precisazioni riportate all’inizio, che se avessimo indugiato oltre, lo spazio della nostra azione professionale sarebbe stato occupato da altre figure professionali.

All’uscita del decreto c’è stato dissenso da parte di altre categorie quali gli Assistenti Sociali. Cosa ne pensi?

Rispetto alla polemica con gli Assistenti Sociali il loro Ordine, nella persona di Erma Zucco, mi ha comunicato personalmente che intendevano presentare un ricorso (e credo che non l’abbiano presentato) non contro gli educatori professionali ma contro il Ministero della Sanità che, a loro giudizio, con il Decreto 520/98 ha sconfinato dal suo campo di competenza. La nostra disponibilità nei confronti dell’Ordine, del Sindacato e della Associazione degli Assistenti Sociali è in ogni occasione rinnovata e quando ci saranno argomenti per lavorare insieme non ci tireremo indietro.

Regolamentare e aumentare la formazione sono sicuramente garanzie, non solo per gli educatori ma anche per gli utenti, perché i possibili rischi di una professione come questa sono molti. Tempo fa, ad esempio, l’opinione pubblica è stata scossa dal caso Artico, l’educatore accusato di pedofilia, cui Santoro ha dedicato addirittura una puntata di Moby Dick.

Il lavoro di educatore è poco seguito dai mezzi di comunicazione di massa. Si è parlato di educatori professionali in qualche programma pomeridiano, in qualche gioco a quiz dove la concorrente dichiara di essere una EP, nella cronaca rosa perché tizia che fa’ l’educatrice è stata insieme a quel famoso presentatore e per finire nel putiferio suscitato dal caso “Artico”. Rispetto a quest’ultimo ho avuto le informazioni dalla stampa e sono stato alla trasmissione “Moby Dick” dove si affrontava la questione; l’idea che mi sono fatto è questa: non so se Lorenzo Artico abbia commesso i reati attribuitigli da coloro che l’hanno denunciato, ma quello di cui sono sicuro è che in quel periodo la stampa andava a caccia di pedofili e di notizie shock. Non voglio cadere nel luogo comune e dire che i mass media siano il “lupo cattivo” ma ho sofferto molto per la morbosità con la quale alcuni giornalisti inveivano contro una persona colpevole di aver portato avanti un lavoro educativo da solo (a tal proposito, mi sono chiesto come mai nell’inchiesta non si riusciva a capire quale ruolo abbia avuto il responsabile di Lorenzo Artico e la struttura per la quale lavorava). Lorenzo Artico non è un educatore professionale così come credo non lo sia quel capo scout delle cronache di quest’estate colpevole di non aver vigilato a sufficienza i ragazzi a lui affidati, ma pensando al lavoro che tutti i giorni svolgiamo nelle nostre strutture, alle responsabilità che abbiamo e ai rischi che corriamo, voglio mandare loro un piccolo segno della mia solidarietà.

(1) Il Decreto 502/92 definiva la sospensione dei corsi non universitari e permetteva agli studenti in corso la fine degli studi; la 42/99 rende equipollenti ai DU tutti i titoli conseguiti praticamente entro il ’95

(2) l’equipollenza o l’equivalenza sarà solo per l’esercizio della professione e la partecipazione ai concorsi pubblici e non per il proseguimento negli studi universitari

Per maggiori informazioni:
ANEP Associazione Nazionale Educatori Professionali
Via S. Isaia, 90 – 40100 Bologna – Fax 051/52.12.68
Sito internet: www.mclink.it/assoc/anep

Brasil voçé è lindo

Ho incontrato la psicologa Carla Vasques presso l’Istituto Pestalozzi di Canoas, nello stato di Rio Grande do Sul, lo stato più a sud del Brasile. Questa è stata la prima intervista che ho realizzata nel mio viaggio ed è stata anche quella che mi ha aperto gli occhi sulla situazione delle persone disabili in questo paeseCarla mi è stata presentata da Cesar Bridi, uno psicologo che è venuto in Italia a conoscere il lavoro educativo che viene fatto a Bologna ed in particolare a visitare il nostro Centro Documentazione e il Progetto Calamaio. Sia Cesar che Carla sono delle persone che nonostante le enormi difficoltà che affrontano nel loro lavoro credono che la vita delle persone con disabilità possa migliorare. Osservando le baracche che costeggiano la tangenziale prima di giungere al Pestalozzi e i bambini seminudi che giocano in mezzo alle pozzanghere ed ai rifiuti, mi chiedevo da dove nasce la forza di credere, di sperare che le cose un giorno migliorino. Alcune risposte le ho avute in questa intervista e un’altra me l’ha data Carla qualche giorno dopo quando a me e a Cesar ha confessato che dopo l’intervista ha pianto per l’emozione. Credo che fintanto che il Brasile avrà figli in grado di lottare e soffrire per lui, questo paese “così miserabile” e così meraviglioso potrà avere un futuro. Il prossimo anno sarà il cinquecentesimo dalla scoperta del portoghese Cabral e tutto il paese si sta preparando per festeggiare. Una canzoncina di Milton Nascimento, che si sente in uno spot pubblicitario strapieno di bambini e un po’ retorico, dice “Brasil, voçé è lindo…”. E’ vero: Brasile sei bellissimo, perché i tuoi figli hanno la forza di sognare.

L’Istituto Pestalozzi è stata la prima scuola speciale del Brasile. E’ ancora in funzione nonostante che la legge sull’integrazione scolastica dei disabili sia già stata varata. Che cosa ne pensi?

La legge sull’integrazione in Brasile ha quattro anni. Ma ancora le scuole non ricevono gli alunni. Se il Pestalozzi non esistesse, non ci sarebbero possibilità per chi soffre anche del più piccolo disturbo mentale. Io penso che la maggior parte dei bambini che stanno qui potrebbe essere accolta nell’insegnamento regolare, ciò darebbe la possibilità ai bambini di identificarsi gli uni con gli altri. L’incontro con la differenza ed il recupero si svilupperebbero molto. Quello che invece succede qui è che il Pestalozzi è l’unico luogo dove questi bambini hanno accesso. Talvolta i bambini vanno nella scuola regolare ma non sono accettati e allora tornano qui. Ciò genera in pratica una dipendenza dall’Istituto perché è l’unico luogo che li riconosce, dove attingono un riconoscimento della loro identità. Ripeto: penso che la maggior parte di loro potrebbe entrare nell’insegnamento regolare. Solo adesso ci sono dei segnali di cambiamento, che permettono a questi bambini di essere accettati a scuola, ma quando sono piccoli. Continuando con i soliti modi di insegnamento la scuola regolare finisce per ricacciare indietro i bambini nella scuola speciale.

Ho visitato la scuola Pestalozzi e devo dire che ho molto apprezzato l’approccio sperimentale che viene dato alle materie insegnate, in particolare il laboratorio di giardinaggio dove viene fatto un lavoro di educazione all’ambiente che è veramente all’avanguardia. Le insegnanti sembrano molto motivate e l’atmosfera che si respira è positiva. Eppure sono perfettamente d’accordo con te nel ritenere che i questi bambini possano essere inseriti tranquillamente nelle scuole normali.

Questo Istituto ha settantatré anni ma il problema principale è che non parla con la comunità, è un luogo chiuso, è un luogo protetto, la comunità non conosce il lavoro che viene fatto qui. Io stessa, funzionaria, non conoscevo il lavoro che si fa qui.

Tu pensi che questo luogo debba essere chiuso e debba diventare a sua volta una scuola normale?

Penso di sì, può cioè trasformarsi in una scuola inclusiva dove ci siano degli spazi aperti anche per i bambini normali.

Ma qui c’è un progetto del genere?

Per ora no, questa è una scuola diciamo a gestione familiare e da sempre il suo fondamento è di essere una scuola per persone con deficienza. In questa situazione non sta ancora percependo la necessità di trasformarsi. Quello che è complicato, penso, è comunque l’inclusione di alunni psicotici, autistici. Perfino qui nella scuola speciale questo tipo di alunni non viene accettata.

Ma se né la scuola normale né quella speciale li accetta, che fine fanno?

Stanno presso i genitori. Quando io lavoravo con le scuole facevo la selezione e collocavo in classe anche bambini con gravi problemi mentali. Risultato: gli alunni sono stai mandati via…e anch’io. Qui non c’è un sistema di assistenza per i cosiddetti “gravi”: esiste l’APAE, Associazione di genitori ed amici degli eccezionali (Associação dos Pais e Amigos dos Excepcionais). E’ un luogo che non ha un progetto pedagogico, non ha progetti culturali.

In tutto il Brasile avviene che i cosiddetti gravi non abbiano accesso a nessun tipo di scuola?

Sì, devi pensare che il Pestalozzi è uno dei migliori istituti del sud, cioè a dire di tutto il Brasile. Qui a Porto Alegre la situazione è un po’ migliore. Comunque la tendenza da registrare è che la stessa famiglia isola il bambino dalla convivenza con gli altri. Ti faccio un esempio: io avevo un paziente, un bambino che inizialmente era stato inserito nella scuola normale. Un giorno ha morso alla guancia una insegnante, un beijo, un bacio che si è trasformato in morso, ed è stato allontanato. Il bambino è rimasto traumatizzato da questo evento: io ero riuscita a trovargli un’altra possibilità presso un’altra scuola normale, ma la famiglia ha preferito non prendere più in considerazione l’idea dell’inserimento. Almeno qui all’istituto i bambini sono tutti uguali: questo è quello che i suoi genitori hanno pensato.

Quando un alunno arriva a vent’anni cosa succede?

Di lavoro non se ne parla. C’è una pensione di cinquanta reais a mese (circa cinquantamila lire) che viene data a chi possiede una carta di identità dove c’è scritto “invalido”. Cosa succede? Visto che la famiglia non ha possibilità, questi individui stanno per strada o chiusi in manicomio. La prospettiva di futuro non c’è. Bisogna fare un lavoro in età precoce perché in questo modo diminuisce l’internamento psichiatrico e l’invalidità sociale. Quello che si potrebbe fare qui è un lavoro intermediario tra la questione clinica e la scuola.

Prima ho visitato il laboratorio di falegnameria dell’Istituto e c’era un ragazzo penso tra i venti e trent’anni, oltre l’età scolare quindi, che credeva che io fossi argentino e che mi spacciassi per italiano.

Sì, qui ci sono ragazzi anche molto grandi. Alcune attività qui dentro, il vari laboratori di falegnameria, eccetera, sono realizzate con il contributo del comune di Canois, per vedere se c’è la possibilità di lavoro, di iniziazione al lavoro. C’è addirittura un caso, considerato proprio il massimo, di un ragazzo che non è riuscito a finire il corso di studi di una scuola pubblica e ora occupa un posto in un supermercato come addetto agli imballaggi. E’ da due anni che tiene questo luogo di iniziazione al lavoro, è un progetto caro, e il governo sta tagliando i fondi. Qui al Pestalozzi dopo la scuola non c’è una età di uscita. Le attività alternative hanno una funzione di parcheggio per i ragazzi. Qui loro si trovano bene e sono accettati. Non c’è un vero progetto politico verso il mercato del lavoro.

In che relazione stanno povertà e deficienza?

Esiste una relazione tra povertà, deficienza e disparità sociale, e abbandono sociale. Se la povertà genera deficienza? Non so. Ci può essere una questione organica legata alla denutrizione. Grande parte del nordest ha un numero impressionante di mortalità infantile….lì si muore perché manca il cibo. Nascono con basso peso. A questo livello è vero che la povertà genera la deficienza ma non esiste in Brasile una ricerca su questo argomento.

Presso l’opinione pubblica la povertà è percepito come un problema più importante della deficienza?

Nessuno dei due lo è. Il Brasile è un paese così povero, così miserabile, perché è questa la verità, che il cuore delle persone si sta indurendo… Allora le persone non stanno lì a chiedersi a come migliorare concretamente la situazione: oggi io parlavo con una mia amica del fatto che i poveri non si guardano più. Tornata dalla Spagna mi sono trovata in centro a Porto Alegre e quasi ho pianto perché mi chiedevo: come può esistere questo, questa miseria. Noi ci difendiamo, e per questo di fatto non si pensa alla deficienza. Ciò genera a sua volta una mancanza di progetto politico. I massmedia non parlano di questo: nella telenovela si parla di un paese bello, ricco, divino. Guarda la nostra tv. Oppure: chi è che la gente ha eletto? Un intellettuale che parla bene, Fernande Henrique Cardoso. E prima di lui un soggetto perverso, Fernando Collor. Cardoso è un professore universitario, Cambridge, eccetera, e all’opposto c’era Lula, cioè una persona più simile alla gente, del Partito dei Lavoratori, un personaggio che ha lavorato nel movimento sindacale. Ma il popolo brasiliano non va a votare uno simile a lui perché non ha educazione per pensare a se stesso, ai propri problemi.

C’è una legge che viene chiamata di beneficio sociale. Un medico e un assistente sociale firmano un modulo in cui si dichiara che il soggetto è incapace al lavoro, non è capace di fare questo e quello, non ha autonomia. Ossia è praticamente morto, è un vegetale. Il salario minimo qui è di 120 reais (120 mila lire). I genitori vengono qui per implorare a noi che assegnino la pensione di invalidità (50 reais), questo perché tutta la famiglia ha bisogno di soldi per sopravvivere. Io non l’ho mai fatto perché non mi è mai successo ma ho colleghi che si sono trovati in questa situazione. Loro hanno chiesto: “Ma vi rendete conto che vostro figlio così non ha futuro, non potrà lavorare, non potrà avere una famiglia, vi rendete conto che state chiudendo con il destino di vostro figlio?”; e loro per risposta: “beh, o faccio questo o lui ora morirà di fame”. E i miei colleghi firmano.

Torniamo alla tua domanda iniziale sul Pestalozzi: nonostante tutto qui perlomeno i bambini hanno una educazione, hanno alimentazione, hanno statuto di alunni. Ci sono qui in clinica pazienti che fanno riabilitazione per cinque giorni alla settimana, è un servizio da primo mondo.
Che criterio viene usato per accettare un bambino disabile nella scuola?

Per essere accettati i bambini devono avere solo una deficienza mentale lieve. Comunque le famiglie che hanno un po’ di soldi portano il loro figli a Porto Alegre (capitale dello stato di Rio Grande do Sul). Il Pestalozzi, dal punto di vista della sua immagine, è una scuola per idioti, pazzi e poveri. Questa immagine è molto caratterizzata: per schematizzare si dice pestalozzi-pestalouco (louco = pazzo).

Chi lavora nel sociale, come voi, che difficoltà incontra?

Beh, tanto per dirne una, io lavoro 32 ore settimanali: sono privilegiata e vengo pagata 880 reais lordi, cioè 700 netti (circa 700 mila lire al mese). Lo stato non investe né nella salute né nella educazione. Per fortuna che una particolarità nostra, del popolo brasiliano, è di creare via di uscita, stare aperti a nuove proposte a soluzioni, altrimenti moriremmo di fame. E’ un popolo che si adatta, ecco perché ci incantiamo a sentire parlare del Calamaio. E’ una cosa molto possibile. Non c’è una cultura formatrice unica come ho sentito dire ad un antropologo: qui abbiamo africani, europei e americani. Siamo il popolo del terzo millennio.
Il nostro è un popolo creativo, necessariamente creativo, nonostante tutti i nostri problemi. Perché non ci inviti a parlare in Italia di queste cose?

Unico mondo

Brasile, paesi lontani, nuovo mondo. Brasile, volti familiari, l’eterna vicinanza e calore del cuore, del sole sulla testa. Due mesi lontano da casa, due mesi vicino a se stessi, a braccetto con la vita. In Brasile tutto è autocontraddittorio, in un tempo che non è solo quello recente e storico della conquista, ma è eterno, è quello della natura che permea con i suoi ritmi tutto quanto. Il passato italiano del dopoguerra, con la sua arte di arrangiarsi, i mille piccoli mestieri per sopravvivere, una Napoli grande come un continente; il futuro prossimo venturo, mescolanza di razze e meticciato di culture: passato e futuro insieme, ovvero la contemporaneità di un esperimento straordinario, Africamericaeuropeo o europamericafricano, o…

Le prossime tre interviste che riportiamo (in questo numero e nel prossimo) le ho raccolte per strada, in un viaggio che mi ha portato dal sud a Goiania, capitale dello stato di Goias, “vicino” a Brasilia, nel cuore o in uno dei cuori di questo paese grande 28 volte l’Italia. Ho incontrato Giovanni e Pio, italiani, due modi di incarnare una tensione a far nascere luoghi più umani, due modi diversi (uno è medico, l’altro educatore) ma così simili di diventare brasiliani. Cesar, l’amico psicologo che mi ha ospitato nello stato di Rio Grande do Sul, me lo aveva pur detto: se un brasiliano va a vivere in Italia, può starci anche una vita che resta brasiliano, ma se un italiano viene a vivere qui diventa brasiliano. Ecco forse ciò che distingue il nuovo mondo dal vecchio: non è solo la quantità di bambini e giovani che si vedono per le strade ma è la straordinaria capacità di assorbire tutto, è la sensazione che tutto può accadere, è la speranza che alberga nel cuore di ogni brasiliano.

Speranza, danza, festa. Leggendo l’intervista a Deolinda, originaria dello stato di Parà, nel nord equatoriale, forse si può intuire il senso tutto brasiliano della commistione tra la dura lotta per la vita e la speranza nel futuro, tra la miseria del presente di molti poveri e la tensione spirituale, mistica che si materializza in mille chiese, culti, danze, incontenibile. Giovanni, Pio, Deolinda: tre modi di essere vicini a chi soffre, che siano i bambini della favela o i lebbrosi, da secoli l’immagine degli ultimi, la pietra di paragone tra l’abbraccio di San Francesco e i lebbrosari-campi di concentramento.

Vorrei ringraziare Monica Tassoni dell’AIFO, Associazione amici di Raoul Follerau, per avermi messo in contatto con queste persone e avermi fatto conoscere le loro storie. Storie di vecchio e nuovo mondo insieme, uniti, o come piacerebbe dire a Giovanni, storie da unico mondo, e non da terzo o primo.

Più lento, più basso, più debole

Cosa c’entra l’handicap con i nuovi modelli di sviluppo sostenibile, con il consumo critico, con i paesi del sud del mondo? Povertà, sfruttamento dell’uomo sull’uomo, violenza sistematica e distruzione della nostra astronave spaziale, la madre terra: quale modello alternativo scaturisce dalla nuova cultura dell’handicap?Speriamo non sia sfuggito ai nostri più assidui lettori che Hp negli ultimi tempi sempre di più tocca temi relativi ai cosiddetti paesi in via di sviluppo e al sud del mondo. In questi tempi caldi anzi febbrili, di surriscaldamento climatico e di globalizzazione, cerchiamo redigendo una rivista come HP, dedicata a chi opera nel sociale, di applicare un’ottica mondiale, di partire da un punto di vista il più possibile consapevole della terra come organismo unico, come astronave (per citare un’immagine che è stata usata) nella quale ci sono passeggeri di prima classe (che però paradossalmente pagano meno di altri!) ma anche di seconda, terza, quarta… A seguire proponiamo in questo numero due articoli, inviatici dall’Africa e dall’America meridionale, ma che raccontano storie simili da disabili del Sud, storie fatte di orgoglio, lucida consapevolezza e lotta.
Ma ad HP non interessa sottolineare solo il dato umano. Sentiamo infatti che ci sia più di un aspetto da esplicitare che collega la nostra riflessione sulla cultura dell’handicap e la situazione di svantaggio e di impoverimento nella quale versano i tre quarti dell’umanità. Cercherò di proporre ad un primo approfondimento almeno due punti molto evidenti: da un lato la connessione tra fattori impoverenti e fattori handicappanti, dall’altro il recupero di un modello di sviluppo sostenibile e le sue affinità con il “modello culturale” proposto anche inconsapevolmente dalle persone con disabilità.

Effetto cartina tornasole

Gran parte del lavoro che stiamo svolgendo come Cdh e come HP è dedicato a diminuire l’handicap, lo svantaggio di chi ha un deficit, affrontando l’argomento da un punto di vista culturale, quindi il più ampio possibile, e facendo un lavoro di documentazione-informazione-formazione-educazione. L’handicap infatti (derivando dall’incontro-scontro tra la presenza di un deficit, di una mancanza oggettiva, e l’ambiente o il vissuto soggettivo del suo portatore) può essere ridotto, diminuito, essendo uno svantaggio colmabile o comunque affrontabile con l’utilizzo creativo di tutte le nostre intelligenze. Lottare contro l’handicap inteso come svantaggio-ostacolo significa di fatto lottare contro i fattori handicappanti, contro ciò che crea svantaggio traendo forza dalla presenza di un deficit: innanzi tutto la rigidezza di qualsiasi struttura sociale pensata per la medietà, per la “normalità”, e che fa fatica ad adattarsi alla novità, alla specificità di una persona più diversa dalle altre come lo è una persona con deficit.
Da sempre spostiamo quindi l’attenzione più che sul deficit specifico della singola persona (che spesso richiama più un modello medico-specialistico di approccio alla questione, sicuramente importantissimo ma troppo spesso l’unico) all’handicap ed ai fattori handicappanti, individuando come portatore di handicap non solo chi ha un deficit ma anche il normodotato (ad esempio l’insegnante che non vuole parlarne in classe per non affrontare il proprio imbarazzo e quello degli studenti) o la struttura (ad esempio la scuola che non è attrezzata a far fronte alla diversità dei suoi studenti). Il portatore di deficit, cioè chi ha una mancanza oggettiva (ad esempio la sordità), non necessariamente è un portatore di handicap.
La persona disabile di fatto è la cartina tornasole dello stato di maggiore o minore integrazione delle singole persone inserite nella società (si veda la lucida analisi dell’articolo relativo al Kenya). Per questo motivo la scommessa dell’handicap è così interessante e stimolante: perché non è solo di una categoria di persone, non è come a torto si crede un “problema” al quale basta creare una risposta speciale e specialistica, per risolverlo, senza fare i conti con la nostra singola situazione. Un mondo a misura di disabile è un mondo più comodo per tutti: ed è evidente che se ciò non avviene (constatando quanto una persona disabile soffra per questa non-integrazione, non rispetto della sua diversità) sono presenti dei meccanismi handicappanti, svantaggianti, che toccano tutti, chi più chi meno, ma tutti.

Denaro? No grazie

Ci sono dei fattori handicappanti ma anche dei fattori impoverenti. Mi ha molto colpito padre Alex Zanotelli (missionario a Korogocho, la favela di Nairobi), che ha rifiutato un premio di 500 milioni di lire come riconoscimento per la sua attività in questi anni a favore degli ultimi. Mi ha molto colpito perché da sempre padre Alex predica perché ci sia una piena conversione da una logica di semplice “carità” ad una logica di giustizia. Non servono i soldi, non bastano. Nel mondo dominato da quello che lui chiama Impero del denaro, tutto è ritenuto monetizzabile, perfino la stessa attività di amore e condivisione con i più poveri e disperati del pianeta. Facendo un atto scandaloso (“quante cose si potevano fare con quei 500 milioni!”) Alex Zanotelli ci obbliga a rivedere il nostro atteggiamento verso i poveri, soprattutto capendo che sono degli impoveriti, e chi li rende poveri siamo proprio noi del primo mondo, con la nostra logica della capitalizzazione selvaggia che non riusciamo più a controllare e che risulta sempre più dittatoriale perché ormai crediamo che sia l’unico sistema possibile. In quest’ottica 500 milioni sono una goccia nel mare, sono solo un piccolissimo atto di restituzione di qualcosa che già non era nostro, la giustizia è altra cosa. Giustizia è cambiare radicalmente il nostro modo di vivere su questo pianeta, partendo anche da atti quotidiani come andare a fare la spesa (“ogni volta che andate al supermercato, è come se andaste a votare”, dice padre Alex) e chiedendosi da consumatori critici e consapevoli come è stato fabbricato quel prodotto, chi lo ha fabbricato, esigendo informazioni sul rispetto dell’ambiente e dei diritti sindacali del lavoratore.
La logica che crea i portatori di povertà, i portatori di svantaggi sociali, ha caratteristiche simili alla logica che crea i portatori di handicap: un’ingiusta suddivisione delle ricchezze e delle risorse, una mancanza di condivisione a vantaggio della logica del profitto egoista, in ultima analisi una mancanza di rispetto e di creatività nell’adattare le strutture, che necessariamente presentano caratteristiche di rigidezza, alla diversità. Portatori di deficit o brasiliani (ad esempio) si nasce: handicappati o poveri si diventa. Se esistono persone handicappate allora esistono fattori handicappanti contro i quali bisogna combattere, se esistono poveri esistono fattori impoverenti, che purtroppo solo da poco abbiamo imparato a riconoscere connaturati al nostro sbagliato sistema di sviluppo.

Economia delle risorse

Il modello “citius altius fortius” (più veloce, più in alto e più forte) che pare aver caratterizzato l’euforia dello sviluppo del mondo occidentale, soprattutto a partire dalla rivoluzione industriale, sta lasciando il posto ad una riflessione più consapevole sui limiti delle risorse del pianeta e sugli effetti dell’inquinamento che il nostro sistema sta causando con grave danno per il sistema terra. E’ risaputo che se i cosiddetti paesi in via di sviluppo si sviluppassero veramente con le caratteristiche del primo mondo, in breve il congestionamento dovuto all’inquinamento e allo spreco metterebbe ko il nostro sistema. E’ necessario tornare ad uno sviluppo sostenibile, in armonia con le risorse del pianeta, valutando l’impatto ambientale che qualsiasi produzione comporta.
Da questo punto di vista la “cultura” della persona con deficit, intesa come insieme di atteggiamenti e di posture verso la realtà e la vita, molto spesso si pone come altro rispetto allo sviluppo del capitalismo liberale e selvaggio. La persona con deficit proprio perché non è la più veloce, la più in alto, la più forte, da sempre tende a mettere in crisi questo tipo di mentalità. Da un lato è vero che tutto un insieme di ausili rende la persona disabile oggi molto più produttiva, più “competitiva” rispetto solo a qualche decina d’anni fa. Ma la presenza di un limite personale oggettivamente più marcato (perché contrassegnato da un deficit) e di conseguenza purtroppo la molto probabile nascita di una situazione di handicap-svantaggio, rendono anche involontariamente la persona con deficit uno scandalo per il nostro sistema di valori. Non sto dicendo che il progresso non abbia portato dei vantaggi considerevoli anche a queste persone, ma che rispetto alla filosofia del più forte, la persona disabile tende ad essere altro. Mi fermo al “tende” e non dico “sempre sarà altro” (anche se ne sento la tentazione) perché evidentemente la mia analisi cerca di dare uno sguardo d’insieme: bisogna anche tener conto che la persona con deficit è una singola individualità e che, come tale, può anche essere più allineata con la mentalità capitalistica di un normodotato (un disabile non va mica per forza in paradiso!).
Pensiamo solo ai tempi di chi vive con una tetraparesi spastica: nell’epoca della celebrazione del fast food, della produttività spinta addirittura al limite della “ottimizzazione” anche dello spazio delle pause, tra una frenesia e l’altra, il disabile mangia il suo panino inesorabilmente piano, lentamente, con delle pause, ci mette mezz’ora. Nell’epoca dell’euforia di internet, la terza grande conquista umana nella comunicazione dopo l’invenzione della scrittura e del libro tipografico, dove abbiamo la possibilità di accedere e scambiare miliardi di informazioni, la persona disabile obbliga a fermarsi, a tornare anche a metodi artigianali di costruzione faticosa e paziente di un codice linguistico che non può prescindere da un incontro costante con l’altro. Nell’epoca in cui i più grandi spazi sembrano rimpicciolirsi perché oramai si è massificata la possibilità di percorrerli in aereo o alla velocità della luce via cavo, la carrozzina sullo sfondo si muove piano, lentamente, la mappa dei luoghi nella vita di un disabile tende a essere limitata. Eppure, come ricordava Giovanni Gazzoli nell’ultimo HP, è proprio la mentalità del caboclo, dell’indigeno amazzonico, ad essere mondiale, quella filosofia del qui ed ora che innanzitutto si prende cura del proprio corpo, della propria casa, del proprio ambiente più prossimo, creando un modello realmente armonico ed ecologico, rispettoso.

Diamoci una calmata

Come diceva Cartesio, gli stupidi si allontanano poco dalla linea della saggezza, quando invece gli intelligenti proprio perché più dotati, alcune volte se ne allontanano correndo. Potrà apparire paradossale affermare che è più ecologicamente sostenibile il modo di vita di tante persone disabili che quello dei normodotati. Nell’arco della giornata, il disabile fisico o intellettivo o psichico, senza distinzioni, sa di muoversi dentro un percorso con risorse molto limitate se confrontate a quello dei normodotati. Non voglio generalizzando semplificare troppo ma è indubbio che il disabile, più del normodotato, sa che deve confrontarsi con molteplici variabili che vanno soppesate sempre, vanno equilibrate alle risorse disponibili. Non sto dicendo che è meglio essere disabili, che è un loro merito essere più limitati di altri, ma che la debolezza non sempre è uno svantaggio (mentre la dittatura dell’impero del denaro vuol farci credere proprio questo), che l’andare più lenti non sempre corrisponde a non raggiungere gli obiettivi, come apparentemente potrebbe sembrare. Non per niente è nata da anni l’associazione Slow Food, in antitesi al concetto di fast food, che valorizza invece quella cultura gastronomica tipicamente italiana fatta di tempi e modi radicalmente opposti ad una cultura appiattita sulla produttività.
Ultimamente si sta parlando di disumanizzazione che questo sistema di sviluppo ha creato, perché un sistema che porta alla morte per fame milioni di persone ogni anno mentre in un’altra parte del pianeta ci si ammala per sovrappeso, evidentemente disumanizza, toglie umanità sia a chi impoverisce sia a chi è impoverito. Andare più piano magari in bicicletta o in carrozzina, stare più in basso familiarizzandosi con le qualità delle cose piccole, sperimentare i vantaggi della “debolezza” senza essere succubi della retorica della forza, è una ricetta di cui il mondo ha bisogno. Solo così ci potranno essere meno diseguaglianze, meno povertà, meno handicap.

L’educatore disabile

Riportiamo di seguito un capitolo tratto da Progetto Calamaio, la cultura della diversità a scuola, a cura di Sonia Pergolesi e Claudio Imprudente, UTET Editore, TO, 1997.

Non è facile trovare persone disabili che desiderino essere educatori ed animatori e che abbiano un grado di maturità tale da mettersi in gioco, trasformando il proprio deficit in un arma educativa in più. Veramente questa non è una cosa semplice: pensate solo al fatto che la prima impressione che dà una coppia di operatori del Calamaio, uno normodotato l’altro disabile, non è quella di due colleghi al lavoro ma di un operatore e di un utente, uno che è aiutato e l’altro che aiuta. Si trovano delle resistenze solo ad immaginare di diventare educatore disabile, figuriamoci il diventarlo. Per spiegare meglio: una persona con deficit è sottoposta a due spinte che la portano in direzioni diverse. La prima spinta va verso l’emancipazione dal proprio deficit per liberare la propria persona dall’immediata identificazione con esso. Ciò significa in altri termini voler affermarsi e confrontarsi con il "modello forte" di uomo, volere ad esempio che il proprio lavoro venga riconosciuto per quello che vale e non tanto perché è stato fatto da un disabile. L’altra spinta porta invece un disabile non a negare o peggio a rimuovere il deficit ma a riappropriarsi del deficit in termini positivi. Lo sport per disabili ad esempio porta l’individuo a confrontarsi con il proprio deficit non nei termini di un improbabile superamento ma nell’ottica di mettere in gioco le potenzialità residue. Nell’attività sportiva il limite e la difficoltà non consistono tanto nell’avere un deficit, ma costituiscono un aspetto fondamentale della competizione agonistica. L’essenziale nello sport è la sfida con noi stessi e con gli altri per il raggiungimento di un obiettivo. Diminuire il tempo che impieghiamo per percorrere cento metri, vincere contro un’altra squadra, migliorare la nostra comprensione del gioco, imparare a dominare alcune emozioni: sono tutti obiettivi che ogni atleta, disabile o non, uomo o donna, anziano o giovane, possono proporsi. Il deficit qui non viene rimosso, né viene annullato: semplicemente rende speciale una disciplina sportiva. Il calcio in carrozzina dieci anni fa è nato in seguito a una esigenza, a un richiamo che le mature condizioni culturali e di conseguenza l’autoconsapevolezza delle persone, hanno permesso di ascoltare. E l’unico sport al mondo in cui hanno un ruolo parimenti attivo sia atleti disabili sia atleti normodotati e ne possono nascere molte altre di queste discipline miste… Un educatore disabile del Calamaio se da un lato deve necessariamente acquisire competenze per poter fare bene l’animatore e l’educatore, dall’altro gli sono necessarie anche una maturità e gli strumenti che lo portino a vivere il suo deficit non più come un limite ma anzi come risorsa per il lavoro educativo. La "forza" del Progetto Calamaio sta proprio nella debolezza dei suoi educatori, o meglio nel processo che trasforma questa debolezza in qualcosa di positivo. Ad esempio Alberto, un educatore del Progetto, non riesce ad articolare chiaramente i suoni che compongono le parole. Se riusciamo a creare nei ragazzi una giusta aspettativa, se il capire Alberto oltre ad essere faticoso diventa una scommessa, se Alberto riesce ad affascinarli con le sue parole allora otteniamo dei grossi risultati che probabilmente non sarebbe stato possibile ottenere senza quel deficit. Infatti sappiamo bene che le parole di un educatore disabile e quelle di un normodotato possono avere un peso ben diverso. Consideriamo ad esempio Alice, una delle nostre educatrici più valide: lei, che è non vedente, riesce ad affascinare moltissimo bambini e ragazzi. La scoperta di come riesce a scrivere, a leggere l’orologio, a camminare da sola per strada, fa veramente luce sul come, con creatività ed intelligenza, si possono superare ostacoli apparentemente insormontabili. Ecco perché il deficit, o meglio, un modo appropriato di vivere e considerare il deficit può essere sfruttato in termini positivi, diventa per chi lo sa usare uno strumento in più nel bagaglio dell’educatore. Naturalmente ciò non è facile: la bravura di Alice non è una cosa improvvisata, ha richiesto anni di preparazione e di lavoro. L’esperienza ci insegna che aiuta moltissimo la dimensione del gruppo, il costante dialogo tra gli educatori del Progetto, il sapere affrontare insieme le grandi e piccole difficoltà che si presentano ogni giorno, il lavorare in squadra raggiungendo così l’affiatamento giusto che permette di creare e programmare i percorsi educativi.

"Abbiamo fatto il gioco di essere handicappato"

Spesso mi viene in mente questa bellissima frase, scritta in un tema da un bambino di una scuola elementare. In questa frase, che si riferiva al gioco di ruolo in cui un giocatore si immedesima in un disabile e l’altro giocatore in una persona qualsiasi che presta il suo aiuto, c’è veramente tutto il significato del Calamaio. Ludwig Wittgenstein, il grande filosofo austriaco, afferma che non esiste un’unica logica sottesa al reale, ma una pluralità di logiche, che lui chiama giochi linguistici, imparentate tra loro ma mai riducibili a principi primi. In altre parole non esistono significati astratti dai contesti ma giochi linguistici con regole più o meno precise e codificate. L’essere handicappato determina un gioco particolare, speciale, le cui regole linguistiche non sono trasferibili meccanicamente in ogni situazione ma anzi vanno di volta in volta adattate ed interpretate. Nell’interazione tra i due comunicanti, il giocatore con deficit e il giocatore normodotato, viene elaborato un linguaggio che tiene conto, mediante tentativi ed errori, del vissuto di ognuno dei giocatori e che mette da parte per un momento lo stereotipato e abitudinario sistema di regole linguistiche che invece si ripropone automaticamente fra due parlanti normodotati. Si scopre che giocare ad essere handicappato non è per niente facile e non richiede solo emotività ma mette in moto tutte le intelligenze, dalla corporea alla logico?matematica. Non basta mettersi in gioco, non basta, diremmo, partecipare. Nel "gioco di essere handicappato" però se uno dei giocatori vince, vince anche l’altro, se uno perde, perde anche l’altro. La comunicazione avviene se entrambi le sorgenti?riceventi funzionano. Questo non è facile e semplice: bisogna battere molte strade e creativamente affrontare le varie difficoltà che insorgono. Anni fa in una scuola materna di Bologna, durante un incontro con i genitori, il Prof. Canevaro ha esplicitato un concetto che sulle prime ci ha stupito, e che in sostanza è il seguente: se un bambino, incontrando un altro bambino disabile, viene allenato a reagire creativamente a situazioni in cui bisogna elevarsi sopra l’abitudine, può diventare più intelligente, non solo da un punto di vista emotivo. Generalmente si pensa che l’integrazione di un bambino disabile in una classe possa maturare socialmente gli alunni, innescare una prassi di solidarietà. Certo, anche. Ma soprattutto può alimentare un approccio creativo alle difficoltà che è un ottima scuola per l’intelligenza. Avere una mente aperta, non dogmatica, libera, non è qualcosa di innato, ma si impara con più facilità se aiutati da persone ed ambienti liberi ed aperti, capaci di lasciarsi mettere in discussione ed in crisi da una persona con deficit, la quale, volente o no, mette in crisi pressoché ogni struttura sociale in cui si inserisce. Quando nasce mette in crisi la famiglia, quando va a scuola mette in crisi la scuola, quando va a lavorare mette in crisi l’azienda, e così via. La crisi è un dato di fatto e può trasformarsi in momento di sviluppo, non va necessariamente connotata come qualcosa di negativo (come una certa accezione di crisi vorrebbe suggerirci).

La "necessaria leggerezza" del Calamaio: la diversità e il divertimento

"Abbiamo fatto il gioco di essere handicappato". La parola gioco richiama le parole coinvolgimento e divertimento. Direi che un incontro del Progetto Calamaio non possa prescindere da queste due parole. Nel Calamaio si impara giocando e divertendosi. Certo si può essere seri anche nel divertimento ma mai seriosi e soprattutto mai noiosi.
Credo che sotto sotto la maggior parte dei ragazzi e degli insegnanti che incontriamo si aspettino un incontro di una pesantezza unica. Non si parla forse di handicap? Mammamia che tristezza! Fa sinceramente piacere a noi educatori assaporare il momento in cui le resistenze si allentano, si trova una posizione più comoda e rilassata sulla sedia, si incomincia veramente a dialogare. Certo un incontro del Calamaio mette in crisi, eccome. Però fallisce se assieme alla riflessione non associamo anche il divertimento, se non diamo la possibilità di divertere, di guardare altrove, di girare un po’ intorno, di lasciare anche vie di fuga. Educare ed educarsi, come tutte le arti, è saper dosare i pieni ed i vuoti, i silenzi e le parole, l’azione e l’ozio (che sono i due momenti dell’atto creativo). Accennavo prima al fatto che il Calamaio non obbliga a dare risposta alle domande che suscita. Certo di risposte prefabbricate ce ne sono a bizzeffe ma non ci interessano perché banalizzano, fan contenti quelli che vogliono a tutti i costi verificare. L’accettazione di sé e degli altri, il valore della diversità, l’autoconoscenza, migliorare la propria vita: queste sono un po’ le finalità del Progetto Calamaio e di tanti altri percorsi educativi. Come si vede sono temi grandi, universali e quindi c’è tempo, non abbiamo fretta, tanto non basta una vita. Una insegnante una volta ci ha detto: "Anche fra molto tempo i bambini ricorderanno l’atmosfera di gioia che si respirava durante gli incontri…". Certo se non c’è anche un po’ di gioia di incontrarsi, di conoscersi, di vivere insieme qualche ora, come educatori ed animatori abbiamo fallito. Il Progetto Calamaio vuole comunicare un’immagine del disabile diversa dall’immagine cupa e triste. Se non si concretizza anche questa gioia, questo ben?essere, possiamo aver affrontato (a parole) i problemi più profondi dell’essenza umana ma abbiamo fallito, abbiamo tradito lo spirito del Progetto. Attenzione però. Non stiamo in questo modo dicendo che il mondo del disabile è tutto rose e fiori, che siamo tutti felici o cose del genere. Vogliamo comunicare un’immagine di disabilità il più possibile realistica, per come la stiamo vivendo: un grave errore risulterebbe rimuovere la sofferenza, i momenti difficili che si presentano anche nella vita di una persona con deficit. L’importante è non fermarsi solo a questo: l’incontro diretto con un educatore disabile aiuta i bambini, i ragazzi e gli insegnanti ad arricchire la propria immagine della disabilità. Scoprire che esiste ad esempio il calcio in carrozzina non è una scoperta da poco. Giocare un po’ con Alberto e divertirsi tra un tiro di pallone e l’altro, approfondire i concetti del poter o del non poter fare alla luce della distinzione deficit-handicap, illumina di una luce nuova una realtà poco conosciuta e misconosciuta come quella della disabilità. Infine, diversità e divertimento sono parole che nascono da una stessa parola latina: divertere, volgere in opposta direzione. Qualsiasi sia questa direzione il Calamaio è già per strada, a braccetto di queste due parole, e in buona compagnia. Chissà dove se ne andrà…

Le tante facce dell’handicap

"Abbiamo fatto il gioco di essere handicappato". Uno degli obiettivi del gioco di ruolo proposto è quello di scoprire che, pur se in effetti solo uno dei due giocatori ha un deficit mentre l’altro è normodotato, entrambi vivono degli handicap, delle difficoltà, degli ostacoli. Generalmente la parola difficoltà richiama negatività: viene da pensare alla fatica, a emozioni come il disagio, l’angoscia, la tristezza. In realtà, a guardar bene, non esiste un gioco senza una qualche difficoltà?handicap, che se non fosse presente penalizzerebbe enormemente il gioco. Non varrebbe più la pena di giocare a quel gioco se non ci fosse una qualche difficoltà intrinseca. Ogni gioco presenta dunque un certo grado di difficoltà ma, mentre nella maggior parte dei giochi essa consiste nel rispettarne le regole e finalità, ci sono alcuni giochi in cui la difficoltà sta proprio nel trovare le regole del gioco. Tra un disabile e un normodotato il momento critico è l’entrare in comunicazione, perché il deficit del disabile non permette di far riferimento a codici preconfezionati. La categoria della difficoltà acquisisce un significato esistenziale con due accezioni ben diverse e che danno origine a sentieri diversi. Da un lato la difficoltà come sfida, motore dell’azione, momento essenziale del gioco; dall’altro un accezione negativa per cui delle difficoltà faremmo volentieri a meno. Cos’è che ci fa propendere verso l’una o l’altra delle due accezioni? Che cosa ci fa vedere ora l’una ora l’altra delle facce di questa difficoltà?Giano bifronte? Uno dei motivi per cui il gioco viene a noia è l’essere costretti a giocare quando non se ne ha più voglia. Quando l’individuo sente che non può incidere sullo sfondo in cui si colloca, non può determinarlo ma esserne solo determinato, la frustrazione e l’angoscia diventano il pane quotidiano. Essere determinati da un contesto, l’essere obbligati a recitare volenti o nolenti una parte, sentirsi tutt’uno col proprio deficit, sentire la propria persona appiattita sul proprio deficit, è una tragedia insopportabile, e a questo punto ogni difficoltà non può che diventare smisuratamente grande e crudele. Ma se ci si dà la possibilità di giocare più ruoli in più giochi diversi, di affrontare continuamente difficoltà nuove e nuove avventure diverse e tutto questo lo riconduciamo al grande gioco?spettacolo dell’esistenza (in cui siamo insieme attori e spettatori), allora le cose cambiano. Il trucco sta nel come maneggiamo la parola difficoltà, così vitale e così mortale, così crudele e così meravigliosa, a seconda dei punti di vista.
"Superare l’handicap" (il motto che dà il titolo al progetto più ampio, realizzato a Parma, in cui si è inserito anche il Calamaio) va letto dunque nei termini hegeliani come il movimento che supera la contraddizione ma che insieme la conserva, la invera, non l’annienta. Senza l’handicap?difficoltà non c’è storia, non c’è sviluppo perché la contraddizione alimenta il tempo, il divenire, il reale. L’obiettivo del Progetto Calamaio è certamente il cercare il più possibile di diminuire l’handicap (perché ciò è possibile) ma riconoscendo alla categoria della difficoltà il suo giusto valore, la giusta "necessità" in un processo di sviluppo e maturazione non solo individuali ma anche collettivi, sociali.

Progetto Calamaio e sport

Il Progetto Calamaio è un’equipe di animatori diversabili e normodotati che opera nelle scuole di tutta Italia dal 1986. Grazie soprattutto ad uno dei nostri colleghi, Alberto Fazzioli, abbiamo iniziato sei anni fa a realizzare percorsi educativi nelle scuole che prevedono lo sport come momento centrale.
Le finalità del Progetto Calamaio (attraverso l’incontro diretto tra i bambini e gli animatori diversabili educare alla diversità come vantaggio e occasione di arricchimento, comunicare l’immagine della persona handicappata non come mero oggetto di assistenza e carità ma soggetto attivo e promotore di cultura) sono certamente molto importanti, e lo sport è qualche cosa che manda in fibrillazione, interessa tutti, accende la fantasia. Unire i due temi, handicap e sport, crea quella scintilla che dà una luce nuova ad entrambi.
Ricordo ancora quando in una scuola del maceratese, un po’ per caso, io e Alberto abbiamo "improvvisato" una partita di calcio in carrozzina con i bambini di una classe elementare che stavamo incontrando. È nato così, in una pausa della ricreazione, mentre alcuni bambini mangiavano la merenda e noi non sapevamo bene che fare, uno dei percorsi credo più riusciti della nostra storia di animatori. Abbiamo verificato subito, pallone al piede, quanto potesse essere divertente e significativo l’incontro diretto tra l’animatore diversabile e i bambini attraverso il gesto spontaneo di giocare, di muoversi insieme, di fare sport. Abbiamo intuito subito che si materializzavano, si concretizzavano tutti gli obiettivi che ci proponevamo, attraverso due strade principali: da un lato il connettere l’handicap al divertimento, saltando a piè pari l’immagine negativa che la persona con deficit si porta dietro, dall’altro l’individuare come fondamentale in ogni sport la categoria della difficoltà, dell’handicap.
Già in macchina, tornando a casa, con Alberto si discuteva di creare un percorso educativo incentrato esclusivamente sullo sport. Era logico partire da una esperienza più che consolidata come il calcio in carrozzina, non solo perché Alberto ne era stato uno dei fondatori a Bologna, ma anche perché questa disciplina ha in sé quella cultura dell’integrazione tra persone normodotate e diversabili che esemplificava così bene quello che volevamo dire ai bambini (vedi scheda tecnica sul calcio in carrozzina pubblicata in questo HP).

Il percorso

Abbiamo così iniziato a proporre alle scuole, soprattutto elementari dalla classe terza alla quinta, un percorso che si strutturava in tre incontri.

PRIMO INCONTRO. Dedicato alla conoscenza tra i bambini e gli animatori diversabili del progetto. È un momento molto delicato del percorso, perché entrare con le carrozzine in classe crea sempre un po’ di tensione emotiva, caratterizzata da imbarazzo, curiosità, qualche volta anche da un po’ di paura. É il primo momento in cui l’incontro diretto tra i bambini e la diversità dell’animatore diversabile va il più possibile aiutato e mediato da canzoni, dialoghi, giochi, affinché si instauri un rapporto di fiducia e di scambio. Praticamente ci riusciamo sempre, anche se va tenuto presente che l’incontro con ogni bambino ovviamente è una storia a sé e l’incontro con la classe è la somma di tanti incontri. Le insegnanti si meravigliano alla fine dell’incontro di quanto sia molto più rilassata l’atmosfera, di quanti imbarazzi ci si sia già liberati (e la nostra esperienza dice che più il bambino è piccolo e meno incontriamo difficoltà in questo senso). Lo sport entra in questo incontro quasi in punta di piedi, sfiorato dalle domande sulla quotidianità che i bambini ci fanno: ecco allora che accanto a domande ricorrenti quali "ma quanti anni avete?", o "dove vivi?", "ti fanno male le gambe?", "come si chiamano i tuoi amici?", "perché sei in carrozzina?", alla domanda "cosa ti piace fare?", Alberto rispondeva "io gioco a calcio". Verificavamo subito lo stupore e anche un po’ l’incredulità dei bambini nel vedere una persona in carrozzina, dai movimenti incerti e maldestri, che diceva quella frase mimando anche il calcio ad un pallone.
Lasciavamo però la curiosità con un "magari se volete ne parliamo la prossima volta".

SECONDO INCONTRO. È l’incontro in cui entriamo a bomba nell’argomento partendo da un po’ di storia: immaginiamoci di essere nell’anno 1978 a Bologna, quando ancora non esisteva il calcio in carrozzina ma una grandissima voglia, quella sì, di fare sport. Partiamo da un bisogno di tutti di fare sport, di partecipare della bellezza di questa attività umana fatta di movimento, socialità, competizione con i propri limiti. Dividiamo la classe in sottogruppi composti da quattro o cinque bambini, scrivendo alla lavagna le domande alle quali devono rispondere in una ventina di minuti. Le domande sono relative a: campo di gioco (caratteristiche del terreno, dimensioni), numero dei giocatori, caratteristiche della carrozzina, principali regole, durata dei tempi. In alcuni casi si può prevedere anche una domanda sui principali falli.
Ogni squadra stila le risposte e successivamente le legge di seguito al grande gruppo. In questa fase gli animatori del Calamaio commentano la plausibilità e coerenza del progetto presentato senza giudicarlo in relazione al calcio in carrozzina reale, quello canonico, anche perché (va detto per inciso ma è importante tenerne sempre conto) sia quello dei bambini che quello reale sono stati inventati: non esiste il calcio in carrozzina "in sé"! Sin dall’inizio dunque è molto importante che la prospettiva di partenza sia sempre incentrata sulla capacità dei bambini di immaginare uno sport come risposta ad un bisogno particolare, come risposta creativa alla necessità di strutturare un sistema di regole che permettano di giocare attorno ad un handicap. Tutte le ipotesi possono essere buone e vanno verificate solo nella pratica, ragionando di volta in volta con i bambini sul dosaggio di difficoltà/handicap che stiamo immettendo nel gioco e se questo dosaggio è gestibile oppure no. Concretamente, se un gruppo propone di giocare in un campo da calcio normale come quello di erba, verifichiamo assieme ai bambini (se possibile spostandoci anche nel prato della scuola) quanto una carrozzina abbia possibilità di muoversi su un terreno di questo tipo (se è troppo difficile, se c’è troppo handicap, allora l’ipotesi si scarta). È stato per noi molto significativo, per esempio, che malgrado la nostra ironia sull’impossibilità della carrozzina di spostarsi velocemente in un prato d’erba un bambino ci abbia stupito dicendo: "però se io metto le ruote da mountain-bike, anche la carrozzina può andare dove vuole". Come educatori ci siamo sorpresi perché la creativa affermazione del bambino ci ha spiazzato, aprendoci ad uno scenario immaginativo nuovo, cui non avevamo mai pensato; nello stesso tempo confermando che lo sport, e a maggior ragione quello per diversabili, è una risposta creativa e sempre in evoluzione ad un bisogno dell’uomo, e le regole cambiano, si modellano, si affinano, si reinventano. Non è l’uomo per lo sport ma lo sport per l’uomo, e vale la pena riaffermare questo principio in un periodo in cui i mass-media ci propongono la cultura del calcio agonistico, merce, business, dove ci si dopa per aver risultati sempre migliori, a scapito della salute e dei valori.
Alcune volte ci siamo fatti delle grasse risate perché venivano presentati progetti fantasticamente assurdi (ma simpatici) come quello, che ci siamo sentiti dire questa volta ad un corso di formazione a Torino con alcune insegnanti, che consisteva praticamente in un biliardino gigante in cui i giocatori venivano legati ad una imbragatura e sospesi in aria con un sistema di corde – domanda: e come fanno a passarsi la palla?- risposta: eh… quando arriva la palla calciano…!?!
Al di là quindi delle soluzioni già definite e delle ricette (non ci interessa infatti che ai bambini venga imposta una particolare impostazione del calcio in carrozzina) si analizza la coerenza complessiva del progetto presentato, confrontandola anche con la realtà dell’atleta diversabile, con il può fare/non può fare e verificando quanto questa demarcazione non sia mai una linea rigida, ma si modella e rimodella continuamente su ogni singolo atleta. Scopriamo che qualsiasi disciplina sportiva si fonda su una ipotetica "medietà" di caratteristiche fisiche ed abilità degli atleti: il tema della classificazione dei giocatori, sulla base ad esempio della loro funzionalità (per garantire l’equilibrio tra le squadre in competizione), è abbastanza complesso e vale la pena affrontarlo solo con i bambini più grandi. Certo è che tutti possono capire che un conto è giocare su una carrozzina da amputato e un conto come atleta con tetraparesi spastica, com’era nel caso di Alberto. Ma è anche altrettanto utile vedere che all’interno della stessa categoria ci sono molteplici differenze e che una persona Down è diversa da un’altra persona Down, o che atleti con tetraparesi sono l’uno diverso dall’altro. Come si vede, il naturale sviluppo di questo percorso educativo ci dà la possibilità di affrontare anche temi complessi, ma molto importanti per gettare una luce realistica sulla vita delle persone con deficit.
La seconda fase del lavoro è quella di confrontare i modelli inventati dai bambini con il modello attualmente esistente di calcio in carrozzina, partendo dalla visione in videocassetta di una fase di gioco. Proprio perché i bambini hanno lavorato da soli, sono già in grado di capire le molte sfumature delle regole, di spiegarsi da soli i molti perché che stanno dietro alle scelte dei materiali, del luogo, eccetera.

TERZO INCONTRO. In palestra proviamo praticamente a sperimentare il calcio, dapprima con alcuni esercizi di allenamento, poi con fasi di gioco vere e proprie. Nell’allenamento facciamo sperimentare ai bambini i due ruoli, da atleta normodotato spingitore della carrozzina, ad atleta sulla carrozzina che calcia la palla. È centrale che i bambini, sulla carrozzina o senza, sperimentino due diverse abilità, due funzioni e ruoli nel gioco: come si vede l’accento non è sul deficit inteso come mancanza e quindi appiattito sul confronto con la normalità, ma sulla possibilità del fare, sulle abilità che il giocatore in carrozzina è in grado di esprimere e che sono valorizzate da un sistema di regole che le esalta e le armonizza nel movimento costante del gioco.
Fondamentale è inoltre far passare il messaggio che da entrambi i giocatori, il normodotato spingitore e il diversabile in carrozzina, l’allenatore si aspetta lo stesso impegno, la stessa tensione agonistica. Entrambi sono atleti e da entrambi (come si legge anche nell’intervista a Fabiano Fontana, allenatore della squadra SP.4.R., qui pubblicata) si pretende il meglio, il massimo che possono esprimere. È molto importante definire e sottolineare assieme ai bambini il concetto di "atleticità" di chi nella migliore delle ipotesi viene invece definito dis-abile, portatore di handicap-difficoltà, eccetera. Questo si può ottenere attirando l’attenzione sulla prassi dell’allenamento, anzi facendo sperimentare ai bambini i principali esercizi, sottolineando quindi la possibilità di evoluzione e miglioramento delle prestazioni per gli atleti con deficit, che contraddice l’immagine di fissità e immobilità che il deficit si porta dietro. Molto spesso infatti si crede erroneamente che la persona con deficit non abbia le prospettive future e l’evoluzione personale che il normodotato possiede, perché si confonde il deficit, che è una mancanza oggettiva, statica, non eliminabile (come la tetraparesi causata da una paralisi cerebrale, ad esempio), con l’handicap-svantaggio derivante dal deficit, che invece è un dato sempre in movimento, ora in aumento ora in diminuzione a seconda dell’ambiente, delle possibilità attivate dalla persona, eccetera. La prassi dell’allenamento è un buon esempio per i bambini di quanto sia netta e fondamentale la distinzione tra l’handicap e il deficit di una persona, e di quanto poi nella pratica, nel caso concreto di un atleta con nome e cognome, non sia così facile demarcare una linea di confine tra i due concetti. Dall’esperienza del calcio in carrozzina ci sono moltissimi esempi di gesti atletici che si ritenevano impossibili per un giocatore, ovvero si ritenevano facenti parte del campo del deficit e quindi immodificabili, che invece appartenevano al campo degli handicap, ovvero si potevano modificare, riuscendo a ottenere risultati impensati. Ecco perché il termine diversabile in ambito sportivo è quanto mai necessario, perché l’accento viene posto sulla possibilità di evoluzione (che magari è da inventare, ma c’è) piuttosto che su una presunta non abilità, non possibilità di migliorarsi. Certamente il deficit esiste e dà dei limiti ben precisi (quando si confrontano le prestazione di una persona portatrice con quelle di una normodotata); d’altra parte, l’allenamento e il continuo miglioramento delle prestazioni testimoniano abilità, capacità atletiche ben precise e misurabili.

Altri esercizi

Oltre a quelli consueti (di potenziamento, agilità, eccetera) che si utilizzano un po’ in tutte le discipline, ci sono alcuni particolari esercizi di allenamento specifici del calcio in carrozzina: innanzitutto esercizi volti ad ottenere familiarità con la carrozzina da gioco. Per gli spingitori: spingere la carrozzina a varie velocità, provare la frenata, zigzagare, sterzare, invertire la direzione di moto. Per gli atleti in carrozzina: sperimentare e familiarizzarsi con le spinte centrifughe e le sollecitazioni derivanti dalla carrozzina in movimento, aiutare quando possibile la fluidità dell’azione. È molto interessante constatare che generalmente le persone che vivono tutto il giorno sedute su una carrozzina non sempre hanno provato l’ebbrezza della velocità, e quindi si tratta di vivere una situazione nuova con un ausilio tecnologico, la carrozzina, che solo apparentemente è la solita carrozzina, ma invece non ha freni, è più leggera e robusta, non ha poggiapiedi, è studiata per eliminare il cosiddetto scimmìo delle ruote (ovvero il caratteristico movimento vibratorio veloce delle ruote anteriori quando la carrozzina corre a una velocità sostenuta). Psicologicamente il fatto di essere assicurati con una fascia a livello addominale alla carrozzina e il sentire nella corsa l’aria sulla faccia sicuramente ingenera un altro atteggiamento nei confronti della carrozzina, anche dopo la seduta di allenamento. Far sperimentare ai bambini la velocità della carrozzina provoca un brivido di piacere paragonabile alle montagne russe, e se poi alla fine della corsa c’è un pallone da calciare il divertimento diventa ancora maggiore.
Altra finalità dell’allenamento è l’affiatamento tra i due giocatori nei due ruoli di spingitore e calciatore. Si tratta di comprendere da parte di entrambi che la macchina da goal funziona solo se lo spingitore riesce a mettere nella migliore delle posizioni possibili il calciatore per calciare la palla. Oltre a questo, un classico esercizio è quello di passarsi la palla tra una coppia e l’altra.

Vai con la partita!

In seguito a tutti questi esercizi si avvia una fase di gioco vera e propria, coinvolgendo i bambini, approfittando degli stop inevitabili, causati da falli, per spiegare meglio le regole ma anche alcuni segreti del calcio in carrozzina per riuscire a fare goal. Con bambini abbastanza grandi si possono provare addirittura degli schemi nell’area di rigore: una regola molto importante prevede che nell’area di rigore non possano entrare più di una coppia attaccante e di una coppia difensore contemporaneamente. Ci sono molti schemi che servono proprio per permettere alla squadra attaccante di disorientare i difensori e di liberare una coppia non guardata a vista. È molto interessante fare questo tipo di lavoro perché i bambini iniziano ad apprezzare anche le sottigliezze del gioco e a capire che oltre al fisico ci vuole anche una buona abitudine al ragionamento, per assecondare la logica dello sport. Questo si ottiene provando e riprovando in allenamento alcuni schemi classici, che funzionano solo se entrambi i giocatori, il normodotato e il diversabile, sono affiatati tra loro e in grado di lavorare all’unisono per realizzare lo schema vincente.
Alcuni esercizi sono poi dedicati al portiere, che ha, come si sa, un ruolo particolarmente delicato e unico. Essendo i portieri atleti con deficit, proviamo a ricreare una situazione realistica invitando i bambini a immedesimarsi nel ruolo di portiere rimanendo in ginocchio o con un braccio legato. La parte più spettacolare è certamente il rigore, e quando c’era Alberto, che nella squadra di Bologna SP.4.R. giocava da portiere titolare, si facevano calciare ai bambini i rigori e potevano così accertarsi di quanto non fosse per niente facile batterlo!

Spazio alle domande

Infine, è sempre bene riunire in cerchio i bambini e dare uno spazio alle domande, sia sulle attività proposte, sia in generale su qualsiasi curiosità possa essere venuta in mente. Come si è visto, l’ultimo incontro è quello più fisico, più in movimento, ed è bene sempre riuscire a tenere la situazione, evitando la confusione che inevitabilmente, soprattutto in un ambiente dispersivo come la palestra, si viene a creare. È anche una situazione in cui l’animatore diversabile in genere ha meno possibilità di condurre l’incontro, perché bisogna spesso alzare la voce, farsi capire bene quando si comunica, il tutto in un ambiente dove i bambini spesso si sentono più liberi di muoversi e tendono appunto alla confusione. Nell’intimità dell’aula scolastica invece l’animatore diversabile ha più possibilità di farsi capire, anche se non parla in modo molto chiaro scandendo le parole (cosa per esempio che ad Alberto riusciva abbastanza difficile). Nella palestra l’animatore diversabile è protagonista con la sua corporeità, è in primo luogo un atleta che mostra, nel silenzio del palleggio o della corsa sulla carrozzina, quello che sa fare in armonia con l’atleta spingitore. Come si diceva, il gesto molte volte vale più di mille parole: il divertimento che i bambini sperimentano giocando vale più di mille discorsi sull’integrazione delle persone diversabili. Il concetto di essere diversamente abili non si dimostra con le parole, ma con il fatto sportivo, e questo vale moltissimo perché ha più possibilità di fissarsi nella mente dei bambini. Partendo da una animazione concreta i bambini riescono a capire perfettamente che il calcio in carrozzina ad esempio non è terapia, e non è una attività, come erroneamente molti credono, il cui fine è riabilitare la persona con deficit, spesso identificata con il malato, il sofferente.

L’hockey in carrozzina

Assieme a Bruno e Giovanni, due nuovi animatori del progetto, si sono realizzati incontri utilizzando l’hockey invece che il calcio. L’articolazione degli incontri è stata la stessa, con le inevitabili diversità derivanti da questa innovativa disciplina sportiva. Abbiamo comunque constatato che c’era altrettanto interesse che nel percorso del calcio, e questo sta a dimostrare che non è tanto che cosa ma come si propongono gli incontri, e che è il nostro stile ad essere vincente. La simpatia di Bruno, che dribbla i bambini con la sua carrozzina elettrica e risponde con tranquillità e serenità alle loro domande, il piglio da allenatore di Giovanni che fa capire tutta la passione e l’agonismo che si possono immettere in questo sport, sono sicuramente vincenti perché frutto di quella professionalità che ha caratterizzato negli anni il Progetto Calamaio. Per quanto possibile, non si lascia nulla al caso pur lasciandosi andare spessissimo all’improvvisazione, perché solo così un incontro di animazione riesce da un lato a seguire l’umore e il concreto interesse dei bambini e dall’altro a incanalare questo interesse verso gli obiettivi che l’equipe si è prefissata.
È da notare, in questo percorso sull’hockey, una particolare attenzione al tema strumenti, perché oltre alla carrozzina elettrica c’è da considerare lo stick, la mazza, la particolarissima forma delle porte (vedi la scheda tecnica allegata in questo numero di HP). In questi casi una maggiore tecnologia apre tutta una serie di approfondimenti possibili che illustrano la possibilità da parte di persone con deficit di vivere una vita quotidiana il più possibile autonoma, grazie all’evoluzione e alla disponibilità delle ultime invenzioni tecnologiche. Non di rado è capitato a Bruno di spiegare il suo rapporto con il mondo dei computer, i particolari ausili che utilizza per lavorare, giocare, eccetera. Anche qui, come sempre, l’accento è sulla creatività che colora l’attivazione di tutte le nostre intelligenze. Secondo il neuropsichiatra Howard Gardner, l’essere umano è dotato di almeno sette intelligenze (tra cui la corporea, la musicale, la sociale, la logico-matematica, la linguistica, eccetera): per diminuire gli handicap non possiamo solo fare riferimento all’intelligenza sociale, alla solidarietà. Per aiutare bisogna saper aiutare, per diminuire gli svantaggi bisogna mettere in moto tutte le nostre intelligenze. L’hockey in carrozzina è un esempio tangibile di come anche atleti con distrofia muscolare possano, nonostante una ridottissima funzionalità degli arti, compiere gesti atletici di precisione millimetrica, molto difficile da raggiungere. Con i bambini in genere si gioca utilizzando lo stick e, data l’impossibilità di portare a scuola una carrozzina elettrica da provare (nonostante i potenti mezzi del Calamaio ancora non ce l’abbiamo fatta!), facciamo sedere in alcune carrozzine i bambini che verranno spinti da altri bambini, un po’ come avviene per il calcio in carrozzina.

Fare festa

Immaginate un’aula affollata da una sessantina di persone provenienti dai paesi più vari… Si sentono voci mai sentite prima, ognuno veste in un modo diverso: ci sono quelli con maglioncini di fortuna sorpresi dall’aria fresca-freddina di ottobre, indiane con la pancia scoperta…Ad un certo punto, prima di iniziare i lavori della giornata, Sunil Deepak che è il moderatore di questo workshop voluto dall’AIFO, lancia sorridendo un invito: chi vuole può intonare un canto della propria terra. Per primo ci si butta un africano che inizia a cantare; è un po’ stonato (che stia usando una scala musicale che non conosco?), con un grande senso del ritmo, e canta in inglese (almeno mi sembra tale – curioso sentire i vari “inglesi” che il mondo propone: Meera Shiva, indiana, la frase “we think that disabled people” la pronuncia pari pari “vi tink tet disebl pipl”, ma ancor di più è l’inflessione, la musicalità della frase, con le improvvise accelerazioni e diverse cadenze, che stupisce). Il nero continua a cantare (si dice nero o negro? Non lo so più da quando in Brasile cercavo di spiegare, candidamente è il caso di dire, ad una infermiera che si autodefiniva negra che era forse meglio lei dicesse nera, preta: al che scotendo la testa ma con infinita pazienza ha preso in mano una borsetta e mettendoci il braccio vicino mi ha detto: “Questa borsetta è nera: la vedi la differenza?”) e continuando a cantare dall’inglese saltano fuori anche parole africane. Mentre canta inizia ad ondeggiare col corpo, e tutti sono presi dalla frenesia di battere le mani a ritmo: qualche asiatico ride soltanto, qualche altro si alza per danzare. Quando finisce con un inchino, tutti applaudono ma nel frattempo si è alzato un sacerdote brasiliano, che ho conosciuto il giorno prima. Padre João lavora con gli indios dell’Amazzonia, dal viso e dalla corporatura denota la sua provenienza dal nord est del suo paese. Ed esordisce così: “Mi sentivo un po’ imbarazzato quando avete chiesto di cantare qualcosa, ma dopo aver ascoltato il nostro amico dall’Africa, beh, ho pensato che non potevo fare tanto peggio di lui!”. Poi attacca con una vocina soave, intonatissima, una canzone che parla di un amore perduto, di un fiume, di una storia che si tramanda in generazioni, anzi prima di cantarla il padre la spiega, con un piglio proprio da padre, socchiudendo ogni tanto gli occhi e sollevando le braccia come se officiasse alla sua comunità, con voce ferma e calma. Da lui e da altri ho imparato a capire la lentezza, lo stile di comunicazione cui noi europei non siamo più abituati. Il padre, in uno dei due gruppi di lavoro ristretto di lingua portoghese (ce n’erano altri in inglese e in italiano) ci spiegava che se vuoi affrontare con uno yanomani un discorso, non bisogna iniziare subito da quell’argomento ma bisogna girarci intorno. Per il pensiero occidentale (in Brasile la convivenza di tre culture – la portoghese, l’africana e l’indigena – ha sempre visto dominante la prima), se si vuole congiungere due punti, la linea più veloce e pratica è quella retta: se voglio parlare di un particolare argomento lo affronto di petto, non per niente si dice “vai al nocciolo della questione”, o “vai al dunque” (come se l’argomentare sillogistico avesse automaticamente un valore in sé) è come se lo indicassi con una freccia. Per gli indios invece, quando bisogna arrivare ad un punto bisogna girarci intorno, l????? ??????? 0

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???? ???? ???? ??? ??? ??????? ????? ??chamama, la Grande Madre”. È lo stesso motivo per cui prima di bere si versa sempre un po’ del contenuto del bicchiere per terra per far bere prima la Grande Madre. Sono atti che interpellano noi europei profondamente.
In Europa la salute e l’allegria spesso stanno rigidamente separate, anzi quasi quasi non si può più ormai fare festa senza farsi del male, o non si può frequentare un ospedale senza provare quel senso di frustrazione e depressione a causa dell’asetticità delle cose o dell’incuria di muri grigi. Per fortuna che Patch Adams, il dottore inventore della clown therapy ha fatto proseliti con il suo: “Quando si cura la malattia si può vincere o perdere, quando si cura la persona si vince sempre”!
Sapete come Scannavino fa educazione sessuale? “Parto dal fatto che dovunque in Brasile, in qualsiasi villaggio, anche il più povero, c’è un campo da calcio. Allora si divide il gruppo in due squadre, si disegnano sul campo due enormi tube di Fallopio alle cui estremità ci sono due ragazze molto belle. Tutti gli uomini e ragazzi sono in fila ed al via devono correre per arrivare alle ragazze…quando gli spermatozoi sono arrivati, il gioco continua, fino alla nascita del bambino, e così via…è un modo divertente di spiegare l’educazione sessuale, in questo modo resta nella testa. Per convincere gli uomini spesso maneschi e con poco rispetto a usare il profilattico, abbiamo organizzato per le donne un corso di danza erotica utilizzando il preservativo”. Scannavino lavora in zone dove dominano i garimpeiros, i cercatori d’oro che terrorizzano le popolazioni indigene per farle lasciare i loro territori, favorendo così anche le multinazionali per lo sfruttamento dell’immenso patrimonio che è l’Amazzonia. Addirittura quando i garimpeiros scoprono una tribù che non è entrata mai in contatto con l’uomo bianco, portano un malato in modo che il morbo passi alla popolazione per sterminarla. Scannavino stesso quando visita i malati nella foresta utilizza una mascherina: sono popolazioni che ad esempio non conoscono le malattie ai denti.
Salute e allegria: un motto che è piaciuto immensamente a tutti i partecipanti al workshop dell’AIFO, che fossero asiatici, africani, sudamericani o europei. Un motto di cui il mondo ha bisogno, perché abbiamo bisogno di fare festa.

Sportivamente

Il Centro Documentazione Handicap di Bologna in collaborazione con la Fondazione Exodus di don Mazzi ha organizzato una manifestazione dedicata alla cultura sportiva e integrazione sociale: Sportivamente. Questa manifestazione si è svolta a Bologna dal 15 al 17 maggio di quest’anno e ha visto succedersi una serie di eventi: una partita di calcio fra la squadra del consiglio comunale di Bologna e le “All Star CDH” (a dare il calcio d’inizio è stato nientemeno che il portiere del Bologna Gianluca Pagliuca), un convegno dal titolo La creatività sportiva come strumento di educazione ed integrazione sociale, la premiazione del concorso per le scuole Inventa e racconta un gioco, vari eventi sportivi che hanno visto circa duecento atleti confrontarsi nelle discipline dell’hockey in carrozzina, del calcio a 6, del beach volley e della lotta-danza, una serata di presentazione del libro di Claudio Imprudente Una vita Imprudente, con la partecipazione di Don Mazzi, allietata dalla musica rock di tre gruppi giovanili emergenti, per non parlare delle classiche crescentinate gastronomiche innaffiate con del buon lambrusco. Uno degli eventi che più hanno espresso lo spirito della manifestazione è stata la partita del campionato mondiale segreto di pallastrada che si è svolta in alcune strade del quartiere bolognese di Borgo Panigale, con l’intervento dello scrittore Stefano Benni, l’inventore della disciplina nel suo libro La compagnia dei celestini. La pallastrada è un calcio dove non ci sono delle regole statiche ma in una continua evoluzione guidata dal Grande Bastardo, ovvero il giudice supremo che di volta in volta a seconda della ispirazione decide le regole. Per l’occasione il Grande Bastardo è stato proprio Claudio Imprudente (che se l’è cavata molto bene nel ruolo, non c’è che dire), presidente del CDH; ad aiutarlo c’era Benni come suggeritore. I momenti più divertenti si sono avuti quando il Grande Bastardo ha deciso che potevano giocare solo giocatori scalzi, o quando chi segnava il goal veniva eletto sindaco per un minuto di Bologna o ancora il momento del rigore, con tutta la squadra in porta… Cresce in questi ultimi anni l’esigenza sia nel mondo prettamente sportivo (società, federazioni, eccetera), sia nell’ambito sociale (associazioni, sevizi, scuola, mondo della formazione) di sfruttare tutte le opportunità che la connessione sport – integrazione sociale produce.
La manifestazione Sportivamente ha cercato di essere attenta a ciò che funziona, all’esempio da seguire, facendo emergere esperienze che vengono da vari ambiti (handicap, scuola, psichiatria, devianza, tossicodipendenza, sud del mondo, anziani, bambini) tutte accomunate dalla creatività. Ha cercato di offrire uno spazio di dibattito tra i diversi protagonisti su temi diversi, raccogliendo idee e formulando soluzioni, cercando di occuparsi non solo degli emarginati o svantaggiati sociali: in questi casi si rischia sempre l’autoghettizzazione e quindi è importante illuminare con una luce nuova sia il sociale partendo dalla prospettiva sportiva, ma anche lo sport partendo dalla prospettiva sociale. Bisogna ricucire lo strappo che si è creato tra mondi considerati a torto diversi: il mondo dello sport da un lato, quello del sociale dall’altro, recuperando una dimensione culturale che li abbraccia entrambi.

Sport ed handicap
Partendo dall’etimologia delle parole si fanno delle scoperte interessanti, che, se non sono magari pienamente giustificate sul piano logico, lo sono su quello del fascino. La parola sport risale al francese antico desport, che significa diporto, diletto, svago, spasso, piacere. La parola handicap invece pare sia d’origine irlandese: i mercanti di cavalli usavano mettere il loro denaro nel berretto, il che significava mercato concluso. Questa mano nel berretto è divenuto in seguito un gioco d’azzardo: sui campi da corsa, durante i momenti vuoti, tre giocatori mettevano in un berretto una stessa quantità di denaro, si tirava a sorte e chi vinceva si portava via tutto. Un terzo significato riguarda le corse dei cavalli e si passa dal secondo al terzo per il fatto di avere le stesse probabilità di vittoria: l’handicap ha come finalità quella di pareggiare le probabilità dei concorrenti, equilibrando i pesi in modo che il cavallo peggiore abbia tante probabilità di vincere la corsa quanto il migliore. Pare cioè che il fantino più bravo, per dare la stessa possibilità di vincere agli altri concorrenti, corresse con la mano sul cappello, con l’hand, appunto, in cap, indirizzando chiaramente il significato della parola verso l’accezione di svantaggio che è quella ora più in uso. Da sempre dunque l’handicap è nello sport, è quella difficoltà che ne è il sale. La manifestazione Sportivamente si iscrive nello sforzo culturale che dobbiamo fare tutti per provare a ripensare al collegamento tra handicap e deficit in relazione al gioco e allo sport, premettendo che ci sono molti tipi di giochi (noi abbiamo preso in considerazione in questo caso soprattutto quelli con regole) e, come dice Wittgenstein, non esiste un’unica logica sottesa a tutti i giochi linguistici, non esiste il Gioco dei giochi, che racchiude in sé il significato di tutti gli altri. In altri termini non possiamo pretendere (per fortuna!) di dire la verità ultima sul gioco perché equivarrebbe a svelare il mistero della natura umana, ma possiamo cercare di esplicitare alcuni meccanismi di funzionamento, alcune connessioni tra handicap e gioco. Come sappiamo esistono due accezioni della parola handicap: una sicuramente negativa, tradotta con i termini svantaggio e ostacolo. In quest’accezione l’handicap va per quanto possibile ridotto, va combattuto con tutta la creatività di cui siamo capaci. Ma un’altra accezione della parola ha caratteristiche di positività e la traduciamo con difficoltà. Positiva perché se noi riusciamo a connettere l’handicap-difficoltà ad un gioco allora scopriamo il valore dell’handicap, valore che non esiste in sé ma esiste in quanto inscritto in un sistema di regole, in un sistema di gioco. L’handicap è come il sale, elemento non affrontabile in sé ma fondamentale se si riesce a connettere ad altro, ai cibi: da ciò trae il suo valore. Estremizzando potremmo dire che dell’handicap in quanto tale non c’importa nulla semplicemente perché, in sé, l’handicap non ha senso.
L’indifferenza, tanto combattuta e stigmatizzata, verso il cosiddetto “mondo dell’handicap” è per molti versi giustificata, anche solo per il fatto che questo mondo non ha senso di esistere, o per meglio dire è disabitato. Qualche volta la sensazione che si prova ad entrare in un centro residenziale per soli diversabili, chiuso al mondo esterno, equivale a quella che si proverebbe addentrandosi in una salina, in una landa desolata senza vita. Tutto questo “sale” potrebbe essere invece un inestimabile presenza, potrebbe dare il giusto gusto alla realtà quotidiana in una famiglia, in un contesto sociale integrato, in una comunità che abbia gli strumenti per valorizzare la persona con diversabilità e per dare la possibilità a questa persona di partecipare con il suo apporto alla vita collettiva.

Sport adattati, speciali, integrati
Se la presenza di un deficit impedisce di giocare abitudinariamente un gioco, ci sono alcune strade possibili. La prima è una non-strada, cioè si smette di giocare: l’handicap in questo caso inteso come svantaggio causato dal deficit, è talmente aumentato che conviene non giocare. È una specie di suicidio del gioco stesso. Ciò avviene perché si assolutizza il gioco, ovvero si ritiene che non sia tanto importante chi gioca e la sua ricerca di piacere e di senso, ma sia importante il gioco stesso. Se non ci sai giocare, amen…torna un’altra volta, torna in un’altra vita, sono problemi tuoi. L’altra strada è il gioco adattato, ovvero giochiamo lo stesso gioco ma cambiando le regole, introducendo degli ausili che permettono comunque di giocare nel modo più simile al gioco originario. Un’ulteriore strada è il gioco speciale, ovvero si inventa un gioco che una persona con deficit riesce a fare, un gioco completamente nuovo e originale. Sto riproponendo la classificazione delle discipline sportive per disabili: le specialità degli sport adattati (il basket in carrozzina eccetera); gli sport speciali (il torball, ad esempio, giocato solo dai ciechi). Esiste una terza distinzione: gli sport integrati, giocati sia da atleti normodotati che diversabili (ad esempio il calcio in carrozzina e il calcio a sei). Ciò che alla fine è essenziale è il giocare, non l’insieme dei giochi storicamente esistenti. Giocare ovvero sperimentare la bellezza nel gioco, chiamiamolo il piacere del gioco.

Handicap, deficit e piacere
Nei giochi con regole il piacere è dato da un’equilibrata interazione tra handicap e regole e l’handicap è determinato dalla connessione tra le abilità-potenzialità del giocatore e le regole (il limite). Come si è detto prima, se l’handicap aumenta troppo o diminuisce troppo non ci si diverte. Esempio: tra due giocatori di scacchi ci si diverte quando i giocatori hanno le stesse abilità visto che le potenzialità, nel senso dei pezzi in campo, sono uguali. Il divertimento nasce da un confronto possibile tra due giocatori, tra due abilità. Se un maestro di scacchi gioca con un dilettante può trarre piacere per molti motivi, ma da un punto di vista strettamente scacchistico non si può più di tanto divertire perché vince facilmente. Per lo stesso motivo il dilettante si sente schiacciato dalla superiorità del maestro, e va incontro ad un risultato scontato della partita. È interessante notare che se in questo caso affibbiamo un deficit al maestro, togliendogli una regina e privandolo così di forze “materiali”, allora forse questo riequilibra le sorti della partita, aumentando l’handicap-difficoltà del maestro e diminuendo l’handicap del dilettante. Paradossalmente, in questo caso, al deficit non corrisponde in realtà un handicap come svantaggio, ma un handicap più gestibile, meglio distribuito tra i giocatori.
L’handicap aumenta il piacere della partita, perché il risultato non è più scontato. Un altro caso in cui si può tentare di equilibrare l’handicap in presenza di un deficit si verifica quando, in una partita tra due giocatori equivalenti in abilità, togliamo una torre ad uno ma la togliamo anche all’altro. La somma di due deficit tra due avversari ricrea una situazione di equilibrio. Possiamo dire che il significato del deficit dipende dalla qualità dell’handicap-difficoltà del gioco, dalla gestibilità di questo handicap. Arriviamo al caso limite in cui il deficit del maestro (che gioca senza la regina contro un dilettante) aumenta il piacere del gioco, equilibra le sorti della lotta tra Bianco e Nero, rende l’handicap-difficoltà gestibile. In conclusione possiamo dire che dal punto di vista del gioco e dello sport sia il deficit che l’handicap acquistano nuovi significati o potremmo dire vengono visti nel loro giusto significato, che cambia a seconda della nostra creatività nel trovare il sistema di regole che valorizzi entrambi. Dall’altro lato anche lo sport, così spesso mercificato e degradato al più bieco agonismo, ha bisogno di essere ripensato e rivissuto secondo quelli che sono i suoi più profondi valori. Sicuramente anche il prossimo anno organizzeremo Sportivamente e il concorso per le scuole Inventa e racconta un gioco e quindi…lunga vita al Grande Bastardo!

Scacco al re

L’equipe di animatori-educatori, diversabili e non, del Progetto Calamaio nel suo lavoro viaggia in tutta Italia per incontrare gli alunni delle scuole. Negli ultimi anni però abbiamo realizzato una ludoteca presso i locali del CDH a Bologna che abbiamo chiamato l’Officina del Mare. Bologna è una città bellissima: l’unica cosa che gli manca in effetti è il mare ed è per quello che abbiamo creato questo spazio di incontro per bambini ma anche per i loro genitori: per darci la possibilità di navigare insieme, di esplorare isole lontane e soprattutto di mettere in movimento la creatività. Quest’anno i laboratori a tema sono stati dedicati alla danza creativa, alla musica, al massaggio genitore-bambino e agli scacchi. Come sapete gli scacchi non sono un gioco qualsiasi ma per molti sono il Gioco per antonomasia: basti pensare alla complessità che scaturisce in fin dei conti da un elementare sistema di regole, da alcune semplici mosse di pezzi. Ci sono biblioteche dedicate allo studio di questo gioco, libri interi dedicati ad una piccola sfumatura di una variante di apertura… Eppure le mosse dei pezzi sono abbastanza semplici e direi qualsiasi bambino può impararle: certo alcuni fanno più fatica di altri, magari la mossa del cavallo (che salta ad “L” sulla scacchiera) non sempre è così immediata nella sua realizzazione ma prima o poi diventa un gesto naturale. Negli ultimi tre anni ho insegnato a giocare a scacchi ad un ragazzino affetto da sindrome di Down: anche chi ha un deficit intellettivo riesce prima o poi a mettere i pezzi in modo corretto sulla scacchiera, ad impararne i movimenti, le principali regole, fino addirittura ad acquisire elementi di strategia (ad esempio il concetto di sviluppare i pezzi nella apertura, portandoli fuori e lasciando aperte le linee). C’è qualcosa di affascinante negli scacchi che veramente ti cattura: questo ragazzino ha compensato alcuni deficit con un surplus di attenzione, con quel piacere di riuscire a dare scacco al re, di riuscire a mangiare anche un piccolo pedone e il piacere ancora più grande di meditare e di prevedere la futura mossa giusta. Certo in termini assoluti questo ragazzo non riuscirà probabilmente a diventare un forte giocatore, ma sicuramente già adesso sta riuscendo a giocare e a sperimentare al proprio livello il piacere degli scacchi. Gli scacchi sono una disciplina che ha molteplici aspetti ed approcci: innanzitutto è un gioco da tavolo che si gioca in due, come molti altri, divertente come molti altri, con una caratteristica che fa la differenza: vince sempre chi fa meno errori. La situazione di partenza infatti è uguale per entrambi, con un lieve vantaggio per i bianchi in apertura (dato che tocca al Bianco fare la prima mossa): la fortuna negli scacchi può anche esserci, quella che non fa vedere all’avversario la mossa del k.o., ad esempio; ma non è la fortuna della briscola, non è quella dea bendata che anche al giocatore più debole può mettere in mano tutte le carte valide per stravincere. Ecco perché gli scacchi a volte sono stati considerati una vera e propria scienza, dato che è indubbio il contenuto logico sotteso alla previsione delle mosse e più in generale all’impostazione dei principi strategici. Il fatto che il computer possa giocare a scacchi e battere il campione del mondo, da l’idea di quale forza logica ci sia sotto. In realtà il giocare a scacchi del computer e quello umano funzionano in modo molto diversi, si somigliano come si somigliano una volata con l’automobile ed una corsa a piedi. Il fatto che una macchina possa battere un essere umano non inficia il valore del giocare a scacchi, che in primo luogo è un confronto tra due giocatori, tra la forza della loro logica ma anche del loro carattere e in fin dei conti della loro fisicità. Ecco perché gli scacchi sono anche uno sport (con una forte componente agonistica), come ha scoperto negli anni ’50, uno dei suoi campioni del mondo, il sovietico Botvinnick, che si sottoponeva a dei veri allenamenti fisici per sopportare la tensione della sfida, riuscire a concentrarsi nella confusione…. Per ultimo, ma in realtà secondo me è la prima ragione per cui si gioca, gli scacchi emanano bellezza e stile, e per molti sono una vera e propria arte. In nessun altro gioco ci troviamo di fronte ad una tale bellezza di combinazioni, grazia ed eleganza nel movimento dei pezzi. Ogni campione ha uno stile, spesso riconoscibile: chi aggressivo, chi difensivo, chi posizionale, chi prettamente combinativo… Dalla somma di tutti questi aspetti, dalla completezza direi di questa disciplina, scaturisce una indubbia valenza educativa di questo gioco (non a caso in Russia viene insegnato nelle scuole, essendo sport nazionale, e non è ancora un caso che tutti i campioni del mondo, eccetto l’americano Fischer, siano stati proprio sovietici!).

Forza e debolezza

Quest’anno abbiamo iniziato il laboratorio d scacchi con una decina di bambini delle elementari (c’è però anche un fratellino di uno di essi che ha quattro anni…forse un po’ giovane, però vari campioni del mondo hanno iniziato a giocare proprio a quella età!). Per chi si occupa come noi di riduzione dell’handicap-svantaggio, valorizzazione dell’handicap-difficoltà, educazione alla diversità, i punti di contatto con l’insegnamento del gioco degli scacchi sono tantissimi: ci vengono offerti, direi naturalmente, una molteplicità di spunti interessanti. Innanzitutto l’abc, ovvero il movimento dei singoli pezzi: la considerazione di partenza è che ogni pezzo si muove in un modo suo peculiare, che lo rende unico. Nelle fiabe che proponiamo ai bambini delle materne e delle elementari, facciamo sempre una grande attenzione al concetto che ogni animale è diverso dall’altro ed è contento per com’è: la farfalla vola ma non come l’uccellino, ed entrambi si muovono molto diversamente dalla tartaruga o dalla rana. Non esiste un modo unico di muoversi, di parlare, di cantare: ognuna di queste modalità ha delle proprie caratteristiche anche in termini di bellezza. Ogni pezzo degli scacchi si muove in un proprio modo e per questo motivo ognuno ha una sua “forza” e una “debolezza”. Il pezzo in assoluto più debole è anche quello più importante: il Re ha paura di tutto, perfino un “pedoncino” che si fa impertinente e si avvicina senza paura (anche perché magari è appoggiato-difeso da un altro pezzo) lo obbliga a spostarsi. Diciamo che è il pezzo più sensibile, che vale la pena affrettarsi a difendere fin da subito con un arrocco, ovvero la disposizione di difesa per eccellenza. Mentre nello svolgimento della partita si può dire che il Re sia una preoccupazione, ed ogni pezzo è disposto per difenderlo ed attaccare quello avversario, nel corso del finale il Re, come si dice, diventa un pezzo, diventa una risorsa solo quando sulla scacchiera il grosso delle truppe ha lasciato il campo. Ciò introduce ad un altro principio di base degli scacchi: il valore dei pezzi non è mai dato in assoluto, ma deriva dalla posizione degli stessi sulla scacchiera, dalla loro particolare disposizione. Questo è un aspetto veramente fondamentale, perché ciò che distingue un bravo giocatore da uno mediocre è la bravura nel disporre e posizionare i pezzi sulla scacchiera in modo tale da renderli efficaci e forti. Il valore-forza dei pezzi convenzionalmente viene definito in base al valore del pedone, che è uguale ad 1: il cavallo e l’alfiere valgono 3, la torre 5 e la Regina 9. Ma negli scacchi sono anche vere le seguenti considerazioni: in genere un alfiere è molto più forte di un cavallo se siamo nella fase finale della partita, dove ha modo di dispiegare la sua capacità di correre in lungo e in largo sulla scacchiera; il cavallo invece in genere è molto forte nella fase centrale della partita, quando in un groviglio-rovo di pezzi incastrati l’uno nell’altro, ha la possibilità, saltando, di muoversi molto più liberamente di un alfiere o di una donna o torre; e così via. Questa ginnastica mentale, a cui tutti gli scacchisti sono abituati, di costantemente monitorare il valore dei loro pezzi facendo i conti con la loro posizione, è molto utile anche in situazioni di handicap, dove ciò che appare una debolezza può anche diventare forza, o parallelamente, soprattutto dove si presentino dei casi di normodotati gravi, c’è una forza che proprio perché tale si presenta anche come debolezza. Normodotati gravi sono quelli che non riescono ad andare oltre il naso della loro abitudine, che non sanno affrontare situazioni e sfide nuove, che non sanno trovare altre strade per raggiungere gli stessi obiettivi. Gli scacchi sono naturalmente una palestra in questa senso, perché costantemente il giocatore costruisce il suo gioco sulla base di principi strategici o nell’intento di disseminare di trappole e trabocchetti il territorio, per catturare anche solo un pedone dell’avversario. Solo il giocatore che sa “leggere” la situazione, andando oltre la constatazione puramente materiale e quantitativa dei pezzi, consapevole invece della qualità, che discende sempre da un vantaggio posizionale, riuscirà ad avere ragione dell’avversario. Solo il giocatore che sa valorizzare le proprie abilità diverse, non chiuso grettamente sul semplice dato materiale ma che sa concentrarsi sulle potenzialità della posizione, sa trovare la strada della vittoria: accade di sovente che un giocatore in svantaggio materiale, cioè che ha dei pezzi in meno, dei deficit, rispetto all’avversario, possa vincere la partita perché valorizza ciò che ha, piuttosto che concentrarsi su ciò che non ha più. L’attenzione al contesto, anche in questo caso, è fondamentale per dare significato e valore ai singoli componenti del gioco, che non vanno mai isolati e considerati in termini assoluti. Ad esempio in un contesto dominato dal paragone e dal confronto con la situazione di “normalità”, una carrozzina rischia di essere considerata una sedia elettrica: in un contesto sportivo, dove abbiamo cioè costruito un sistema di regole che valorizza la carrozzina come strumento di gioco, ecco che diventa un attrezzo-ausilio alla stessa stregua dell’asta nel salto con l’asta o degli sci nello slalom speciale. Il valore dei singoli pezzi, come il ”valore” dell’handicap, non è mai dato una volta per tutte ma è dato dal contesto. Un piccolo pedone, se valorizzato, risolve una partita, arrivando all’ultima traversa, alla promozione, trasformandosi da ranocchio in una Regina.

La Signora Locomotiva

Il lavoro triennale svolto dal Progetto Calamaio nel territorio della Bassa Bresciana ha coinvolto 57 classi di 25 scuole diverse, dalle scuole dell’infanzia fino alle medie superiori incluse, per un coinvolgimento diretto di 18 comuni (Alfianello, Bagnolo Mella, Brandico, Dello, Gambara, Ghedi, Gottolengo, Isorella, Leno, Lograto, Maclodio, Manerbio, Pontevico, Pralboino, San Paolo, Seniga, Verolanuova).
È stata un’esperienza straordinaria, frutto dell’équipe di animatori ma soprattutto della disponibilità e collaborazione del corpo docente, del supporto dei Direttori Didattici e dei Capi d’Istituto e dell’entusiasmo degli alunni e degli studenti che hanno realizzato moltissimo materiale di documentazione (disegni, temi, storie, giochi, eccetera). Abbiamo raccolto questo materiale e cercato di riversarlo in una pubblicazione, La signora locomotiva (a cura di Roberto Ghezzo e Roberta Giacobino, con la splendida grafica realizzata da Miranda Di Pietro) al fine di testimoniare da un lato l’efficacia del lavoro educativo svolto e dall’altra la ricchezza e varietà delle esperienze realizzate, collegate nel loro insieme dalle finalità perseguite, ma anche diverse per metodologia, strumenti e materiali prodotti. Tale pubblicazione è pensata innanzitutto per essere piacevole e di pronta fruibilità (anche per i bambini e i ragazzi), un buon strumento di informazione per chi non ha mai conosciuto il Progetto Calamaio.
Vogliamo ricordare la nostra collega animatrice Cinzia Pirazzini, che è scomparsa di recente, e che dall’inizio alla fine di questi tre anni di lavoro ha infuso nell’incontro con bambini, insegnanti e genitori, tutta la sua grande umanità e simpatia, rendendo il Progetto qualcosa di unico e bello. Questa pubblicazione è stata possibile grazie al contributo dell’Assessorato ai Servizi Sociali del Comune di Ghedi.
Per chi sia interessato ad avere una copia de “La signora locomotiva” la può chiedere direttamente  a noi, telefonando allo 051/641.50.05 o mandando un’e-mail a questo indirizzo: cdh@accaparlante.it

Introduzione: gioco e “handicap”

Esistono due accezioni della parola handicap: una sicuramente negativa, tradotta con i termini svantaggio e ostacolo. In questa accezione l’handicap va per quanto possibile ridotto, va combattuto con tutta la creatività di cui siamo capaci.
Ma un’altra accezione della parola ha caratteristiche di positività e la traduciamo con la parola difficoltà. Positiva perché se noi riusciamo a connettere l’handicap/difficoltà a un gioco, allora scopriamo il valore dell’handicap, valore che non esiste in sé ma esiste in quanto inscritto in un sistema di regole, in un sistema di gioco. L’handicap è come il sale, elemento non affrontabile in sé ma fondamentale se si riesce a connettere ad altro, ai cibi: da ciò trae il suo valore. Già da tempo diciamo che dell’handicap in quanto tale non ci importa nulla semplicemente perché, in sé, l’handicap non ha senso. L’indifferenza, tanto combattuta e stigmatizzata, verso il cosiddetto “mondo dell’handicap” è giustificata, anche solo per il fatto che questo mondo non ha senso di esistere, o per meglio dire è disabitato.
Se la presenza di un deficit impedisce di giocare abitudinariamente un gioco, esistono alcune strade alternative. La prima è una non-strada, cioè si smette di giocare: lo svantaggio causato dal deficit è talmente aumentato che conviene non giocare. È una specie di suicidio del gioco stesso. Ciò avviene perché si assolutizza il gioco, ovvero si ritiene che non sia tanto importante chi gioca e la sua ricerca di piacere e di senso, ma sia importante il gioco stesso. L’altra strada è il gioco adattato, quindi giochiamo lo stesso gioco ma cambiando le regole, introducendo degli ausili che permettono comunque di giocare nel modo più simile al gioco originario. Un’ulteriore strada è il gioco speciale, cioè si inventa un gioco che una persona con deficit riesce a fare, un gioco completamente nuovo e originale. Sto riproponendo la classificazione delle discipline sportive per diversabili: le specialità degli sport adattati (ad esempio il basket in carrozzina); gli sport speciali (come il torball, giocato solo dai ciechi). Esiste una terza area: gli sport integrati, giocati sia da atleti normodotati che diversabili (ad esempio il calcio in carrozzina).
Ciò che alla fine è essenziale è il giocare, non l’insieme dei giochi storicamente esistenti. Giocare è sperimentare la bellezza nel gioco, chiamiamolo il piacere del gioco.
Nei giochi con regole il piacere è dato da un’equilibrata interazione tra handicap e regole, e l’handicap è determinato dalla connessione tra  le abilità/potenzialità e le regole (il limite). Se l’handicap aumenta troppo o diminuisce troppo non ci si diverte. Esempio: tra due giocatori di scacchi ci si diverte quando i giocatori hanno le stesse abilità visto che le potenzialità, nel senso dei pezzi in campo, sono uguali. Il divertimento nasce da un confronto possibile tra due giocatori, tra due abilità. Se un maestro di scacchi gioca con un dilettante può trar piacere per molti motivi, ma da un punto di vista strettamente scacchistico non si può più di tanto divertire perché vince facilmente. Per lo stesso motivo il dilettante si sente schiacciato dalla superiorità del maestro, e va incontro a un risultato scontato della partita. È interessante notare che se in questo caso attribuiamo un deficit al maestro, togliendogli una regina e privandolo così di forze “materiali”, allora forse questo riequilibra le sorti della partita, aumentando l’handicap-difficoltà del maestro e diminuendo l’handicap del dilettante. Paradossalmente in questo caso al deficit non corrisponde in realtà un handicap come svantaggio, ma un handicap più gestibile, meglio distribuito tra i giocatori. L’handicap aumenta il piacere della partita, perché il risultato non è più scontato.
L’approfondimento di questo numero di “HP-Accaparlante” è dedicato proprio alla possibilità di giocare a scuola: con cosa?  Proprio con l’handicap. La maestra Elisabetta Zanardi ci guiderà passo dopo passo nel racconto dell’incontro tra Stefania Baiesi, animatrice diversabile del Progetto Calamaio, e i bambini della sua classe. Questo percorso educativo e di animazione, costellato di giochi che sono assolutamente riproponibili in ogni classe, insegna che se si ha creatività e il coraggio dell’integrazione, il risultato non è più scontato… e vincono tutti!

La banca del Terzo Settore

Poco tempo fa, alla libreria Feltrinelli International di Bologna, ho assistito a un fatto veramente interessante. Una ragazza aveva preso in mano una carta geografica del mondo, ma aveva notato una cosa molto singolare: in alto c’era il sud, in basso il nord. Vedere i paesi “capovolti” faceva un effetto straniante, come se li si vedesse per la prima volta. Assieme al commesso abbiamo un po’ elucubrato sulla cosa, pensando a un errore, e invece era assolutamente voluto, era proprio la carta del mondo vista dal sud, o tenendo il sud come punto di riferimento.
Penso che sia molto sano per tutti questo genere di salti di prospettiva (pensate solo anche al maestro Keating nel film L’attimo fuggente, che invita i suoi scolari a salire sopra i banchi e a vedere le cose da un altro punto di vista). Questo genere di salto provoca delle crisi, anche crisi di identità; nel secolo XVI, in Europa, ne abbiamo dovuti fare ben tre: la crisi dell’europacentrismo con la scoperta delle Americhe, la crisi dell’universalismo della Chiesa Cattolica con la nascita delle Chiese Protestanti, la crisi del sistema tolemaico e del mondocentrismo, con la scoperta che è la Terra che gira intorno al Sole.
Oggi potremmo dire che è il nostro sistema capitalistico a stare al centro del nostro sistema di vita, sistema che come vediamo tutti crea enormi disuguaglianze perché soprattutto ha preso il controllo della politica, che di fatto ne è asservita. Solo in questi ultimi due o tre decenni è cresciuta la consapevolezza che invece dobbiamo assolutamente trovare qualcosa di alternativo, pena la fine dell’equilibrio ecologico che regola il nostro pianeta. La messa in crisi del concetto di sviluppo, lo scoprire (attraverso economisti come Serge Latouche) che il concetto di sviluppo sostenibile è un ossimoro e una contraddizione in termini, e che invece bisogna tornare all’equilibrio e armonia con l’ambiente, ci proviene soprattutto da pensatori, saggi e con lo stesso stile di vita che appartiene ad alcune zone del sud del mondo, ancora non avvelenate dal pensiero unico dominante.
Una possibile svolta la si può intravedere in una maggiore consapevolezza che può essere raggiunta dal cosiddetto Terzo Settore, ovvero dal privato sociale, non profit, da una maggiore autocoscienza nei propri mezzi e potenzialità di tutta la società civile, spesso mal rappresentata a livello politico e prostrata dai poteri forti, dalle lobby di potere economiche.
A Bologna è nata l’idea di una Banca del Terzo Settore (BTS), ovvero una banca del tempo e risorse tra le realtà facenti parte del Terzo Settore, di cui inizierà una sperimentazione nel 2006. La Banca del Terzo Settore nasce dall’esigenza di potenziare il senso di appartenenza di queste realtà a un settore che spesso soffre di un senso di sudditanza psicologica rispetto al Pubblico o qualche volta di un senso di inferiorità in termini di risorse rispetto al Privato.
Questa Banca si vuole proporre come meccanismo di condivisione di domande concrete e risposte efficaci, dove le risposte siano date proprio all’interno del Terzo Settore stesso, ottimizzando le buone prassi e mettendo in sinergia la ricchissima offerta di beni e servizi delle organizzazioni non profit.
Ogni realtà non profit sceglie quindi di segnalare le risorse che può mettere in rete e quali sono i suoi bisogni. Non si tratta solo di fare informazione ma di informare per scambiare servizi. Facciamo un esempio: spesso capita che organizzare una serata di cinema sia molto difficile e dispendioso in termini economici. Questo perché non si sa che un’associazione avrebbe anche la sede adatta, che quell’altra ha il videoproiettore, che un’altra ha le sedie, quell’altra ancora avrebbe il pubblico pronto e che non aspetta altro… Si tratta di creare un meccanismo per cui ognuna di queste associazioni abbia interesse a mettere in rete queste risorse e bisogni.
La BTS offre quindi la possibilità per le realtà del Terzo Settore (ma non solo, perché anche molte scuole e molte amministrazioni locali potrebbero essere interessate!) di offrire in rete beni e servizi ma anche i propri bisogni/necessità, permettendo un incontro concreto e creando sinergie con gli altri aderenti alla BTS. Come nella Banca del Tempo, ciò dà luogo a un meccanismo di crediti e debiti che trova il suo equilibrio nel continuo scambio tra gli aderenti, scambio che andrà monitorato e controllato dal massimo organismo istituzionale del Terzo Settore, ovvero il Forum.
Il potenziamento di questa economia di scambio non monetaria potrebbe tranquillamente essere esteso al territorio regionale e nazionale tramite il tam tam dei Forum; si potrebbe creare nel tempo una rete delle banche a livello nazionale. A differenza della territorialità molto locale della Banca del Tempo, dove il meccanismo della fiducia funziona per gruppi afferenti a piccole comunità, la BTS, dato che i soggetti aderenti sono associazioni, cooperative, eccetera, ha un territorio di riferimento molto più ampio: ad esempio, una associazione di Caserta potrebbe tranquillamente dialogare e scambiare con una di Milano.
Questi scambi si potrebbero monitorare al fine di individuare le buone prassi, le idee vincenti e ripetibili che si attuano naturalmente tra le realtà del Terzo Settore, e anche in questo il ruolo del Forum è decisivo.
La rete di fiducia che tiene in piedi una banca del tempo, nella BTS sarebbe potenziata dal fatto che i soggetti sono realtà associative che ci penserebbero due volte prima di offrire un servizio debole, prima di venire meno agli impegni presi, soprattutto di fronte al Forum del Terzo Settore, che è il massimo organo presente sul territorio, e a tutti gli associati; varrebbe la pena, con molta cautela (e con l’aiuto anche di Banca Etica) creare una sorta di meccanismo di valutazione attivato da un comitato della BTS, istituito dal Forum, per dirimere le controversie, o magari individuare delle emergenze e stabilire alcuni obiettivi sociali per quel territorio da affrontare tutti insieme.
Una cosa ottima della Banca del Terzo Settore (ma che potrebbe anche chiamarsi Banca Comune, Banca del Bene Comune, Banca del mutuo aiuto, Banca dello scambio di utilità sociale, ecc.) è la possibilità per realtà provenienti da campi diversi (disabilità, cultura, sport, minori, immigrazione, ecc.) di collaborare e di scambiarsi servizi e beni sulla base di risorse e bisogni concreti: ciò raggiunge l’obiettivo di rompere gli steccati.
Mentre la Banca del Tempo si differenzia giustamente dal volontariato puro, nella BTS ci può essere molto di volontariato, soprattutto quando il singolo individuo dona il proprio bene o servizio alla associazione di riferimento, guadagnando crediti per lei. Certo è che se poi le associazioni tra loro si mettono d’accordo per creare una sorta di pari e patta tra scambi di servizi ancora meglio: a livello di BTS ciò non creerebbe crediti e debiti ma si raggiungerebbe lo scopo.
L’esperienza della BTS, per la sua natura, credo che debba innanzitutto nascere e nel tempo perfezionarsi sulla base anche degli errori fatti; l’esito del suo successo sta nella nostra capacità di coinvolgere più realtà possibili del Terzo Settore, dando fiducia al sogno di costruire una economia di scambio non monetaria che sempre più valorizzi le potenzialità enormi e la capacità di dialogare dei soggetti che hanno a cuore il bene e l’interesse di tutti.

La canzone-gioco

L’utilizzo della canzone nel Progetto Calamaio (l’attività di animazione ed educazione alla diversità e all’handicap che ci porta nelle scuole) è fondamentale perché ci permette di giocare con la musica mediando l’incontro diretto tra il bambino e l’animatore diversabile. In particolare nella Canzone del nome, che viene generalmente fatta durante il primo incontro nelle scuole, ci si presenta con una piccola filastrocca. Eccone un esempio, condotto da Ermanno, uno degli animatori diversabili del Progetto Calamaio:

LA CANZONE DEL NOME

 

Ermanno: IO MI CHIAMO ERMANNO
E SCRIVO AL COMPUTER COSI’ (fa il gesto)
Coro dei bambini: LUI SI CHIAMA ERMANNO
E SCRIVE AL COMPUTER COSI’ (ripetono esattamente il gesto fatto da Ermanno)

Coro: MA CHE BELLA COMPAGNIA
TUTTI INSIEME IN ALLEGRIA,
TUTTI INSIEME NOI CANTIAM
E COSI’ CI PRESENTIAM

La canzone successivamente prosegue con la presentazione di tutti i giocatori-cantanti presenti. I bambini devono fare attenzione al gesto concreto, devono ripeterlo il più possibile come lo fa Ermanno. Ciò è importante perché i bambini vengono a conoscenza che, nonostante il deficit, Ermanno scrive al computer: possono nascere altre domande (che cosa scrivi? dove? eccetera). Si può per esempio scoprire che Fabio, invece, scrive al computer ma in un altro modo, con il movimento del piede, con un gesto diverso, collegato alla creatività dell’essere diversamente abile. I bambini scoprono che ognuno costruisce la propria comunicazione, ognuno tira un calcio a suo modo, o preferisce disegnare una cosa piuttosto che un’altra. Attraverso questa canzoncina-gioco si scopre che ognuno di noi è uguale e diverso, comunica come tutti gli altri ma a suo modo, e che questa ricerca e originalità sono la ricchezza del genere umano. Stefania prende in mano quell’oggetto allungando il braccio in un certo modo, e non in un altro: ognuno di noi si muove in un certo modo specifico e diverso…

La signora locomotiva

Le canzoni utilizzate nel Progetto Calamaio sono come dei meccanismi-giocattolo, o meglio dei sonori parco-giochi per coinvolgere il più possibile tutta la classe. Un altro esempio è quello de La signora locomotiva, dove Stefania, la signora Locomotiva appunto, gira con la sua carrozzina mentre tutti in cerchio cantano un ritornello (“La signora locomotiva è arrivata per te e fa ciuf ciuf”) e, quando si ferma la musica, anche Stefania si ferma di fronte a uno dei bambini.
Stefania: “Ciao, come ti chiami?”
Bambino: “Luigi”
Stefania: “Luigi, vuoi diventare un mio vagoncino?”
Bambino: “Sì!”
E il bambino-vagoncino va subito dietro la carrozzina di Stefania per spingerla. La canzone riprende e quando si ferma ecco il dialogo con un altro bambino che diventa vagoncino… e così via. Il treno diventa sempre più lungo, finché tutta la classe è stata coinvolta.
Anche qui il meccanismo della ripetizione, della formula magica, è molto importante perché regola il gioco ed è facilmente memorizzabile e riconoscibile dal bambino. Ciò permette quindi quel giocare insieme e il divertirsi con la diversità che sono l’obiettivo primario nell’incontro con l’équipe del Progetto Calamaio: se infatti non c’è divertimento e coinvolgimento, qualsiasi contenuto di carattere educativo diventa meno interessante, meno colorato e incisivo. Il divertimento, nell’animazione, non è un componente secondario ma la base solida su cui si possono costruire poi anche percorsi di conoscenza reciproca, su cui si costruisce la fiducia e il dialogo.

C’era una volta

Provate a immaginare ad esempio quali gesti si possono fare per ognuno di questi versi (i versi dispari sono cantati da un solo personaggio, i pari di risposta sono cantati dalla classe).

C’ERA UNA VOLTA
VOGLIO SENTIRE
C’ERAN DUE VOLTE
FAMMI CAPIRE
C’ERAN TRE VOLTE
FAMMI PARLARE
E C’ERAN QUATTRO GATTI AD ASCOLTAR, E C’ERAN CINQUE
CHE CINCINSCHIAVAN
E C’ERAN SEI
CON LA POLENTA
SETTE SPOSE PER SETTE FRATELLI,
NON C’ENTRA NIENTE CON LA MIA STORIA
LA VUOI SENTIR SI’ O NO?
NO!!!!
COME?
SI’… NI… BOH
LA VUOI SENTIR SI’ O NO? LA VUOI SENTIRE DALLA MIA BOCCA?
LA FAI CANTATA O A FILASTROCCA?
LA FACCIO A RIMA BACIATA…A BIBI A BIBI A
LA STORIA E’ QUESTA QUA!

Il meccanismo è quello presente in molte altre musiche, non ultimo il samba di Bahia, nella sua versione più da balera, che si chiama pagode. A ogni verso cantato corrisponde un gesto che i ballerini devono mimare. Se ne ha un esempio anche nei Blues Brothers, nella canzone cantata da Ray Charles, o, per andare nei ricordi più nostrani, nella canzone scout “Ci son due coccodrilli, un orang-utang…”.
Le canzoni gioco sfruttano tutte le infinite possibilità ritmiche ed espressive presenti nella musica: in genere amiamo, una volta che i bambini hanno memorizzato bene la sequenza, velocizzare i gesti e versi, rallentarli, procedere a scatti, aumentare o diminuire il volume, introdurre nuove sonorità e timbriche utilizzando la voce in modo diverso o differenti strumenti…

La canzone-fiaba

Le canzoni possono riassumere un’intera fiaba, che fa da sfondo a tutti gli incontri nel percorso che viene attivato nelle scuole dell’infanzia ed elementari. Eccovene una che utilizziamo nelle classi dove proponiamo la fiaba C’è cavallo e cavallo, di Joseph Wilkon, che è il racconto di come due cavalli, un puledro e un cavallo di fiume (ovvero un ippopotamo), decidono di trasformarsi con scarsi risultati, l’uno nell’altro. Anche per questa canzone divertitevi a immaginare con quali gesti accompagniamo quasi ogni parola: con un po’ di fantasia vedrete che non è difficile.

C’E’ CAVALLO E CAVALLO

C’ERA UNA VOLTA UN IPPOPOTAMO E UN CAVALLO,
UN GIORNO IN RIVA AL FIUME
SI INVENTARONO UN BEL BALLO
UNO SULLA PANZA FACEVA LA SUA DANZA
E L’ALTRO SCALPITANDO GIRAVA IN TONDO IN TONDO
GALOPPA E RIGALOPPA ANDANDO PER IL MONDO
MAI AVEVA VISTO UN CAVALLO COSI’ TONDO,
E L’ALTRO CHE NEL FIUME ERA STATO TUTTO IL TEMPO
MAI AVEVA VISTO UN CAVALLO COSI’ SVELTO.

Rit. C’E’ CAVALLO E CAVALLO (2 VOLTE)
MA TU CHI SEI, MA COME FAI
A RISOLVERE I TUOI GUAI
TU CHE MANGI NELLA GIORNATA
ALGA FRESCA O INSALATA
C’E’ CAVALLO E CAVALLO (2 VOLTE)
BATTI IL RITMO, TIENI IL TEMPO
NON ANDARE TROPPO LENTO
CON LA PUNTA, CON IL TACCO
FAI L’INCHINO CON LO STACCO…

SALTANDO E NUOTANDO, SI CHIESERO A UN BEL PUNTO
CHI ERA QUI IL CAVALLO: IL MAGRO O IL TONDO?
POI UNA PROMESSA O FORSE UNA SCOMMESSA
FRA UN ANNO RITROVARSI E FAR LE COSE UGUAL.

MA CHI E’ QUEL CICCIONE
CHE SALTA, CHE CORRE,
CHE HA SEMPRE IL FIATONE LAGGIU’
E L’ALTRO CHE ANNASPA, CHE ANNEGA,
CHE SBUFFA NELL’ACQUA LO SAI SOLO TU
MA SE GUARDI BENE CHISSA’ SE CONVIENE
AVER FATICATO COSI’
NON SO PIU’ NUOTARE, NE’ PIU’ GALOPPARE
E ALLORA CHE FARE, CHE DIRE, PENSARE
CHE IN FONDO…
(Rit.)

Questo tipo di canzoni diventano un lasciapassare per la familiarità, la sintonia e complicità che si creano tra i bambini e gli animatori. In questo modo, attraverso il ricordo di una canzone, si possono recuperare le tappe fondamentali del percorso, la canzone diventa il più duraturo segno del nostro passaggio in quella classe.
La canzone come qualsiasi gioco, ha una finalità in se stessa, depura l’incontro con i bambini da qualsiasi pretesa di dare una morale, di dare un significato educativo a tutto quello che facciamo, che è uno dei tipici passi falsi che fa l’educatore, quando si trova un po’ ossessionato dall’ansia dei risultati.
Un’ultima osservazione: nella canzone la cosa più importante è la musica e la musicalità delle parole. Eccovi una fanfola, ovvero una poesia metasemantica di Fosco Maraini, musicata da Stefano Bollani e Massimo Altomare. La musica ovviamente non potete conoscerla, ma quasi quasi ve ne potete fare un’idea leggendo a voce alta questi versi immaginifici, dove il significato ve lo giocate voi. Buona cantata!

 

Il giorno ad urlapicchio
di Fosco Maraini

Ci son dei giorni smègi e lombidiosi
col cielo dagro e un fònzero gongruto
ci son meriggi gnàlidi e budriosi
che plògidan sul mondo infrangelluto,

ma oggi è un giorno a zìmpagi e zirlecchi
un giorno tutto gnacchi e timparlini,
le nuvole buzzìllano, i bernecchi
ludèrchiano coi fèrnagi tra i pini;

è un giorno per le vànvere, un festicchio
un giorno carmidioso e prodigiero,
è il giorno a cantilegi, ad urlapicchio
in cui m’hai detto “t’amo per davvero”.

Maraini Fosco, Gnòsi delle Fànfole, Torino, Baldini&Castoldi, 1994