Skip to main content

autore: Autore: Simona Garbarino e Stefania Canepa

14. Percorsi di sostegno alla genitorialità

Se pensi di poter fare
una cosa falla.
Nell’azione c’è genialità,
potenza, magia.
(Wolfgang Goethe, Faust, Milano, Mondadori, 2003)

L’esperienza formativa si amplia: su suggerimento della d.ssa Umberta Cammeo il gruppo di formazione decide di intraprendere un percorso che supporti il lavoro svolto dagli “ambulatori dei Piccoli”.
A sostegno delle giovani famiglie, la Coop. Genova Integrazione a marchio Anffas offre servizi riabilitativi rivolti ai bambini e propone ai genitori, oltre al counseling familiare, anche l’opportunità di incontri strutturati a carattere informativo e formativo.
La d.ssa Cammeo propone al gruppo di conduttori di mettere a disposizione la risorsa del laboratorio per sviluppare un progetto di sostegno ai giovani genitori degli ambulatori.
La perplessità iniziale riguarda l’impostazione del nostro lavoro che non ha natura terapeutica, né informativa.
L’obiettivo sarà dunque quello di costruire, intorno al genitore, un setting esperienziale che accolga, contenga, sostenga per poi ritradurre l’esperienza emotiva e conoscitiva attraverso una pratica dinamica.
Il laboratorio diventa, soprattutto, uno spazio di “decompressione” dove elaborare e approfondire temi legati alla comunicazione verbale e non verbale, alla relazione empatica, all’espressività, al potenziamento della propria creatività.
Il percorso nasce nel settembre 2009 come progetto-pilota e ha caratteristiche di sperimentabilità: è stato individuato un numero limitato di famiglie che si presterà, per l’occasione, a una sperimentazione attiva, insolita all’interno degli interventi di sostegno storicamente proposti dalla cooperativa.
Si prevede un ciclo di sei incontri a cadenza mensile.
Attraverso le proposte si intende creare uno spazio-tempo dove riconoscersi, per stimolare nei partecipanti consapevolezza di sé, capacità di osservare e di assumere punti di vista differenti, capacità di re-azione, flessibilità ed efficacia nella relazione.
L’idea “forte” è quella di sganciarli dal ruolo esclusivo di “genitore di un bambino disabile”, per spostare l’attenzione dal “problema” e offrire uno spazio mentale, esperienziale ed elaborativo per attivare nuove energie.
L’approccio utilizzato rimane principalmente caratterizzato dal percorso non verbale (sonoro, arteterapico, videoarteterapico, corporeo-relazionale) e dal verbale attraverso l’utilizzo del linguaggio teatrale e metaforico.
L’importanza e la delicatezza di questo intervento ha visto più che mai necessario l’apporto di una sistematica supervisione, in grado di sostenere e riorientare efficacemente i conduttori.
La presentazione del lavoro si è rivelata complessa e delicata proprio per la difficoltà di riuscire a tradurre e ad argomentare, in maniera esaustiva, un’esperienza veicolata, principalmente, da percorsi non verbali.
Dopo un’iniziale e prevedibile cautela, l’atteggiamento del gruppo è divenuto via via sempre più disponibile, la qualità della relazione si è significativamente modificata, passando da un lavoro autoriferito a una intenzionale ricerca dell’altro, in uno scambio emotivo in costante evoluzione.
Il lavoro ha condotto i partecipanti alla comprensione degli intenti fondamentali della proposta, ha spostato l’asse dell’intervento dalle problematiche genitoriali alla valorizzazione della singola persona.
Dalla traccia di riflessione proposta a fine percorso, sono emersi spunti e suggerimenti di straordinario rilievo.
La traccia prevede tre semplici domande:
Cosa ti aspettavi?
Cosa hai trovato?
Cosa ti porti via?
Ecco le riflessioni conclusive di Laura Simeone e Luca Palmigiani, due giovani meravigliosi genitori:
“Quello che non mi aspettavo assolutamente era di non toccare mai il ‘problema’, questa cosa mi ha meravigliato.
Tutto avrei pensato tranne che non si sarebbe mai parlato di bambini, mai parlato di figli, mai parlato del nostro ruolo di genitori.
In effetti, forse, questa è stata la marcia in più; perché comunque la presenza del problema è tangibile, però sta lì, un pochino accantonato nel tentativo di affrontare questa cosa attraverso un canale diverso.
Il canale non è quello di parlare, parlarne sempre, di entrare nel vivo della cosa, ma di fare un lavoro su di noi, che ci consenta di mettere in piedi una parte ‘tosta’, sulla quale poi sviluppare tutto il resto.
Questo è stato stupefacente, non avevo molte altre esperienze ma in altri gruppi di aiuto il discorso sul ‘problema’ era sempre molto presente.
Un altro requisito vincente di questa esperienza è stato che i luoghi comuni e le banalità sono stati banditi, e questo non è semplice”.
“Mi porto via una bella consapevolezza, l’aver acquisito la coscienza che c’è una parte di me molto sotterrata, sopita, messa da parte, che però se voglio, con l’aiuto degli altri (perché da soli è molto difficile e non trovi mai il tempo e l’opportunità), lavorandoci, la puoi tirar fuori.
Sapere che c’è, visto che certe volte c’è il sospetto che sia completamente annullata, è una bella sicurezza.
Ora bisogna vedere come fare ad allenarsi, a tenerla viva, però sapere che esiste…
Certe volte è stupefacente come si possa lavorare alla soluzione di un problema per tutt’altre vie e distantissimi, apparentemente, da quello che il problema è”.
Alla luce dei risultati ottenuti, si è fatto tesoro dell’esperienza maturata durante l’attuazione del progetto-pilota, proponendo un nuovo percorso ad altri genitori degli ambulatori.
Il lavoro alla sua seconda edizione, inaugurata nel settembre 2010, si è nel frattempo modificato, anche rispetto alle adesioni che, in questo caso, hanno caratteristica di volontarietà.
Il gruppo dei conduttori inalterato nel suo assetto, ha sviluppato le proposte con maggiore dinamismo e flessibilità, per meglio modularsi ai bisogni, pur mantenendo il rigore dell’originario impianto teorico-metodologico.

12. I laboratori nella formazione degli operatori sociali

Il “corpus” dell’esperienza di laboratorio sprigiona una serie di elementi di riflessione sulla natura pedagogica e trasformativa dell’approccio.
Pensiamo all’opportunità di disegnare un percorso formativo rivolto a operatori sociali (educatori, assistenti di comunità, medici, coordinatori di strutture residenziali), figure fortemente coinvolte all’interno di una relazione di cura e di aiuto. La complessità del compito ci suggerisce di prevedere per i conduttori l’apporto di un tecnico che supervisioni tutto il percorso, seguendone le fasi e gli sviluppi. La d.ssa Umberta Cammeo assume, quindi, il ruolo di supervisore del gruppo dei formatori.
Il percorso si sviluppa su due fronti: da un lato il lavoro sul sé, dall’altro quello specifico sulla relazione di aiuto.
La priorità iniziale è quella di fornire uno spazio di accoglienza e di ascolto, dove l’operatore possa approdare in assenza di giudizio, con la libertà di depositare la stanchezza, la frustrazione, il dubbio, figli di un quotidiano operare “senza rete”.
Questo non significa che lo spazio del laboratorio debba diventare una sorta di “discarica”, dove ognuno si senta libero di gettare il proprio malessere: uno dei compiti primari della formazione sarà quello, infatti, di imparare a contenere e rileggere la propria stanchezza attraverso un processo di “presa di coscienza”.
Il contratto che si andrà a stabilire in apertura lavori, prevederà in questo caso la condivisione di un codice comportamentale ben delineato: si lavora in base alle proprie potenzialità, l’assenza di giudizio viene garantita dal conduttore e tutelata dal gruppo.
La proposta si apre, in prima istanza, sviluppando un percorso rivolto all’indagine pre-espressiva: i partecipanti sono invitati a sganciarsi dal “ruolo” abitualmente assunto nel contesto lavorativo.
Il tentativo è quello di abbandonare tutta una serie di convenzioni comunicative che talvolta rischiano di limitare il potenziale espressivo, condizionando significativamente la spontaneità, l’ascolto, l’efficacia relazionale.
La multiformità dei linguaggi che contraddistingue il laboratorio, guida i partecipanti attraverso una ricerca che si sviluppa individualmente per accedere poi a una dimensione collettiva.
L’esplorazione del proprio potenziale creativo, espressivo, comunicativo, l’incontro “significante” con l’altro, costituiscono un materiale necessario e irrinunciabile per sviluppare un approccio consapevole all’interno della “relazione d’aiuto”.
Il percorso che ogni partecipante intraprende e vive come esperienza personale, deve diventare una possibilità interpretativa “altra” per rileggere il proprio ruolo e il proprio fare.
Le proposte laboratoriali forniscono quindi, contemporaneamente, una duplice occasione: da una parte la ri-scoperta del proprio bagaglio esistenziale, dall’altra la possibilità di rivisitare il training attraverso un’operazione di meta-lettura.
La responsabilità dei conduttori è quella di orientare i partecipanti all’interno di una struttura pratico-teorica che non perda mai di vista gli aspetti etici, metodologici e trasformativi del fare educativo e riabilitativo.
Si “prova” per capire il potenziale propriocettivo, sensoriale, per testarne i limiti oltre che le possibili dilatazioni: si sperimenta la difficoltà della sfida e della rinuncia.
Si esercita la disponibilità all’incontro e all’ascolto, in maniera amplificata, esagerandone il portato emotivo: talvolta l’esperienza comporta fatica ma conduce a una “coscientizzazione” degli aspetti relazionali più sottili.
La nostra proposta formativa si è rivolta, in questi anni, a gruppi provenienti da un’unica struttura o a diverse realtà appartenenti comunque alla stessa cooperativa.
L’intervento all’interno di un team precostituito può presentare alcune criticità.
I partecipanti, spesso colleghi nello stesso contesto, talvolta sono legati da relazioni più o meno consolidate, in alcuni casi condizionati da conflitti latenti, manifesti, riconosciuti, celati.
L’esperienza prevede, anche in presenza di una struttura gerarchica, che il gruppo si esprima in una dimensione di mutua circolarità.
La pluralità dei ruoli ricoperti dai partecipanti può rappresentare una preziosa risorsa, a patto che il gruppo vada a ri-comporsi attraverso un processo di riconoscimento delle complessità individuali.
L’elemento di trasferibilità rappresenta il tratto distintivo di questo tipo di intervento e ne delinea i contorni.
Trasferire la ricerca laboratoriale nella quotidianità del contesto lavorativo, rappresenta un’occasione per ricollocare il proprio “fare”.
I corsisti, a fine percorso, formuleranno una proposta laboratoriale che coinvolga colleghi e conduttori, assumendo così la responsabilità delle conduzioni: la richiesta è quella di porre attenzione alla qualità degli esercizi, agli obiettivi e alle implicazioni che ne derivano.
Il lavoro verrà supervisionato dai formatori e, successivamente, ampliato e inserito in un progetto più esteso da realizzarsi nei vari contesti riabilitativi.
In questi anni la struttura dei laboratori si è plasmata e arricchita, attraverso le esperienze formative di ciascuno.
La riflessione di Riccardo De Ferrari testimonia quanto la ricerca individuale e professionale sia strettamente collegata allo sviluppo e all’approfondimento delle nostre proposte formative.

9. La costruzione di un metodo: valenza formativa del laboratorio teatrale

Non sempre i risvolti di un percorso di questo tipo sono prevedibili o immaginabili; talvolta si è ostaggi del “divenire”, della storia che si dipana, dettata o narrata dal gruppo.
Durante l’esperienza di collaborazione con gli insegnanti coinvolti, ci siamo sorpresi a vicenda nel cogliere la complessità e la ricchezza delle relazioni che, via via, si stabilivano tra i partecipanti.
Il rovesciamento dei ruoli sovvertiva, di volta in volta, gli standard relazionali cui ormai tutti noi abitualmente facciamo ricorso.
Gli insegnanti temevano che una “messa in gioco” paritaria potesse minare la loro “autorità”: improvvisamente avrebbero dovuto spogliarsi di un linguaggio corporeo e verbale preconfezionato e tutelante, per gettarsi in una ricerca destrutturante, all’interno della quale nulla può essere dato per acquisito.
Gli adolescenti che hanno accettato l’invito si sono scontrati con diversi livelli di difficoltà.
I loro insegnanti erano presenti, sotto una veste inusuale, una serie di persone sconosciute, peraltro non troppo “rassicuranti”, andavano a comporre un gruppo di lavoro eterogeneo sotto ogni punto di vista. Qualsiasi strumento prediliga un adolescente per “schermarsi” risultava inutilizzabile: il luogo esigeva verità, generosità, disponibilità.
La relazione con i conduttori si è rivelata di grande importanza nella sua veste di strumento esplorativo ed emancipativo: un’occasione di autoconoscenza attraverso la sperimentazione di strumenti espressivi flessibili e suggestivi.
Il riconoscimento di ciascun individuo, portatore di dote senza distinzione alcuna, ha smaterializzato con naturalezza l’orpello degli abiti sociali, i ruoli, le convenzioni, le abitudini, i pre-giudizi.
Gli insegnanti hanno compreso l’importanza dell’esperienza e la sua trasferibilità all’interno dei rispettivi gruppi classe, ritrovando una rinnovata spinta motivazionale.

3. L’esperienza del laboratorio teatrale “Alberi turchesi”

Non è il teatro che è necessario, ma assolutamente qualcos’altro.
Superare le frontiere tra me e te: arrivare ad incontrarti per non perderti più tra la folla, né tra le parole, né tra le dichiarazioni, né tra idee graziosamente precisate, rinunciare alla paura ed alla vergogna alle quali mi costringono i tuoi occhi appena gli sono accessibile “tutto intero”.
Non nascondermi più, essere quello che sono. Almeno qualche minuto, dieci minuti, venti minuti, un’ora.
Trovare un luogo dove tale essere in comune sia possibile.
(Jerzy Grotowski, Tu es le fils de quelqu’un, in “Linea d’ombra” n. 17, dicembre 1986)

Che cosa rappresenta un laboratorio teatrale di questo tipo?
Uno spazio per raccontarsi?
Forse un luogo di ricerca, di crescita, uno spazio mentale, un luogo per ri-trovarsi e ri-crearsi.
Le provenienze dei singoli partecipanti, in questo caso, sono distanti tra loro: si tratta di un gruppo estremamente eterogeneo, qualcuno non sa nemmeno di “essere”, qualcuno è, qualcuno “è anche troppo”.
Lo spazio, indicato con il termine di “laboratorio”, viene strutturato dai conduttori in maniera precisa e le regole che ne determinano l’accesso sono stabilite dai partecipanti, attraverso una sorta di “contratto iniziale”.
Questo procedere risulta indispensabile affinché tutti coloro che ne prenderanno parte si sentano tutelati da possibili incomprensioni o fraintendimenti, poiché in quel luogo si avrà modo di riconoscere-conoscere le proprie emozioni e raccontarle.
Ciascuno entra con aspettative, desideri, attese differenti che hanno a che vedere con la propria storia, il proprio bagaglio esistenziale: spesso s’intravvede un tratto comune, un’aspettativa chiara e leggibile, che connota la scelta di trovarsi lì e in nessun altro luogo.
Il teatro visto e vissuto come opportunità di mostrarsi, di mostrare a un pubblico attraverso un ruolo, un contesto, un atto, ciò che si è o ciò che si vorrebbe essere.
Così si racconta anche chi a lungo si è nascosto, perché diverso, talvolta schernito o evitato, chi a lungo ha dovuto trincerarsi dietro il paravento di una “falsa identità”, immaginandosi più abile, più capace, più bello.
Il laboratorio percorre una via alternativa dove la diversità rappresenta una risorsa, dove in maniera creativa l’abilità “altra” possa concretamente esprimersi, in una dimensione sganciata da un’interpretazione matematica delle abilità, soppesate e ritradotte percentualmente e numericamente.
Si accoglie un gruppo eterogeneo e dalla diversità si propone un approccio conoscitivo, all’interno del quale il teatro si pone come strumento esplorativo, maieutico, trasformativo: gli approcci corporei, sonori, arteterapici si fondono e/o si alternano, per accompagnare il singolo nel gruppo alla ricerca di altre possibilità espressive.
La comunicazione si “altera”, diventa più ricca, multiforme, lontana dal giudizio e da ogni sorta di aspettativa.
Si allontana il fantasma di una rappresentazione pre-confezionata per rivestire un ruolo estraneo o falsamente rispecchiante: si accetta una dimensione esplorativa dove l’incertezza diventa il punto di partenza di una ricerca individuale e collettiva.
Non è facile accettare l’idea di un errare rabdomantico, dove tutto sembra casuale, scoordinato, inconcludente: si chiede al gruppo un atto di fede, la pazienza di attendere perché, a un tratto, il lavoro prenderà forma, si avviterà su se stesso fino a rivelare l’essenza di quel che è accaduto.
La nostra performance nasce così, da un percorso apparentemente disordinato, tempestato di suggerimenti anche se profondamente radicato.
La conduzione, pur lasciando spazio alla creatività e al racconto di sé, propone un percorso capace di guidare, accogliere, arginare e contenere le emozioni, per riscoprirle e ritradurle.
I formatori non lasciano al caso gli sviluppi e i suggerimenti che, di volta in volta, il gruppo elabora: i risultati di ogni incontro vengono ripresi e verificati.
Coesistono una lente educativa e un’estetica teatrale che non sempre vanno di pari passo ma che, comunque, sono inseparabili.
Si delinea un metodo di lavoro fortemente strutturato, dove attraverso una sinergia di discipline espressivo-artistiche, i conduttori individuano e amplificano la risorsa del gruppo.
A percorso ultimato ognuno riconoscerà nella performance finale la propria “parte”, ritrovando contemporaneamente anche quella degli altri.
Riscoprirsi in un prodotto artistico condiviso, promosso e riconosciuto, significa impossessarsi di un ruolo, di un’identità aderente alla propria dimensione intesa, riconosciuta e ontologicamente accettata.

2. Abbiamo inventato uno spettacolo

Il viaggio non finisce mai. Solo i viaggiatori finiscono.
E anche loro possono prolungarsi in memoria, in ricordo, in narrazione.
Quando il viaggiatore si è seduto sulla sabbia della spiaggia e ha detto:
“non c’è altro da vedere”, sapeva che non era vero.
La fine di un viaggio è solo l’inizio di un altro.
Bisogna vedere quello che non si è visto, vedere di nuovo quello che si è già visto, vedere in primavera quello che si era visto d’estate, vedere di giorno quello che si è visto di notte, con il sole dove la prima volta pioveva, vedere le messi verdi, il frutto maturo, la pietra che ha cambiato posto, l’ombra che non c’era.
Bisogna ritornare sui passi già dati, per ripeterli, e per tracciarvi a fianco nuovi cammini. Bisogna ricominciare il viaggio. Sempre.
(José Saramago, Viaggio in Portogallo, Torino, Einaudi, 2005)

Talvolta gli incontri avvengono per caso, per incidenti di percorso, per affinità elettive, per fortuna, anche se pensiamo che il Caso, fondamentalmente, non esista.
Ci piace pensare che il nostro gruppo si sia incontrato sotto una buona stella, orientato da un Destino stravagante.
Lavoriamo insieme da cinque anni, ma alcune di noi sono colleghe da almeno quindici, e ciò che ci accomuna è l’esperienza lavorativa all’interno di un servizio riabilitativo per disabili intellettivi.
La lunga esperienza all’interno di una delle realtà storicamente e culturalmente più significative del settore, ci ha orientate verso un percorso di ricerca in grado di definire il nostro “fare”, inserendo il nostro quotidiano all’interno di una cornice epistemologica.
I punti di partenza di ciascuna sono stati diversi, quanto noi: differenti gli approcci, gli strumenti e le formazioni.
Ci siamo scelte perché ognuno di noi ha deciso di mettere a completa disposizione delle altre la propria esperienza: ci siamo fidate, affidate, disvelate, sorprese, “com-mosse”.
Abbiamo così, tacitamente, consolidato un legame di natura professionale che si fonda su istanze etiche e ontologiche profonde e irrinunciabili.
Questo è ciò che abbiamo messo in gioco, quello che chiediamo a chi collabora con noi, è il nostro patrimonio comune, il “portato” che connota il nostro lavoro.
La prima occasione di collaborazione professionale ha coinciso con l’avvio di un laboratorio teatrale “integrato”, che avrebbe coinvolto due realtà della cooperativa, il Centro “Rosa Gattorno” e la Comunità Alloggio di Coronata, e l’Istituto turistico-alberghiero “Nino Bergese” di Genova Sestri Ponente.
È cominciato così il percorso che ci ha “portati fuori” obbligandoci a “uscire allo scoperto”, a incontrare l’“altro”.
La nostra diversità incontrava un’altra realtà, “quella vera”, il nostro microcosmo (quello del centro riabilitativo, quello della comunità residenziale) si spostava, andava in esplorazione.
Ad accoglierci Donatella Chiarabini, una straordinaria figura di insegnante di educazione fisica della “vecchia guardia”, di quelle che malgrado i rovesci, i marosi, le tempeste, i tagli ha continuato a rinnovarsi, a crescere, a perseguire un ideale di “scuola trasformativa”, insieme ai suoi studenti.
Abbiamo così varcato la soglia dell’Istituto turistico-alberghiero “Nino Bergese”, abbiamo coinvolto un musicista e collega, Riccardo De Ferrari, paziente ed entusiasta, studente in musicoterapia; abbiamo invitato insegnanti, studenti, educatori, tirocinanti; lavorando instancabilmente, abbiamo “inventato” uno spettacolo.