Lettere al direttore
- Autore: Claudio Imprudente
- Anno e numero: 2011/1 (monografia sui laboratori artistico-espressivi)
Essere testimoni credibili non basta: serve un lavoro…
Salve signor Claudio,
le scrivo dalla Calabria. Ho 37 anni e sono affetto da amiotrofia muscolare spinale II.
Sono tetraplegico.
Abito in un piccolo comune e mi conoscono, ammirano, compatiscono e vogliono bene tutti.
Sto chiedendo da tempo all’amministrazione comunale un lavoro e finalmente “pare” che ci sia in progetto l’apertura di uno sportello per affrontare il problema del disagio giovanile.
Si sono presentate a casa due signore (una che lavora a contatto con le carceri minorili, l’altra un’assistente sociale) e vorrebbero usare la mia situazione come esempio da dare ai ragazzi. Vorrebbero fare un vero e proprio servizio giornalistico su di me.
Secondo lei è giusto?
Vorrei un consiglio su cosa fare.
Grazie.
Spero diventeremo amici.
Romano.
Caro Romano,
intanto grazie per avermi scritto. Mi ha fatto molto piacere.
Allora, vengo subito al dunque: credo che tu debba cogliere questa opportunità e, cogliendola, dare ad altre persone l’occasione per avvicinarsi a un mondo che probabilmente conoscono poco o male. Capisco o immagino i tuoi dubbi: non si tratterà di fare di me una sorta di esempio, guida, di oggetto-spettacolo e, in quanto tale, male interpretato, compatito, ecc.? Questo rischio c’è sempre, e lo vivo spesso direttamente, tenendo continuamente incontri, lezioni, interviste. O anche, più semplicemente, nei rapporti di amicizia. Ti faccio un piccolo esempio. Un caro amico, che vive però lontano da Bologna, qualche tempo fa mi ha scritto una lettera molto bella nella sua ingenuità. In sostanza, mi chiedeva perché le altre persone disabili che aveva avuto modo di incontrare e frequentare non gli restituissero le stesse “soddisfazioni” che gli davo io. Ecco le sue parole, un estratto dalla lunga lettera che mi aveva spedito:
“Ho accompagnato allo stadio due disabili! È una cosa che ho già fatto altre volte. È una bella cosa, per carità, mi piace, però ieri mi è capitato di fare questo pensiero: la diversabilità, quando è vissuta come un handicap, è proprio una sofferenza! E mi sono trovato triste nel provare sofferenza nello stare con loro perché ho visto sofferenza in loro! (si chiamano Patrizio e Vincenzo…) (non so bene che problemi abbiano di preciso, ma sono tutti e due in carrozzina perché non possono camminare…). Parlano tranquillamente (sbiascicando un po’ le parole), ma mi sembra che comunque siano un po’ ‘indietro’ di testa… Non lo so, mi è capitato di pensare a te e a come mi sento quando sto con te, e mi sono reso conto che è una cosa diversa!
Per quanto tu fisicamente sia conciato peggio, non c’è paragone per quel che riguarda il vivere!
A star loro vicino avverto proprio un senso di ‘sofferenza traspirante’ che mi pervade e contamina… Non lo so, è strano, però cavolo mi fanno pena!”.
Al mio caro amico non ho potuto che far presente che capivo molto bene quello che intendeva dire e che, a livello ideale, lo condivido appieno. Anzi, direi che è quello per cui mi batto e mi sbatto da trent’anni, la creazione e condivisione di un’immagine differente della disabilità che, tra le (tante) altre cose, passa anche per un impegno diretto da parte delle persone disabili rispetto alla rappresentazione che “proiettano” fuori di sé… un modo, non secondario, per incidere sull’immaginario e le idee altrui.
Con una indicazione, però, molto importante, un suggerimento per guardare le cose in modo più consapevole: a stare con me si corre il rischio di non conoscere la realtà più diffusa tra le persone disabili e nel mondo che sta attorno a loro, si corre cioè il rischio di non entrare in contatto con le condizioni di vita più “vere” delle persone con disabilità.
Spesso, appunto, il rischio è che le persone mi prendano come modello… ma è un falso modello, comunque non rappresentativo.
Con questo non voglio assolutamente dire che, quindi, nelle occasioni di confronto e di lavoro in pubblico parlo di “aria fritta” e che quello che dico sia irrealizzabile: ma la mia condizione (fisica, mentale, sociale, lavorativa…) “fa testo” fino a un certo punto. Mi dà, certo, la possibilità di dire agli altri che esistono le risorse (in senso lato) per pensare a condizioni migliori, lavorando a livello politico, culturale, ecc.
Insomma, in un certo senso la serenità e il modo in cui vivo la mia vita “disabile” potrebbe essere un orizzonte da raggiungere, perché è vero che sono riuscito a costruire un’esistenza serena e non sofferente. Ma, appunto, è una condizione da raggiungere, da costruire e non dobbiamo commettere l’errore di provare tristezza per chi ancora vive con tristezza la sua condizione, altrimenti dal circolo non si esce.
Questo, quindi, è un piccolo rischio che hanno corso tante persone che hanno passato tempo e hanno lavorato con me nel corso degli anni e capisco cosa intendi nella tua lettera, caro Romano.
Credo, però, che il gioco che ti hanno proposto le due misteriose signore valga la candela, se gestito e giocato con intelligenza e, non lo nego, furbizia, da parte tua. Devi valutare che senso le persone che vogliono coinvolgerti intendono dare al servizio, se è quello di interrogare gli altri su alcune questioni o puntare “solo” al cuore, ossia a una cosa dal respiro breve. Poi, una volta considerata la bontà delle intenzioni, starà a te compiere il passo che ti porterà a ragionare sul generale a partire dal particolare, ovvero dalla tua persona e dalla tua esperienza di uomo con disabilità. A proporre non un modello, ma un testimone e un narratore consapevole e dallo sguardo sottile e lungo.
Dimmi se queste poche parole ti sono d’aiuto. Aspetto una tua risposta per continuare il confronto su una cosa che, lo capisco, solleva dei dubbi da parte tua e non è affatto innocente né semplice.
Grazie ancora e buona vita.
Un caro saluto.
Claudio
Caro Claudio,
grazie a te per avermi risposto. Spero tanto che inizi tra noi un lungo e proficuo scambio di impressioni.
Io per natura ho un carattere timido e introverso. Ma questo, col tempo, ho cercato, e cerco sempre, di “combatterlo”, forse proprio in forza dell’essere “diversabile”. Cioè, provo a spiegarmi: forse l’essere disabile mi ha condizionato portandomi ad accentuare la timidezza. Poi, per una sorta di orgoglio o di contrasto, per qualche tempo vedevo il dover espormi come un modo per dimostrare e dimostrarmi che non mi facevo condizionare dal mio handicap.
Adesso, ti confido, non mi interessa più. Non vorrei sempre dover combattere per “dimostrare che”. Accettare serenamente il mio handicap vuol dire vivere serenamente il mio essere un diversabile. Non un genio, né un fenomeno da circo che si sente addosso o la curiosità o la compassione degli altri… quando va un po’ in giro.
Vorrei precisarti meglio la questione di cui ti parlavo nella e-mail precedente, così da darti un quadro più chiaro. Io credo che in loro (nelle persone che mi hanno proposto la cosa) ci sia della buona volontà di usare la mia storia per far capire a chi ha quindici anni, magari circondato di ogni bene e che è insoddisfatto, come il mio vivere possa dare qualche insegnamento.
La tua riflessione, le tue parole, il tuo consiglio mi sono utilissimi.
Però vorrei precisare che non ritengo di esser nulla di “speciale”, sono uno come tanti, ho pregi e difetti, vizi e virtù, ho i miei giorni di nervosismo e di serenità, i miei hobby e le mie passioni come quelli di tanti. Tutto qui… Non so cosa se ne possa tirar fuori.
Poi, caro Claudio, mi preme pure sottolineare un altro punto. Io voglio un lavoro! Non voglio solo esser presentato agli altri, ma mi serve un posto. So usare il computer e spero che questo progetto sia basato su quello, dare lavoro.
Per sette estati (due mesi all’anno) sono stato inserito in un progetto per il quale ho fatto lavoretti col pc. Poi l’estate scorsa non vi sono stato inserito, nonostante un’assicurazione circa l’esserne parte.
Beh, intanto ti ringrazio e ti terrò informato.
Grazie e a presto.
Romano.
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