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Il movimento più grande e naturale

Come nelle rubriche precedenti anche in questa racconterò l’arte attraverso l’esperienza di un artista e racconterò l’artista attraverso il mio personale punto di vista, per come lo conosco attraverso la mia esperienza diretta. Che è allo stesso tempo limitata, personale e, per questo, solo un punto di vista.
Pur essendo nato nel 1606, trecentosettanta anni prima di me, Rembrandt Harmenszoon van Rijn è passato spesso nella mia vita e, quasi come un fratello maggiore, mi ha offerto la sua esperienza, raccontata attraverso le sue opere e il suo viaggio interiore.
Qui parlerò in particolare di due opere, non le più famose, che sono state uno stimolo e uno spunto di riflessione.
Rembrandt nasce a Leida in Olanda, quarto dei sei figli sopravvissuti, con il padre mugnaio e la madre figlia di un fornaio. Non per voler vedere in ogni elemento un punto di contatto ma io sono il quarto figlio di una famiglia di fornai. Comunque, proseguiamo.
La sua città natale diventa un importante centro umanistico, grazie anche alla presenza di un’importante università (ricordo che sono nato e vivo tutt’ora a Bologna!), ciò permetterà al pittore di crescere circondato da un’attività culturale vivace e ricca di stimoli.
Rembrandt andò a bottega da alcuni pittori dell’epoca che lo aiutarono ad apprendere prima il mestiere poi l’arte, caratteristica che gli permetterà, nel 1627, di aprire la sua prima bottega. Da quel momento, con alti e bassi, la sua vita sarà quella di un artigiano/artista, generoso anche nell’accogliere molti giovani allievi, sposo con alterne felicità (perderà la prima moglie molto giovane) e padre poco presente, che vedrà morire il figlio prima di lui.
Una vita in attacco, comunque, la sua, alla ricerca di ciò che lui definisce il movimento più grande e naturale. Non sono in  grado di dire se sia riuscito nel suo intento, fatto sta che spesso, quando guardo le sue opere, ritrovo qualcosa di me, un’emozione, un’espressione, una storia. Ed è questo che mi attrae in generale della pittura e, in particolare, di Rembrandt: la capacità di raccontare storie rendendo partecipe lo spettatore, anche a distanza di centinaia di anni, di aver creato davvero un movimento temporale che, al di là degli anni, coinvolge in modo naturale gli spettatori.

Il ritorno del figliol prodigo
Nel 1966, ormai anziano, Rembrandt dipinge uno dei quadri che più amo per la forza con la quale racconta un evento che è allo stesso biblico e personale. Non solo per ciò che riguarda la vita del pittore ma per l’essere umano in generale.
Ho incontrato questo dipinto mentre scrivevo la mia tesi di laura. Il tema su cui stavo lavorando era il ruolo del maschile in educazione e, in particolare, quello del padre. In quei tempi leggevo moltissimi testi che riguardavano il ruolo paterno sia a livello familiare che, più in generale, a livello sociale. Le regole che storicamente e culturalmente hanno definito i confini e la presenza del padre all’interno dei percorsi di crescita dei figli, come procacciatore di cibo prima e di denaro poi, le sue assenze e, ultimamente, la crisi di tale ruolo e la ridefinizione di una presenza alternativa e non emulativa di quella materna.
Il quadro di Rembrandt mi si presentò come la sintesi perfetta tra le tante parole che stavo leggendo in quei tempi e l’esperienza concreta di tanti padri alle prese con un ruolo difficile da decifrare; come se raccogliesse in quelle pennellate un aspetto che spesso rimane nascosto, quando si pensa al compito paterno. Quando dipinge quel quadro, Rembrandt aveva probabilmente forti problemi di vista e, come il figliol prodigo, necessitava di un abbraccio paterno che lo perdonasse, non tanto perché avesse dei peccati da espiare, bensì perché quell’abbraccio rappresenta l’ultimo atto di un percorso di accettazione personale che vede rappresentato il pittore sia nel padre che abbraccia che nel figlio che viene abbracciato ma anche, in parte, nel figlio maggiore che osserva addolorato tale scena.
Ecco allora che il racconto biblico diventa metafora di quello personale di Rembrandt e, di conseguenza, del percorso che riguarda ogni essere umano e, in particolare, quello di ogni padre: la definizione del proprio ruolo si realizza nell’incontro tra il figlio, che rappresenta il nostro passato e il padre, che invece rappresenta il nuovo percorso che siamo chiamati a intraprendere. Ruolo paterno che, come se si trattasse di un cerchio, nasce e si completa in quell’abbraccio che pacifica e ridefinisce, che finalmente rende liberi di agire senza il condizionamento del proprio passato.
Interessanti sono anche i molti particolari del dipinto che hanno attirato l’attenzione dei critici ma anche di psicologi che hanno dato una lettura più esistenzialista.
Le due mani del padre, una femminile e una maschile, a rappresentare quanto il ruolo paterno non si definisca in opposizione ad atteggiamenti femminili; la cecità del padre consumata per aver guardato incessantemente l’orizzonte, fiducia, quindi, nel ritorno del figlio; il colore che ammanta il dipinto che racconta la gioia e il dolore, una varietà di emozioni che coinvolgono tutti i personaggi presenti. Tanti particolari che esplicitano la complessità ma anche la ricchezza del rapporto con la paternità. Quello di Rembrandt ma anche il mio e, forse, anche il vostro.

Autoritratto – 1630
Sorpreso, della sorpresa che ti prende quando vedi qualcosa di strano, che forse fa anche un po’ paura.
Capelli scompigliati, bocca arricciata, occhi tondi e piccoli.
La prima volta che ho visto l’autoritratto che Rembrandt ha realizzato nel 1630, ho pensato: “Ma quello sono io?”. Ho percepito una certa somiglianza con l’artista non solo e non tanto per ciò che ci accomuna a livello estetico (anche io ho spesso i capelli scompigliati, ho gli occhi piccoli, arriccio la bocca…), bensì perché, ancora una volta, il pittore entrava nella mia vita, seppur casualmente, con un profondo significato.
Per Rembrandt l’autoritratto non è solo un esercizio di stile, ne realizzerà, infatti, più di settanta nella sua vita. Sono il segno di come amasse giocare con diversi ruoli, proponendosi di volta in volta come soldato, mendicante, borghese; tanti ruoli, però, che raccontano anche la complessità di una vita interiore che, seppur soddisfatta per ciò che lo circonda, pone il proprio sguardo verso diversi orizzonti, desiderati o sognati. Anche in questo caso, la grandezza dell’artista sta nello svelare qualcosa di comune a tutti, semplice per certi versi, ma che acquista sostanza e significato proprio nel momento in cui ne diventiamo coscienti. Il tema dell’autoritratto, inteso come ricerca e costruzione della propria identità, mi appartiene e mi interessa sia livello personale che in quanto educatore che lavora con persone, bambini o disabili adulti.
Autoritrarsi, in fondo, significa mettersi in contatto con se stessi, guardarsi da un punto di vista differente, dall’esterno, tentando di vedere ciò che vedono gli altri, ri-conoscersi, quindi, scoprendo qualcosa di sconosciuto; è un incontro, in fondo, l’occasione per definire i confini del proprio viso, della propria pelle, i  nostri limiti epidermici e sentirli non come un ostacolo ma come un contenitore, il continuo punto di partenza tra il dentro e il fuori e tra noi e il mondo esterno; è rendere concreto ciò che facciamo in modo troppo scontato, cioè dirci chi siamo per poter continuare a diventare noi stessi.

Chi è Rembrandt, quindi?
Quale autoritratto lo rappresenta di più?
Quale ruolo esprimeva al meglio la sua vera identità?
Difficile dirlo e, personalmente, poco interessante.
Perché ciò che mi colpisce e, quindi, ciò che diventa utile alla mia esperienza, non è tanto il bisogno di una verità storica ma ciò che l’artista definisce come “il movimento più grande e naturale”, l’essenza tradotta in arte che anche oggi ammiriamo, sentiamo e che, in un qualche modo, si mescola alle nostre cellule e ci forma. Per cui mi chiedo: chi sono io? Qual è la mia immagine? Il ruolo che più mi rappresenta?



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