Amalia e basta. Storia di una persona comune
- Autore: Lucia Cominoli
Questa è la storia di Amalia, una trentenne come tante, laureata in Storia dell’arte e hostess all’interno di un museo. Questa è la storia di Amalia, una ragazza piena di amici dalle molteplici storie. Questa è la storia di Amalia, quella di cui si è innamorato Luca e che, mannaggia, non era previsto. Questa è la storia di Amalia, nata sorda.
Amalia e basta/Primo Studio è un monologo a più voci, lucido e drammaturgicamente densissimo che esplora con ironia e delicatezza la condizione dell’ipoacusia. Lo spettacolo, fortemente acclamato dal pubblico e segnalato dalla critica, si è aggiudicato, tra gli altri, il primo premio Monologhi “Sipario-Autori Italiani-2012”, il primo premio Testo Teatrale “InediTO-Colline Torino-2012” e il secondo premio del concorso nazionale di drammaturgia “Teatro e disabilità-2011”.
Ne abbiamo parlato con l’attrice, autrice e regista Silvia Zoffoli.
La sordità è una delle cosiddette “disabilità invisibili”, poco frequentata sulla scena se non in termini di linguaggio e di fruizione accessibili. Ma ad Amalia non basta. Amalia è una che si impunta. Amalia si alza dalla sua comoda poltrona, sale sul palco e si fa protagonista…
Sì, solitamente tematiche come la sordità sono messe in scena in termini di linguaggio e fruizione accessibili, ma io non sono un’esperta di teatro “per sordi” e, del resto, trovo interessante proprio poter portare questa tematica al di fuori di un pubblico di settore, facendola conoscere a tutti.
Amalia, è vero, racconta di una disabilità invisibile, ma non lo fa con ostentazione o arroganza, semplicemente lei è sorda. Fa i conti con la propria fragilità e in questo rappresenta l’archetipo di quel percorso di accettazione di sé con il quale tutti noi, prima o poi, ci confrontiamo: è forse anche questo a rendercela più vicina umanamente. Il pubblico si ritrova a scoprire quest’altro punto di vista sul mondo e sulla disabilità, pian piano pensando, vivendo, e sentendo come Amalia.
Che cosa ti ha spinto ad affrontare un tema come questo?
Il motivo di sempre: “l’urgenza” di mettere in scena qualcosa che ritengo stimolante raccontare e far conoscere.
Con chi ti sei confrontata durante il tuo percorso di ricerca?
Anch’io sono partita dal pregiudizio per cui credevo che i sordi fossero sordomuti, anch’io non sapevo che la sordità ha varie sfumature e che è una realtà molto complessa (ci sono, ad esempio, figli udenti di genitori sordi, coppie bilingue, sordità di vario grado e tipo, condizioni sociali e culturali che influiscono sul percorso di apprendimento, ecc.).
La mia ricerca, invece, è continuata ed è stata lunga e approfondita. Soprattutto prima di scrivere il testo mi sono documentata moltissimo, citare tutte le fonti sarebbe davvero difficile… Ho incontrato, parlato o anche solo scambiato mail con persone direttamente e indirettamente legate alla sordità. Il bello dello spettacolo è stato proprio questo, il percorso, è stata un’esperienza umana che mi ha arricchita profondamente soprattutto a livello personale.
Ad un certo punto, quando mi sono sentita “satura” e ho avuto la sensazione di avere tutti gli elementi per poter creare il mio personaggio, è nata Amalia, il testo. La ricerca, poi, è continuata anche dopo la fase di scrittura, soprattutto per cercare di entrare a fondo nella psicologia di una persona sorda come Amalia e nel capire come interpretarla in scena, il più possibile con rispetto e delicatezza.
Sicuramente importanti sono stati gli incontri con Martina Gerosa, un architetto e donna straordinaria che mi ha suggerito una ricca bibliografia in merito, con la psicologa Enrica Repaci che ha creato un sito internet molto interessante chiamato “Arcipelago sordità”, con la dott.ssa Federica Morgantini e il dott. Roberto Lupo, che mi hanno fatto conoscere da vicino la parte più strettamente “clinica”, con Giulia Cicchetti per la lingua dei segni, e moltissime altre persone. È stato anche divertente vedere come, per una serie di coincidenze, poi tutto fosse collegato, anche gli incontri più casuali, in una sorta di “domino umano” davvero curioso.
Perché la pittura e l’arte in genere sono tanto importanti per Amalia?
Fra i tanti libri che ho incontrato durante il mio percorso di ricerca c’è stato Il pianista che ascolta con le dita (Ed. Archivio Dedalus), scritto da Paola Magi, in cui si parla del rapporto fra le arti e le disabilità sensoriali e nel quale viene raccontata l’esperienza di Daniele Gambini, con il quale mi sono poi confrontata direttamente sul rapporto tra sordità e musica, un binomio molto interessante da conoscere ma che, in realtà, non ho mai pensato di rendere centrale nel mio testo.
Non volevo che Amalia fosse un’artista, ma una persona comune e inoltre si stava facendo strada il desiderio di raccontare una storia positiva: una persona sorda che riesce a laurearsi, cosa che nell’immaginario collettivo sembra quasi impossibile. Nel frattempo mi sono resa conto che molte persone con questo tipo di disabilità sensoriale hanno una componente visiva decisamente sviluppata, sono attenti osservatori: quindi l’arte poteva essere un buono spunto.
Come solitamente faccio da quando ho intrapreso una strada “autoriale” (il mio precedente spettacolo è stato sull’amicizia fra Hannah Arendt e Mary McCarthy), ho scritto il testo già pensando di metterlo in scena (talvolta scrivo addirittura recitando) e poi c’era l’idea di lavorare con Leonardo Carrano alle scenografie: questo è stato un ulteriore elemento a favore della scelta della pittura come interesse privilegiato di Amalia. In seguito, meditando sulla regia, mi è venuto in mente di giocare su un mondo colorato e, in particolare, sui colori primari e sulla combinazione fra essi ed è stato poi quello il file rouge con il quale abbiamo lavorato con Leonardo alle scene e anche poi alle luci con Marco Maione.
Come hai lavorato, al momento della messinscena, dal punto di vista sensoriale?
Non lo so… Diciamo che io ci ho provato a modo mio. Scrivere il testo, farne la regia e interpretarlo significa vivere una storia fino in fondo, cucirsela addosso e, al tempo stesso, metterci tutta me stessa: un vero e proprio parto… Mi sono completamente donata, ho usato tutto di me, la camminata, i gesti, perfino i capelli, tutto il mio corpo… per mettermi completamente a disposizione del personaggio e dello spettacolo. Ho lavorato per mesi, varie ore al giorno da sola con la mia Amalia, io e lei: è stato un percorso molto intenso.
Amalia ha ricevuto molti riconoscimenti. Quali sono state le reazioni dei più diretti interessati?
Sì il testo ha ricevuto bellissimi riconoscimenti perché provenienti da giurie sia di addetti ai lavori della disabilità, sia della drammaturgia, oltre che da giurie popolari in certe fasi di selezione di alcuni premi. Tuttavia, la soddisfazione più grande è stata nell’incontro con il pubblico: non avrei mai immaginato una risposta così calorosa e i bellissimi commenti sulla pagina Facebook dello spettacolo. Le persone che non conoscevano questa tematica hanno apprezzato lo spettacolo, molti mi hanno detto di essersi sentiti “acculturati”, perché hanno imparato qualcosa in più che prima ignoravano. Mi ha poi stupito che alcuni siano venuti, in qualche modo, “allo scoperto”, raccontandomi che hanno un parente o un amico con questa disabilità sensoriale, segno che è molto più diffusa di quanto si possa immaginare e forse taciuta per un tabù difficile a credersi in un’epoca in cui molti altri sono decaduti. Ovviamente temevo la reazione delle persone sorde, perché riuscire a “rappresentarle” era una grande responsabilità, invece è stato bellissimo trovarle ad aspettarmi a fine replica con gli occhi pieni di emozione e con parole di ringraziamento. Amalia mi ha già donato tantissimo: in fondo faccio teatro perché mi interessa “arrivare” alla gente.
Cosa ci attende nel prossimo studio?
Ritengo che in un testo come questo ci siano ancora infiniti spunti di approfondimento. Un personaggio come Amalia è decisamente complesso da affrontare sia per la tematica trattata, sia per i diversi piani narrativi e temporali della storia: c’è il tempo del presente, della sala del museo, quello del passato, c’è l’Amalia adolescente, c’è l’Amalia che ricorda, c’è un’ora in scena da sola calibrando energie fisiche ed emotive, lavorando su percezione di sé (la voce interiore di Amalia)-percezione rispetto agli altri (la voce per così dire “da sorda”) e impersonando anche tutte le altre voci-personaggi della storia. In futuro mi piacerebbe lavorare più a fondo su alcune sfumature della protagonista e alcuni passaggi del testo. Inoltre ritengo che il modo migliore per far crescere uno spettacolo sia fondamentalmente “farlo”, perché un giorno di replica molto spesso vale più di molti giorni di prove: il teatro è sempre dialogo con un pubblico, anche quando è un monologo.
Per informazioni:
Associazione Culturale “Falesia Attiva”
cell. 327/873.44.15
falesiattiva@gmail.com
www.facebook.com/amaliaebasta
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