Custodi, stranieri e complici. Quanti sono i modi per essere siblings?
- Autore: Mario Fulgaro
A cura di Mario Fulgaro
Uno dei tanti motivi per i quali cominciamo i nostri incontri mettendoci tutti in circolo ha a che fare con il tema della complicità. Infatti il termine “complicità” trova la sua derivazione etimologica nel greco classico sùn, insieme, e pléto, avvolgere. Proprio quest’ultima parola, il verbo “avvolgere”, mi piace considerarla come tonda, circolare.
Nel cerchio si inizia a conoscersi poco alla volta, per individuare insieme canali più ampi, lungo i quali tessere una più compiuta relazione, che consenta una conoscenza reciproca più approfondita. Questo accade indefinitamente anche nella vita di tutti i giorni, nel mondo reale. È una sorta di circolo virtuoso che porta a una crescita individuale e, di conseguenza, collettiva se si è inseriti in un contesto più ampio. E qui subito si creerà una interdipendenza, per la quale alcuni aspetti dell’agire dell’uno finiranno con l’influenzare le azioni dell’altro. È quello che ci accade per la prima volta nel contesto familiare, dove i rapporti si arricchiscono di legami più profondi, di fragilità e reciprocità.
Da quando nasciamo, ciò che vivremo non sarà mai percepito come qualcosa di completamente separato dal proprio contesto d’origine, anche quando vi si agisce in opposizione.
Ecco allora che qualsiasi evento che investe un famigliare, soprattutto se traumatico, andrà per sua natura a influenzare tutto il percorso di vita di chi gli sta a più stretto contatto relazionale. Sia chi ne è colpito direttamente che gli altri si trasformano così in microcosmo, un insieme che interagisce col mondo esterno attraverso un’unica voce, anche se con sfumature diverse.
Per meglio comprendere come questo “corpuscolo” agisca nella realtà, occorre sempre analizzare le sue dinamiche interne, a partire dalle figure di riferimento, per i fratelli i genitori, dai quali deriva il primissimo esempio dei nostri comportamenti che poi metteremo in dialogo e discussione. In questo scambio ognuno finirà per crescere e assumere uno specifico ruolo.
Così accade che anche per il disabile, al pari dei suoi fratelli, ci sia un altrettanto grande investimento di responsabilità verso gli altri nel suo modo di comportarsi. Se è vero che a ogni azione segue una reazione, ognuno sentirà su se stesso il peso delle proprie e altrui scelte. Il che significa, per dirla in modo personale, che non sono solo i famigliari meno sfortunati a sentirsi investiti di responsabilità aggiuntive verso il disabile, ma anche quest’ultimo deve rinunciare ulteriormente a qualche piccolo spazio di vita propria, in favore degli interessi altrui.
Complicità: do ut des, ovvero ti do qualcosa affinché tu mi dia qualcos’altro. Anche quando ci scontriamo lo facciamo insieme. Un processo, quello della complicità, che sorge molto spesso in modo del tutto spontaneo tanto che è difficile, se non impossibile, individuare da che punto sia partito…
Lo sanno bene la mia collega Francesca Aggio e la sua gemella Federica che in questo scambio epistolare ci raccontano cosa vuol dire essere siblings, fratelli e sorelle con disabilità, stranieri e complici dello stesso universo.
In questo momento non ho un buon rapporto con mia sorella, Federica.
Mi sento e mi sono sempre sentita inferiore a lei.
La sensazione è di continuo “controllo”; difficilmente mi lascia fare le cose da sola e invece credo che per alcune ne sarei capace.
È ovvio e certo che io abbia più bisogno di aiuto, ma non significa che anch’io non possa migliorare.
Riconosco di avere tanti difetti, ma proprio quei difetti sono stati a volte la mia “arma “ vincente, perché mi hanno permesso di superare molti momenti difficili.
Per esempio, mia mamma mi racconta che quando sono nata era stato detto che non avrei potuto vedere, parlare e camminare.
Fortunatamente non tutto si è avverato, sicuramente grazie a tutti gli stimoli ricevuti ma anche alla mia testardaggine.
Credo di essere comunque una ragazza fortunata, perché ho tutto quello che voglio e non mi interessa quello che ho perso.
Le persone che non mi conoscono possono pensare di me che abbia un carattere difficile, ma ciò credo a causa del mio passato e questo è proprio quello che non capisce mia sorella Federica.
Pretende quello che non sono in grado né di dare e né di fare, ma non mi permette di fare ciò che so.
Non voglio sentirmi da lei compatita, ho bisogno come lei di ricevere dei no, non voglio la ragione se non ce l’ho, ma nemmeno un “tanto non capisci”.
Vivo nella continua sensazione di essere in competizione con lei, la rincorro ma non la raggiungo mai e nemmeno mi avvicino.
Apparentemente facciamo tutto insieme, vacanze serate, cene, ma in realtà siamo a volte molto distanti.
A me piacerebbe imparare a utilizzare la macchina fotografica e poi scaricare le foto, ma tutte le volte lei perde la pazienza, non rispetta i miei tempi e vorrebbe che tutto fosse fatto bene e subito, ma più lei me lo fa notare, più io vado in crisi e anche le cose che saprei fare mi riescono nel peggiore dei modi e non riesco a dimostrare quello di cui sono capace.
La prima parte di questo testo mi è servita per sfogarmi, ora vorrei raccontare l’altra parte del mio rapporto con Federica.
A volte creiamo delle alleanze per “combattere” i nostri genitori, in due otteniamo risultati migliori, oppure ci diamo una mano a vicenda nella scelta dei regali per i rispettivi fidanzati, ci capita anche di andare a passeggiare e chiacchierare.
Ci sono delle volte che amo mia sorella, e lei ama me, poi ci sono volte che odio mia sorella, e lei odia me.
Quando Federica parte per una vacanza sua, i primi due giorni sono contenta, perché io e solo io sono al centro del mondo, poi inizia a mancarmi, quando torna sono felice e poi vorrei che ripartisse.
Ecco io e lei siamo questo.
Attaccato al frigorifero in cucina c’è una calamita con su scritto “Sorelle per caso, amiche per scelta”: è proprio quello che penso, alcune volte ci riusciamo, altre un po’ meno.
Francesca
Mi chiamo Federica, ho 20 anni e una gemella disabile. Solitamente non è questa la mia presentazione; ma in effetti avere una gemella disabile influenza molto più la mia vita rispetto a ciò che studio.
Questo infatti cambia irrimediabilmente l’esperienza di infanzia e adolescenza togliendone un fattore di estrema importanza: l’irresponsabilità. Mi spiego meglio: ho avuto dei genitori eccezionali che non mi hanno mai chiesto di occuparmi della mia gemella, e dei suoi bisogni fisici e psicologici. Però inevitabilmente il fatto di essere sempre legata a qualcuno di debole e non autonomo porta a sentirti responsabile continuamente. Il dovere di prendersi cura di un altro essere umano porta a una maturità precoce, ma anche all’impossibilità di rilassarsi completamente e “spegnere” il proprio lato razionale.
Se non si è dentro a questa situazione non si può capire cosa significa. Spesso, soprattutto quando ero più piccola, le persone elargivano generosamente i loro consigli, e ciò fa soltanto arrabbiare. Perché gli altri dopo aver detto qualche cosa che fa sentire meglio soltanto loro stessi, torneranno alle loro vite e alla loro indipendenza.
Tu invece resti lì, in una situazione che oscilla tra il paradiso e l’inferno. Il paradiso perché ogni volta che in tua sorella c’è qualche piccolo miglioramento ti ci aggrappi con tutte le forze, illudendoti che tutto andrà bene, che alla fine lei diventerà come te, che sarete una felice famiglia normale. L’inferno regna invece quando chiedi a tua sorella per mille volte di fare un’azione molto semplice e lei continua a sbagliarla, quando vedi che inizia a odiarti perché le ricordi continuamente chi non può essere, quando ti senti felice perché il tuo primo ragazzo ti ha chiesto di uscire e non puoi farlo perché sennò la lascerai sola, quando ti senti in colpa perché tu esci e lei non può farlo, quando tua mamma è stanca e tu vorresti solo vederla tranquilla e felice. La maggior parte del tempo è l’inferno, finché arriverà il giorno in cui ti rassegnerai alla vita e la smetterai di cercare un colpevole. Finché questo momento non arriva potrai solo sentirti in colpa nel pensare cose cattive, cose che nessuno vorrebbe pensare. Però non riesci a voler bene a tua sorella perché ti vergogni di lei, perché pensi che nessuno ti vorrà bene davvero dovendosi prendere a carico una situazione del genere, perché rovina i piccoli momenti familiari, perché in tanti posti non ci si può andare…
Crescendo le cose stanno cambiando: la rabbia si sta un po’ affievolendo, e si inizia a capire che non si può sempre vincere, che nessuno è poi così perfetto. Continuerò sempre a invidiare chi sa dire che avere avuto una persona vicina disabile gli ha arricchito la vita. In fondo è vero, però avrei fatto molto volentieri a meno di questa ricchezza, sarei stata felice di essere una persona banale e con sentimenti poco profondi, e senza tutta questa paura per il futuro.
Federica
Ho scritto la lettera precedente quasi due anni fa, e rileggendola oggi devo assolutamente dire che il mio punto di vista è cambiato.
Voglio scriverlo perché dato che questa lettera verrà letta voglio far sapere a chi si trova nella mia situazione che le cose diventeranno più semplici.
Giorno dopo giorno capisci che cercare una colpa non porta a niente.
Quindi inizi a rassegnarti finalmente al fatto che le cose non potranno cambiare.
A questo punto hai la mente abbastanza lucida per cominciare a osservare davvero la persona che hai davanti.
Tempo fa consideravo tante volte mia sorella come “il problema”, non come una persona.
E questo ha contribuito tantissimo a non riuscire a vedere i suoi lati belli.
Mi piace quando è testarda, mi piace quando riesce a ridere, mi piace quando sta bene, e mi piace quando mi racconta come è andata la sua giornata.
Francesca è fidanzata da tanto, e mi piace quando parliamo delle faccende di cuore, e di quelle che per lei sono le prime esperienze, come con un’amica.
Nella lettera precedente ho parlato dei consigli che le persone danno, senza sapere che cosa dicono non essendosi mai trovati in questa situazione.
Ora penso che sia giusto ignorare i consigli di quasi tutti, tranne quelli di chi ti conosce davvero. Perché anche se l’orgoglio personale viene ferito, devo ammettere che chi ti ama per quello che sei capisce più di te, che tu di te stesso.
La mia famiglia, il mio fidanzato, e le mie care amiche mi hanno aiutato tanto, perché sapevano che ce l’avrei fatta, sapevano che sarei riuscita a sconfiggere la rabbia e a vedere oltre.
Ora per concludere posso dire che non sarà mai facile, ci saranno sempre difficoltà ogni giorno, ma che saprò aiutarla nel modo giusto perché non lo farò per “dovere parentale”, ma con il cuore.
PS: certo, lei non è diventata una santa! Tante volte fa arrabbiare, ma solo come una sorella.
Federica
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