Skip to main content

autore: Autore: Mario Fulgaro

6. La figura dell’educatore all’interno del Gruppo Calamaio

di Mario Fulgaro e Sandra Negri

Raccontare un gruppo educativo è sempre complicato. Lo è ancora di più quando il gruppo educativo in questione si pone l’obiettivo di ridefinire il rapporto tra utente ed educatore cercando di costruire un contesto in cui la collaborazione e la condivisione del percorso è centrale. Per questo abbiamo pensato di raccontare il Gruppo Calamaio dando voce ai due protagonisti della relazione educativa.

Dal punto di vista di Mario Fulgaro, animatore con disabilità
Uno dei segreti per vivere bene sta nel rapportarsi a se stessi in modo pacifico, così da confrontarsi con gli altri in modo altrettanto sereno. Occorre, infatti, tirare un sospiro di sollievo e sorridere sempre, sia di fronte alle innumerevoli circostanze che il mondo ci mette davanti, sia di fronte allo scambio di informazioni che si ha con chi ci sta accanto, anche se per un arco di tempo limitato. Questo accade sempre e in ogni ambito, sociale o politico o, in senso ampio oppure più “ristretto”, in campo educativo.
È indispensabile, dunque, fare riferimento a una qualche figura guida che ci aiuti a superare ogni tipo di impasse. Parafrasando l’alto pensiero contenuto nella Maieutica di Socrate, potremmo dire che “nessuno riesce ad agire da solo” e ognuno ha bisogno di qualcun altro che lo sproni a sviluppare le proprie abilità, nella giusta direzione. Ogni “tratto di strada” è compiuto, oltre che in circostanze idonee, anche e so- prattutto assieme a qualcun altro. Non siamo delle “cellule” autosufficienti in tutto e per tutto.
Quando si entra a far parte del Gruppo Calamaio, ognuno è carico del proprio bagaglio culturale ed esperienziale, utile e fondamentale per arricchire il gruppo lavorativo di nuove “nozioni relazionali”. Infatti, non c’è alcuna forzatura, tutto si lascia fluire con spontaneità e naturalezza. Poco alla volta, poi, sotto la guida degli educatori, ci si ritrova a contribuire, con il proprio “corredo di sapere”, al lavoro corale di tutti. Si entra subito in sintonia con gli educatori attraverso armi invincibili, quali l’ironia e lo spirito di gruppo.
Il ruolo principale dell’educatore, all’interno del Gruppo Calamaio, è quello di analizzare, guidare e indirizzare le potenzialità messe in campo da tutti.
La sorpresa, se non la meraviglia, che investe chi ha scoperto un proprio talento da poter sfruttare, si manifesta, di solito, in un largo sorriso di soddisfazione. Il clima di amicizia e allegria, che si viene a instaurare tra educatori e disabili, favorisce la nascita di forti legami di appartenenza. Così, lo spirito di gruppo che ne consegue, rafforza il bisogno di confrontarsi e scambiare informazioni di sé, con naturalezza e spontaneità: “Che ne dite di prendere un caffettino?”, “Sì sì, ma io prendo il caffè macchiato, tipo cappuccino!”.
Giorno per giorno si inizia a percorrere un pezzo di strada comune, ognuno in modo personale, perché le differenze, se coordinate bene tra loro, sono alla base di una crescita collettiva. Chi si smarrisce per un attimo, trova l’aiuto e la collaborazione dell’educatore che, con i suoi consigli e suggerimenti, agevola una più regolare gestione di tutte le dinamiche interne al gruppo di lavoro: “Aiuto! Chi può aiutarmi?”, “Vengo io, non ti agitare come al solito!”.
Il dialogo acquisisce un valore prioritario e, per consentire un suo svolgimento pacifico, il rapporto tra i membri del Gruppo Calamaio, educatori e disabili, è di tipo paritario. Si scambiano pareri e proposte tra colleghi di lavoro, sicché i possibili ammonimenti sono vissuti come “consigli educativi”. Inevitabilmente, differenze di ruolo possono emergere e, molto spesso, affiorano, ma solo come fattore volto a valorizzare il compito di ognuno, non come elemento discriminatorio. Il dialogo ha un potere risolutivo di grande rilevanza ed è quello che l’educatore utilizza, per dirigere le energie proprie e altrui, in vista di una soluzione condivisa. È facile, così, che si faciliti una condivisione di intenti da parte di tutti: “Quale colore va meglio sul nostro volantino, il rosso o il verde?”, “Direi il verde!”, “Allora metteremo il rosso!”, “Ok!”.
In un gruppo di lavoro così grande, è inevitabile che possano sorgere situazioni di malinteso o, addirittura, di stallo. In questi frangenti, gli educatori sanno bene che devono mettersi in discussione, per riuscire a superare ogni fase critica. Ogni volta, l’intero gruppo ne ha beneficiato in termini di compattezza, trovando, appunto, negli educatori i suoi punti di riferimento: “Io sto bene con loro. Io con io ed io con loro, senza alzate di testa!”.
Il rispetto dei tempi di ciascuno è strategia essenziale, sia per cercare di studiare il modo più idoneo per intervenire, sia per dare tempo all’altro di entrare in sintonia con il contesto creatosi attorno. La crescita di un gruppo sta nella sua dinamicità interna: “Se non ti senti in forma stamattina, puoi rilassarti un po’ sulla poltrona”, “Magari!”.
Condividendo anche aspetti del vivere quotidiano, quali pranzi, merende, feste, convegni…, sorgono, anche in queste occasioni, legami affettivi di amicizia e di condivisione di intenti e piaceri. Il veicolo, che è alla base di tutta questa evoluzione relazionale, è dato dal tipo di approccio ironico e autoironico. La leggerezza con cui si vivono tali eventi, non va a inficiare la distinzione di ruolo, del tutto naturale, che sussiste tra educatore e persona con disabilità. Infatti, durante le occasioni di svago, non mancano episodi educativi.
Può cambiare il contesto in cui si agisce, ma non lo spirito con il quale si affrontano le diverse situazioni. È proprio questa la chiave di successo dell’educatore: riuscire a creare le condizioni per colorare, macchiare, in modo allegro e contagioso, la realtà in cui si opera.

Dal punto di vista di Sandra Negri, coordinatrice educativa
Educare: dal latino educĕre «trarre fuori, allevare».
Essere educatori al Progetto Calamaio significa ciò che “essere educatori” significa in ogni contesto educativo. Ma mi spingo oltre: significa ciò che “essere in relazione” significa in ogni contesto di vita.
Ho cominciato la mia esperienza di educatrice all’interno del Centro Documentazione Handicap quando ero giovane e poco esperta di questa professione, ma soprattutto non avevo esperienza alcuna nelle relazioni con la disabilità. Mi sono ritrovata davanti a persone adulte, con deficit motori importanti e una grande consapevolezza di sé, di chi erano, di chi volevano essere, di ciò che sapevano, volevano e potevano fare in ambito lavorativo… e anche di ciò che non potevano, volevano e sapevano. Ecco, il primo impatto è stato da subito di una situazione ribaltata rispetto al mio immaginario. Io non sapevo nulla e i miei cosiddetti “utenti” sapevano tanto. La risposta più semplice era affidarmi, lasciarmi condurre, lasciarmi “allevare” in questa nuova veste che non sapevo ancora indossare.
È stata una bellissima iniziazione. E da allora – che il nostro gruppo di strada ne ha percorsa tanta – questo è ancora il punto centrale del nostro lavoro educativo. Gli educatori cercano sempre di affidarsi al sapere che la persona con disabilità porta in sé e all’occasione di crescita e di nuova conoscenza che rappresenta.
Attorno al riconoscimento dell’altro come parte attiva e indispensabile della relazione educativa, che è il punto centrale del nostro stile di lavoro, si snodano tanti altri aspetti, tutti fondanti e insostituibili del nostro accompagnare e accompagnarci reciprocamente nel percorso di miglioramento di noi stessi e del contesto in cui viviamo.

Relazione – conoscenza di sé e dell’altro – messa in gioco
Parlare di relazione non significa osservare semplicemente un elemento dell’educazione, ma affrontare l’essenza dell’educazione stessa come esperienza umana che accade tra le persone. Partendo da sé e dalla consapevolezza di chi siamo e di cosa mettiamo in gioco, attraverso la relazione avviene poi la conoscenza reciproca; quella vicinanza sensoriale e percettiva che fornisce informazioni e stimoli affinché l’altro possa rappresentare una risorsa e un’occasione di scambio, fino a diventare condivisione empatica sul piano personale e lavorativo. Si tratta di un lavoro lungo e complesso, di un percorso che richiede disponibilità a lasciarsi coinvolgere e cambiare. E quando diviene consuetudine e abilità stabile, il gruppo si fa luogo di crescita profonda per ognuno.

Creatività – apertura al nuovo – sperimentazione – improvvisazione
La disabilità ci obbliga a fare i conti con l’inatteso, l’ignoto. Ci costringe a reinventare la relazione e la collaborazione a ogni passo del nostro percorso e a ogni nuova strada che intraprendiamo. Impossibile prevedere, progettare, fare piani che verranno, con ampia probabilità, modificati. L’handicap, che è ostacolo, difficoltà, ci mette sempre davanti a un bivio: lasciarci frenare o inventare una nuova soluzione. Questo allenamento all’improvvisazione è materiale prezioso nel quotidiano per creare realtà, legami, progetti e idee nuove. La capacità appresa e allenata alla creatività è risorsa preziosa nel superamento delle criticità, nella ricerca delle risposte alle incognite che il lavoro educativo presenta e nell’incontro con l’altro, mai uguale a se stesso, sempre da conoscere e riconoscere.

Relazione alla pari – relazione di cura e di aiuto
Se la relazione è scambio, lo è anche quando si tratta di ruoli e competenze. La figura dell’educatore e quella dell’utente non sono mai definite in modo netto e chiaro. Questo è ancora più presente all’interno di una relazione che, per sua natura, è collaborazione e compartecipazione a un progetto e un’attività produttiva–la realizzazione di incontri rivolti alle scuole sui temi dell’inclusione di tutti dove l’animatore con disabilità ricopre il ruolo centrale. Nello stesso contesto e nello stesso momento, educatore e animatore con disabilità rivestono funzioni molteplici e sovrapposte dentro una relazione che è sia di condivisione che di cura. Si sperimenta contemporaneamente l’integrazione delle rispettive competenze nella conduzione dell’incontro e la rappresentazione della dinamica di aiuto laddove il deficit del collega con disabilità impedisca l’autonomia sul piano motorio o relazionale. Si realizza la piena espressione di ciò che è l’incontro e il rapporto umano fra gli individui, che sono necessariamente differenti, in cui sempre compaiono elementi quali lo scambio, l’aiuto, il sostegno, la mediazione e il piacere della comune adesione all’esperienza.

Piacere – benessere – divertimento – ironia
Ogni relazione si costruisce a partire da ciò che siamo, ciò che sentiamo. Quanto più investiamo nelle nostre relazioni, tanto più queste ci gratificano, ci danno soddisfazione e ci procurano piacere. Questo genera necessariamente un ciclo virtuoso per il quale, dalla soddisfazione e dal benessere si attiva il desiderio di entrare in una maggiore profondità relazionale che ci procurerà ancora il piacere e il gusto per quell’incontro. Il benessere inteso proprio come benessere e benestare è un tratto distintivo dei rapporti tra le persone all’interno del Progetto Calamaio. È un benessere dato dall’intensità, dalla passione, come anche dalla leggerezza e dall’allegria che ognuno porta nel gruppo. Un’alchimia fortunata che fonda da sempre le sue radici su un aspetto che, parlando di disabilità, è molto interessante: l’ironia. Ancora una volta è il rapporto alla pari che ci aiuta, che autorizza l’educatore, il “normodotato”, a toccare l’intimità dell’altro, e quindi anche la sua disabilità, con il rispetto, ma anche con la leggerezza che diventa gioco e complicità.

Uno spazio dove prendersi cura delle proprie fatiche: il gruppo educatori
Conoscenza, creatività, relazione alla pari e benessere sono alcuni degli elementi essenziali in ogni relazione, affinché sia tale. Riempiono di calore e colore un percorso di accompagnamento e di cura che porta in sé anche un grande carico di fatica perché ci fa continuamente toccare con mano le fragilità, nostre e degli altri. Per mantenere alta la qualità del lavoro e del benessere di tutti, noi educatori sentiamo il bisogno di uno spazio fisico e temporale dove prenderci cura delle nostre fatiche fisiche ed emotive. Lo abbiamo trovato nel modo in cui viviamo il gruppo educatori: un luogo indefinito, senza una connotazione precisa, dove ci stanno i rapporti personali, gli affetti di tanti anni condivisi, la complessità di tutte le nostre variegate personalità e i diversi approcci lavorativi. È uno spazio che abitiamo in ogni attimo della giornata lavorativa, ma che, in alcune occasioni, ha bisogno di mettere un confine tra sé e il resto. Sono le settimanali riunioni educatori, dove il confronto fra noi non ha interruzioni e risulta più “produttivo” e, da alcuni anni, alcune giornate nel periodo estivo dove, in una sede distaccata, accompagnati da ogni comfort, rileggiamo il lavoro svolto nell’anno lavorativo appena concluso e programmiamo quello che da lì a qualche mese ricomincerà. È una vera coccola. Un’occasione in cui ci guardiamo in faccia, esprimiamo e condividiamo come stiamo, cosa sentiamo per noi e per le persone con disabilità e sappiamo di trovare ascolto e comprensione incondizionati.

4. Asso piglia tutto

di Mario Fulgaro, animatore del Progetto Calamaio

Molto spesso non occorre, necessariamente e con urgenza, ricercare spazi di libertà dove agire; a volte basta guardarsi attorno e scoprire che sotto alla goccia del naso già è possibile respirare un piccolo antro di libertà. Si abbassa lo sguardo, si asciuga la goccia, si inala una boccata d’aria e in quel momento si sollevano gli occhi verso il mondo. Si scopre così un mini universo da incontrare e abbracciare. L’importante è spingersi in avanti, mettersi in gioco verso un naturale e spontaneo connubio con tutto ciò che la vita ci offre lietamente e gratuitamente. Se si entra in questa ottica, è facile individuare e scegliere gli anfratti più lieti e piacevoli da incontrare: “Mi piace tanto il riso e, se questo è abbinato a un ottimo sushi, la libidine raggiunge il suo ottetto, la sua configurazione più stabile, l’acme”. Non me ne privo e inizio anche a invitare gli amici a uscire, sotto lo slogan: “chi mi ama mi segua, altrimenti mi segua lo stesso”.
Il sasso è lanciato nell’immaginario lago “Sushi”; adesso occorre solo aspettare i tanti rivoli di risposta da parte di chi ha voglia di ricoprirsi di salsa di soia oppure di quella agrodolce, da cospargere per riempire il palato di insaziabile desiderio di sperimentare. “Ma sai che anche a me piace degustare le pietanze culinarie giapponesi!”. Giulia ne è coinvolta di già. Qualcosa di nuovo e piacevole sta per nascere, forse un “guscio di divagazioni”, pronto a esplodere e raggiungere ogni anfratto o vicolo o spiazzo di libertà. Non c’è tempo da perdere, il conto alla rovescia è partito e con esso anche la decisione di scegliere il luogo ideale da raggiungere, ribattezzato “Pancia mia fatti capanna!”. Google sciorina un elenco abbastanza ricco di ristoranti da conquistare e, quando si ha voglia di evadere, il successo è garantito a prescindere. Il motore della macchina rulla i suoi tamburi e, al grido di “Tanto abbiamo il pass disabili!”, ci si può sentire padroni della città. Ogni parcheggio per disabile, vicino al locale, può essere nostro, con sospiro di satisfaction.
Superato il primo potenziale ostacolo del parcheggio, non resta altro che riuscire a trattenere la grande voglia di mangiare, mettersi comodamente sulla carrozzina, sospingerla con cautela e fare la grande entrata nel ristorante. Gli occhi brillano di curiosità: “C’è posto per noi due?” si chiede quasi con inchino samurai. La scelta del posto a sedere dà il via a un vero e proprio rito religioso-culinario, dove il sacro si sposa alla perfezione col profano e la degustazione si spera sia lenta per non farla fi- nire subito. Si compie il mitico e grandioso passaggio dalla sedia a rotelle alla sedia offerta dal ristorante, come uno dei tanti avventori del locale, dopodiché si lascia in disparte, in castigo e a dieta la carrozzina. Si appoggiano i gomiti sul tavolo per prendere e dispiegare il menù: “In questo ristorante ci sono anche le foto, oltre ai nomi dei vari tipi di sushi che ti portano” mi dice Giulia, risollevandomi da ogni tipo di imbarazzo; dopotutto, anche l’occhio vuole la sua parte e, in questo frangente specifico, orienterà ogni mia scelta da compiere.
Sul menù leggo: Sushi Nigiri, Temaki, Hosomaki, Uramaki, Sushi Sushimi Chirashi eccetera eccetera…, con tanto di foto invitanti: “Ti impressionerò di sicuro per quanto mangerò!” dico a Giulia, quasi a voler legittimare la mia incontenibile fame stile Sol Levante. “Non preoccuparti Mario, io mangio almeno quattro piatti al giapponese!” questa è la risposta che suona come sfida a mangiare ad libitum: “e che all you can it sia, evvai!” penso, con la certezza di riempire all’inverosimile il mio stomaco d’ogni varietà di sushi.
Si parte, dunque, con una sfilza di abbondanti antipasti, alcuni dei quali bissati perché troppo buoni. Non temo più di fare figuracce, anzi, la mia insaziabile voglia di sushi, ricoperto da delizioso riso, mi spinge a compiere un altro rito. Quando vivo attimi incantevoli di libertà, infatti, mi piace immortalarli nella memoria, guardandomi attorno e respirando lentamente anche il più nascosto atomo di ossigeno, da lasciare in asfissia chi mi sta accanto. Per fortuna Giulia mi sta di fronte e ha sufficiente aria per sopravvivere; ne sorrido compiaciuto e intanto continuo a sospirare di contentezza. In questi momenti, vorrei tanto espandere tutta la mia felicità negli animi altrui, per condividerla in un giro armonico e infinito, in grado di toccare nel profondo le corde del cuore. Grande sospiro allora e sguardo verso il basso, a fissare ogni pietanza che scorre sotto il mento, per poi solleticare e stimolare l’olfatto e il palato in segno, adesso, di intimazione alla Alberto Sordi: “Sushi, m’hai provocato?… e io me te magno!”.
Il giorno dopo, io e Giulia condividiamo la nostra esperienza culinaria con colleghi e amici, suscitando un discreto “successo” e voglia di reiterare con altri nuove esperienze “mangerecce”. Tutti iniziano a proporre un luogo da raggiungere entro i confini di Bologna, fisicamente, ed entro i confini mondiali, “esoticamente” parlando: “Si potrebbe andare al ristorante greco!” dice qualcuno, “No, no, meglio l’indiano!” controbatte qualcun altro, “E che ne dite del thailandese?” chiede timidamente qualche coraggioso, ma su tutti domina la proposta di tigelle e crescentine, oltre che di tipica cucina bolognese a Montecapra. “Bologna la Grassa vince sempre su tutto!” penso, sorridendo sotto i baffi. So benissimo che si gioca in casa di Balanzone, tipica maschera bolognese “saccente e presuntuosa”, quindi non obietto, anzi mi lascio trascinare dalle voglie gastronomiche altrui, in fondo a me interessa uscire dalle quattro pareti di casa e assaporare ottime pietanze in compagnia.
Il giorno designato per la nostra sortita a Montecapra sembra promettere bene sin dal mattino. Infatti, il sole di inizio luglio ha deciso di rallegrare, con i suoi caldi raggi, finanche ogni cantuccio assopito e distratto dell’animo e di tutta la natura attorno. Si leva lo sguardo al cielo, quasi a voler scoprire nell’immenso degli spazi definiti dove far esplodere i desideri più segreti, in un gioco pirotecnico di emozioni e sensazioni intense: “L’estate esercita sempre un fascino particolare e ammaliante su di me, rendendomi tanto felice da toccare punte di autentica euforia!” affermo a chi mi sta accanto. La mia macchina è pronta a far vibrare, con forza e decisione, le corde dei suoi cilindri. C’è solo da attendere un autista esperto e dotato di patente. Giulia sembra fare al caso: “Per fortuna la mia macchina è una Dacia come la tua e riesco a capire alcuni suoi particolari meccanismi!” conferma l’autista prescelta. Si parte, quindi, con baldanza.
Le strade di Bologna, agli occhi inesperti di chi, come me, è sprovvisto di patente, appaiono tutte uguali e senza una definizione ben precisa. Mi lascio condurre, convinto di raggiungere la località prescelta, entro i tempi necessari a trovare le varie “pappatorie” ancora fumanti. I confini bolognesi, a un certo punto, cedono il passo a una lunga e tortuosa strada in salita, ma il desiderio irrefrenabile di tigelle, piadine e crescentine sprona ad andare avanti. In fondo, anche il più refrattario e indolente pigrone del mondo sarebbe spronato ad avanzare senza indugi. Si sa che la fame e la gola sono in grado di sconfiggere ogni barriera insormontabile, quindi una semplice stradina di provincia finisce con l’assumere le sembianze invitanti di un trampolino di lancio verso una sicura abbuffata: “Non riesco a trattenere l’acquolina in bocca!” penso con voracità.
Il bello di viaggiare con un’autista abile e attenta è trovarsi in una situazione come quella appena descritta, infatti prima di ogni curva è quasi d’obbligo avvisare, con un colpo di claxon, potenziali automobilisti provenienti dal verso opposto. Sembra di essere stati invitati a un sontuoso matrimonio e più si “strombazza”, più il matrimonio diventa, simbolicamente, principesco. Se ne sorride allegramente.
Il ristorante spalanca le sue braccia, invitando i suoi avventori a parcheggiare nello spiazzo antistante: “Finalmente siamo arrivati, à nìn potèv piò!” (trad. non ne potevo più!) esclamo in bolo-pugliese. Gli altri colleghi e amici salutano, sbracciandosi e sorridendo: “Uèèèhhh, siamo tutti qui! Entriamo?” parole sante, che risuonano al mio udito come invito a ingozzarmi.
Il tavolo a quattro posti sembra proprio fatto apposta per noi: io, Giulia, Patrizia e Tommaso. L’appetito reclama il suo quinto posto, in primo rilievo rispetto agli altri, tanto da spronare la ricerca immediata della cameriera, per ordinare tutte le pietanze tanto agognate. Lo stomaco borbotta di sano appetito. Oltre alle già citate tigelle, piadine, crescentine, si aggiungono sottoli e sottaceti e un coraggioso ordine di primo piatto da parte di Tommaso. Come sempre accade, la cena assume la valenza di un patto a quattro, come il patto atlantico, dove si dividono equamente i piatti da divorare. Lo spirito di gruppo sprona ognuno ad andare oltre la cena e ricercare, anche con la forza del pensiero e della mente, legami di vario tipo. Così tra una spiritosaggine e l’altra, si finisce con il condividere esperienze personali di vita, dal chiacchiericcio da pianerottolo ai discorsi più consistenti di lavoro, genitorialità e religione. Proprio quest’ultimo tema funge da pretesto a Tommaso, dalle origini italo-giapponesi, per erudire la sparuta platea di amici su argomenti filosofico-religiosi circa il Buddismo e il Karma. La cosa si fa interessante e incuriosisce tutti.
A fine cena, attraverso un giro turistico in macchina, per luoghi caratteristici della zona, si sente la necessità di smaltire i chili di troppo acquisiti e tutti i sensi di colpa a essi collegati. I sorrisi di ognuno legano, ancor di più, gli spiriti, tanto da rendere irrisoria la mia osservazione: “La mia badante vorrebbe che io rientrassi presto stasera, ma mi sa che…” e all’unisono si conclude “…resterà delusa!”. Proprio in quel momento, un grande cancello ostacola l’accesso a un ampio spiazzo, antistante una sorta di abbazia. Si cerca invano un ingresso laterale o, più ancora, posteriore: “Non sarà mica la vendetta della badante a impedirci di entrare? Se fosse davvero così, sarebbe lo spunto per un film horror!” penso, sentendomi, per un attimo, un regista alla Dario Argento. “A cosa stai pensando, Mario… alla badante?” con questa domanda, accompagnata dai risolini di tutti, comprendo che sta rafforzandosi uno spirito di gruppo, equiparabile al migliore dei legami di amicizia.
La voglia di vivere fino in fondo la serata, spinge a divagare sui possibili prossimi appuntamenti: “Il 18 è il mio compleanno, che ne dite di organizzare qualcosa?” domando con discrezione, trovando la piena approvazione degli altri. “Si potrebbe andare all’indiano, è da un po’ che ne parliamo!”. Il gruppo non perde occasione per ricompattarsi su proposte di svago e divertimento, proprio come un “asso piglia tutto”, non si priva di nulla. Ecco il nome da dare al neogruppo di anici: Asso Piglia Tutto!
Festeggiare il mio compleanno in un ristorante indiano è davvero un’ottima idea, da riempire i pensieri di felicità. Giulia è puntuale come un orologio svizzero e io, altrettanto preciso, ho già la chiave della Dacia e il contrassegno per disabili in mano. Una spruzzatina di profumo sotto le orecchie, giusto per dare l’impressione di essere quello che non sono, cioè un fighetto dell’Orsa Maggiore, una “aggiustatina” all’immancabile marsupio poggiato sull’addome e via si parte in direzione della Nuova Delhi di via S. Felice. “Mio fratello mi ha detto che la cucina indiana è molto piccante!” dico a Giulia con espressione del viso poco rincuorante, “Non è detto, basta fare attenzione e scegliere bene!” la risposta sicura spazza via ogni potenziale perplessità.
Il traffico scorrerebbe spedito e veloce se non fosse interrotto dai tanti semafori rossi. La fame, però, non reclama alcuna fretta, anzi lascia che lo scorrere del tempo faccia lievitare i desideri culinari più curiosi. “Alla fine anche Andrea ha deciso di venire. Bisognerà raggiungerlo in Piazza dei Martiri, dove ha la fermata l’autobus proveniente da Minerbio! Ti dispiace se poi andiamo a prenderlo?” la bella notizia di Giulia mi riempie di gioia: “Nessun problema! Sono arcifelice che anche Don Calogero sia dei nostri stasera!”. Il duo pseudo-malavitoso del “Gruppo Calamaio”, costituito da me, alias Don Vituzzo, e Andrea, per l’appunto Don Calogero, può rimanere cristallinamente compatto.
Il parcheggio, riservato ai disabili, è subito occupato dalla mia Dacia, a poca distanza dal ristorante. Giulia prende la carrozzina dal portabagagli, la apre per bene e con cura, la posiziona davanti ai miei piedi instabili e aspetta che io compia il “prodigioso saltello” dal sedile dell’auto alla sedia a rotelle. Nonostante questo piccolo o grande sbattimento, a seconda dei punti di vista, si respira una gran voglia di vita e di libertà: “La vita è nostra!” ribadisco per l’ennesima volta a Giulia che, con aria compassata, risponde “Cerchiamo di raggiungere Andrea a Piazza dei Martiri adesso!” ne sorridiamo. Anche questa serata promette bene.
D’altronde penso sia nella natura umana ricercare condivisioni rilassanti e serene. Il “guscio di divagazioni” sta imparando a esplodere, pronto a coinvolgere, di contagiosa allegria, quanti nutrano anche un piccolo bisogno di aprirsi al mondo.
Peccato che l’ora si sia fatta tarda e il sonno post-cena, inversamente proporzionato, si affacci sempre più con prepotenza; è segno che l’ora del desio è ormai giunta! Libertà. Tempo libero. Probabilmente ognuno di noi ne darebbe un’interpretazione diversa. Parliamo della possibilità di scegliere, consapevolmente, come riempire gli spazi di libertà personale. Ma chi può dire di essere davvero padrone del proprio tempo?

Simpaticamente contagiati dalla “viaggite”

di Mario Fulgaro, animatore del Progetto Calamaio

In occasione della nona edizione di I.TA.CÀ, il Festival del Turismo Responsabile, il Progetto Calamaio ha incontrato Fabrizio Marta, viaggiatore con disabilità e autore del blog “Rotellando” su Vanity Fair. Ascoltare i suoi racconti è stata davvero un’iniezione di coraggio e di bellezza, un vero e proprio contagio che ci ha subito fatto venire voglia di preparare le valigie! Qui un ritratto di Fabrizio direttamente estratto dal nostro diario di bordo.
Ipotizziamo che l’idea di viaggiare da soli o, per meglio dire, in compagnia solamente dei propri bagagli a mano, possa balenare periodicamente nella mente di ognuno; ipotizziamo sempre che questo “ognuno” sia un disabile in carrozzina e, giacché ci troviamo, ipotizziamo pure che questa voglia di evadere e sperimentarsi si spinga fino a toccare mete transnazionali, per raggiungere paesi oltreoceano. Una televenditrice sciorinerebbe a tal proposito un elenco schizofrenico di luoghi lontani e allettanti da raggiungere, così da propinare al nostro viaggiatore con disabilità un pacco regalo già bello e pronto, in pieno stile “No Alpitur”.
C’è qualcuno tuttavia che ha immaginato una possibilità diversa, pensando per esempio, di programmarsi un viaggio da sé e di personalizzarlo di volta in volta a seconda delle proprie esigenze, gusti, abilità, deficit e risorse. Un’idea assai allettante per tutti ma spesso, lo sappiamo, irta di talmente tanti intoppi e di difficoltà da rendere il sogno della partenza estremamente lento e faticoso. Un bell’esempio però ci arriva da Fabrizio Marta, giornalista e disabile in carrozzina che, vuoi per lavoro vuoi per vocazione, si è sempre sentito interpellato in prima persona su questi temi e, per questo motivo, altrettanto pronto a partire per qualsiasi tipo di“avventura itinerante”.
“Ci vuole tanta voglia di sperimentarsi e un po’ di coraggio!” è l’insegnamento che emerge direttamente e indirettamente dal semplice dialogo con Fabrizio, nato durante la partecipazione del Progetto Calamaio alla nona edizione di I.TA.C.À, il primo Festival del Turismo Responsabile in Italia, ormai divenuto un appuntamento fisso del nostro maggio bolognese.
Ad ascoltarlo viene spontaneo scavare nella propria coscienza per scoprire ogni volta quanto illusori siano tutti i timori e le perplessità sulle proprie capacità organizzative. L’autostima ne guadagna istantaneamente e così scopriamo che dalla Sicilia alle Alpi il territorio nazionale è sempre più mappato da “eccitanti” viaggi, si iniziano a scoprire le diverse usanze delle regioni italiane.
Osserviamo le immagini proposte, i video, le cartoline di viaggio. Una volta esplorato il Belpaese l’ipotesi iniziale di un viaggio oltreconfine si concretizza sempre più e l’Italia da sola inizia a non bastare. Per contenere appieno tutto il desiderio di evasione, occorre spingersi oltre, mettendo alla prova tutte le proprie energie. Non c’è disabilità che impedisca a questo punto!
La prima scelta potrebbe benissimo cadere su un paese lontano, ma dalla cultura quanto più simile, se non identica, alla nostra. Gli Stati Uniti sembrerebbero fare al caso nostro. Il passaporto assume sempre più il valore di un badge, per schiudere ogni porta e dare pieno sfogo alla “viaggite”, così come Fabrizio chiama questa sua incontenibile “smania” di viaggio, di sperimentazione, di curiosità tesa a conoscere il mondo, paragonando il tutto a una sorta di sindrome. Non se ne può che sorridere e, di quello sguardo, sentirsi complici. Gli Stati Uniti iniziano a non apparire più insormontabili nella loro tendenza alla magnificenza e grandezza, anzi, visti da vicino, diventano più umani e non solo sovraumani, come vorrebbe una certa iconografia hollywoodiana. Suscettibile anche di qualche giudizio valutativo, New York, agli occhi del nostro visitatore, inizia sempre più ad apparire come una mela da sgranocchiare con cautela e accortezza.
Infatti, rispetto all’Europa, dove l’atteggiamento della gente verso i disabili è più di premurosa attenzione, a volte anche asfissiante, negli USA il comportamento delle persone è più di consueto distacco: “Gli statunitensi presuppongono che ognuno sappia provvedere a se stesso, senza bisogno di aiuto da parte di qualcun’altro” afferma Fabrizio con nonchalance. Come nei vasi comunicanti, se da una parte la Grande Mela perde un po’ di austera grandezza, dall’altra parte crescono la sicurezza e l’autostima di chi è in viaggio, sprezzante di ogni eventuale infortunio.
Durante un viaggio, lo abbiamo già sperimentato insieme, si avverte quasi sempre l’urgenza di immortalare, con delle foto o, più ancora, con qualche filmato, i ritagli migliori della propria esperienza, da condividere in un secondo momento, una volta ritornati alla “casa base” in Italia, con amici e conoscenti. Così, anche Fabrizio ci spiega perché ha cominciato a filmare e a fotografare i luoghi o monumenti, i frangenti salienti dei suoi spazi vitali di libertà. Chi lo ascolta, percepisce tutto questo e, come una scintilla che si accende nell’animo, ne è compiaciuto.
I viaggi continuano con crescente entusiasmo, affinando sempre più le strategie di scelta sulle mete da raggiungere: “Ovviamente – spiega il reporter – prima di partire mi documento sui luoghi da raggiungere, per capire se sono adatti ad accogliermi!”.
Il materiale fotografico, multimediale e conoscitivo inizia a cumularsi. Si sente, a questo punto, l’esigenza di non tenere tutto contenuto nell’ormai stretta cerchia di conoscenze di tutti i giorni. È più che plausibile allargare anche i propri confini esplorativi a 360 gradi e, se possibile, an- che qualcosa in più. Ed è così che nasce il blog “Rotellando” che dal 2012 Fabrizio cura su Vanity Fair, dove, curiosando tra i diversi archivi, è possibile imbattersi piacevolmente in qualche filmato di viaggio. L’avventura a Copenaghen, per citarne una, riprende il nostro protagonista, con fare tranquillo e sicuro, tra le strade e i posti più caratteristici. Il filmato dà ulteriore testimonianza di quanto affascinanti siano i suoi racconti, conditi sempre di considerazioni e insegnamenti: “Ho potuto constatare che nelle città dei paesi nordici ci sono meno barriere architettoniche!”.
Rientrati dalla Danimarca e dalle sue meraviglie il nostro incontro volge al termine ma resta in noi la scia di ricordi, fotografie di paesaggi vissuti e desideri, esplorazioni da condividere, il senso di un futuro privo di condizionamenti. Parlando con Fabrizio, il tempo finisce con il vibrare sulle lancette emozionali del cuore. Si concretizza sempre più la convinzione di trovarsi di fronte a un esempio vivente di contagiosa voglia di vivere.
Non ci resta allora che ringraziarti, caro viaggiatore di Domodossola, mentre ti osserviamo guizzare via veloce sulla tua carrozzella verso la stazione di Bologna…
E noi ricordiamo sempre che, se si hanno ancora delle esitazioni a partire, l’unica soluzione sta in una trasfusione, anche di poche gocce, di “viaggite”.

Sul grande schermo: Il body building che rafforza lo spirito

di Mario Fulgaro e Giulia Maccaferri

“La libertà, se l’ha dimenticato,
è il diritto dell’anima di respirare, e se
essa non può farlo le leggi sono cinte
troppo strette.
Senza libertà l’uomo è una sincope”. (Will)

Boston, un gruppo di ragazzi scapestrati, tante birre e la matematica. È questa la ricetta di Will Hunting Genio ribelle, film uscito nel 1997 diretto dallo statunitense Gus Van Sant. 126 minuti di navigazione nell’universo di Will, il protagonista un po’ sbandato che finisce spesso nei guai con la legge. Solito film sul disagio giovanile? No. E qui entra in gioco il MIT, l’Università americana più prestigiosa nel campo delle scienze, dove Will lavora come tuttofare e dove ogni tanto si diverte a risolvere problemi matematici complicatissimi. In una di queste occasioni la sua genialità viene notata dal professore di matematica dell’Università, che – seppure incredulo – è deciso a non farsi scappare un simile talento. Ma dopo una nottata di eccessi (birre e alcool a gogò), Will viene arrestato e assegnato ai servizi sociali: per riscattare la pena deve seguire una terapia con uno psicologo che, su pressione del professor Lambeau, cercherà di aiutarlo a cambiare totalmente la sua vita. Tra alti e bassi, Will sembra non avere la tenacia e la determinazione di credere nel suo potenziale: ciò che lo aspetta nel futuro lo spaventa e si ostina a rifiutare l’aiuto di chi gli sta accanto. Nel corso del film, tuttavia, lo psicologo (interpretato da uno spettacolare Robin Williams) riesce a fargli cambiare idea, apre una breccia nella sua corazza e ne conquista la fiducia. Questa occasione, e la scelta di coglierla, porterà una svolta nella sua vita, facendogli capire che chiunque, a prescindere dal passato, merita una seconda opportunità.
Proprio il rapporto tra Will e lo psicologo è al centro di questa riflessione. In che modo ognuno dei protagonisti si è aperto all’altro? Lo psicologo, per primo, ha parlato di sé, del suo passato, del proprio vissuto, per scoprire legami in comune su cui imbastire un dialogo con Will. Uno degli aspetti salienti della vicenda è, infatti, il sapersi mettere a nudo di fronte agli altri.
“Io andavo spesso dallo psicologo e, nei vari incontri, ho provato a mettermi a nudo, ma non è stato facile perché aprirsi con persone sconosciute su problemi personali non è scontato”, racconta una nostra collega dopo la visione del film. “Anche io sono andato dalla psicologa ma non siamo mai riusciti ad avere fiducia l’uno nell’altra; eravamo molto distanti tra noi e non ci prendevamo bene”, un altro commento di chi ha osservato il film.
Una voce in controtendenza, invece, dichiarava che “nel film piace vedere come entrambi abbiano raggiunto il proprio obiettivo; nello psicologo c’è stata prima un’analisi introspettiva, in relazione allo studente, per poi cercare di instaurare un dialogo con quest’ultimo. Nello studente, invece, il processo è stato inverso; Will è stato prima protagonista di un inatteso incontro con lo psicologo, per poi cercare di metabolizzare tutto ciò che stava per lui emergendo involontariamente”.
I due diversi approcci possono essere presenti anche in un singolo soggetto che, a seconda delle circostanze, può vivere la propria condizione in modo introverso o estroverso, da osservatore passivo o incuriosito o, più ancora, critico e analitico. La cosa più importante non è stabilire previamente un iter cronologico di strategie da poter utilizzare per affrontare il mondo, perché tutto emerge in modo spontaneo e naturale. È sbagliato recriminare sulle scelte passate in base al proprio vissuto presente, poiché le scelte compiute hanno trovato la loro esatta collocazione in quel dato momento storico della propria esperienza di vita. Infatti, tutto ciò che sperimenta Will rispecchia, in modo diverso ma sostanzialmente uguale, le vicende di chiunque. La chiave di successo sta nel riuscire a mettersi in gioco e ad aprirsi quanto più possibile a 360 gradi, per abbracciare la vita in ogni suo minimo aspetto. Solo così si riesce a sentirsi parte integrante di un tutto “insieme” che ci circonda. Il mondo, la vita non devono apparire co- me altro da sé, motivo per sentirsi anche vittime sacrificali, ma parte integrante del proprio sentire e vivere. Sappiamo tutti che non è assolutamente facile raggiungere l’obiettivo di stare in pace con se stessi, e di conseguenza con gli altri, ma ci si può impegnare giorno dopo giorno per il conseguimento di questo obiettivo. È anche una questione di esercizio o di allenamento; il body building che rafforza lo spirito è attivo ogni giorno, in ogni istante.
Infine, per chi ama la musica ma anche per tutti gli altri, vi consigliamo di ascoltare un’artista che ha fatto di questa filosofia il leitmotiv di tutta la propria esistenza, Eddie Vedder, leader storico della band statunitense Pearl Jam. Buon ascolto!

6. E’ ancora azzurro l’inchiostro sul Calamaio

di Mario Fulgaro, animatore con disabilità del Progetto Calamaio

Ogni apparente insuccesso nasconde in sé la spinta per ricominciare con nuovo e imperioso slancio, in vista di successi ambiti. La nostra storia parte 30 anni fa, come la Nazionale di calcio di Enzo Bearzot che, dopo la deludente débâcle nel corso dei mondiali in Messico del 1986, lasciava il timone di guida alla rinascente Nazionale di Vicini. Così in quello stesso anno nasceva uno sparuto gruppo di audaci che, partendo dall’esperienza all’interno del Centro Documentazione Handicap di Bologna, nato quattro anni prima, aveva il compito di traghettare il tema della Diversità nel grande mondiale dell’Inclusione. Come Vicini, anche gli audaci partivano da una base precedente di talenti da sfruttare al meglio. L’Altobelli della situazione era rappresentato da Claudio Imprudente, bomber di classe e di esperienza. Non era richie- sto alcun successo nell’immediato, ma la semifinale agli Europei, come i primi scritti di Claudio, era un ottimo sprone a proseguire il cammino, affinando sempre più le proprie potenzialità. Così facendo, era inevitabile attirare su di sé le attenzioni di chi fino ad allora era stato distratto da altre innumerevoli vicissitudini. Nasceva il Calamaio, un gruppo lavorativo di quattro persone disabili, che avrebbe aumentato di numero e specificità propria, assumendo nel corso degli anni un ruolo educativo in grado di partire dalle scuole per raggiungere, con i suoi solleticanti e allegri tentacoli, diversi ambiti della società.
Si sapeva di dover giocare in casa nei prossimi mondiali e questo caricava di ulteriore responsabilità ogni scelta che si compiva. I nostri audaci protagonisti di questa fantastica storia non si intimorivano affatto, tanto da rigonfiare il petto in avanti e alzare la testa e lo sguardo verso vette sempre più ambite: “Tutto è raggiungibile se gli sforzi di ognuno sono impiegati per un unico obiettivo, cioè la vittoria!”. Agli assist dei vari Donadoni e Vialli, nelle vesti di Michele Morritti e Alberto Fazzioli, Claudio assumeva sempre più le sembianze del nuovo bomber italiano Totò Schillaci. Le notti magiche venivano così illuminate da idee sempre più fervide e accese dei nostri piccoli e grandi eroi, che ormai da quattro anni avevano gettato le basi per nuovi e ristrutturati stadi da Canicattì a Caorle, aggiungendo nella propria rosa di fuoriclasse talenti quali Andrea Pancaldi, già presente nella primissima formazione, Mauro Sarti e Nicola Rabbi, nelle vesti anche loro di azzurri vincenti, quali Giannini, Baggio e Baresi. Dall’86 il telefono ha cominciato a squillare, chiedendo incontri amichevoli e ufficiali ai nostri campioni superdotati di idee geniali e originali, oltre che a tocchi di rimbalzo dialettico da vere e proprie stelle del firmamento. Il destino in forma di assist da parte di Maradona per Caniggia spezzava solo per un istante l’incanto di una sicura finalissima e audace vittoria da sottoscrivere agli annali della storia sportiva e umana.
Il bronzo a quei mondiali segnava comunque una rivoluzione copernicana, destinata a non interrompersi e a continuare la sua escalation intrepida e ricca di nuovi e rinnovati entusiasmi. Il telefono, infatti, da quel momento ha continuato a raddoppiare, se non triplicare o quadruplicare, i suoi squilli. Le richieste di nuovi incontri non hanno smesso, visto che la nuova équipe trovava una nuova guida in un rinnovato e messo a lucido Claudio, tanto da avere un look molto simile a quello di Arrigo Sacchi. “Ma noo, il gioco del Calamaio adesso si fa sempre più Imprudente! Non resisterà tutto il Mondiale!”. A Nashville, il fuso orario si congiungeva a quello del 2008, dove la nazionale del Calamaio avrebbe disputato, nella nostra storia, un Mundialito di successo; ma ci trovavamo ancora nel 1994, quindi procediamo con ordine: “Grande Giove!” direbbe lo scienziato pazzo “Doc” del film “Ritorno al futuro”. Molti nel ’94 avrebbero giudicato, e forse lo hanno fatto, come un’autentica pazzia quella di catapultare delle persone disabili nelle scuole italiane, a interloquire con inse- gnanti e studenti, ignavi ancora di esperienze alternative e diverse da quelle a cui abitualmente erano sottoposti. Questa volta era super finale con il favoloso Brasile, la cui storia affondava le sue radici nella Trimurti calcistica di Didì, Vavà e Pelè, che altro non erano che la cultura ancora imperante nel ’94 su temi scottanti come l’integrazione, la disabilità e la diversità. Era un rimbalzo dialettico e in itinere quello che vedrà, solo ai calci di rigore, trionfare un vincitore a metà, visto che lo scambio di informazioni e ammiccamenti era ancora in atto e solo all’inizio di nuove tappe da percorrere tutti insieme: Calamaio, scuole e istituzioni. Il compito dei nostri impavidi eroi non ha trovato un suo sereno e appagato epilogo, perché il tema della diversità, ci auguriamo, troverà sempre nicchie da colmare e arricchire di contenuti, sorprendenti e contraddittori nella loro ricchezza. Il superamento dell’imbarazzo, nella forma del vecchio modulo di gioco catenacciaro, o lo scavalcamento del timore, come di antiche logiche di marcamento a uomo, devono e dovranno sempre più trovare il coraggio di sposare forme più audaci e spumeggianti di gioco a zona con pressing. L’Inclusione deve e dovrà macchiare tutti gli spazi del rettangolo di gioco, dipingendo con ironia e autoironia, dapprima i propri animi di vivaci colori e, poi, investire di felice colorazione le tattiche altrui, ancora frenate da logiche obsolete di strategie d’approccio.
Questo era il compito di un rinnovato Calamaio, guidato da una nuova dirigenza tecnica, che trovava il suo originale nome in “Claudio Maldini”. L’apparente regresso verso un gioco più difensivo e riflessivo della nostra nazionale, con capitano l’ormai collaudata ed esperta Stefania Baiesi, trovava il suo ostacolo maggiore nei padroni di casa francesi nel mondiale ’98. Il bagaglio culturale ed esperienziale si arricchiva di più, trovando altri uditori attenti e pronti a imparare dal vissuto altrui. Infatti, a Nashville la nazionale del Calamaio trovava un amichevole e utile torneo pre-mondiale, durante il quale si sarebbe appreso, più che mai, come l’ascolto attento fosse elemento essenziale per ogni insegnamento efficace. Ogni relatore diventava un uditore di nozioni importanti, come chi ascoltava poteva contribuire con osservazioni e pareri al pari indispensabili per un lavoro più compiuto e privo di sciocche lacune, da non perdere e custodire preziosamente, di modo da rielaborarli tutti insieme. La palla rimbalzava tra un rigore francese e un rigore italiano, tra un parere del pubblico e un parere del Calamaio. Tutto arricchiva, in mondovisione, l’intera platea di nozioni e idee, contribuendo ad alimentare una conoscenza enciclopedica che, oltre a nutrirsi di tanti testi in materia di Diversità, metteva in campo tutto il proprio sapere in modo pratico e di scambio. Alla teoria si affiancava la pratica, spalleggiandosi l’una all’altra, da Nashville a Parigi, come da Roma alla potenziale Buenos Aires. Il Calamaio si apriva così, a ogni richiesta, da qualsiasi parte del mondo. Il goal sfiorato da Roby Ghezzo-Baggio, prima della sequela di rigori, faceva comunque ben sperare nel prosieguo di una vincente storia delle nostre nazionali, infatti, da lì a poco c’era la grande possibilità di una rivincita con gli Europei del 2000, recuperando ciò che si pensava aver stupidamente perso. Il Calamaio, sotto la guida tecnica di uno pseudo Dino Zoff, era già pronto a partire, ricco delle esperienze del passato, con una strategia più attendista, in vista di una rinnovata ripartenza in contropiede. La nuova tattica alla Enzo Bearzot sembrava voler sposare il nuovo Calamaio alle sue radici e il tentativo trovava buon esito nella finalissima raggiunta, proprio con i famigerati cugini francesi, ora campioni del mondo. In uno scambio di conoscenze ed esperienze, già vissute e da regalare agli altri, gli interlocutori incantavano ogni platea e non bastava uno Zidane o un Totti (quale Fabio Garavini) per riassumere tutto lì un discorso avviato molti anni prima. Tutto era ancora da scrivere e vivere sulla propria pelle, per tramandare co- noscenze imperdibili alle generazioni future. Lo scambio, infatti, trovava i suoi interlocutori non solo in quello che si viveva nel presente, giorno dopo giorno, ma anche in quello che si era vissuto e in quello che si desiderava vivere in futuro: “Grande Giove!” passato, presente e futuro erano assemblati in un unico spazio temporale, sicché tutto era, è e sarà nella mente di ognuno come un unico indimenticabile ricordo, in grado di ridisegnare l’ottica di tutti da una prospettiva diversa e più arricchente.
Non c’era assolutamente motivo per demordere, anzi, i successi ottenuti spronavano la Nazionale del Calamaio a ricercare nuove energie per ripartire e incantare piacevolmente ogni possibile avversario nei Mondiali del 2002. Novità delle novità era quella di tingere di rosa la figura del nuovo commissario tecnico, nella veste di Sandra Negri-Trapattoni: “Ma sì! Ci sembra la figura più adatta per il nostro storico modulo di gioco!”, “Ma noo! Non ha mica tanta esperienza con la tavoletta di Claudio-Herrera!”. Tutto sembrava riportarci a una tipologia di polemica legata a un passato remoto che, volenti o nolenti, tendeva sempre a riaffacciarsi con prepotenza. Le polemiche pre- partita erano elemento essenziale per la presentazione vincente di qualunque CT della nostra intrepida “Nazionale calamarina”. Gli schemi tattici si confacevano alle caratteristiche dei suoi fuoriclasse, trovando in una sempre giovane e poliedrica formazione del Calamaio, gli assist man per le involate al limite del fuorigioco di Cinzia Pirazzini-Inzaghi. Solo la svista arbitrale di un certo Moreno, alias la scarsa attenzione verso le posizioni, regolari o no, dei giocatori e protagonisti della nostra storia nel rettangolo di gioco, che altro non è che la vita, frenavano il cammino spedito verso una vittoria certa. Nessuno si rendeva conto, in quel momento, che solide basi vincenti erano ormai collaudate e cementate, più degli spinaci di Braccio di ferro: “Per cento pipe!”, alla faccia di Bruto-Moreno! Era nata da poco la Cooperativa Accaparlante ed era più che naturale sentirsi scoperti da ogni protezione di qualsivoglia deus ex machina; ma la funzione educativa della nostra Nazionale era ormai avviata a correggere le altrui storture comportamentali. Con il solo esempio offerto dalle proprie azioni concrete, ci si sentiva di agire alla pari dei presunti superiori popoli nordici. Infatti, il 2 a 2, concordato prima a tavolino e poi in campo, tra le rispettive Nazionali di Danimarca e Svezia nel corso dell’Europeo 2004, sembravano stringere in un angolo di isolamento perdente gli orgogli, mai sopiti, dei vari Gattuso-Galavini, Cannavaro- Parmeggiani. Davanti al televisore, non bastava assistere alle dovute scuse danesi e svedesi per dissipare l’urgente necessità di rivalsa. Cresceva sempre più la consapevolezza nelle proprie potenzialità, da spendere al meglio per raggiungere vette ambite, di modo da goderne i frutti prelibati di ogni successo. Il Calamaio sentiva di poter assolvere in pieno a questo compito di rivincita nei confronti della malasorte, mettendo in campo il meglio di sé, in termini di conoscenza tattica e di esperti su temi a noi cari, come la diversità, la disabilità, l’inclusione, l’integrazione, l’accessibilità, l’autonomia, la consapevolezza di sé.
L’occasione di rivalsa era offerta, due anni dopo, nel corso dei mondiali di Germania 2006, prima dei quali molti davano per perdente la squadra italiana di calcio. Si capiva, più che mai, che occorreva procedere passo dopo passo, come spesso sembra che faccia il Calamaio, senza farsi illusioni di grandi vittorie ma con la convinzione di lasciare, sempre e comunque, una macchia felice e indelebile nelle coscienze.
All’affermazione ottimistica del CT Azzurro, circa lo spirito di gruppo e la coesione dei giocatori da impiegare nel corso del torneo, seguiva un ironico e autocritico mormorio di disappunto: “Ma figurati se abbiamo la possibilità di arrivare in alto!”. La consapevolezza delle proprie potenzialità non bastava, occorreva lavorare, adesso, anche su un percorso di autostima, così anche il Calamaio era pronto a elaborare e affrontare laboratori interni, finalizzati proprio ad accrescere l’autostima dei suoi partecipanti. Lo spirito di gruppo e la voglia di mettersi in gioco, giorno dopo giorno, erano i punti di partenza indispensabili per raggiungere risultati quanto più co- struttivi e vincenti. La prima gara vedeva fronteggiarsi Italia e Ghana e l’avventura mondiale poteva partire, come il Calamaio avviava un percorso più accurato sulla conoscenza di sé, attraverso un riconoscimento e un’analisi più approfonditi delle proprie qualità. Le vittorie per 2 a 0, rispettivamente sul Ghana e sulla Repubblica Ceca, rispecchiavano appieno la doppietta siglata dal Calamaio al suo interno, affrontando, con successo, temi sull’immagine che si ha del proprio corpo e la relazione che ne consegue con il mondo circostante. Per affrontare con successo un avversario, sulla carta superiore o inferiore, occorreva tenere alta la concentrazione, attraverso un riscaldamento che fungeva anche da preparazione psicofisica. Occorreva avere a mente, il più possibile, una conoscenza sensoriale e motoria di sé, partendo da una pausa di riflessione, che permettesse di conoscere innanzitutto l’avversario rappresentato dalle proprie paure. È un esercizio introspettivo che aiuta ad affrontare ogni situazione, comoda o disagevole che sia, per superare ogni ostacolo, dato spesso da quei blocchi mentali che, in modo del tutto naturale, vengono a crearsi. Il Calamaio lasciava il suo iniziale colore grigio per tingersi di curiosità e allegria, rispecchianti più a colorazioni vivaci quali il giallo e l’indaco. L’Australia era il prossimo avversario della Nazionale italiana, mentre il Calamaio, nei suoi partecipanti, doveva scontrarsi, per ognuno, con il proprio alter ego, rappresentato dall’immagine reale nello specchio. Ognuno doveva descriversi nelle sue caratteristiche fisiche, sia positive che in quelle più negative: “Non è affatto facile descrivere se stessi!” esclamavano in tanti. La partita si trascinava stancamente su uno squallido 0 a 0, quando una simulazione di fallo in area di rigore australiana, da parte di Grosso, alias Lorella Picconi, portava l’indice dell’attenzione sul dischetto: “Vorrei essere un alieno con il seno più prosperoso e lo stomaco più piccolo!” affermava Lorella, calciando il rigore della vittoria e aprendo le porte alla prosecuzione di un Mondiale che, solo adesso, attirava le attenzioni anche dei più scettici. Le famiglie, sempre più, venivano coinvolte dalle prodezze degli eroici protagonisti dei match fin qui svoltisi. Dunque tutti davanti ai teleschermi delle proprie coscienze a tifare per risultati da raggiungere e realizzare, inimmaginabili solo fino a quel momento. Tutto taceva di giudizi e critiche, in un ammiccante scambio di emozioni ed entusiasmi a tinte sempre più azzurre: il prossimo ostacolo è rappresentato dall’Ucraina e non bastava nominarla, occorreva anche conoscerla per comprenderne il reale rischio. I membri del Calamaio iniziavano a scambiarsi informazioni su se stessi, facendo conoscere agli altri ciò che di più intimo e più personale si svelava in modo sempre più avvolgente, anche e soprattutto nei momenti di condivisione e relazione diretta, quale ad esempio il momento del pranzo. Così facendo si rivelava a ognuno dei protagonisti qualcosa di proprio, fino ad allora taciuto e nascosto per imbarazzo o rifiuto inconsapevole della disabilità, scambiandolo a beneficio di tutti. Il 3 a 0 sull’Ucraina rappresentava al meglio i tre livelli di crescita e di consapevolezza pre- senti in ogni individuo: la fanciullezza (goal di Zambrotta), quando il bimbo scopre la funzione delle sue capacità motorie in relazione all’ambiente che lo ospita, l’adolescenza (goal di Toni), quando il ragazzo agisce attivamente, modificando e adattando sempre più le sue capacità rispetto all’ambiente e viceversa, l’età adulta (secondo goal di Toni), quando la consapevolezza di sé e del mondo circostante ha raggiunto quasi la sua pienezza. Questi modelli base di comportamento vengono turbati e stravolti dall’evento malattia, sia sul versante della persona disabile che sul versante genitoriale, così il primo goal del Calamaio era siglato da Diego Centinaro, quando affermava che i suoi genitori lo descrivevano come simpatico, bello, buono ma troppo ingenuo per uscire da solo. Quanti, nel Calamaio, hanno trovato punti di contatto comuni con tale descrizione, avviando in modo spontaneo uno scambio di opinioni e di esperienze vissute nel concreto, quotidianamente. Il secondo e terzo goal erano realizzati da Danae Morales, affermando che i suoi genitori la vedono in grado di correre, saltare e giocare a pallone, oltre ad essere in grado di usare il telecomando della tv, scrivere e leggere. Il Calamaio si stava sempre più colorando di un azzurro penetrante, in quel gruppo di sette animatori disabili, due educatori e due volontari, intento tutto a coinvolgere, in un secondo momento, immediatamente successivo, chiunque ne volesse sapere e conoscere. La Germania, padrona di casa, era già pronta ad attenderci nel turno successivo, si trattava della semifinale, e negli azzurri si palesava un certo timore reverenziale. Bisognava tenere a freno la noradrenalina e i corticosteroidi, responsabili di stress e sofferenza psicologica, e guardare negli occhi i nostri avversari e le nostre paure, alzando in su il viso in segno di fierezza e rigonfiando il petto per intimorire ciò che maggiormente spaventava. Si mettevano in campo tutte le proprie capacità, per tenere in equilibrio il sistema nervoso simpatico e parasimpatico, riuscendo, così, a tenere un controllo, quanto più alto possibile, della situazione da affrontare. Si alternavano, con piena lucidità e voglia di sfida, le diverse fasi di allarme e stress con quelle di maggiore calma e tranquillità. L’armonia magica, offerta da quell’alchimia di benessere più intimo e personale, i cui effetti prodigiosi andavano poi a confluire sui confini dell’ambiente esterno, rendevano gli ostacoli da superare meno invalicabili e, per certi versi, più attraenti. Le attenzioni delle nostre due nazionali, quella Azzurra e quella del Cala- maio, erano ormai incentrate verso i “Limoni aurei” dell’Olimpo, dove giganteggia da sempre l’unica “dea della vittoria”. Gli stati d’animo incominciavano a forgiare sempre più un carattere vincente, partendo da un’analisi reverenziale e rispettosa nei riguardi di chi e cosa si trovava di fronte, come avversario o difficoltà da superare. A questo punto, il Calamaio avvertiva l’urgenza di ridisegnare i propri confini esplorativi e di intervento, ampliandoli attraverso la collaborazione con altre realtà culturali, operanti anch’esse attorno al tema della Diversità, intesa come elemento essenziale per avviare un processo di Inclusione. “È stato facile raccontare come è fatto un limone, anche nelle sue ammaccature e imperfezioni!” affermava Francesca Aggio – Totti, iniziando, così, un processo conoscitivo fino ad allora imprevisto, perché forse dato per scontato, ma che finiva con l’interrogare tutti, sul livello di conoscenza e consapevolezza di ciò che si vive. Il pensiero rimbalzava tra una considerazione sull’altro e su di se stesso, in quanto tutti appartenenti a un noi “universale”. In questo scambio introspettivo di valutazioni reciproche, emergeva sempre più l’esigenza di una più profonda consapevolezza delle proprie qualità, da impiegare al meglio per fronteggiare ogni situazione di fuorigioco o di corner o, come per il Calamaio nello specifico, di rimessa con allungamento del proprio corpo per raggiungere un tasto lontano del PC. La frase di Diego Centinaro valeva come il primo gol di Grosso: “Mi sono sentito bene a descrivere il limone, molto meglio che a descrivere me stesso…”. Il secondo gol di Del Piero concludeva l’iperbole di tutto un laboratorio sulla cura di sé con l’affermazione di Stefania Baiesi: “Non sono abituata a delineare i miei parti- colari e una parte del corpo che non uso faccio fatica a raccontarla”. Il proprio corpo esprime sempre, volenti o nolenti, tutto di sé in chiave comunicativa e costruttiva. Le nostre nazionali, cariche del proprio bagaglio culturale ed esperienziale, si avviavano, speranzose, verso la finale di Berlino. Gli occhi luccicavano di speranza e fiducia: “Allora su col morale a suon di Musik, con Schuhplattler a seguito e impregnato di Azzurro vivo del Calamaio!”. Per la finale era già tutto pronto. A fronteggiarsi erano francesi e italiani da una parte e Calamaio e “specchi della coscienza” dall’altra; la tensione e la voglia di sfidare e sfidarsi erano palpabili anche lungo le corde invisibili dell’aria. “Ho sentito il calore nelle gambe, le mie gambe esistono e mi sento grande!”, l’affermazione di Giacomo Romagnoli apriva nel miglior modo possibile ogni scambio di opinioni e di idee, un po’ nello stile di capitan Fabio Cannavaro: “Nel corso di questo Mondiale tutta la squadra è cresciuta ed è diventata un grande gruppo!”. Le nostre nazionali, nelle loro storie, trovavano ancora tanti punti di contatto comuni. La carta stampata e gli esperti, in materia di tatticismi e conoscenza di sé, potevano affinare le proprie conoscenze, confrontandosi direttamente con gli stati d’animo, oltre che quelli fisici dunque, degli atleti in campo. Si sperimentava, così, il piacere come volano per ricaricarsi di energia, per riconnettersi al proprio essere nella sua totalità. Il benessere è una porta girevole, attraverso cui alternativamente scorrono, mutuandosi per mescolarsi, gli appagamenti dei desideri fisici e quelli spirituali. Tutti i laboratori svoltisi all’interno del Gruppo Calamaio rispecchiavano, con sistematicità e in modo del tutto naturale e spontaneo, le caratteristiche peculiari del metodo del suo operare. Si partiva sicuri di affrontare un’esperienza positiva e costruttiva, ogni volta per ogni laboratorio, partendo da un processo di Conoscenza su quello che c’era da affrontare, in relazione al proprio sentire da mettere in comunione, per crescere reciprocamente. L’imbarazzo, a tal proposito, manifestato da Francesca Aggio-Zambrotta nella affermazione “Non mi ero mai guardata allo specchio ed ero in difficoltà a parlarne”, offriva durante il laboratorio sul corpo, il pretesto per una simulazione di fallo in area propria da parte di un avversario da superare, il quale guadagnava un generoso penalty. Il calcio di rigore, calciato a parabola da cucchiaio, da parte di Zidane ai danni di Stefania Baiesi-Buffon, aggiungeva al danno anche la beffa, riassumibile tutta nella frase di Stefania: “Avevo paura di dire le cose di me che mi piacciono e che non mi piacciono, perché ho paura del giudizio!”. Dalla panchina, intanto, giungevano voci di restare calmi e non perdere la bussola, attraverso le parole di Giacomo Romagnoli-Gattuso: “Mi è piaciuto far vedere come sono!”. Allora palla al centrocampo e si ripartiva con spirito battagliero e di strategico tatticismo a zona con pressing, di modo da coprire ogni zolla dell’ambiente che ospitava ogni tipo di disputa, Stadio di Berlino o Sala da pranzo del Calamaio. Le energie, le emozioni e ogni sensazione, anche minima, venivano trasmesse e, costruttivamente, trasferite in uno scambio psicofisico e di approccio stile Tagger. Si combatteva tenacemente su ogni esercizio o palla di rimbalzo, non tralasciando nulla, di modo che nulla fosse dato al caso ma tutto giostrasse attorno. “Mi piacerebbe con tutte le mie forze imparare a cucinare la pasta, mettendola nell’acqua calda!” era la spinta di Danae Morales-Camonaresi per conquistare caparbiamente un corner, da condividere empaticamente e senza indugi con Stefania Mimmi-Materazzi, per il goal del pareggio. Si attraversava e si superava la seconda fase, quella dell’Incontro dell’Altro, dove ogni differenza era varcata, per essere condivisa da tutti, dapprima all’interno del Gruppo Calamaio e poi con chi si incontrava lungo il cammino lavorativo o quotidiano, scoprendo qualcosa più in profondità, come tassello nuovo e indispensabile nella costruzione di una nuova Cultura sull’Handicap e sulla Diversità. Si procedeva a tamburo battente tra un palo di Francesca Aggio-Gilardino: “Io non vorrei andare dentro me stessa, per- ché scoprirei cose che non vorrei” e una traversa di Danae Morales-Camoranesi, rafforzando la convinzione di potercela fare a conseguire ogni vittoria. In questa convinzione, il Calamaio poteva, a pieno titolo, assumere le forme più disparate di uno Scandalo, di fronte al quale chi ne veniva travolto non poteva che controbattere con testata giornalistica, per divulgare al mondo un falso e istintivo diniego. La vittima consapevole era Zidane, come opinione pubblica e sentire comune che si inter- rogavano nel silenzio meditabondo di un’espulsione, nel tentativo di una rivalutazione delle proprie certezze, viste ora da prospettive diverse e spiazzanti. La Grande Forza del Calamaio è quella di rimettere in discussione tutto ciò che è precariamente certo, per ridisegnarne i contenuti di un azzurro sempre più originale e imprevedibile. Ogni dibattito poteva, può e potrà avere inizio, trovando sempre la sua evoluzione cadenzata, naturale e proficua. Trasformare la sfiga in un’appassionante Sfida è il compito primo, come il primo rigore realizzato da Mario Fulgaro-Pirlo, mentre il secondo rigore è rappresentato dal desiderio di mettersi in gioco, assimila- bile a quello di Stefania Mimmi-Materazzi; il terzo di Tatiana Vitali-De Rossi associabile alle dinamiche del gioco di ruolo e dell’immedesimazione, quando l’adrenalina inizia a salire; il quarto di Andrea Mezzetti-Del Piero, sornione e austero al contempo nella sua franchezza disarmante; infine la concretezza di Vittoria del rigore professionale e allegro di tutto il Gruppo Calamaio, nelle vesti azzurre di Grosso: “È sempre azzurro l’inchiostro nel Calamaio!”… To be continued, parola del “Grande Giove”…

Quando il mondo si fa fantastico. “La Mongolfiera” di Ermanno Morico

A cura di Mario Fulgaro

Ogni individuo, che sia maggiorenne o minorenne o adolescente o anziano, può spaziare con la propria mente in ogni luogo e tempo, arricchendo ulteriormente la propria esperienza di vita di fantastica presenza nel mondo. In un contagioso dialogo di fantasie con Ermanno Morico, animatore con disabilità del Progetto Calamaio, è facile trovarsi fisicamente dinanzi a una scrivania a Bologna e al contempo spaziare con la mente in luoghi europei e mondiali, imbattendosi in personaggi del tutto originali e simpatici.
I personaggi che crea Ermanno sono sì fantasiosi, ma in sé presentano caratteristiche del tutto comuni, con le loro particolarità uniche ma, al contempo, universali. Lo spirito di osservazione della realtà circostante è il perno di ogni nuova storia da inventare e sviluppare. È bastata, infatti, la foto di una mongolfiera incorniciata e affissa alla parete del Centro Documentazione Handicap per stimolare il nostro scrittore, facendolo catapultare in luoghi desiderati e lontani. È il vento della propria fantasia a scuotere ogni pensiero, solleticando la più accesa creatività per la descrizione di un viaggio onirico e sempre sognato.
Le correnti ascensionali dei propri desideri permettono di avere una visuale dall’alto che comprenda tutto il proprio vissuto, arricchendolo di immaginaria volontà, sì da sfidare e superare ogni difficoltà. I punti di riferimento diventano l’avventura, la libertà, il ritorno, laddove la mente è già stata e vuole ritornare con forza. A trionfare sempre su tutto c’è sempre l’amicizia che rende persino la nostalgia e i ricordi sprono per nuove avventure ancora da realizzare.

“La mattina seguente erano freschi, riposati e pronti per ripartire, questa volta puntarono verso la Norvegia, esattamente Oslo.

Oslo è una cittadina dove c’è un clima molto freddo e infatti nel mare ci sono i ghiacci, la sfida di Gigio e Tommy era proprio di atterrare su una lastra di ghiaccio, ma non era facile e dovevano prepararsi bene per l’atterraggio. Era parecchio freddo!
Gigio e Tommy cercano di atterrare lentamente senza colpi bruschi altrimenti la lastra si sarebbe potuta rompere. Ce la fecero! e non appena toccato il ghiaccio i due fuoriuscirono dal cesto di paglia e gridarono per la contentezza.
Si prepararono indossando la muta stagna e le bombole e con un coraggioso tuffo si immersero in mezzo ai ghiacciai dentro al mare della Norvegia, in mezzo  ai fondali, con la maschera da sub si poteva vedere un bellissimo panorama marino e osservare le sette meraviglie del mare di Norvegia, meraviglie di pesci diversi: pesce palla, aragoste, salmoni, meduse ecc…
Era stata un’ardua impresa ma molto soddisfacente!
Approfittando delle correnti ascensionali del vento favorevole ripartirono con la bussola si diressero in un altro paese caldo per poi ritornare in Italia.
Per via del vento favorevole e parecchi giorni di viaggio… finalmente in Italia… direzione Bologna…
Abbiamo una collina fuori Bologna, nel punto indicato e con la leva abbiamo iniziato la discesa verso terra. Pian piano che la mongolfiera scendeva ci saliva un velo di tristezza per aver lasciato dietro tutti quei bei posti e i meravigliosi ricordi.
Gigio e Tommy erano molto contenti di aver avuto un’avventura e di aver girato il mondo in mongolfiera. Si resero conto che la loro amicizia poteva superare tutte le difficoltà e arrivare a traguardi irraggiungibili con poche spese”.
(Ermanno Morico)

Vi è piaciuta la fiaba di Ermanno? Io mi sono rilassato moltissimo a immaginarmi lassù… Per questo non ho resistito e ho chiesto al mio caro collega di concedermi un breve scambio di battute. È così che ho scoperto come nasce il racconto di un viaggio fantastico…

Salve Ermanno! Come stai?
Sto così… in carrozzina! Ahimè!

Ho letto delle sue storie e mi sono piaciute molto… Ma come mai ha deciso di scrivere delle fiabe?
Perché ho lo stampino di mio nonno paterno Eliseo Morico, che era un poeta.

Da quanto tempo le scrive?
Da circa quattordici anni…

 Da dove prendi spunto?
Quando vedo gli spunti che mi piacciono, magari al cinema, oppure quello che vedo in giro prima immagino un racconto con un filo logico dall’inizio alla fine, poi materializzo inventando dei personaggi, tipo Joe Black… Un personaggio che ho preso in prestito al cinema, da un film che ho visto vicino alla Salaborsa, la Biblioteca di Bologna, quel cinema piccolino che si trova in via Indipendenza sulla sinistra, ho visto il film di Joe Black, dove c’era quel bel ragazzone di Brad Pitt, biondo… E lì ho colto l’occasione per creare il mio personaggio. A volte mi ispiro anche ai vicini di casa, come la signora Giustina, di 102 anni, che è diventata la protagonista della mia storia “L’isola del tesoro”.

Sappiamo che “La Mongolfiera” è la tua fiaba preferita, perché?
“La Mongolfiera”… Perché si viaggia, come Colombo, ma per aria… E in giro per il mondo, per visitare tutte le città… E poi io sono un avventuriero… Ho provato anche l’emozione del volo, con l’imbragatura trainato da un motoscafo era come essere al sesto piano di casa mia! Ero in compagnia di un educatore argentino… Da lì ho visto il mare… E vedevo anche il vuoto… Un’emozione inebriante… Con l’imbragatura mi sentivo al sicuro e tanto sotto c’era il mare… Avevo le gambe a penzoloni, nel vuoto… La prima cosa che ho pensato quando sono salito su è stata “Ma chissà cosa c’è sotto!”. E poi ho visto il mare dall’alto… Vasto e immenso, non si vedeva la fine… Infinito

Spazi propri di libertà

A cura di Mario Fulgaro

Ai tempi del Liceo classico ho avuto modo di studiare in filosofia un certo Aristotele, che parlava dell’uomo come di un animale politico. All’Università questa accezione aristotelica assumeva in sociologia il significato più consono ai nostri tempi di animale sociale. Infatti ogni individuo è inserito in un contesto sociale nel quale interagisce con altri soggetti e realtà. Questo accade per tutti, disabili e non, uomini e donne, autisti e pedoni, commessi o negozianti e clienti, docenti e studenti, ecc. Si viene così a creare una rete di relazioni occasionali o durature che finisce col creare, nostro malgrado, legami più o meno confidenziali tra diverse persone.
È inevitabile, così, che anche il disabile incontri sul suo cammino verso qualche luogo di svago o necessità, gente che gli presti attenzione o anche uno sguardo fuggevole per imbarazzo, perché l’inclusione comprende anche uno scambio di emozioni, quali che esse siano, positive o negative. Tutto arricchisce e permette di affinare le proprie capacità di approccio verso gli altri.
L’empatia è alla base di tutto per me.
Il disabile che comprende le difficoltà di chi gli può stare di fronte e modula il suo stile d’approccio all’altra gente in base a questa sua sensibilità, aiuta a ricercare strategie utili per venirsi incontro. Così, sicuro con il mio scooter elettrico, mi reco spesso all’Ipercoop, dove non esito a chiedere aiuto al personale addetto al reparto frutta per fare la spesa, tanto che adesso mi conoscono bene quasi tutti come Mario, il pugliese. Il tutto per me non si esaurisce qui, infatti non esito a chiedere aiuto a chiunque per continuare a fare la spesa in altri reparti con la frase: “Scusi, lei che è donna, di sicuro saprà aiutarmi a cercare tal prodotto alimentare al prezzo più conveniente!”. Il baricentro del dialogo viene così leggermente spostato dalla disabilità, innegabile e tangibile, alle virtù femminili nel saper fare compere, pretesto questo per scambiare qualche battutina e rompere il ghiaccio. Si condivide e si scambia qualcosa di proprio per creare una sorta di alleanza, anche se occasionale, per superare l’impasse che ostacola. Poi si va via veloce a togliere ogni disturbo, con un grande “grazie, molto gentile, sapevo di potermi fidare di lei!”. Non soddisfatto ancora dei successi incassati, un attimo dopo sono alla “Baracca” del gelato, dove i gestori sono già pronti ad accogliermi con tanto di sorriso e scambio di commenti un po’ più confidenziali e amicali: “Grazie Mario per le cartoline che ci hai spedito da S. Giovanni Rotondo e Assisi! È stato bello lì?”. La conversazione si allarga inevitabilmente, toccando anche altri ambiti più personali e intimi, come quando si chiede se si è single oppure che incidente o malattia è occorsa fatalmente nel corso della vita: “La sclerosi multipla mi impone a tenermi sentimentalmente legato al mio scooter elettrico, ma a casa già mi aspettano le amanti nella veste di deambulatore e carrozzina manuale; purtroppo piaccio!”. Segue un sorrisino collettivo che finisce col coinvolgere anche altri clienti uditori, pronti anch’essi a prestare aiuto all’occorrenza. L’ironia e l’autoironia, condite da un largo sorriso, sono armi vincenti per abbattere ogni barriera che possa ostacolare un dialogo quanto più distensivo e piacevole. Pur non avendo amici a Bologna mi sento amico di tutti, e chi mi vuol bene mi segua!
In questo caso l’inclusione parte dal desiderio del disabile di aprirsi al mondo e trova risposte positive in ambiti conosciuti e sicuri, dove scambiare richieste di aiuto e offerte empatiche di ascolto e soccorso. In questo scambio è inevitabile che si venga a creare anche un legame di conoscenza più personale che finisce con l’aprire quella magica porta dell’inclusione, dove ognuno si può sentire un po’ più protagonista della propria vita, imparando e insegnando qualcosa di esclusivo e unico.
È quello che è accaduto anche a Lorella quando ha avuto urgenza di recarsi dal dentista per ricevere cure e trattamenti per i suoi denti. All’inizio il dentista ha da subito manifestato i suoi timori ad affrontare questa che per lui era una reale sfida: “Non posso mettere le mani su una paziente disabile, non so come gestire la cosa!”. Ma è nel carattere di Lorella non sfiduciarsi affatto e insistere, quindi con l’aiuto di suo padre e sua sorella ha saputo ben lavorare ai fianchi del dentista per convincerlo, trovando strategie per superare anche in questo caso l’impasse occorsa da entrambe le parti: “I primi trattamenti si possono benissimo fare in presenza di mio padre o di mia sorella!”. Il dentista poco alla volta ha saputo prendere le giuste misure sulla paziente, tanto da trovarsi sempre più a suo agio e senza alcun imbarazzo. Adesso s’intrattiene con la sua paziente in confidenziali e scherzosi dialoghi. La conoscenza anche in questo caso ha sortito i benefici effetti di apertura al dialogo e allo scambio.
Che gratificazione è ricercare e trovare spazi propri di libertà, dove esprimere il proprio essere, dove sentirsi in connubio il più possibile col mondo intero. Lorella esprime tutta la sua felicità, parlandoci del suo gruppo di tempo libero, grazie al quale ha la grande possibilità di recarsi in luoghi più ricreativi e distensivi, quali il cinema, pub, bar…
L’inclusione è anche sentirsi parte attiva, insieme ad altri, di un contesto accogliente, dove ci sia la possibilità di realizzare il bisogno naturale di spaziare liberi e appagare i propri desideri, concordando le proprie scelte con quelle di altri.
Danae ci offre le sue esperienze di apertura al mondo, quindi di inclusione, parlandoci del suo dottore di agopuntura col quale adesso intrattiene dialoghi a più largo spettro, toccando aspetti più personali: “Dottore, che cartone animato le piace di più?”. Dopo un attimo di esitazione, si accende un sorriso: “Ai miei tempi c’era Heidi o Remi!” una risposta del genere non può che trovare l’approvazione di tutti. Viva lo scambio, la condivisione che aprono alla conoscenza reciproca, quindi all’abbattimento, poco per volta, di ogni forma di timore o pregiudizio!
Danae sa poi che il suo giornalaio di fiducia le conserva tutti gli album che le interessano e questo le dà un grande senso di controllo sulla realtà che desidera, le dà maggiore sicurezza. L’inclusione ci viene anche dal controllo sui propri desideri esauditi, i quali ci appagano e ci aiutano a sentirci parte integrante di un tutto che ci sta attorno e non aspetta altro che incontrarci. Tutto sta a farsi conoscere con quello che di positivo ognuno possiede.
La riservatezza e il voler stare per conto proprio a osservare sono le modalità d’approccio di Andrea che, quando si reca al bar, preferisce non scambiare alcuna parola con i baristi, limitandosi a guardare il lavoro svolto all’interno del locale e chiedere: “Vorrei un cappuccino con brioche!” sperando che il nostro avventore possa avere a che fare con un cameriere stacanovista, sennò guai, potrebbe scoppiare il ’48! Ma nooo, dai! Dopo il cappuccino lo si può ritrovare al cinema, luogo prediletto dove trovare gentilezza e inclusione con i vari gestori: “Un bel film ci vuole proprio stasera!”.
L’inclusione trova anche la sua dimensione più alta nel sentirsi semplicemente soggetto attivo in un mondo che non ha necessariamente bisogno di frastornarci di allettanti proposte. Andrea, un epicureista dei nostri tempi.
Nel caso di Diego, invece, la sua modalità di inclusione avviene sempre attraverso la mediazione di suo padre, che funge da tutore dialogante al posto suo. Questo non toglie assolutamente spazio nell’animo di Diego per sentirsi ugualmente gratificato e incluso. Infatti quando il gelataio di fiducia, oltre a portargli il gelato richiesto, si intrattiene a far due chiacchiere con lui, il mondo gli si schiude tutto attorno per abbracciarlo e condirlo di protagonismo e centralità. E allora vai con stracciatella e zuppa inglese, è tempo di abbondare!
Stefania M. ricorda, con grande gioia, quando ai tempi della scuola i suoi compagni si prodigavano, in modo del tutto spontaneo, ad aiutarla nello svolgere i compiti o a mettere in ordine tutto il suo materiale di studio nella cartella. L’inclusione anche in questo caso ha aiutato a scardinare quell’antro buio dell’esclusione e della solitudine, dove la disabilità, in modo spontaneo, tende sempre a spingere chi ne è colpito. Non è il suo caso comunque che, anche se ammette di aver incontrato poche persone che le abbiano prestato aiuto e attenzione, affronta la vita regalando sorrisi e trovando nella sfera affettiva la realizzazione delle sue aspirazioni: “Ho un fidanzato e altri due spasimanti!” dice con singhiozzo nel riso contagioso.
Anche Titti ci parla spesso della pienezza raggiunta grazie all’amore del suo boy-friend. La sfera riguardante gli affetti più cari, familiari, amici, fidanzato in testa, è essenziale per sentirsi in pace con se stessi e, di conseguenza, con tutto ciò che si vive. I legami sentimentali hanno il grande potere di riempire di gioia e sicurezza il proprio animo che, di rimando automatico, investe di pace e serenità tutto ciò che appartiene alla vita.
Titti è felice quando il bagnino l’accoglie col sorriso e le chiede come sta, si sente partecipe del micro-cosmo di quell’istantanea di vita. L’inclusione molto spesso parte e si realizza in noi stessi, tanto da reclutare anche piccole attenzioni altrui e farle grandi.
L’inclusione è scambio, aiuto reciproco, complicità, un venirsi incontro per Stefania B. quando ci parla del suo rapporto esclusivo col suo medico: “Lui è sordo, quando è di spalle non riesce a comunicare e io so che devo parlargli solo quando mi guarda. Non tutti riescono a capirlo ma io sì! Ho visto gente andar via proprio perché non sapeva come fare. Non riusciva a capirlo. Io invece con lui ci parlo tranquillamente, non abbiamo difficoltà a comunicare!”.

Vasi comunicanti

A cura di Mario Fulgaro

Il gruppo che compone il Progetto Calamaio è un gruppo, ci piace spesso sottolinearlo, formato da persone estremamente diverse tra loro, non solo per la presenza o meno di una o più disabilità, ma per storie, età, caratteri, provenienze e sfere d’interesse. Le nostre individualità, lo abbiamo scoperto piano piano, ci qualificano anche come uomini e donne, nei rapporti sociali e nei confronti dell’altro sesso. Non è un caso se in questi anni abbiamo lavorato molto su temi legati al corpo, l’estetica, l’affettività e la sessualità, su quanto il piacere e l’immagine agiscono nella percezione di noi stessi dentro e fuori dal tessuto sociale. Perché è anche su questi aspetti che si fonda la nostra autonomia, il nostro essere o meno riconosciuti come parte di qualcosa in cui essere attori di cambiamenti personali e culturali.
La vera novità di quest’anno è stata tuttavia una presa di distanza, complessa e in certi casi destabilizzante, che ci ha permesso di portare il discorso su un livello successivo. Tutto è nato da una semplice domanda: quanto il nostro pensare e agire verso l’esterno è condizionato dalla nostra appartenenza di genere? O meglio, quanto l’essere maschi o femmine influisce sulle nostre scelte, desideri e paure in ambito familiare, lavorativo e privato? Cosa trasmettiamo, da questo punto di vista, nel nostro lavoro a scuola?
La parola “genere”, abbiamo scoperto, apre a tanti mondi, non essendo solo legata al puro dato biologico (quello è il sesso!) ma alle categorie e agli stereotipi che storia, cultura e società hanno finito per disegnare e imporre sui ruoli dell’uomo e della donna.
A sollecitare la nostra curiosità e ad aprire ufficialmente il dibattito ci ha pensato il recente incontro con la Casa delle donne di Bologna, nato nell’ambito del progetto “Biograf-fie” e dedicato al complesso rapporto violenza-fiducia. Ad aiutarci, il confronto con i ragazzi del Servizio di Giustizia Minorile di Bologna grazie, perché no, al loro confuso e irrisolto punto di vista in cui non è stato affatto difficile riconoscersi. Non sono mancati spunti anche dall’arte, raggiunti grazie alla visione di alcuni spettacoli teatrali nell’ambito della rassegna di teatro ragazzi “Teatro Arcobaleno”, dedicata per l’appunto al tema delle differenze di genere, cui abbiamo avuto accesso presso Pubblico, il teatro di Casalecchio di Reno e La Baracca Teatro Testoni Ragazzi, con l’idea di avvicinare i più piccoli alla diversità.
Raccogliere ora tutto questo e dare un punto di vista personale, ammetto, è una bella impresa… Trovo sempre molto scomodo il coinvolgimento nella disputa dialettica tra le presunte qualità superiori delle donne o degli uomini perché di mio ho sempre percepito una forte e implicita complementarietà tra i due sessi.
I ruoli possono e devono, a volte, differenziarsi proprio per sopperire alle manchevolezze dell’uno o dell’altra in una spirale di vicendevole aiuto. È inevitabile che in questa spirale subentri, spontaneamente e in modo del tutto inconsapevole, quel “gioco al massacro” che vede la parte più debole, il più delle volte femminile ma non sempre, subire le scelte della parte più dominante. Le recriminazioni che ne conseguono sono, molto spesso, il frutto di caratteristiche individuali che ingabbiano ognuno in uno specifico ambito d’azione. Capita, dunque, che, chi mostra per natura un atteggiamento più remissivo o poco competitivo, sia portato a evitare qualsivoglia tipo di scontro e ad accettare così quasi con rassegnazione le decisioni altrui. Ma questo, lo sappiamo, è un fatto di carattere e il sesso c’entra poco.
Però è anche vero che Madre Natura ha decretato da sempre elementi distintivi tra i due generi, maschile e femminile, per cui alcune mansioni sono più ad appannaggio dell’uomo rispetto alla donna e viceversa. Così, è sempre più probabile che ci siano più figure maschili in sedi di comando che non femminili, in quanto il potere si associa meglio con aspetti comportamentali legati più al cinismo, alla prevaricazione, alla forza, alla sicurezza di sé. Tutte queste caratteristiche elencate appartengono per naturale attribuzione più agli uomini che alle donne, alle quali si addice più un ruolo di maggiore sensibilità emotiva e caratteriale. Non a caso i figli, quando avvertono carenze affettive, ricercano al loro fianco la figura femminile della madre, mentre quando sentono il bisogno di un aiuto più deciso e forte guardano la figura paterna. So che la maggior parte delle donne che mi leggerà non la penserà così ma io credo, e farò con ciò un’affermazione forte, che dietro ogni stereotipo ci sia un fondo di verità. Ma questo è il mio punto di partenza, non certo la mia conclusione.
Al di là di ogni distinzione di tipo antropologico possiamo comunque parlare anche di altro, utile ad aiutarci a scardinare o riaffermare luoghi comuni che, nostro malgrado, finiscono con l’influenzare la nostra opinione sulla realtà che ci circonda e, molto spesso, ci sovrasta e influenza. Sarà per questo che, quando a 19 anni mi sono casualmente ritrovato tra le mani un succinto libercolo a carattere filosofico e sociologico sui comportamenti umani plasmati dalla società ho avuto l’irrefrenabile curiosità di leggerlo e tra le sue righe ho potuto riscoprire quanto di sciocco e al contempo intrigante ci sia nel modo di agire dell’essere umano.
Partendo dal pensiero di Karl Marx, si puntava infatti l’attenzione soprattutto sull’aspetto economico delle relazioni umane, sottolineando così come il benessere diffuso abbia aiutato a scalfire, ma non superare del tutto, le discrepanze sociali tra chi possiede in termini materiali di danaro e chi invece possiede in altre qualità. È certo che chi ha un maggiore benessere economico e monetario, ha la grande chance di svolgere una vita più agiata e tranquilla, di conseguenza il suo modo di rapportarsi al mondo sarà più sicuro ed elitario.
Oggi come oggi, la donna assume sempre più un ruolo di supporto all’uomo nel bilancio economico familiare, provvedendo anche lei a rimpinguare le casse della propria famiglia attraverso un lavoro extra familiare. Proprio in quest’ultima definizione lavorativa della donna sta il nuovo disagio femminile, in quanto se fino a un cinquantennio fa il gentil sesso provvedeva innanzitutto alla cura e alla gestione degli affari interni alla famiglia, adesso deve supportare la stessa propria famiglia attraverso un impegno lavorativo aggiuntivo, in grado di sopperire a un qualche buco finanziario di casa. Sempre nello stesso opuscoletto si affermava, riprendendo e facendo propria la concezione filosofica di Feuerbach, che la società è il frutto dell’azione degli individui, che attraverso scelte politiche apportano cambiamenti a volte radicali nella costruzione di quella evoluzione sociale che, a sua volta, finisce con l’influenzare e il ridisegnare i comportamenti umani all’interno della collettività. Nessuno, uomo o donna che sia, è esente da tutto questo processo di cambiamento e di evoluzione, che impone una graduale trasformazione della propria ottica e del proprio raggio di azione. La donna, in ogni fase storica di evoluzione sociale, si è ritrovata a dover adattare le sue specifiche qualità a ciò che il sentire comune imponeva. In questo scambio tra l’individuale bisogno di riscatto e i canoni sociali predominanti è stato inevitabile quella sorta di travaso di privilegi dalla parte fino ad allora più favorita alla parte più svantaggiata. Tutto questo ha comportato una ridefinizione delle mansioni e dei compiti, come dei diritti e delle opportunità tra i due generi.  Questa, che può apparire come una fase transitoria, rivela solo una trasformazione sociale che è e sarà sempre in itinere, conducendo il genere umano alla scoperta di nuove forme di relazione, sia all’interno della famiglia che fuori di essa, nel mondo circostante.
Forse basterebbe ricominciare da capo, dall’educazione, dall’osservazione dei bambini. Quanto li lasciamo liberi di esprimersi indipendentemente dal genere? Ci avete mai pensato? Vi invito a leggere quanto scrive la mia collega Lorella sullo spettacolo Io Femmina, e tu? di Letizia Pardi e Francesca Pompeo, visto qualche tempo fa a La Baracca Teatro Testoni Ragazzi. Cosa ne pensate?
Sul palcoscenico c’era al centro un ring, dove due attori, un ragazzo e una ragazza, indossavano dei guantoni da boxe.
Dibattendo sui vari ruoli tra maschi e femmine, lei diceva a lui: “Dato che voi maschi dite che noi femmine lavoriamo meno di voi, adesso voi maschi provate un po’ voi a tener dietro a una casa, facendo tutti lavori domestici accudendo anche i bambini, mentre io vado a lavorare e facendo i lavori da uomo, come l’elettricista, o attaccare quadri. Vedrai che non dirai più che i lavori domestici di noi donne sono meno faticosi dei lavori maschili!”.
Questa frase, pronunciata dall’attrice all’inizio dello spettacolo prima di far fare al suo amico tutto quello che gli aveva detto, mi ha colpito molto e un pomeriggio ci ho improvvisamente ripensato, osservando i miei nipoti muoversi davanti al baule dei loro giochi, accanto a cui mi siedo anch’io quando devo fare loro da babysitter. Mi sono accorta che la mia Giulia, oltre a giocare con i giochi da femmina, come le bambole, i puzzle o leggere i libri di fiabe, adora giocare soprattutto con un camioncino di nome Ivo. Con Ivo si divertono tutti e due, sia Giulia che suo fratello Lorenzo, perché il camioncino elettrico emette una musica parlante, che fa: “Io sono Ivo il fuoristrada sportivo, ho grandi ruote per correre veloce, a perdifiato per la città”. La cosa bella poi, è che Ivo permette loro di giocare insieme anche se sono un maschio e una femmina e hanno età diverse.
Anche Lorenzo, a dirla tutta, prende spesso i giochi di Giulia, come al solito tutti mischiati con i suoi nel baule, e nella maggior parte dei casi si tratta di bambole.
Francamente non so se come zia ci avrei fatto caso se non fossi andata a vedere questo spettacolo. I bambini presenti al Teatro Testoni erano molto divertiti. Chissà con che cosa hanno giocato quel pomeriggio!

Custodi, stranieri e complici. Quanti sono i modi per essere siblings?

A cura di Mario Fulgaro

Uno dei tanti motivi per i quali cominciamo i nostri incontri mettendoci tutti in circolo ha a che fare con il tema della complicità. Infatti il termine “complicità” trova la sua derivazione etimologica nel greco classico sùn, insieme, e pléto, avvolgere. Proprio quest’ultima parola, il verbo “avvolgere”, mi piace considerarla come tonda, circolare.
Nel cerchio si inizia a conoscersi poco alla volta, per individuare insieme canali più ampi, lungo i quali tessere una più compiuta relazione, che consenta una conoscenza reciproca più approfondita. Questo accade indefinitamente anche nella vita di tutti i giorni, nel mondo reale. È una sorta di circolo virtuoso che porta a una crescita individuale e, di conseguenza, collettiva se si è inseriti in un contesto più ampio. E qui subito si creerà una interdipendenza, per la quale alcuni aspetti dell’agire dell’uno finiranno con l’influenzare le azioni dell’altro. È quello che ci accade per la prima volta nel contesto familiare, dove i rapporti si arricchiscono di legami più profondi, di fragilità e reciprocità.
Da quando nasciamo, ciò che vivremo non sarà mai percepito come qualcosa di completamente separato dal proprio contesto d’origine, anche quando vi si agisce in opposizione.
Ecco allora che qualsiasi evento che investe un famigliare, soprattutto se traumatico, andrà per sua natura a influenzare tutto il percorso di vita di chi gli sta a più stretto contatto relazionale. Sia chi ne è colpito direttamente che gli altri si trasformano così in microcosmo, un insieme che interagisce col mondo esterno attraverso un’unica voce, anche se con sfumature diverse.
Per meglio comprendere come questo “corpuscolo” agisca nella realtà, occorre sempre analizzare le sue dinamiche interne, a partire dalle figure di riferimento, per i fratelli i genitori, dai quali deriva il primissimo esempio dei nostri comportamenti che poi metteremo in dialogo e discussione. In questo scambio ognuno finirà per crescere e assumere uno specifico ruolo.
Così accade che anche per il disabile, al pari dei suoi fratelli, ci sia un altrettanto grande investimento di responsabilità verso gli altri nel suo modo di comportarsi. Se è vero che a ogni azione segue una reazione, ognuno sentirà su se stesso il peso delle proprie e altrui scelte. Il che significa, per dirla in modo personale, che non sono solo i famigliari meno sfortunati a sentirsi investiti di responsabilità aggiuntive verso il disabile, ma anche quest’ultimo deve rinunciare ulteriormente a qualche piccolo spazio di vita propria, in favore degli interessi altrui.
Complicità: do ut des, ovvero ti do qualcosa affinché tu mi dia qualcos’altro. Anche quando ci scontriamo lo facciamo insieme. Un processo, quello della complicità, che sorge molto spesso in modo del tutto spontaneo tanto che è difficile, se non impossibile, individuare da che punto sia partito…
Lo sanno bene la mia collega Francesca Aggio e la sua gemella Federica che in questo scambio epistolare ci raccontano cosa vuol dire essere siblings, fratelli e sorelle con disabilità, stranieri e complici dello stesso universo.

In questo momento non ho un buon rapporto con mia sorella, Federica.
Mi sento e mi sono sempre sentita inferiore a lei.
La sensazione è di continuo “controllo”; difficilmente mi lascia fare le cose da sola e invece credo che per alcune ne sarei capace.
È ovvio e certo che io abbia più bisogno di aiuto, ma non significa che anch’io non possa migliorare.
Riconosco di avere tanti difetti, ma proprio quei difetti sono stati a volte la mia “arma “ vincente, perché mi hanno permesso di superare molti momenti difficili.
Per esempio, mia mamma mi racconta che quando sono nata era stato detto che non avrei potuto vedere, parlare e camminare.
Fortunatamente non tutto si è avverato, sicuramente grazie a tutti gli stimoli ricevuti ma anche alla mia testardaggine.
Credo di essere comunque una ragazza fortunata, perché ho tutto quello che voglio e non mi interessa quello che ho perso.
Le persone che non mi conoscono possono pensare di me che abbia un carattere difficile, ma ciò credo a causa del mio passato e questo è proprio quello che non capisce mia sorella Federica.
Pretende quello che non sono in grado né di dare e né di fare, ma non mi permette di fare ciò che so.
Non voglio sentirmi da lei compatita, ho bisogno come lei di ricevere dei no, non voglio la ragione se non ce l’ho, ma nemmeno un “tanto non capisci”.
Vivo nella continua sensazione di essere in competizione con lei, la rincorro ma non la raggiungo mai e nemmeno mi avvicino.
Apparentemente facciamo tutto insieme, vacanze serate, cene, ma in realtà siamo a volte molto distanti.
A me piacerebbe imparare a utilizzare la macchina fotografica e poi scaricare le foto, ma tutte le volte lei perde la pazienza, non rispetta i miei tempi e vorrebbe che tutto fosse fatto bene e subito, ma più lei me lo fa notare, più io vado in crisi e anche le cose che saprei fare mi riescono nel peggiore dei modi e non riesco a dimostrare quello di cui sono capace.
La prima parte di questo testo mi è servita per sfogarmi, ora vorrei raccontare l’altra parte del mio rapporto con Federica.
A volte creiamo delle alleanze per “combattere” i nostri genitori, in due otteniamo risultati migliori, oppure ci diamo una mano a vicenda nella scelta dei regali per i rispettivi fidanzati, ci capita anche di andare a passeggiare e chiacchierare.
Ci sono delle volte che amo mia sorella, e lei ama me, poi ci sono volte che odio mia sorella, e lei odia me.
Quando Federica parte per una vacanza sua, i primi due giorni sono contenta, perché io e solo io sono al centro del mondo, poi inizia a mancarmi, quando torna sono felice e poi vorrei che ripartisse.
Ecco io e lei siamo questo.
Attaccato al frigorifero in cucina c’è una calamita con su scritto “Sorelle per caso, amiche per scelta”: è proprio quello che penso, alcune volte ci riusciamo, altre un po’ meno.
Francesca

Mi chiamo Federica, ho 20 anni e una gemella disabile. Solitamente non è questa la mia presentazione; ma in effetti avere una gemella disabile influenza molto più la mia vita rispetto a ciò che studio.
Questo infatti cambia irrimediabilmente l’esperienza di infanzia e adolescenza togliendone un fattore di estrema importanza: l’irresponsabilità. Mi spiego meglio: ho avuto dei genitori eccezionali che non mi hanno mai chiesto di occuparmi della mia gemella, e dei suoi bisogni fisici e psicologici. Però inevitabilmente il fatto di essere sempre legata a qualcuno di debole e non autonomo porta a sentirti responsabile continuamente. Il dovere di prendersi cura di un altro essere umano porta a una maturità precoce, ma anche all’impossibilità di rilassarsi completamente e “spegnere” il proprio lato razionale.
Se non si è dentro a questa situazione non si può capire cosa significa. Spesso, soprattutto quando ero più piccola, le persone elargivano generosamente i loro consigli, e ciò fa soltanto arrabbiare. Perché gli altri dopo aver detto qualche cosa che fa sentire meglio soltanto loro stessi, torneranno alle loro vite e alla loro indipendenza.
Tu invece resti lì, in una situazione che oscilla tra il paradiso e l’inferno. Il paradiso perché ogni volta che in tua sorella c’è qualche piccolo miglioramento ti ci aggrappi con tutte le forze, illudendoti che tutto andrà bene, che alla fine lei diventerà come te, che sarete una felice famiglia normale. L’inferno regna invece quando chiedi a tua sorella per mille volte di fare un’azione molto semplice e lei continua a sbagliarla, quando vedi che inizia a odiarti perché le ricordi continuamente chi non può essere, quando ti senti felice perché il tuo primo ragazzo ti ha chiesto di uscire e non puoi farlo perché sennò la lascerai sola, quando ti senti in colpa perché tu esci e lei non può farlo, quando tua mamma è stanca e tu vorresti solo vederla tranquilla e felice. La maggior parte del tempo è l’inferno, finché arriverà il giorno in cui ti rassegnerai alla vita e la smetterai di cercare un colpevole. Finché questo momento non arriva potrai solo sentirti in colpa nel pensare cose cattive, cose che nessuno vorrebbe pensare. Però non riesci a voler bene a tua sorella perché ti vergogni di lei, perché pensi che nessuno ti vorrà bene davvero dovendosi prendere a carico una situazione del genere, perché rovina i piccoli momenti familiari, perché in tanti posti non ci si può andare…
Crescendo le cose stanno cambiando: la rabbia si sta un po’ affievolendo, e si inizia a capire che non si può sempre vincere, che nessuno è poi così perfetto. Continuerò sempre a invidiare chi sa dire che avere avuto una persona vicina disabile gli ha arricchito la vita. In fondo è vero, però avrei fatto molto volentieri a meno di questa ricchezza, sarei stata felice di essere una persona banale e con sentimenti poco profondi, e senza tutta questa paura per il futuro.
Federica

Ho scritto la lettera precedente quasi due anni fa, e rileggendola oggi devo assolutamente dire che il mio punto di vista è cambiato.
Voglio scriverlo perché dato che questa lettera verrà letta voglio far sapere a chi si trova nella mia situazione che le cose diventeranno più semplici.
Giorno dopo giorno capisci che cercare una colpa non porta a niente.
Quindi inizi a rassegnarti finalmente al fatto che le cose non potranno cambiare.
A questo punto hai la mente abbastanza lucida per cominciare a osservare davvero la persona che hai davanti.
Tempo fa consideravo tante volte mia sorella come “il problema”, non come una persona.
E questo ha contribuito tantissimo a non riuscire a vedere i suoi lati belli.
Mi piace quando è testarda, mi piace quando riesce a ridere, mi piace quando sta bene, e mi piace quando mi racconta come è andata la sua giornata.
Francesca è fidanzata da tanto, e mi piace quando parliamo delle faccende di cuore, e di quelle che per lei sono le prime esperienze, come con un’amica.
Nella lettera precedente ho parlato dei consigli che le persone danno, senza sapere che cosa dicono non essendosi mai trovati in questa situazione.
Ora penso che sia giusto ignorare i consigli di quasi tutti, tranne quelli di chi ti conosce davvero. Perché anche se l’orgoglio personale viene ferito, devo ammettere che chi ti ama per quello che sei capisce più di te, che tu di te stesso.
La mia famiglia, il mio fidanzato, e le mie care amiche mi hanno aiutato tanto, perché sapevano che ce l’avrei fatta, sapevano che sarei riuscita a sconfiggere la rabbia e a vedere oltre.
Ora per concludere posso dire che non sarà mai facile, ci saranno sempre difficoltà ogni giorno, ma che saprò aiutarla nel modo giusto perché non lo farò per “dovere parentale”, ma con il cuore.
PS: certo, lei non è diventata una santa! Tante volte fa arrabbiare, ma solo come una sorella.
Federica