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4. Asso piglia tutto

di Mario Fulgaro, animatore del Progetto Calamaio

Molto spesso non occorre, necessariamente e con urgenza, ricercare spazi di libertà dove agire; a volte basta guardarsi attorno e scoprire che sotto alla goccia del naso già è possibile respirare un piccolo antro di libertà. Si abbassa lo sguardo, si asciuga la goccia, si inala una boccata d’aria e in quel momento si sollevano gli occhi verso il mondo. Si scopre così un mini universo da incontrare e abbracciare. L’importante è spingersi in avanti, mettersi in gioco verso un naturale e spontaneo connubio con tutto ciò che la vita ci offre lietamente e gratuitamente. Se si entra in questa ottica, è facile individuare e scegliere gli anfratti più lieti e piacevoli da incontrare: “Mi piace tanto il riso e, se questo è abbinato a un ottimo sushi, la libidine raggiunge il suo ottetto, la sua configurazione più stabile, l’acme”. Non me ne privo e inizio anche a invitare gli amici a uscire, sotto lo slogan: “chi mi ama mi segua, altrimenti mi segua lo stesso”.
Il sasso è lanciato nell’immaginario lago “Sushi”; adesso occorre solo aspettare i tanti rivoli di risposta da parte di chi ha voglia di ricoprirsi di salsa di soia oppure di quella agrodolce, da cospargere per riempire il palato di insaziabile desiderio di sperimentare. “Ma sai che anche a me piace degustare le pietanze culinarie giapponesi!”. Giulia ne è coinvolta di già. Qualcosa di nuovo e piacevole sta per nascere, forse un “guscio di divagazioni”, pronto a esplodere e raggiungere ogni anfratto o vicolo o spiazzo di libertà. Non c’è tempo da perdere, il conto alla rovescia è partito e con esso anche la decisione di scegliere il luogo ideale da raggiungere, ribattezzato “Pancia mia fatti capanna!”. Google sciorina un elenco abbastanza ricco di ristoranti da conquistare e, quando si ha voglia di evadere, il successo è garantito a prescindere. Il motore della macchina rulla i suoi tamburi e, al grido di “Tanto abbiamo il pass disabili!”, ci si può sentire padroni della città. Ogni parcheggio per disabile, vicino al locale, può essere nostro, con sospiro di satisfaction.
Superato il primo potenziale ostacolo del parcheggio, non resta altro che riuscire a trattenere la grande voglia di mangiare, mettersi comodamente sulla carrozzina, sospingerla con cautela e fare la grande entrata nel ristorante. Gli occhi brillano di curiosità: “C’è posto per noi due?” si chiede quasi con inchino samurai. La scelta del posto a sedere dà il via a un vero e proprio rito religioso-culinario, dove il sacro si sposa alla perfezione col profano e la degustazione si spera sia lenta per non farla fi- nire subito. Si compie il mitico e grandioso passaggio dalla sedia a rotelle alla sedia offerta dal ristorante, come uno dei tanti avventori del locale, dopodiché si lascia in disparte, in castigo e a dieta la carrozzina. Si appoggiano i gomiti sul tavolo per prendere e dispiegare il menù: “In questo ristorante ci sono anche le foto, oltre ai nomi dei vari tipi di sushi che ti portano” mi dice Giulia, risollevandomi da ogni tipo di imbarazzo; dopotutto, anche l’occhio vuole la sua parte e, in questo frangente specifico, orienterà ogni mia scelta da compiere.
Sul menù leggo: Sushi Nigiri, Temaki, Hosomaki, Uramaki, Sushi Sushimi Chirashi eccetera eccetera…, con tanto di foto invitanti: “Ti impressionerò di sicuro per quanto mangerò!” dico a Giulia, quasi a voler legittimare la mia incontenibile fame stile Sol Levante. “Non preoccuparti Mario, io mangio almeno quattro piatti al giapponese!” questa è la risposta che suona come sfida a mangiare ad libitum: “e che all you can it sia, evvai!” penso, con la certezza di riempire all’inverosimile il mio stomaco d’ogni varietà di sushi.
Si parte, dunque, con una sfilza di abbondanti antipasti, alcuni dei quali bissati perché troppo buoni. Non temo più di fare figuracce, anzi, la mia insaziabile voglia di sushi, ricoperto da delizioso riso, mi spinge a compiere un altro rito. Quando vivo attimi incantevoli di libertà, infatti, mi piace immortalarli nella memoria, guardandomi attorno e respirando lentamente anche il più nascosto atomo di ossigeno, da lasciare in asfissia chi mi sta accanto. Per fortuna Giulia mi sta di fronte e ha sufficiente aria per sopravvivere; ne sorrido compiaciuto e intanto continuo a sospirare di contentezza. In questi momenti, vorrei tanto espandere tutta la mia felicità negli animi altrui, per condividerla in un giro armonico e infinito, in grado di toccare nel profondo le corde del cuore. Grande sospiro allora e sguardo verso il basso, a fissare ogni pietanza che scorre sotto il mento, per poi solleticare e stimolare l’olfatto e il palato in segno, adesso, di intimazione alla Alberto Sordi: “Sushi, m’hai provocato?… e io me te magno!”.
Il giorno dopo, io e Giulia condividiamo la nostra esperienza culinaria con colleghi e amici, suscitando un discreto “successo” e voglia di reiterare con altri nuove esperienze “mangerecce”. Tutti iniziano a proporre un luogo da raggiungere entro i confini di Bologna, fisicamente, ed entro i confini mondiali, “esoticamente” parlando: “Si potrebbe andare al ristorante greco!” dice qualcuno, “No, no, meglio l’indiano!” controbatte qualcun altro, “E che ne dite del thailandese?” chiede timidamente qualche coraggioso, ma su tutti domina la proposta di tigelle e crescentine, oltre che di tipica cucina bolognese a Montecapra. “Bologna la Grassa vince sempre su tutto!” penso, sorridendo sotto i baffi. So benissimo che si gioca in casa di Balanzone, tipica maschera bolognese “saccente e presuntuosa”, quindi non obietto, anzi mi lascio trascinare dalle voglie gastronomiche altrui, in fondo a me interessa uscire dalle quattro pareti di casa e assaporare ottime pietanze in compagnia.
Il giorno designato per la nostra sortita a Montecapra sembra promettere bene sin dal mattino. Infatti, il sole di inizio luglio ha deciso di rallegrare, con i suoi caldi raggi, finanche ogni cantuccio assopito e distratto dell’animo e di tutta la natura attorno. Si leva lo sguardo al cielo, quasi a voler scoprire nell’immenso degli spazi definiti dove far esplodere i desideri più segreti, in un gioco pirotecnico di emozioni e sensazioni intense: “L’estate esercita sempre un fascino particolare e ammaliante su di me, rendendomi tanto felice da toccare punte di autentica euforia!” affermo a chi mi sta accanto. La mia macchina è pronta a far vibrare, con forza e decisione, le corde dei suoi cilindri. C’è solo da attendere un autista esperto e dotato di patente. Giulia sembra fare al caso: “Per fortuna la mia macchina è una Dacia come la tua e riesco a capire alcuni suoi particolari meccanismi!” conferma l’autista prescelta. Si parte, quindi, con baldanza.
Le strade di Bologna, agli occhi inesperti di chi, come me, è sprovvisto di patente, appaiono tutte uguali e senza una definizione ben precisa. Mi lascio condurre, convinto di raggiungere la località prescelta, entro i tempi necessari a trovare le varie “pappatorie” ancora fumanti. I confini bolognesi, a un certo punto, cedono il passo a una lunga e tortuosa strada in salita, ma il desiderio irrefrenabile di tigelle, piadine e crescentine sprona ad andare avanti. In fondo, anche il più refrattario e indolente pigrone del mondo sarebbe spronato ad avanzare senza indugi. Si sa che la fame e la gola sono in grado di sconfiggere ogni barriera insormontabile, quindi una semplice stradina di provincia finisce con l’assumere le sembianze invitanti di un trampolino di lancio verso una sicura abbuffata: “Non riesco a trattenere l’acquolina in bocca!” penso con voracità.
Il bello di viaggiare con un’autista abile e attenta è trovarsi in una situazione come quella appena descritta, infatti prima di ogni curva è quasi d’obbligo avvisare, con un colpo di claxon, potenziali automobilisti provenienti dal verso opposto. Sembra di essere stati invitati a un sontuoso matrimonio e più si “strombazza”, più il matrimonio diventa, simbolicamente, principesco. Se ne sorride allegramente.
Il ristorante spalanca le sue braccia, invitando i suoi avventori a parcheggiare nello spiazzo antistante: “Finalmente siamo arrivati, à nìn potèv piò!” (trad. non ne potevo più!) esclamo in bolo-pugliese. Gli altri colleghi e amici salutano, sbracciandosi e sorridendo: “Uèèèhhh, siamo tutti qui! Entriamo?” parole sante, che risuonano al mio udito come invito a ingozzarmi.
Il tavolo a quattro posti sembra proprio fatto apposta per noi: io, Giulia, Patrizia e Tommaso. L’appetito reclama il suo quinto posto, in primo rilievo rispetto agli altri, tanto da spronare la ricerca immediata della cameriera, per ordinare tutte le pietanze tanto agognate. Lo stomaco borbotta di sano appetito. Oltre alle già citate tigelle, piadine, crescentine, si aggiungono sottoli e sottaceti e un coraggioso ordine di primo piatto da parte di Tommaso. Come sempre accade, la cena assume la valenza di un patto a quattro, come il patto atlantico, dove si dividono equamente i piatti da divorare. Lo spirito di gruppo sprona ognuno ad andare oltre la cena e ricercare, anche con la forza del pensiero e della mente, legami di vario tipo. Così tra una spiritosaggine e l’altra, si finisce con il condividere esperienze personali di vita, dal chiacchiericcio da pianerottolo ai discorsi più consistenti di lavoro, genitorialità e religione. Proprio quest’ultimo tema funge da pretesto a Tommaso, dalle origini italo-giapponesi, per erudire la sparuta platea di amici su argomenti filosofico-religiosi circa il Buddismo e il Karma. La cosa si fa interessante e incuriosisce tutti.
A fine cena, attraverso un giro turistico in macchina, per luoghi caratteristici della zona, si sente la necessità di smaltire i chili di troppo acquisiti e tutti i sensi di colpa a essi collegati. I sorrisi di ognuno legano, ancor di più, gli spiriti, tanto da rendere irrisoria la mia osservazione: “La mia badante vorrebbe che io rientrassi presto stasera, ma mi sa che…” e all’unisono si conclude “…resterà delusa!”. Proprio in quel momento, un grande cancello ostacola l’accesso a un ampio spiazzo, antistante una sorta di abbazia. Si cerca invano un ingresso laterale o, più ancora, posteriore: “Non sarà mica la vendetta della badante a impedirci di entrare? Se fosse davvero così, sarebbe lo spunto per un film horror!” penso, sentendomi, per un attimo, un regista alla Dario Argento. “A cosa stai pensando, Mario… alla badante?” con questa domanda, accompagnata dai risolini di tutti, comprendo che sta rafforzandosi uno spirito di gruppo, equiparabile al migliore dei legami di amicizia.
La voglia di vivere fino in fondo la serata, spinge a divagare sui possibili prossimi appuntamenti: “Il 18 è il mio compleanno, che ne dite di organizzare qualcosa?” domando con discrezione, trovando la piena approvazione degli altri. “Si potrebbe andare all’indiano, è da un po’ che ne parliamo!”. Il gruppo non perde occasione per ricompattarsi su proposte di svago e divertimento, proprio come un “asso piglia tutto”, non si priva di nulla. Ecco il nome da dare al neogruppo di anici: Asso Piglia Tutto!
Festeggiare il mio compleanno in un ristorante indiano è davvero un’ottima idea, da riempire i pensieri di felicità. Giulia è puntuale come un orologio svizzero e io, altrettanto preciso, ho già la chiave della Dacia e il contrassegno per disabili in mano. Una spruzzatina di profumo sotto le orecchie, giusto per dare l’impressione di essere quello che non sono, cioè un fighetto dell’Orsa Maggiore, una “aggiustatina” all’immancabile marsupio poggiato sull’addome e via si parte in direzione della Nuova Delhi di via S. Felice. “Mio fratello mi ha detto che la cucina indiana è molto piccante!” dico a Giulia con espressione del viso poco rincuorante, “Non è detto, basta fare attenzione e scegliere bene!” la risposta sicura spazza via ogni potenziale perplessità.
Il traffico scorrerebbe spedito e veloce se non fosse interrotto dai tanti semafori rossi. La fame, però, non reclama alcuna fretta, anzi lascia che lo scorrere del tempo faccia lievitare i desideri culinari più curiosi. “Alla fine anche Andrea ha deciso di venire. Bisognerà raggiungerlo in Piazza dei Martiri, dove ha la fermata l’autobus proveniente da Minerbio! Ti dispiace se poi andiamo a prenderlo?” la bella notizia di Giulia mi riempie di gioia: “Nessun problema! Sono arcifelice che anche Don Calogero sia dei nostri stasera!”. Il duo pseudo-malavitoso del “Gruppo Calamaio”, costituito da me, alias Don Vituzzo, e Andrea, per l’appunto Don Calogero, può rimanere cristallinamente compatto.
Il parcheggio, riservato ai disabili, è subito occupato dalla mia Dacia, a poca distanza dal ristorante. Giulia prende la carrozzina dal portabagagli, la apre per bene e con cura, la posiziona davanti ai miei piedi instabili e aspetta che io compia il “prodigioso saltello” dal sedile dell’auto alla sedia a rotelle. Nonostante questo piccolo o grande sbattimento, a seconda dei punti di vista, si respira una gran voglia di vita e di libertà: “La vita è nostra!” ribadisco per l’ennesima volta a Giulia che, con aria compassata, risponde “Cerchiamo di raggiungere Andrea a Piazza dei Martiri adesso!” ne sorridiamo. Anche questa serata promette bene.
D’altronde penso sia nella natura umana ricercare condivisioni rilassanti e serene. Il “guscio di divagazioni” sta imparando a esplodere, pronto a coinvolgere, di contagiosa allegria, quanti nutrano anche un piccolo bisogno di aprirsi al mondo.
Peccato che l’ora si sia fatta tarda e il sonno post-cena, inversamente proporzionato, si affacci sempre più con prepotenza; è segno che l’ora del desio è ormai giunta! Libertà. Tempo libero. Probabilmente ognuno di noi ne darebbe un’interpretazione diversa. Parliamo della possibilità di scegliere, consapevolmente, come riempire gli spazi di libertà personale. Ma chi può dire di essere davvero padrone del proprio tempo?



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