2. Persone con disabilità e i propri tempi: tempo occupato, libero, vuoto, perso
- Autore: Mario Paolini
di Mario Paolini, pedagogista
Ho avuto modo, tempo fa, di scrivere delle riflessioni sul tempo per un contributo chiestomi da “La Bottega del Possibile” di Pinerolo; il tempo è una dimensione spesso sottovalutata da chi lavora in servizi dedicati a persone con disabilità (intellettive prevalentemente), lo si osserva sia nella, a volte sconcertante, rappresentazione mentale delle persone come eterni “ragazzi”, sia nell’errata convinzione che più il tempo delle persone con disabilità è riempito di cose da fare e meglio è. Sull’ansia del fare degli educatori molto è stato detto, spesso i centri diurni per persone con disabilità esibiscono dei palinsesti ricchissimi di attività; mi capita sempre quando faccio formazione di riflettere sul fatto che se un servizio si limita al proporre lunedì piscina, martedì teatro, mercoledì cavallo, giovedì musica, venerdì festa (c’è sempre qualche compleanno da festeggiare) questo più che un progetto educativo o un progetto di vita assomiglia alla settimana della Costacrociere, e se poi ad ogni attività aggiungiamo la parola “terapia” diventando nuototerapia teatroterapia ippoterapia musicoterapia ludoterapia, il senso cambierebbe ancora. Non mi permetto in poche righe di giudicare il lavoro di altri, ma forse è utile riflettere che le attività sono un mezzo e non un fine, e chiedersi se dietro il fare tante attività c’è alle volte la paura del vuoto, colmata con mille proposte; comprendere e accogliere quelle dei genitori è importante perché forse può offrire valide proposte per affrontare qualcosa che riguarda molti bambini che non hanno disabilità ma che vivono in contesti dove è evidente l’ansia crescente di “genitori sperduti” che comprano tempo pieno per i propri figli illudendosi così di colmare il vuoto della loro assenza.
Per parlare di altri è interessante inserire nell’osservazione lo sguardo di chi guarda, tenere conto dunque non solo delle persone con disabilità e dei loro tempi ma anche di come una maggiore attenzione al tempo e ai tempi può essere un valore aggiunto che restituisce, allo stesso tempo, senso e valore al lavoro di chi dedica il proprio tempo ai tempi di altri.
Il tempo occupato è quello del lavoro, la normalità della condizione adulta, e se manca o finisce viene meno qualcosa di importante nella struttura identitaria del sé. Enrico Montobbio e Carlo Lepri ben ne hanno scritto in tante pagine, indicando quanto importante sia il lavoro, tempo occupato, nella costruzione di un’identità adulta per le persone con disabilità. È quello che gli autori indicano con “l’imparare a lavorare”, che richiede una maturazione affettiva, relazionale, che passa anche attraverso l’incontro con i limiti, con l’accettazione di se stesso non in una visione rinunciataria ma di consapevolezza della propria normalità. Credo di poter dire, in base alla mia esperienza che ormai ha superato da un po’ i trent’anni in questo campo, che questa maturazione verso l’adultità è possibile anche in persone con importanti condizioni di disabilità anche intellettiva e che tale processo è favorito, o compromesso, dalla qualità degli interventi sviluppati dalla rete della comunità educante che ruota attorno alla persona. Questione che ci riporta alla centralità del tema della rappresentazione mentale delle disabilità, ma non è di questo che ci occupiamo ora. Il tempo occupato non è solo quello del lavoro tradizionalmente inquadrato, ma riguarda qualsiasi azione che produce effetti su altri da me, in cui è richiesta cura, attenzione, competenza. Fare del volontariato stando mezz’ora a fare compagnia a qualcuno è diverso da stare mezz’ora in compagnia con un amico.
Il tempo libero è quello della regressione, quello dove sia possibile, per usare le parole di Francesca, giovane donna marchigiana con disabilità intervistata da una brava educatrice, Gloria Gagliardini, del Gruppo Solidarietà di Moie (AN), “prendermi tutto il tempo per me, non dover pensare se non che a me; magari ho voglia di fare un disegno. Senza la gente che ti dica devi fare questo, devi fare quell’altro. A volte vorrei avere un mio spazio e tempo libero, senza essere interrotta”. Tempo per me, significa che devo poter scegliere e decidere, autodeterminarsi è anche questo: non è qualcun altro che sceglie o decide, seppur in buona fede. Ci sono persone che per poter accedere al proprio tempo libero hanno bisogno di altri (e del loro tempo occupato), linee sottili che si intrecciano e che non devono ingarbugliarsi. Tempo libero come spazio di libertà, che io educatore dovrei tutelare impedendo, a me per primo, il giudizio: difficile, a volte non ci si riesce. Oggi il mercato ha invaso ogni spazio immaginabile per vendere qualcosa che riguardi il tempo libero e le stupidaggini o le truffe sono davvero tante, quindi insegnare a qualcuno a prendersi tutto il tempo per sé non è banale, la conoscenza e la cultura anche in questo campo servono a rendere libere le persone e non schiave/clienti.
Vorrei prendere in considerazione una terza dimensione, quella del tempo vuoto, il tempo dei pensieri e del pensare, del leggere un libro aprendosi a nuovi mondi, dell’ascoltare una musica lasciandosi portare in una dimensione che non consente altro perché sei totalmente rapito da ciò che accade. Il tempo per gli antichi greci era Kronos, il tempo che scorre attimo dopo attimo, ma anche Kairos, quell’attimo in cui qualcosa accade e resta, segna, cambia altri attimi, dilatandoli o accelerandoli, mutandone la direzione perché in fin dei conti il tempo della vita si contamina delle direzioni, dello spazio che gli incontri e le esperienze, le scelte ed anche la casualità, definiscono. Tutti noi, non solo alcune categorie di persone, abbiamo bisogno di altri per conoscere e vivere su di noi questa dimensione, di una comunità educante dove potersi reciprocamente incontrare, conoscere, contaminare.
Nella costruzione di un sé autentico tutte queste dimensioni del tempo sono necessarie ma non sono spesso accessibili per le persone con disabilità, poiché questi tempi dipendono spesso dal tempo occupato di qualcun altro e non è semplice pensare che il proprio lavoro deve offrire tempo libero e spazi di libertà a qualcun altro. Un primo ostacolo è a mio avviso il perdurare di una rappresentazione infantilizzante delle persone con disabilità, un imprinting difficile da modificare anche in tanti educatori, insegnanti, operatori; se la costruzione identitaria è data dal rispecchiamento che gli altri ci offrono è evidente cosa può accadere. Partendo dall’esempio di Francesca prima citato, potrebbe accadere che il disegno di cui lei parla sia orientato da qualcuno che sceglie il supporto: un foglio A4 magari riciclato non è la stessa cosa di una carta bella, dei pennarelli scoloriti non sono la stessa cosa di bei colori a tempera o a olio. Ma se chi offre il materiale pensa che la persona debba solo passare del tempo a colorare e che ciò che farà sarà, a prescindere, poco interessante, si potrebbe riflettere che quel tempo non è in realtà tempo libero ma tempo perso, qualcosa in cui le persone con disabilità sono molto esperte.
Dunque un ambiente interessante e accessibile, un ambiente inclusivo capace di fare la fatica di accogliere le differenze. Sull’accessibilità ci sarebbe molto da dire, ci sono ambienti che lo sono e altri meno, altri che proprio non lo sono, e non si deve essere distratti. Penso per esempio che ogni impianto sportivo realizzato con denaro pubblico non dovrebbe essere affidato a organizzazioni (associazioni sportive o altro) che non garantiscano l’accessibilità a tutti; barriere che si vedono e altre che si nascondono dentro le persone, amministrazioni senza soldi che trascurano un po’ di più i marciapiedi usurati e i soliti maleducati che ci posteggiano sopra (rovinandoli per giunta, una doppia multa non guasterebbe). Una cosa importante che si deve continuare a fare è rendere visibile quel che c’è e che funziona bene: mi capita spesso di incontrare persone, famiglie o anche persone impegnate nei servizi che non conoscono cosa offre il proprio territorio ed è davvero una stupidaggine a pensarci, che fa fare a tutti più fatica e rallenta la costruzione di un modello inclusivo.
Tornando all’esempio di prima, se un impianto sportivo spende dei soldi per avere degli ausili efficienti, un equo ritorno da questo investimento è direttamente proporzionale al numero di persone che vi accedono e per farlo devono anche sapere che c’è questa opportunità. Le tecniche del marketing a sostegno del bene comune sono proprio un bell’investimento.
Joey Deacon (1920-1981) è stato una persona con disabilità che ci ha lasciato qualcosa di importante per riflettere sul tempo. Nato con un parto difficile, era spastico e non poteva parlare; in casa i familiari, la mamma in particolare, riuscivano a capirlo ma quando lei morì e la famiglia fu costretta a mettere Joey in un istituto, per molti anni egli crebbe senza avere voce. Il Kairos fu l’incontro con un’altra persona disabile che, inspiegabilmente, lo capiva. Quell’incontro, quell’attimo, cambiò la vita di entrambi. Un film, Joey di Bryan Gibson del 1974, racconta la sua storia, e lo fa a partire da un libro che lo stesso Joey Deacon aveva appena finito di scrivere in collaborazione con il suo amico-interprete e altri. Il libro, Lingua legata: cinquant’anni di amicizia in una istituzione chiusa, fu tradotto in molte lingue, in Italia uscì nel 1978 per la Nuova Italia di Firenze (recensito nel 2006 da questa rivista). Che tempo era quello? Occupato, occupatissimo se per scriverlo riuscivano a procedere di tre righe al giorno ma lavorandoci chissà quante ore, ma anche profondamente libero, denso di libertà. Elogio della lentezza, della necessaria capacità di darsi tempo e dare tempo perché le cose accadano. Molte persone con disabilità richiedono più tempo per fare le cose, l’orologio viaggia con velocità diverse e non è facile ricordarsene, specie se il tempo libero deve sempre andare in conflitto con altri tempi, diventando tempo rubato.
C’è però un’altra dimensione di cui bisogna parlare, forse la più importante. Quella delle relazioni amicali, dell’avere amici e sentirsi appartenere a un gruppo, identificarsi in un gruppo, di pari. Non è certo questione che riguardi solo le persone con disabilità ma per loro spesso è molto più rilevante e difficile da ottenere e mantenere nel tempo. Un genitore di un ragazzo con disabilità sa bene quanta sofferenza sente quando vede il proprio figlio sempre a casa, nessuno che ti viene a prendere per mangiare una pizza o andare al cinema. Un genitore così si danna l’anima per cercare di supplire in ogni modo ma sa anche che non è quello che quel figlio vorrebbe e neppure lui lo vorrebbe, forse anche lui avrebbe voglia di starsene in pace e recuperare tempo per sé, fosse anche tempo perso ma per sé. In questi giorni sto tenendo un corso all’università di Pisa per la formazione degli insegnanti per il sostegno e il focus è il gruppo classe, ovvero come un buon progetto educativo (per tutti) deve favorire buone dinamiche relazionali tra pari e come la classe può essere un ambiente che favorisce, con buoni insegnanti, o annichilisce, con insegnanti che pensino che tutto sommato non è previsto dal programma, la costruzione di legami indispensabili nella strutturazione identitaria di un sé autentico. Ciò significa anche nell’incontro con i propri limiti, con le proprie differenze, accanto a quelle degli altri. Torno a citare l’intervista di Gloria Gagliardini a Francesca, perché a questo riguardo lei aveva detto di pensare che per lei inclusione è “vivere la vita insieme agli altri, con le difficoltà ma insieme agli altri”. L’intervistatrice le aveva chiesto allora “e agli altri cosa diresti?” e la risposta di Francesca in poche parole riassume lunghi discorsi: “di non aver paura della disabilità”. E aggiunge “la gente ha paura perché non ci conosce, ma se tu gli permetti di conoscerci la paura va via”. Conoscenza e cultura, per sconfiggere ignoranza e paura.
Ecco che in una riflessione sul tempo, su un tempo veramente libero, riappare la necessità di un lavoro fatto insieme da più persone e da più punti di vista per alimentare un’autentica cultura dell’inclusione, che non è buonismo ma è civismo, che non è attratta dal mercato e dalla cultura dell’io ma dalle relazioni e dalla cultura del noi, di ciò che è di tutti, come l’aria, l’acqua e le amicizie. Tra queste persone ci devono essere gli educatori ma forse è necessario recuperare un’identità smarrita o dispersa in molti ambiti non più dialoganti tra loro. Per fare questo non c’è più molto tempo: wake up.
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