I vostri figli non sono i vostri figli.
Sono i figli e le figlie dell’ardore che la Vita ha per se stessa.
Essi non vengono da voi, ma attraverso di voi,
e non vi appartengono benché viviate insieme.
Potete dar loro il vostro amore, ma non i vostri pensieri,
poiché essi hanno i propri pensieri.
Potete custodire i loro corpi, ma non le loro anime,
poiché abitano case future, che neppure in sogno potreste visitare.
Potete sforzarvi di essere simili a loro,
ma non cercate di rendere essi simili a voi,
poiché la vita procede e non si attarda su ieri.
Voi siete gli archi da cui i vostri figli come frecce vive,
sono scoccati lontano.
(K. Gibran, Il profeta)
Quando si parla di disabilità, c’è un tema scottante che, spesso, viene sottovalutato dalle famiglie delle persone interessate: il tema del dopo di noi. Purtroppo, i genitori dei disabili crescono nel loro ruolo con la convinzione di dover proteggere e difendere i propri figli da tutto e da tutti (sentimento che, di per sé, nutrono i genitori anche di figli del tutto normodotati) e con l’assunto incontrastabile che nessuno meglio di loro sia in grado di prendersi cura della prole con deficit. Ritengono, a volte anche parzialmente a ragione, che nessun medico, infermiere, operatore, educatore, potrà mai assisterli meglio di loro: anche laddove il paragone sia con professionisti della sanità o del sociale ai massimi livelli, resteranno sempre convinti di compensare le proprie carenze con tutto l’amore che riversano nelle azioni assistenziali. Certamente, come si dice, se c’è l’amore c’è tutto, ma questo vale da un punto di vista strettamente sentimentale e relazionale, mentre, quando si mettono in gioco fattori che richiedono competenze specifiche, il troppo amore rischia di fare danni, anche irreversibili, al corpo e alla psiche dei giovani disabili. Infatti, essi stessi possono crescere con due opposte sensazioni al riguardo: la stretta convinzione che solo i genitori li amino e siano in grado di occuparsi di loro, oppure, al contrario, il senso di ribellione per la costrizione di un rapporto quasi esclusivo con i parenti, con scarsa apertura al mondo esterno e a frequentazioni più variegate e socialmente soddisfacenti. Tuttavia, è nella natura delle cose che i figli sopravvivano, quasi sempre, ai genitori. Il venire meno di questi ultimi, nel momento in cui si trovano a essere gli unici interlocutori, assistenti e punti di riferimento di un figlio disabile, rende la persona con handicap completamente spaesata, timorosa, angosciata da questa nuova condizione di orfano. Tante associazioni, oggi, lavorano sulle e con le famiglie con figli diversamente abili, in primo luogo per garantire una adeguata successione nell’assistenza dopo la morte dei famigliari, ma, ancor prima, per contribuire a modificare la mentalità degli interessati. Il lavoro è arduo: è necessario essere in grado di convincere i genitori di non essere sempre indispensabili, di far loro capire che il figlio è altro da sé, un individuo, spesso in grado di fare cose che nemmeno si immaginano. Poi, bisogna far capire loro che il figlio ha talenti, doti e qualità nascoste, perché soffocate dall’eccessiva apprensione e desiderio di tutela. Talvolta, anche il soggetto disabile stesso va persuaso di possedere tante qualità, perché, laddove gli sia stato in qualche modo impedito, pur in buona fede, di esercitarle, la scoperta di esse diventa sorprendente per tutti. In Italia, esistono esperienze di cohousing per disabili che stupiscono costantemente tutti i soggetti interessati: ragazzi con disabilità più o meno gravi si rivelano in grado di portare avanti progetti di vita autonoma fino a quel momento mai nemmeno immaginati per loro. I genitori sono, quasi sempre, quelli che, di fronte all’uscita di casa del figlio, così come avviene per qualsiasi, normalissimo giovane, restano traumatizzati. Ma, si sa, le mamme italiane sono famose in tutto il mondo per essere particolarmente chiocce! Quando i genitori (tutti!) deresponsabilizzano i figli, cercando di agire per loro, di proteggerli e tutelarli eccessivamente da quelli che percepiscono come i pericoli del mondo esterno, si generano giovani adulti incapaci di provvedere a se stessi, soprattutto nelle difficoltà – inevitabili – della vita. Quando il disabile è stato eccessivamente salvaguardato dal mondo esterno, venendo meno la rete familiare, si verificano più facilmente situazioni spiacevoli come tentativi di truffa per impossessarsi dei beni, soprattutto nei confronti di persone con qualche problema psichico, ma anche i disabili fisici possono essere oggetto di qualche truffa, in quanto non sono in grado fisicamente di controllare i loro possedimenti. Ci sono associazioni meritorie, dicevamo, nate appositamente per aiutare le persone disabili nel passaggio dalla vita familiare a quella autonoma, che fanno un ottimo lavoro (se glielo lasciano fare), ma, a mio avviso, il sistema migliore per la serenità di tutti è creare una rete di amicizie che possano accompagnare le persone disabili nei momenti più difficili della loro vita. Parlando di me, ad esempio, posso dire di avere avuto 3 o 4 amici, che lavorano nel sociale con diverse mansioni, che quando mia madre non era più in grado di assistermi mi hanno aiutato nelle questioni pratiche, mi hanno sostenuto moralmente e mi hanno consentito di trovare dei collaboratori che mi hanno permesso non solo di continuare la mia vita in tranquillità, ma, anzi, sotto certi aspetti di migliorarne la qualità. Ad esempio, mia madre, negli ultimi tempi, essendo molto stanca a causa dell’età e della malattia, non riusciva più a cucinare, mi preparava sempre lo stesso menù e in scarsa quantità, aveva paura che vomitassi, cosa che per lei, soprattutto di notte, sarebbe stato un grosso problema. Adesso non ho più queste preoccupazioni. Sarebbe importante che le persone disabili fossero preparate al momento del distacco dalla famiglia attraverso delle prove di vita autonoma, in cui apprendere e affrontare le piccole cose di ogni giorno. Ad esempio io, anche se non ho mai fatto esperienza di vita autonoma prima della scomparsa di mia madre, andavo sempre in vacanza con i miei amici da quando avevo 20 anni, quindi per 2 o 3 settimane l’anno ero costretto a fare delle scelte: cosa mangiare, come vestirmi, ecc. Questo, pian piano, mi ha abituato alla mia vita autonoma, o meglio a una vita comunitaria, in cui le decisioni piccole e grandi si prendono insieme e le responsabilità sono comuni. Ma, per fare questo, bisogna che i genitori abbiano il coraggio di lasciare i figli disabili alle cure di persone esterne. L’autonomia del proprio figlio, si diceva, spaventa qualsiasi genitore: tuttavia, il genitore della persona con deficit deve essere in grado di superare questo timore, proprio per non far sentire il figlio handicappato, bensì un soggetto degno di fiducia e con la possibilità di costruire un progetto di vita che non si riduca in un mero assistenzialismo, scevro di prospettive di tipo educativo, sociale, affettive.
La vera eredità che i genitori dovrebbero lasciare è proprio questa mentalità, che aiuta ad affrontare le sfide della vita, o, almeno, consente di avere una rete di amicizie in grado di aiutare la persona con deficit nelle proprie scelte di vita. Solo così il dopo di noi può diventare un periodo di vita sereno e soddisfacente, sicuramente diverso da quello precedente, ma non per questo peggiore.