Lettere al direttore
- Autore: Claudio Imprudente
Risponde Claudio Imprudente
Donne du du du… In cerca di?
Hai proprio ragione caro Adelmo Fornaciari, quando fai cantare le donne dal palco delle città italiane… Le donne sono sempre in cerca di qualcosa, a volte sono guai (ma per colpa di chi?) e il più delle volte, come tutti noi, sono alla ricerca della propria identità.
Ma c’è di più, soprattutto se pensiamo a come la loro figura si è evoluta negli anni, dal punto di vista dell’immagine, a partire dagli stereotipi che porta con sé (bellezza, maternità, accoglienza) fino alle responsabilità legate all’impiego del proprio corpo (dalla libertà sessuale al diritto all’aborto). Detto ciò non si può infatti negare che il potere decisionale femminile sia ancora una faccenda strettamente vincolata alle leggi della comunità. La domanda che forse oggi va riproposta è quanto questa comunità si metta o non metta in relazione alle scelte del singolo e con quale legittimità.
Leggendo la monografia di questo numero avrete incontrato molte esperienze che aprono la riflessione ma che invitano anche a rimboccarsi le maniche, per fare in modo di non ripetere gli errori del passato, come la storia già ci insegna in molti campi.
Mi piacerebbe ora dare voce in questo spazio ad altre storie che, per esempio, ci raccontano di che cosa vuol dire per una donna con disabilità costruirsi un percorso professionale all’interno di un contesto scolastico o, ancora, come affrontare la nascita di un figlio con disabilità anche quando questo non è del tutto voluto dalla mamma. Un tema delicato quest’ultimo che ha generato tra i miei lettori un dibattito tra due posizioni diverse, che riporto ora così come le ho ricevute a commento in risposta a un mio articolo sul Messaggero di Sant’Antonio, “A me che importa?”, condiviso qualche tempo fa sui social. Io ho detto la mia. Voi, ditemi la vostra!
Ciao Claudio,
sono una ragazza di 29 anni con due lauree, con un lavoro precario ma stupendo, con pochi amici ma con un fidanzato filosofo, con una famiglia di vecchio stampo e un canarino giallo, che mi capisce al meglio, con una paraparesi spastica alle gambe dalla nascita e un cervello curioso e testardo. In questi giorni sono a letto per una seria sciatalgia alla schiena e così piuttosto che fissare orizzontalmente il soffitto, dispiacermi per aver perso una settimana di supplenza alla scuola dell’infanzia dove erano previste le mie attività preferite, ho letto più libri possibili tra cui il tuo, Una vita imprudente. Mi mancano da finire due tirocini e la tesi poi potrò essere anche un’insegnante di sostegno… Ma secondo te visto la mia piccola invalidità, potrò veramente aiutare nel migliore dei modi i bambini e essere una buona insegnante?
E se mi assegnassero un bimbo autistico che scappa come un fulmine? Come faccio a raggiungerlo se sono più lenta di lui nel correre? Mi è venuta questa perplessità perché le segreterie che mandano le convocazioni non hanno studiato l’ICF e non fanno interagire i funzionamenti delle persone…
Tu cosa ne pensi?
Grazie per quello che fai nelle scuole, grazie per i libri che hai scritto, grazie perché penso a te come a un amico… Più vero di quelli che continuano a vantarsi di organizzare cene di volontariato e non sanno scrivere nemmeno una volta l’anno.
Detto ciò mi prendo un altro libro… Perché l’immobilità ci può rendere colti!
Ciao,
Valentina
Cara Valentina,
beh, per risponderti mi piacerebbe partire dal tuo nome… Valentina un nome un programma… Un programma pedagogico si potrebbe dire… Hai mai pensato che a impedirti di afferrare il bimbo autistico non fosse tanto la tua disabilità quanto il tuo nome? Pensaci bene… Giochi di parole a parte, sai che mi piace scherzare, quello su cui vorrei farti riflettere è l’identità che caratterizza il tuo nome e te stessa, Va-lentina, maestra con disabilità. Muoversi lentamente è senza dubbio un tratto che contraddistinguerà il tuo modo d’insegnare… Questo, di certo, non lo potrai cambiare. Nemmeno io, in fondo, mi chiamo Claudio per caso… A guardarci bene significa claudicante, ovvero zoppo. Eppure questi dati di realtà non ci impediscono di pensare in grande e arrivare con la mente dove altri arrivano prima con il corpo. I bambini si adeguano con empatia e naturalezza a chi sta loro accanto e sanno benissimo che cosa tu sei o non sei in grado di fare. Probabilmente quel bambino si rivolgerà a te in un momento di gioco e di ragionamento, mentre, a prenderlo in corsa ci penserà un’altra insegnante. Lavorare insieme, ecco un altro punto importante. Partire dalle nostre caratteristiche e difficoltà significa infatti sapersi confrontare come gruppo su un piano di progettazione comune che tenga conto delle abilità e non abilità di tutti. Una vera ricchezza per i bambini che ne beneficeranno, che impareranno così a vivere tra la diversità delle persone e delle identità. Rallentare la scuola non significa fare cattiva scuola ma, anzi, significa aggiungere un grande valore: la lentezza.
Detto ciò… Vai, vai lentina!
Gentile Claudio,
leggo un articolo che hai scritto sul Messaggero di Sant’Antonio riguardo ai fratelli di persone disabili… A me è capitato di intervenire su una famosa rivista di moda alla confessione di una giovane donna che dichiarava di aver abortito perché il figlio che portava in grembo non era perfetto ma destinato a divenire disabile. L’ho rimproverata, forse troppo duramente, lo ammetto, per aver ucciso la sua creatura e come risposta ho avuto la testimonianza di una ragazza che aveva un fratello disabile. Raccontava di mille sacrifici e del pentimento dei suoi genitori per non aver eliminato per tempo quella creatura che non rispondeva esattamente ai loro canoni. Io sono rimasta a bocca aperta perché, nonostante tutti i sacrifici e le privazioni, penso che un essere umano sia da amare sempre e comunque.
Ecco come risponde Lucia T. alla nostra lettrice e il dialogo che ne è seguito:
Lucia T: Cara Rossana, la disperazione di quella sorella dovrebbe insegnarti che non bisogna mai giudicare, condannare, rimproverare aspramente, ma solo cercare di comprendere e rispettare le scelte individuali, spesso frutto di un dolore e un travaglio inimmaginabili…
Rosanna L: La vita, una volta concepita, deve essere protetta con la massima cura; l’aborto, come l’infanticidio, sono abominevoli delitti. Per non citare lo stesso attuale nostro Santo Padre Francesco che ha definito l’aborto una falsa compassione cara Lucia.
Lucia T: La tua giovane età, e la mia, purtroppo, già avanzata, mi spingono ad approfondire un argomento che mi sta molto a cuore, la carità cristiana. A voi giovani, da vecchia insegnante, non mi stancherò mai di chiedere una costante riflessione sul messaggio cristiano che considero di una bellezza rivoluzionaria, l’accoglienza e il perdono. E come ha detto molto saggiamente il nostro grande pontefice.
Rosanna L: Cara Lucia, come ho ammesso già prima so di essere stata dura ma so anche per certo che i figli non sono nostri ma un dono di Dio, di conseguenza eliminare quelli che non rispondono alle nostre aspettative ha ben poco di cristiano… Mi ricorda gli antichi spartani che gettavano nel dirupo i figli con qualche difetto fisico.
Lucia T: Non credo che il pontefice parlasse di falsa compassione per parlare di comprensione nei confronti di chi compie questa scelta. Io ho due figli desiderati e amati con tutta me stessa. Averli potuti avere e tenere è stata un’immensa fortuna, non mi sento per questo una brava cristiana bensì una donna cui è stato concesso un dono immenso.
Prima di rispondere a Rosanna e Lucia, riprendo con voi un estratto del mio articolo sul Messaggero di Sant’Antonio, che francamente non immaginavo avrebbe scatenato un simile dibattito e su tale fronte:
Ma chi erano Caino e Abele? Primo e secondogenito di Adamo ed Eva, una storia che tutti noi conosciamo. Il primo assassino e il primo martire della storia. L’invidia come causa del primo crimine, del primo rapporto difficile tra fratelli.
Quando sento parlare di Caino e Abele, tuttavia, non penso solo ai conflitti della storia mondiale ma, scendendo più vicino, non posso non accorgermi di altri rapporti tra fratelli e sorelle che vivono in mezzo a noi, come il mondo dei siblings, fratelli e sorelle di persone con disabilità.
Essere genitori o fratelli di una persona con disabilità sono esperienze diverse. Certo il rischio, care Rosanna e Lucia, è quello di sovrapporre i due ruoli che sottintendono la stessa domanda: perché è capitato a me?
Il tema è senza dubbio delicato e, indipendentemente dalle posizioni religiose, credo sia importante restare aperti all’ascolto e concentrarsi sulle origini di questa domanda. Il corpo che abbiamo ricevuto, nel bene o nel male, è il nostro e siamo noi, uomini e donne, che dobbiamo imparare a relazionarci con esso anche quando contiene in sé una nuova vita. Giudicare a mio parere è deleterio, sia come genitori che come fratelli oltre che come semplici cittadini.
Il vero problema è capire, al di là delle opinioni, perché la disabilità sia ancora vissuta in termini di sfiga, amplificando una serie di dinamiche culturali già in atto.
Il rifiuto nasce quando siamo bloccati dagli steccati che circondano le nostre convinzioni. Uscire da quegli steccati è rischioso. Mi viene in mente a tal proposito una recente pubblicazione per l’infanzia di Davide Calì e Serge Bloch, Il nemico. Una favola contro la guerra, Terre di mezzo Editore. Un soldato isolato in trincea immagina al di là del confine un nemico terribile e sanguinario. Un giorno si troverà a dover uscire dal suo rifugio e a incontrare il nemico faccia a faccia. Scoprirà e conoscerà un soldato molto simile a lui con le sue stesse paure e sogni. Una storia semplice ma emblematica.
La disabilità non è un nemico che ci colpisce alle spalle, è qualcosa che ci sta di fronte e che ci costringe a uscire fuori dalle trincee per guardarla negli occhi. Perché lo stesso accade dall’altra parte, proprio come ci racconta il nostro soldatino: È quasi l’alba e il nemico ancora non si vede. Ho capito dov’è. È nel mio buco! Anche lui ha pensato di sorprendermi nel sonno e di far finire questa guerra. A quest’ora mi starà aspettando ma forse ha capito che io sono nel suo buco e che non posso uscire.
Buona vita!
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