2. Fare cinema
- Autore: A cura di Luca Giommi
- Anno e numero: 2014/2 (monografia sul cinema e la disabilità)
La nostra ricerca muove dal “fare”. Ci è sembrato interessante e logicamente appropriato iniziare dalla produzione di un’opera cinematografica piuttosto che da una valutazione (in senso lato) delle opere stesse e dei modi in cui queste possono entrare in dialogo o in conflitto con chi ne fruisce e con il contesto politico e culturale nel quale nascono, con il quale si rapportano in modo dialettico e che possono, in qualche modo, trasformare.
La realizzazione di opere filmiche verrà raccontata da persone direttamente coinvolte nella catena produttiva necessaria perché un’idea possa farsi immagine in movimento. Pur rinunciando a creare confini artificiosi tra un argomento e l’altro, abbiamo cercato di evidenziare, attraverso ogni singolo contributo, alcuni temi specifici. A volte l’intento iniziale non è stato pienamente rispettato: la forma dialogica dell’intervista, da questo punto di vista, si è rivelata un formidabile strumento per allargare gli orizzonti tematici di partenza, ricalibrare la propria ricerca, trovare conferma e smentite in corso d’opera. Ciò nonostante, ogni contributo mantiene dei tratti forti conformi all’idea iniziale per cui erano stati individuati determinati professionisti per approfondire specifici argomenti e questioni già intuibili e rinvenibili nei loro film. Per cercare, quindi, conferma o smentita ad alcune impressioni maturate dalla visione delle loro opere.
Il contributo di Françoise Hefti della fondazione svizzera Diamante ci permette di mettere in evidenza un raro esempio in cui la produzione filmica da parte di persone con disabilità non viene intesa come attività ancillare e occasionale, ma assume i tratti di una vera pratica professionale che facilita l’acquisizione di competenze tecniche che possono essere impiegate anche al di fuori dell’ambito cinematografico e può creare conoscenza, accettazione dell’altro e un “luogo” in cui le caratteristiche personali di ognuno si confrontano/scontrano con le esigenze e le peculiarità di un lavoro collettivo.
Per ragioni simili abbiamo voluto approfondire con il regista Sergio Ponzio alcuni aspetti, a nostro avviso determinanti, del rapporto di collaborazione che da anni lega il Cineclub Detour di Roma e la Cooperativa Cotrad: anche in questo caso, infatti, i tre lavori di docu-fiction sin qui realizzati raccontano progetti in cui sono persone che vivono un disagio (fisico, psichico, sociale) a svolgere attività volte a valorizzare e restituire una dimensione pienamente pubblica ad un patrimonio orale e architettonico-artistico destinato ad un oblio colpevole. Si crea quasi una corrispondenza, e un cortocircuito insieme, tra persone che hanno difficoltà a vedersi riconosciuta una presenza sociale piena e i luoghi che visitano e vivono, anch’essi in parte “ai margini”. Costruzione di identità, riaffermazione di un senso di appartenenza ad un tessuto sociale, lavoro politico e culturale profondo, raccontati da opere molto interessanti, che sono l’esito di un processo di creazione collettiva, del quale il regista, peraltro, non omette difficoltà e limiti.
2.1 Fondazione Diamante, un’impresa che fa integrazione
di Françoise Hefti
La Fondazione Diamante ha sede a Lugano. È una fondazione privata che dal 1978 gestisce diverse strutture decentralizzate nel Canton Ticino (Svizzera) e beneficia di un finanziamento pubblico. Si inserisce in una dimensione di integrazione con proposte lavorative e abitative a favore delle persone disabili. Attualmente oltre quattrocento persone lavorano e vivono nelle sue strutture, dove svolgono varie attività secondo le loro capacità. Nei dodici laboratori le attività sono differenziate; passano da livelli unicamente occupazionali, con compiti semplici e con importanti sostegni terapeutici, ad attività estremamente qualificate. Le attività della Fondazione Diamante sono suddivise principalmente in 4 settori: alimentare, conto terzi, artigianale, servizi.
Attraverso questo lavoro gli ospiti possono sperimentare cosa significano l’impegno e la conseguente gratificazione di creare con le proprie mani qualcosa di utile, di bello, di importante. Questo tipo di approccio al lavoro stimola un interesse reale per il proprio operato, rende capaci di agire sia sul piano collettivo che individuale, di comprendere l’importanza della partecipazione alla realizzazione di obiettivi comuni.
Sperimentare l’autonomia
La Fondazione Diamante non è un guscio protettivo che racchiude al suo interno e custodisce le problematiche e le difficoltà della persona con deficit. È un collegamento con il resto della società ed è un tramite attraverso il quale, sia dall’interno che dall’esterno, fluiscono le idee e gli scambi. È anche un frammento di una rete comune di servizi più ampia che copre su tutto il territorio del Canton Ticino il fabbisogno integrativo di coloro che vivono una disabilità. Il traguardo più importante da raggiungere è l’inserimento della persona disabile nel mondo del lavoro e nella società stessa, sviluppando sensibilizzazione e accettazione nei confronti del diverso. Per questo la Fondazione ha fin dall’inizio proposto non istituzioni, ma piccoli gruppi lavorativi e abitativi decentrati sul territorio cantonale.
La vicinanza alla realtà sociale di ogni ospite evita lo sradicamento e favorisce l’identità e il riconoscimento. La Fondazione, pur sostenendo un ruolo importante di coordinamento, favorisce il nascere di soluzioni diversificate entro le quali interagiscono le esigenze degli ospiti, l’iniziativa degli operatori e la sensibilità del contesto nel quale si collocano. È proprio la pluralità delle risposte, sono le diverse sfaccettature di questa realtà che hanno portato a scegliere il nome “Diamante”.
Appartenere pienamente alla società
Il disagio sociale non dovrà più essere una realtà differenziata, un mondo separato; potrà essere reinterpretato attraverso strutture aperte e polivalenti: il mondo potrà entrare e non solo limitarsi ad accettare. Chi è diverso ha un grande bisogno, al di là degli educatori, di esseri umani che partecipino alla sua vita con tutta la disponibilità e la comprensione.
L’individuo considerato per le sue potenzialità e non per i suoi limiti
L’intento terapeutico viene così ampliato: ognuno può trovare uno sbocco individuale per le proprie capacità, grandi o piccole esse siano, considerate per la prima volta come parte importantissima del patrimonio creativo individuale e proprio per questo preziose e insostituibili.
L’impresa sociale vuole anche essere un elemento nuovo tra Stato e mercato, volto a rinnovare i meccanismi dello Stato sociale. Un elemento con al centro un progetto lavorativo significativo, che possa ottenere un reale riconoscimento pubblico e produrre dunque integrazione sociale e professionale.
I laboratori della Fondazione Diamante
Avere degli scopi, raggiungere degli obiettivi attraverso il proprio lavoro rende ogni individuo più forte e responsabile.Il laboratorio rappresenta un incentivo a fare, a imparare, a vivere, in parte, del proprio lavoro. L’attività si è sempre di più trasformata in partecipazione attiva ai progetti di gruppo, nei quali ogni singolo individuo assume un’importanza fondamentale per il successo dell’impresa sociale della quale è parte integrante.Le molteplici attività che si svolgono nei laboratori consentono ad ognuno di sviluppare le potenzialità esistenti, di applicare le proprie competenze e di acquisirne altre, nuove e stimolanti.
Qui la diversità diventa creazione, autonomia… si trasforma indiversificazione: premessa fondamentale perché ognuno possariconoscere e apprezzare le proprie capacità e possa sperimentarel’orgoglio e il piacere di realizzare un oggetto, di fornire un servizio, di collaborare con aziende esterne e di produrre beni necessari alla società. Di sentirsi, infine, importante per se stesso e per gli altri.
Il Laboratorio Servizi LASER e l’Atelier Cinema
Il laboratorio LASER (Laboratorio Servizi) di Lugano è stato aperto nel 1987. Si è specializzato in attività di servizi con supporti informatici, staccandosi per la prima volta dalle tradizionali attività di artigianato. Attualmente offre una formazione e un lavoro a trentacinque persone disabili attraverso quattro settori distinti: grafico-tipografico, commerciale, multimediale, manuale.
Nel 2003 siamo venuti a conoscenza del Festival International des Pom’s d’Or, un festival video per istituzioni sociali, che dal 1998 si svolge annualmente in Belgio. Questa manifestazione mira a riunire numerose persone disabili attorno al tema del film amatoriale.
La proposta ci è sembrata da subito molto interessante come momento di «compensazione» all’attività produttiva del nostro laboratorio che –come detto in precedenza– si occupa in gran parte di diversi servizi legati ai mezzi informatici. Per alcuni utenti abbiamo intravisto anche la possibilità di ampliare le competenze formative in ambito informatico attraverso l’utilizzo di programmi applicativi per il montaggio dei filmati.
Amiamo definire la nostra struttura una piccola «impresa sociale», dove oltre ai «beni economici» vengono prodotti anche, e direi sopratutto, dei «beni relazionali». I beni relazionali primari sono quelli che si giocano all’interno della struttura e l’Atelier Cinema si è rivelata sin dal principio un’ottima opportunità di amalgamare i collaboratori dei quattro settori in un progetto corale. L’atelier viene, inoltre, considerato un luogo dove «smussare alcune caratteristiche personali (suscettibilità, polemicità, testardaggine, ecc.), al fine di non compromettere il lavoro collettivo». Questo mettersi in gioco apertamente favorisce l’espressione individuale ed è proprio questa apertura espressiva che permette al gruppo di diventare una «fucina di idee» e ai singoli partecipanti di far emergere le proprie competenze e risorse.
La creazione di un prodotto culturale collettivo favorisce l’impegno e la motivazione delle persone che vi partecipano, che riflettono, discutono, ricercano e creano anche al di fuori dalle ore dedicate all’Atelier Cinema.
Il primo video Où est l’amour, un film d’essai di circa due minuti, lo abbiamo realizzato senza avere alcuna esperienza in materia. L’idea di realizzare un filmato è subito piaciuta a tutti, educatori e utenti, ma nessuno in realtà sapeva da che parte iniziare.
In un primo incontro abbiamo informato le persone interessate al progetto che per la realizzazione del nostro primo video avevamo bisogno di alcuni volontari disposti a condividere un loro «talento nascosto» e a farsi filmare. Non avevamo in mente nessuna storia particolare, nessun messaggio da far passare, se non quello che tutti noi abbiamo delle capacità e delle passioni che non sempre esprimiamo nel nostro quotidiano. Siamo rimasti stupiti dal gran numero di persone che hanno subito aderito alla proposta e si sono preparate individualmente per la giornata che avevamo designato per le riprese. La giornata è stata una piacevole sorpresa.
I partecipanti avevano la massima libertà, potevano vestirsi e truccarsi come volevano, portare la loro musica e proporre qualsiasi talento. Tutti si sono preparati con serietà e hanno condiviso delle doti, di cui perlopiù ignoravamo l’esistenza: alcuni si sono espressi attraverso il ballo, altri cantando o recitando delle loro poesie, altri ancora recitando una parte o esibendosi in uno skate park. Sul volto di tutti vi era comunque il piacere di condividere il loro pezzo e di scoprire il talento dell’altro.
In fase di montaggio abbiamo potuto esprimere con le immagini e le didascalie il messaggio che era nato spontaneamente da quell’esperienza, un invito ad avere il coraggio di esprimersi, di vivere le proprie emozioni, di essere autentici.
Il video ha ricevuto diversi riconoscimenti e questo ci ha incoraggiato a continuare. Con ogni video ci siamo posti una nuova sfida: dal film d’essai di due minuti, ai clip di quattro minuti, fino a Contact, il nostro primo cortometraggio di sette minuti. In Casting la sfida è stata anche quella di lavorare con un gruppo allargato composto da collaboratori (disabili e normodotati) di diverse istituzioni ticinesi.
Nel corso degli anni abbiamo ampliato le nostre conoscenze sulla realizzazione dei video e oggi attribuiamo una grande importanza alla fase preliminare di ideazione della storia, di sviluppo della sceneggiatura, di distribuzione dei ruoli, di preparazione all’interpretazione e recitazione.
Nell’Atelier Cinema le persone disabili sono i protagonisti principali della realizzazione del video e contribuiscono in gruppo a: scegliere il soggetto; scrivere la sceneggiatura; preparare lo story-board; definire le location; scegliere gli attori; scegliere i costumi; ricercare il materiale; effettuare le riprese; realizzare il montaggio; divulgare il video; partecipare alle presentazioni ufficiali.
I partecipanti affermano : «L’individualità rimane uno dei nostri maggiori punti di forza. Il gruppo è formato da individui con pensieri e idee proprie che, però, vengono messe a disposizione di tutti per essere elaborate».
Solitamente il tema e la storia emergono dai primi incontri, spesso le idee sono tante e ci vuole del tempo per operare una scelta condivisa dalla maggioranza. Si tratta quindi di un lavoro di gruppo, dove l’unica indicazione è la categoria del filmato che desideriamo realizzare. Per noi quello che conta è che i partecipanti possano determinare quali argomenti vogliono trattare nel video.
Come scelta formale privilegiamo la fiction, in quanto permette ai partecipanti di esprimere maggiormente la loro creatività. Liberando la loro immaginazione trasformano in immagini anche metaforiche il messaggio che desiderano trasmettere, evadendo con più facilità i confini della loro condizione quotidiana.
Il progetto del 2010-2011 è stato un’eccezione, in quanto abbiamo suggerito un tema specifico da elaborare, la discriminazione. Ci è parso, infatti, interessante proporre al gruppo la realizzazione di un video di sensibilizzazione su questo argomento, un progetto che vediamo particolarmente destinato ai giovani e che speriamo di poter presentare nelle scuole, rendendolo, quindi, un mezzo di comunicazione tra le persone disabili e la popolazione.
I disabili vivono infatti sulla propria pelle dei pregiudizi rispetto alle proprie capacità e qualità individuali, alla loro origine socio-culturale o alla loro caratteristica esteriore: ci sembrava, quindi, interessante valutare come sarebbe stato sviluppato l’argomento da parte loro.
Partendo dunque dal loro vissuto personale, i partecipanti hanno avuto modo di riflettere approfonditamente sul tema della discriminazione in generale, esprimendo i loro punti di vista, i loro sentimenti, le loro emozioni e difficoltà, avendo così l’opportunità di elaborare nel gruppo le loro esperienze.
Per questo video abbiamo richiesto ed ottenuto un piccolo finanziamento dal Servizio per la lotta al razzismo di Berna che ha apprezzato l’iniziativa.
Il finanziamento, peraltro, ci permetterà di rendere i partecipanti sempre più autonomi nella realizzazione di un video proponendo anche momenti di approfondimento formativo su temi quali la regia, la stesura della sceneggiatura, la fotografia di scena, le tecniche di ripresa, postproduzione e audio, montaggio… È infatti nostra intenzione cogliere l’occasione per organizzare degli incontri con professionisti nei vari campi di realizzazione per ampliare la nostra formazione tecnica.
Dai primi incontri finalizzati all’ideazione della sceneggiatura è emerso che oltre ad affrontare le discriminazioni scelte per la presentazione del progetto (omofobia, discriminazione della donna, discriminazione religiosa), i partecipanti hanno sentito forte la necessità di parlare della discriminazione delle persone disabili, in particolare di coloro che soffrono di un disagio psichico, ma anche della discriminazione tra disabili, dove vi è una «rivalità» tra persone con deficit fisici e disabili psichici (meno visibili e più stigmatizzati).
La disabilità e la sofferenza che ne deriva, solitamente non trattata da parte nostra come tema esplicito, viene affrontata nell’Atelier Cinema allorquando i partecipanti ne sentano spontaneamente la necessità. Ad esempio, il progetto sulla discriminazione non prevedeva una scena riguardante la discriminazione delle persone disabili e tra le persone disabili, ma vista l’esigenza espressa è stata aggiunta alla sceneggiatura. Come del resto il clip Given up era stato elaborato partendo dalla sofferenza vissuta da uno dei partecipanti a seguito dell’incidente che gli ha segnato la vita.
La partecipazione all’Atelier Cinema è volontaria, ma si richiede comunque l’impegno di portare avanti il progetto annuale fino alla sua conclusione.
Chiunque può partecipare all’atelier dando il proprio contributo a seconda delle proprie capacità e dei propri interessi. Diamo infatti anche la possibilità a chi è interessato prettamente agli aspetti tecnici (ripresa, montaggio, ecc.) di entrare nel progetto solo nelle fasi prescelte, ma solo poche persone finora hanno rinunciato a partecipare al progetto in tutte le sue fasi. Un compito che al momento viene poco richiesto dai partecipanti è quello delle riprese. Negli ultimi anni è stato per lo più eseguito dagli animatori, ma speriamo di suscitare un maggior interesse attraverso i complementi formativi che abbiamo previsto.
I ruoli vengono attribuiti secondo i desideri delle singole persone e le caratteristiche del personaggio da interpretare. Il fatto di interpretare un ruolo viene considerato dagli attori come «un’opportunità per acquisire maggior sicurezza in sé stessi e scoprire delle nuove capacità (ad esempio quelle mimiche)».
L’adesione ai diversi festival destinati alle istituzioni sociali – come il Festival des Pom’s d’Or e il Festival del Cinema Nuovo – e dal 2009 anche a quelli aperti a tutta la popolazione, ci ha permesso di dare visibilità e a volte di ottenere quel riconoscimento che gratifica, restituisce dignità e cittadinanza. Nel 2009 e nel 2010 abbiamo, infatti, partecipato con Given up e Contact al concorso SpazioTicino del Filmfestival Centovalli di Intragna, ottenendo in entrambe le occasioni una menzione speciale della giuria.
Il fatto di partecipare a un festival non esclusivamente pensato per le istituzioni sociali e di ottenere un riconoscimento è stato molto gratificante e valorizzante, perché non si limitava a un circuito prettamente sociale e ci ha dimostrato che possiamo competere con prodotti amatoriali realizzati da persone normodotate.
L’esperienza dell’Atelier Cinema è stata per noi tanto significativa che abbiamo voluto «diffonderla», facendola conoscere ad altre strutture sociali. Nel corso degli anni abbiamo, pertanto, organizzato alcune serate di presentazione e partecipato ad alcune interviste alla radio e alla televisione svizzera italiana.
Nel corso del 2010 vi è stata una svolta significativa: alcuni partecipanti hanno infatti richiesto di poter realizzare un prodotto audiovisivo con maggior autonomia. Volevano poter produrre un cortometraggio interamente realizzato da loro. È nata così C’est la vie, un’animazione della durata di un minuto e ventidue secondi che ha ottenuto in Belgio il premio come miglior realizzazione della categoria. Questo riconoscimento è stato naturalmente molto apprezzato dai partecipanti che si sono sentiti valorizzati e ricompensati del loro grande impegno.
Il nostro intervento come animatori è stato minimo e mirato soprattutto all’organizzazione e alla rifinitura del materiale. Per noi la soddisfazione è stata quella di constatare che il percorso intrapreso dal 2003 ha dato i suoi frutti: i partecipanti all’Atelier Cinema hanno infatti dimostrato per la prima volta di aver acquisito una buona parte delle competenze necessarie per ideare e realizzare un prodotto audiovisivo, seppur breve.
Video realizzati:
Où est l’amour, 2003
Water, Earth, Air & Fire, 2005
Renzo est ses portraits, 2006
Casting, 2007
Given up, 2008
Contact, 2009
C’est la vie, 2010
2.2 Il film come prodotto culturale collettivo e per la collettività
Intervista a Sergio Ponzio
Come è nata l’idea di impegnare la cooperativa Cotrad e le persone che vi lavorano (disabili e normodotate) in attività cinematografiche? E’ un’idea nata dagli stessi disabili? Come si è instaurato questo rapporto e quale è, quale è stato il ruolo del Cinecub Detour?
La collaborazione è partita dall’iniziativa di alcuni tra i più motivati tra gli operatori Cotrad. Cercavano una sala di proiezione per un cineforum di utenti disabili che fosse facilmente raggiungibile dalla loro sede, che non avesse barriere architettoniche e che fosse un luogo aperto alla progettualità e alla socialità, e non una sala cinematografica commerciale in senso stretto. Hanno trovato noi, che da anni avevamo la nostra sede a meno di cento metri da loro, e nonostante questo non sapevamo niente gli uni degli altri. Questo ci ha fatto venire in mente che uno degli obiettivi della nostra collaborazione dovesse riguardare il tentativo di ricostruire un tessuto connettivo di socialità nel nostro rione. Inizialmente il nostro ruolo consisteva nel curare la programmazione e gestire le proiezioni pomeridiane del cineforum, coadiuvati e consigliati dagli stessi operatori Cotrad. Naturalmente con il passare del tempo si è creato un rapporto di fiducia e a volte anche di amicizia con i ragazzi che partecipavano al cineforum.
So che i film realizzati con Cotrad sono frutto di un laboratorio audiovisivo: potreste descrivermi in breve come si è svolto? Sono piuttosto numerose le esperienze che prevedono la partecipazione di persone con disabilità alla realizzazione di un film, a livello di recitazione (le più numerose), di sceneggiatura, etc. Durante la realizzazione dei vostri film in collaborazione con Cotrad Onlus le scelte sono nate dal confronto con gli attori e le persone riprese? Questi erano coinvolti anche nella definizione delle strategie e degli elementi artistici? In che modo si è realizzato questo confronto? E in che senso e in che proporzioni le loro “diverse abilità” hanno aggiunto qualità e peculiarità al lavoro? Che cambiamenti ha apportato alle vostre idee iniziali?
Il laboratorio, Ragazzinvisibili.doc era il frutto di un progetto nato dalla collaborazione tra Cinema Detour e Cooperativa Cotrad, vincitore di un bando del Dipartimento Cultura della Regione Lazio. Lo scopo del laboratorio, nelle intenzioni, era di sviluppare nei partecipanti le basi per una riflessione sul linguaggio audiovisivo e una conoscenza delle sue tecniche basilari, attraverso visione e commento di materiali audiovisivi, dimostrazioni pratiche di utilizzo della videocamera ed esercitazioni di ripresa nel corso di uscite di gruppo nel territorio del quartiere.
Ci siamo, però, subito trovati di fronte a problematiche complesse, legate da un lato all’esistenza di specifici deficit psico-cognitivi talvolta di grado piuttosto elevato, dall’altro alla difformità di livello e di natura di tali deficit all’interno del gruppo.
Ciò che, nel corso del laboratorio, suscitava l’interesse di alcuni, sembrava lasciare indifferenti altri; attività e operazioni semplici e naturali per una parte del gruppo non erano praticabili realmente dall’insieme del collettivo. C’erano in particolare alcun soggetti trascinanti, portatori di spunti e proposte valorizzanti o anche felicemente devianti rispetto al tema suggerito. Alcune idee inserite poi nei documentari sono scaturite proprio dal confronto di idee con queste persone maggiormente motivate.
Cerco di chiarire meglio il discorso. Un limite che abbiamo riscontrato, lavorando con un gruppo integrato di utenti con deficit di gravità e di natura difformi, é stato la difficoltà di calibrare una metodologia di lavoro che fosse altrettanto valida e stimolante per tutti i partecipanti. Un lavoro ancora più complicato dal fatto che il laboratorio, oltre al valore didattico, aveva anche come obiettivo ultimo la produzione di un film. Questo implicava il rispetto di un piano di lavoro e di una tempistica, per non penalizzare la qualità del risultato. Insomma, il tentativo da parte nostra di non lasciare indietro nessuno ha dovuto fare i conti con la necessità di garantire i risultati nei modi e nei tempi che ci eravamo dati per concludere il laboratorio con un prodotto valido. Ne è derivato, e di questo ci dispiace, che l’apporto di stimoli e di idee non è stato lo stesso da parte di tutti. Per il futuro ci siamo ripromessi di approfondire la questione tentando di individuare e far emergere sempre più le competenze e le capacità di ciascuno nell’ambito del lavoro collettivo.
Per quanto riguarda il metodo di lavoro è presto detto: di comune accordo con Cotrad, è stato scelto di volta in volta un tema da trattare, come la memoria storica di un rione o la valorizzazione di siti archeologici poco conosciuti. L’attenzione a queste tematiche da parte di Cotrad derivava in parte dall’adesione della cooperativa alla campagna di Legambiente denominata Salvalarte, avente come oggetto la riscoperta e la salvaguardia delle opere d’arte considerate “minori”.
Focalizzato l’obiettivo e individuato anche attraverso sopralluoghi con il gruppo delle persone disabili, il territorio sul quale la vicenda si sarebbe svolta, abbiamo elaborato un piccolo soggetto che tenta di mettere in relazione l’argomento scelto con la quotidianità della vita degli utenti, con le loro competenze e attitudini, con i loro ricordi e storie personali.
Non ci siamo mai davvero voluti vincolare a una formula rigida, tuttavia, e largo spazio è stato lasciato all’ improvvisazione e all’ispirazione del momento, che non è mai comunque cosa facile. Un lavoro con attori non professionisti, siano essi disabili o no, basato sull’improvvisazione, deve contare su un clima di assoluta fiducia reciproca “tra chi è davanti e chi dietro” la telecamera, e la sua efficacia è rispondente alla disponibilità dei diversi soggetti, cast e troupe, di mettersi in gioco in profondità, con i rischi di sollecitazioni emotive che ne conseguono.
Nei vostri lavori mi sembra di notare un piacere a “giocare” con il cinema. Mi riferisco non solo alle citazioni più o meno palesi, ma anche all’utilizzo delle animazioni (che non sono mai qualcosa di estraneo al racconto o posticcio o ancillare, come spesso, sempre di più, mi capita di vedere in molti film o documentari recenti, ma si integrano benissimo e entrano in un rapporto intenso e particolare con il “testo”) e alla capacità di confondere tra finzione e documentario. E’ una caratteristica, uno stile, sono scelte che riguardano anche altri vostri lavori o le avete privilegiate in questi film realizzati con Cotrad?
In Arriva la banda! lo spunto era un film di Totò, La banda degli onesti, che era stato proiettato con grande successo durante il cineforum e che era ambientato in luoghi ben riconoscibili del nostro rione. Ci è venuto in mente che avremmo potuto prendere come spunto il film per raccontare il rapporto dei ragazzi con il proprio territorio, un antico rione popolare – già motivo d’imbarazzo per gli imperatori romani, tanto che fecero erigere una cinta di mura per nasconderne la visuale dai fori – che sta subendo trasformazioni rapide e radicali, data la pesante e inarrestabile “gentrificazione” in atto.
Nel nostro lavoro con Cotrad sono confluiti gli elementi che tu hai citato, un bagaglio di strumenti espressivi che deriva sia da comuni esperienze collettive che da specifiche competenze individuali: sicuramente il grande amore per il cinema, anche come genere di intrattenimento popolare (Detour ha sempre rifiutato l’etichetta elitaria di cineclub come riserva di cinema “esoterico” ed ha sempre costruito sulla mescolanza di generi, formati e scuole di pensiero la forza e la freschezza della sua programmazione); una componente ludica e comica, direi naif, che trova piena realizzazione nelle animazioni, ma emerge comunque come cifra stilistica predominante e necessaria ad allontanare il rischio di indulgere nel patetico o nell’autocommiserazione; infine, un intreccio di documentario e cinema narrativo, un po’ per scelta, un po’ perché questa modalità ci sembrava la più adatta a lavorare con il gruppo degli attori e collaboratori disabili, restando sempre sul filo tra la ricostruzione proposta e la libertà improvvisativa.
A questi tre principi costituenti del nostro lavoro, ne aggiungerei un quarto che definirei “poetico-astratto” e che emerge in particolare nel lavoro Cocci e ricordi, sulla memoria storica del rione Testaccio e nel finale dell’ultimo a tema “archeologico”. Si tratta di una tendenza alla rarefazione e a una sorta di “introspezione sognante” che ci allontana talvolta dalla concretezza della rappresentazione epidermica per restituirci i riflessi interiori del rapporto tra il soggetto umano e l’ambiente circostante (penso alle sequenze del cimitero acattolico, oppure del Mitreo sotterraneo) .
E’ davvero interessante e, questa sì inclusiva e con una forte presa “sociale” (passami il termine), l’idea che siano persone che vivono un disagio (psichico, sociale…) ad interessarsi a e svolgere attività lavorative o meno e approfondimenti, inchieste relativi ad un “patrimonio” di tutti in parte dimenticato e trascurato e a riportarlo alla luce, a valorizzarlo e renderlo pubblico: che sia un patrimonio “orale” (gli anziani che raccontano) o architettonico-artistico o culturale in senso più generale. C’è quasi una corrispondenza (e anche, ovviamente, il tentativo di “romperla” per stabilirne una di segno opposto) tra persone che hanno difficoltà a vedersi riconosciuta una presenza sociale piena e i luoghi che visitano e vivono, anch’essi in parte “ai margini” (nonostante la loro bellezza). Gli attori disabili hanno colto questo legame forte e il valore di questa attività di riscoperta e valorizzazione?
Gli obiettivi della nostra “trilogia” di docu-fiction erano eterogenei.
Da un lato si trattava di rafforzare la cittadinanza delle persone disabili, intesa sia come costruzione di dignità attraverso una produzione creativa collettiva, sia come senso di appartenenza di questi soggetti al tessuto sociale e culturale del proprio quartiere. Reclamare le strade in quanto spazio pubblico di vivibilità e socialità da occupare pacificamente e strappare una volta tanto degrado, al turismo o movida mordi e fuggi o alle ragioni dell’economia, per riappropriarsi “sentimentalmente” del paesaggio urbano. Tracciare un’inedita psico-geografia cittadina, alternativa ai tracciati consueti, basata sull’intersecarsi di piani estetici (l’arte, il cinema, la poesia), culturali (La Storia, le tradizioni), emotivi (Il ricordo, il sogno, le relazioni umane, la malattia) e politici (le barriere architettoniche, la speculazione, le tematiche ambientali).
Dall’altro lato c’era poi il tema vero e proprio del documentario: il racconto del rione attraverso la voce dei suoi abitanti vecchi e nuovi, oppure come nel caso di Custodi di antiche mura, la mappatura dei siti archeologici chiusi al pubblico. Come avrai notato, nel corso di ciascun documentario, è capitato che il tema, da pretesto si è fatto provvisoriamente centro d’attenzione per poi tornare di nuovo sullo sfondo e lasciare spazio all’umanità del gruppo viaggiante. Se devo individuare un’insufficienza nel nostro lavoro, direi che non sempre siamo rimasti soddisfatti di come i due mondi, quello “profilmico” del soggetto del reportage, e quello “metafilmico” della dimensione relazionale del gruppo che conduce “l’inchiesta”, abbiamo realmente comunicato tra loro.
Il visivo, le immagini, nel momento in cui vengono fruite, quindi da spettatori, hanno spesso un potere, una forza (evocativa, emotiva, sensoriale…) enormi, un potere anche “terapeutico” innato. Ma partecipare alla realizzazione di un film è cosa diversa. Cotrad Onlus intendeva la partecipazione al film delle persone disabili anche in senso terapeutico, dando al termine un significato ampio e non “opprimente”? E questa attività si aggiunge ad altre simili che Cotrad propone ai suoi utenti?
Cotrad porta avanti un gran numero di laboratori per i suoi utenti: musica, teatro, informatica, bricolage, etc. E’ naturale che la partecipazione al cineforum prima, e al progetto del laboratorio audiovisivo e ai documentari poi, rispondeva a esigenze terapeutiche.
Personalmente diffido del termine “terapeutico”, soprattutto quando applicato ai prodotti della creatività, e in questo senso tendo a non fare grandi differenze tra normodotati e diversamente abili. Sicuramente il lavoro di gruppo nobilita e mette in gioco le capacità e le attitudini degli individui, e il cinema, come lavoro collettivo per eccellenza, crea le premesse perché queste dinamiche relazionali possano scaturire in un processo espressivo. In questo senso tutte le fasi di della realizzazione di un film sono ugualmente importanti, anche se il ruolo interpretativo dell’attore riveste una funzione particolarmente delicata sulla strada della ridefinizione del sé.
Non abbiamo comunque “guarito” nessuno con i nostri documentari e lungi da noi la pretesa di farlo, eppure speriamo di aver contribuito a migliorare le condizioni psichiche materiali delle persone, allontanandole dalla più brutta delle malattie, la solitudine, e rendendole orgogliosamente compartecipi di un atto creativo.
Esiste a vostro parere un linguaggio veramente appropriato per rappresentare l’handicap nel cinema? Il più significativo è quello che lo mostra “senza mostrarlo”? Vi pongo questa domanda anche se mi sembra ovvio che nei vostri lavori con Cotrad non abbiate l’intento di rappresentare la disabilità. Diciamo che vi pongo questa domanda da amanti di cinema e gestori di una sala cinematografica. Inoltre, c’è qualche film “sulla disabilità” che vi è sembrato particolarmente efficace a livello estetico o che comunque è riuscito a veicolare un’immagine più credibile e complessa dell’oggetto trattato?
Non credo esista un unico modo o anche soltanto “un modo più appropriato” di rappresentare qualcosa. Da parte nostra abbiamo sempre cercato di spiazzare sia l’ipocrisia talebana del “politically correct”, che il riduzionismo del senso comune sui “matti”.
Un film che consiglierei a tutti di vedere o rivedere è Chiedo asilo di Marco Ferreri del 1979. Un’opera straordinaria, tenerissima e sottovalutata, con protagonista un giovane Roberto Benigni, stralunato e non ancora “normalizzato”, nella parte di un maestro d’asilo capace di rispondere al disagio psichico di un piccolo alunno con metodi che oggi definiremmo rivoluzionari ma che, nel clima libertario che si respirava ancora in quegli anni, costituivano una tappa sulla via della liberazione collettiva dall’oppressione delle istituzioni borghesi, scuole, manicomi, prigioni, famiglia tradizionale. Il film coniuga, con leggerezza e spontaneità, un sostrato semi-documentaristico, quasi da cine-verité, con passaggi surrealisti intensamente poetici.
Potreste parlarmi un po’ della storia, delle ragioni della vostra attenzione (e quindi di quella del Cineclub Detour, ad esempio in merito all’accessibilità) verso la disabilità e le persone con deficit? E un’ultima curiosità: pensate di proporre, o avete già proposto, anche visioni accessibili a non vedenti e persone sorde? So che è una questione complessa ad ogni livello (produzione di sottotitoli per non udenti e dell’audiocommento, apparecchiature…), ma avete mai valutato l’ipotesi o discusso l’argomento? A Roma si sono fatti passi avanti in questo senso, negli ultimi tre anni (vedi Roma Fiction Fest 2009, 2010, 2011).
Da circa quattro anni a questa parte lavoriamo abitualmente con ragazzi Asperger. Si tratta del progetto Io speriamo che me la cavo, cineclub organizzato in collaborazione con il Gruppo Asperger Onlus Lazio e tuttora in corso di svolgimento al cinema Detour. Oltre alla regolare visione e discussione dei film, nel 2008-2009 abbiamo prodotto un video come risultato finale di un laboratorio teorico-pratico di cinema e audiovisivi.
Nel corso del 2009 Detour ha ospitato e collaborato a organizzare una rassegna di cinema per non vedenti dal titolo Visioni in voice over. Curata da Emilia Bernardini, socia dell’Unione Italiana dei Ciechi e degli Ipovedenti della Provincia di Roma, la rassegna era finalizzata all’abbattimento totale delle barriere architettoniche e sensoriali. All’audio dei film proiettati era associato un commento vocale, scritto da una persona non vedente, per aiutare la comprensione dei tempi muti. Altre rassegne per non vedenti utilizzano le cuffie per il commento sonoro. In questo caso abbiamo preferito unire il commento direttamente all’audio originale del film perché una parte del pubblico non vedente mal tollerava l’isolamento prodotto dalle cuffie. La rassegna è stato un successo, anche se il fatto di averla organizzarla senza nessun tipo di sostegno finanziario ha comportato un grande dispendio di lavoro tecnico non retribuito per la preparazione del sonoro dei film. Ci piacerebbe molto disporre e attivare tutti i supporti tecnici disponibili per facilitare l’accesso di persone disabili al cinema, ma una piccola associazione come la nostra non potrebbe investire per adeguare il sistema di proiezione senza un corrispondente sostegno finanziario.
Video realizzati:
Arriva la banda!
Durata: 40’
Regia: Sergio Ponzio, Giuseppe Cacace, Lior Levy
Produzione: Cooperativa Sociale COTRAD Onlus, Cineclub Detour
In collaborazione con: Legambiente
Cocci e ricordi
Durata: 40’
Regia: Sergio Ponzio, Giuseppe Cacace, Lior Levy
Produzione: Cooperativa Sociale COTRAD Onlus, Cineclub Detour
Custodi di antiche mura
Durata: 21’
Regia: Sergio Ponzio, Giuseppe Cacace, Lior Levy
Produzione: Cooperativa Sociale COTRAD Onlus, Cineclub Detour
In collaborazione con: Legambiente (Salvalarte)
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Associazione “Centro Documentazione Handicap” – Cooperativa “Accaparlante” – via Pirandello 24, 40127 Bologna. Tel: 051-641.50.05 Cell: 349-248.10.02