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1. Latenti e Immagini…Invisibili

di Luca Giommi

Una delle riflessioni più acute, coinvolgenti e “visionarie” su cinema e disabilità è quella elaborata qualche anno fa da Gianfranco Brogli sulla rivista HP-Accaparlante. Nell’articolo l’autore proponeva una lettura per cui “L’immagine della disabilità nel cinema sembrerebbe avere assunto «trasparenze» che non consentono di coglierla in maniera chiara e nitida, ma che le permettono di sovrapporsi (o nascondersi) ad altre impressionandosi su un gran numero di pellicole. Utilizzando una metafora, l’immagine della disabilità sembrerebbe un’immagine latente: un’immagine cioè presente nell’emulsione di tantissime pellicole non completamente sviluppata – perciò invisibile ad una visione cosciente – ma in grado di giungere, nel momento della proiezione, al (sub)cosciente dello spettatore, nel quale si va a sedimentare come dato dell’esperienza entrando a far parte della sua immaginazione (intesa come facoltà di pensare e associare liberamente e senza regole fisse i dati dell’esperienza)”. La disabilità, quindi, come entità presente, viva, diffusa oltre le apparenze immediatamente sensibili, ma da portare, con un gesto di volontà visiva, interpretativa e creativa, letteralmente alla luce.
Un’indagine in questo senso risulta estremamente interessante e aperta a soluzioni pressoché infinite: “In realtà i criteri di selezione (dei film, N.d.R.) potrebbero essere molti, talmente tanti da lasciarci anch’essi smarriti e nell’indecisione, perché sarebbe molto faticoso scegliere quello migliore. Ma questo potrebbe essere un falso problema. Il criterio migliore potrebbe semplicemente essere quello che ci permetterebbe di scegliere i film in grado di fornire una (im)possibile risposta alle nostre (im)possibili domande sulla disabilità, o meglio sul rapporto tra cinema e disabilità. Domande come: «Quanto l’abitudine a vedere nel cinema immagini di zoppi, deformi, sfigurati nel ruolo del “malvagio”, può avere influenzato le persone nell’attribuire a individui zoppi, deformi, sentimenti moralmente negativi o ad averne paura e timore?». Oppure: «Quanto la “riabilitazione” cinematografica, dell’immagine delle persone disabili ha contribuito a creare nella società un percezione nuova della disabilità, meno pregiudiziale, meno stereotipata?». E numerose altre ancora… O no?”.
Non si può che concordare con quanto appena letto: la scelta e, ancora prima, la definizione dei criteri ai quali informarla sono connotate da un grado di arbitrarietà indefinibile. Che va intesa come campo delle visioni e delle connessioni, delle trame possibili, delle analogie che possono essere rinvenute o create ex novo, proposte, smentite, falsificate…

Delimitare (costruire) un campo
C’è però una prospettiva di ricerca che porta a risultati paradossalmente opposti: per cui l’immagine della disabilità non è tanto un’ immagine latente e pervasiva, quanto un’ immagine non visibile, riferendoci così alla concreta difficoltà che molti lavori che riflettono (più o meno esplicitamente) su questo tema o che vengono realizzati secondo determinate modalità produttive incontrano nel riuscire ad essere discussi, amati, interpretati, visti. E questo avviene proprio in un periodo in cui, per ragioni certamente legate agli sviluppi tecnologici, ma non solo, la produzione di materiale cine-disabile è aumentata esponenzialmente, si è articolata in modi anche inattesi e proviene spesso da fonti impreviste fino a pochi anni fa.
Seguire e soprattutto scoprire queste produzioni non è affatto semplice, presuppone un interesse molto forte per l’argomento e una frequentazione piuttosto assidua di tutti i canali specializzati o specialistici attraverso i quali circolano informazioni “di settore”. I mezzi di informazione generalisti tendono a non curarsene; certamente Internet si rivela un mezzo di informazione efficace, ma nella quasi totalità dei casi le informazioni restano confinate in una nicchia piuttosto angusta e impenetrabile (riviste specialistiche, volontariato, siti web di associazioni o cooperative di settore, festival dedicati, ecc.). Insomma, sono opere la cui esistenza va quasi “creata”, nel senso che difficilmente ne veniamo a conoscenza involontariamente o, almeno, casualmente e attraverso i canali informativi più comuni. Di nuovo, la necessità di una volontà creativa/creatrice per far emergere la disabilità, come per le “immagini latenti” dalle quali siamo partiti, ma ad un altro livello.
Non staremo a sottolineare ancora una volta l’efficacia, la potenza, l’immediatezza dell’immagine in termini percettivi, emotivi; né a ricordare quanto poco siano esplorate le potenzialità delle immagini in termini didattici, educativi, al di là di un loro utilizzo in senso semplicemente illustrativo (ma l’immagine eccede per sua natura, è incontenibile e sfugge sempre ad un suo uso predefinito, pre-visto e minimale); né ci interessa esplorare il discutibile valore “terapeutico” che può essere attribuito al cinema.
Sarebbe più interessante, invece, provare a svolgere un percorso tra le produzioni “minori” più recenti (alla ricerca di costanti, differenze ed elementi critici e per garantire loro uno spazio di presentazione), laddove per “minori” si intendono quelle opere  che non hanno avuto un’adeguata disponibilità di risorse economiche per essere realizzate, né la possibilità di accedere ad una distribuzione tale da garantire loro un minimo di visibilità. Da escludere, quindi, con quel termine, qualsiasi intento assiologico aprioristico. Molte produzioni, d’altra parte, non aspirano a una diffusione classica o quanto più capillare, ma, non per questo, vengono meno la necessità o l’opportunità di un interesse nei loro confronti, sia per testimoniarne l’esistenza e per esigenze di documentazione in senso stretto, sia per valutarne la qualità, il significato, la capacità di comunicare qualcosa, sia, ancora, per farne un uso didattico. In nota troverete riferimenti ad alcune di queste opere e ad alcune delle realtà che da più tempo e con maggiore costanza utilizzano il mezzo cinematografico.
Se non è affatto semplice stabilire cosa sia una comunicazione visiva (visuale, filmica…) “corretta e positiva” rispetto alla disabilità (e rispetto a questioni etiche in generale), concorrendo a questo, semmai se ne possano delineare le caratteristiche, molti fattori intrinseci al cinema, all’immagine, alla grammatica delle immagini, e altri più contestuali, le cose si complicano ancora di più se da una valutazione dei prodotti realizzati e da uno studio dell’impatto che questi possono avere sulla collettività, si passa ad una più accurata analisi dei processi che hanno portato alla realizzazione di determinate opere. In questo ambito appare interessante la partecipazione di persone disabili alla produzione di opere cinematografiche documentaristiche o di finzione. Al di là dei film che hanno avuto una diffusione maggiore (si pensi, ad esempio, a “Senza pelle” di F. D’Alatri (1994), ad “Un’ora sola ti vorrei” di A. Marazzi (2002), a “Piovono mucche” di L. Vendruscolo (2003), a “Le chiavi di casa” di G. Amelio (2004), a “Un silenzio particolare” di S. Rulli (2004) o, ancora, a “Rosso come il cielo” di C. Bortone (2005) e “Si può fare” di G. Manfredonia (2008), per restare agli ultimi quindici anni circa in Italia), sono numerose infatti le esperienze che prevedono la partecipazione di persone con disabilità alla realizzazione di un film, a livello di recitazione (le più numerose), di sceneggiatura, ecc.; esperienze solitamente organizzate all’interno di cooperative sociali, associazioni, gruppi di volontariato, ma che spesso trovano spazio anche all’interno di istituti scolastici, e che contribuiscono alla creazione di quella che potremmo definire “cittadinanza”. Il cinema, peraltro, più di altre forme artistiche, è un prodotto culturale collettivo, che coinvolge diverse figure professionali, competenze e abilità.
Vi sono anche casi, seppur rari, in cui sono persone con disabilità a filmare, e quindi a scegliere la propria storia, a dirla in prima persona, a partecipare direttamente alla definizione di un immaginario non riduttivo, non semplicistico, e come tale portatore di integrazione.
E’ difficile rinvenire delle costanti rispetto al metodo di lavoro di quelle cooperative, associazioni, enti, etc. che utilizzano lo strumento cinematografico con una certa regolarità. Le differenze, infatti, si collocano ed emergono ad ogni livello di analisi: l’origine e le ragioni della scelta di questo strumento di creazione e comunicazione; il modo in cui avviene concretamente la realizzazione dei film; i livelli del processo di produzione per i quali è prevista la partecipazione delle persone con disabilità; le finalità, se ci sono (perché non intendere un’attività di questo tipo anche in modo disinteressato e svincolato dal raggiungimento di obiettivi e risultati?); il “peso” della produzione di film e lo spazio che viene dedicato alla loro realizzazione rispetto ad attività di altro tipo e i modi in cui queste si integrano; i tipi di competenze che ci si aspetta che le persone con disabilità acquisiscano praticando questa forma e questo mezzo di creazione. Se per il teatro sono numerosi i testi che si sono occupati degli aspetti legati al processo di creazione e non soltanto al prodotto finale, per quanto riguarda le attività cinematografiche che prevedano il coinvolgimento di persone disabili non è semplice trovare opere corrispondenti. Nell’impossibilità di svolgere una ricerca più approfondita ed estesa, si è cercato di affrontare l’argomento con alcuni addetti ai lavori, come Françoise Hefti, della Fondazione Diamante di Lugano (CH), alla quale abbiamo sottoposto domande relative ai diversi aspetti del loro lavoro di produttori di cortometraggi con persone disabili. Ne è emersa una realtà davvero ricca, un modello interessante nel quale la pratica cinematografica, tutt’altro che occasionale, ha trovato modo di inserirsi in un discorso e in un percorso che mira alla crescita delle competenze (anche tecniche) delle persone disabili e alla loro applicabilità, replicabilità anche in altri ambiti professionali. Oltre a favorire il mantenimento e il rafforzamento di un ambiente di relazioni significativo e ricco.
Quello della partecipazione di persone con disabilità alla realizzazione di materiale cinematografico si pone, quindi, come ulteriore parametro di descrizione e valutazione di un’opera filmica che non sostituisce quello estetico o di contenuto, ma che ad esso si aggiunge e che in parte qualifica. Resta il dato statisticamente certo che queste opere sono ancor più “invisibili” di altre ed è per questo che ne abbiamo fatto cenno in questo breve contributo.
Va peraltro specificato, per anticipare un possibile equivoco, che le opere alle quali le persone con deficit partecipano molto spesso non tematizzano la disabilità, non ne fanno, cioè, evidente oggetto di “ripresa”. A volte si tratta di film comici, in cui però non sono le caratteristiche “intrinseche” alle persone disabili a muovere alla risata, quanto i meccanismi narrativi e le strategie formali proposti.
Altrettanto numerose, e nascoste, sono quelle opere che intendono documentare esperienze non direttamente filmiche, ma la cui registrazione permette comunque, al di là della qualità cinematografica, di conservare memoria di quanto fatto, di consentire ai protagonisti la possibilità di rivedere e rivedersi, di comunicare all’esterno le caratteristiche e lo svolgimento di tali attività. In generale, di promuovere una cultura di segno diverso, “una nuova forma di alfabetizzazione”.
“Le associazioni, le cooperative sociali, i gruppi di volontariato, gli enti locali sanno quanto sia importante non solo fornire servizi efficaci alle persone disabili, ma anche promuovere una cultura diversa, rivolta alla popolazione in generale e non unicamente a chi si trova ad avere a che fare con la disabilità. In particolare occorre fornire una rappresentazione corretta e positiva della persona disabile, una rappresentazione capace di coniugare le potenzialità che chiunque può avere (e il suo diritto ad una vita felice), in qualsiasi situazione, con i limiti dolorosi che un deficit impone. Saper comunicare con queste modalità la situazione di una persona svantaggiata diventa dunque importante per modificare i pregiudizi e i luoghi comuni che continuano a pesare”.
Il “sociale” sempre più investe una parte delle sue attività in azioni di comunicazione utilizzando strumenti diversi (siti web, riviste, giornalini, ecc.), ma la scelta dell’audiovisivo, considerando l’impatto che le immagini possono avere, sembra esercitare un influsso particolarmente forte e ricorre sempre più frequentemente.
Altre volte, infine, la realizzazione del documentario segue percorsi più comuni, nascendo dalle volontà di un regista, venuto a conoscenza di un particolare oggetto d’interesse tematico e cinematografico, di raccontarlo. 

L’invisibile ricostruibile
Sfruttando ancora l’idea di invisibilità (o non visibilità), introduciamo anche il tema dell’accessibilità dei prodotti audiovisivi per persone con deficit dell’udito e della vista, che svilupperemo con Eva Schwarzwald, direttrice artistica del progetto “Cinema Senza Barriere”. Come scrive Silvia de Pasquale, esperta in questo campo, “a tutti è capitato di vedere dei film che parlino di disabilità o in cui uno dei protagonisti è disabile, ma forse pochi si sono mai immaginati una persona disabile seduta davanti allo schermo di un cinema. Parlare di cinema considerando uno spettatore che non vede o che non sente a molti può certamente ancora sembrare un paradosso”.
Consentire a persone con deficit sensoriali di questo genere di fruire di un testo audiovisivo comporta un lavoro di traduzione inter-semiotica tutt’altro che semplice e dipendente da molteplici fattori inerenti al testo, all’opera e ad essi esterni, e la disponibilità di mezzi tecnologici necessari all’effettiva trasmissione di questi contenuti. Senza dilungarci troppo e rimandando all’intervista ad Eva Schwarzwaldper una trattazione più approfondita, è utile precisare che “in mancanza delle immagini, la traccia audio di un film consente di dedurre molti elementi riguardo la trama, i personaggi, le atmosfere di una storia. L’audio però è solo una delle componenti di un testo audiovisivo, la cui natura sincretica comporta che la sua piena significazione sia data dall’integrazione di tutti i suoi elementi sonori e visivi. L’audiocommento è lo strumento cruciale per rendere accessibile un testo audiovisivo a persone non vedenti nei casi in cui il contesto non può essere ricavato direttamente dai dialoghi. In modo analogo, le immagini di un film permettono già da sole di capire e comprendere gran parte della trama di una storia, ma la visione senza audio di un film basato su dialoghi e battute è un’esperienza frustrante e inevitabilmente menomata. (…) In quanto «equivalenti», (audiocommento e sottotitoli, N.d.R.) devono svolgere per una persona con disabilità (nella misura in cui ciò sia fattibile, dati la natura della disabilità e lo stato della tecnologia) essenzialmente la stessa funzione che svolge il contenuto primario per una persona senza disabilità: il loro scopo è rendere possibile sia la percezione sia la comprensione dei contenuti da parte degli utenti”.
Come emergerà anche da alcuni contributi ed interviste, quello dell’accesso alla cultura per persone disabili è un aspetto trascurato dagli stessi enti, istituzioni, associazioni, ecc. che operano in questo settore. Noi crediamo che l’esperienza, la fruizione dell’arte e della cultura sia un aspetto non secondario della crescita di ogni persona e del processo di integrazione ed inclusione sociale delle persone con disabilità. Garantire la possibilità di partecipare del campo del simbolico, dell’ immaginario, anche solo nel ruolo di fruitori, risponde, a nostro avviso, ad una visione non riduttiva e non semplificatrice dell’integrazione. La cultura, in senso lato, non è un elemento autonomo, ma dipende e a sua volta modella, modifica il dato biologico.
Per questo motivo, oltre che per l’interesse in sé che questo tipo di progetti e attività presentano, abbiamo voluto dedicare uno spazio della nostra ricerca a questo tema.

In sintesi
In questa ricerca cerchiamo di indagare il livello di integrazione ed inclusione che il mezzo, i prodotti, la pratica e la fruizione cinematografici possono rivelare e costruire.
L’assunto di partenza, piuttosto ovvio, è che l’integrazione deve essere intesa come un processo di rottura di quella catena che lega storicamente la condizione di disabilità ad approcci caratterizzati da funzionalità, assistenzialismo, semplificazione, riduzione della complessità e delle aspirazioni, dei desideri. Abbiamo privilegiato l’aspetto pratico del fare cinema e del  fruire opere cinematografiche,  cercando di mostrare concretamente attraverso quali premesse e azioni si possano superare determinate barriere culturali e sociali ed invitando a leggere l’espressione artistica dei disabili, e i prodotti che possono scaturire dal lavoro creativo e tecnico con loro, come una delle tante possibili forme dell’arte, con le dovute considerazioni relative ai contesti in cui essa ha la possibilità di rivelarsi e alle modalità concrete di collaborazione e produzione, ma con occhi privi di pregiudizi e stimolati unicamente da una curiosità viva. L’integrazione è un processo che analizziamo a tre livelli, quello della  realizzazione di opere cinematografiche, quello dell’analisi del loro del contenuto, del senso e della relazione tra opera e contesto sociale e, da ultimo, quello dell’accesso e del diritto alla “visione” e alla cultura, in particolare nella sua dimensione collettiva. Indubbiamente “gli atteggiamenti della collettività rispetto alla disabilità possono essere ricondotti alla concezione di distanza sociale: i pregiudizi e gli stereotipi nei confronti della disabilità, sottolineano come le persone disabili si siano dovute confrontare non soltanto con le loro difficoltà fisiche e mentali, ma anche con lo stigma sociale e gli atteggiamenti pregiudizialmente negativi verso essi”. La cultura dominante ancora oggi evidenzia troppo spesso solo i deficit ed i difetti e troppo poco ciò che è intatto e preservato, perdendo di vista ciò che di peculiare c’è in ogni persona, anche in presenza di disabilità e ciò che si perde a livello collettivo da un’impostazione mentale, politica, culturale di questo tipo. L’integrazione è un processo dinamico ed attivo, “… un comportamento che presuppone l’inserimento ma che non si esaurisce in esso, è un cambiamento ed un adattamento reciproco, un processo aperto e correlato con il riconoscimento e l’assunzione delle identità e delle conoscenze incorporate, essa rappresenta un processo che coinvolge a pieno titolo tutti i componenti di un gruppo e gli elementi di un contesto”.



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