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3. Riflessioni sul cinema

In che modo alcune opere riescono a creare e proporre un “immaginario” inclusivo? Quali sono i limiti e le criticità principali della rappresentazione cinematografica della disabilità? In che modi può avvenire lo scambio tra la concezione e la visione della disabilità diffuse socialmente e il tipo di rappresentazione che ne forniscono, restituiscono, provocano le opere filmiche? Come si può raccontare l’evoluzione di questo rapporto tra opere e società?
Nella seconda parte della nostra ricerca cercheremo di dare (parziale) risposta a quesiti che interessano livelli di analisi diversi, ma inevitabilmente compresenti: quello estetico, quello socio-antropologico, quello mediatico; e ancora, un livello più strettamente legato all’opera in sé ed uno che possiamo, senza dubbio, definire etico. In ogni contributo questi piani si intrecciano in modi e con rilievi diversi a seconda del punto di partenza dell’analisi e delle specificità professionali degli autori/intervistati. L’obiettivo, semplificando, è quello di comprendere come l’opera cinematografica possa aiutare a capire il ruolo sociale del disabile e/o a ridefinire i parametri della presunta normalità, a mettere in discussione il già conosciuto e accettato.
A Daniele Segre ci siamo rivolti perché da più di trent’anni realizza un cinema che non rimuove mai, né camuffa la realtà e che riesce sempre a tenere insieme coerenza morale ed intento artistico, generando “forza” espressiva, visuale e concettuale dal concorso di questi elementi. I suoi film (non solo quelli che affrontano argomenti legati alla condizione di disabilità) sono sempre capaci di restituire dignità, rispetto e conoscenza, molto spesso attraverso l’espressione libera delle persone protagoniste e senza alcuna volgarità interpretativa. Espressione che spesso si è tradotta in scelte e cambiamenti in corso d’opera da parte di Segre stesso. Ci è parso il regista più adatto per svolgere un ragionamento che muove sempre dalle sue opere e dalle sue intenzioni, ma che assume, forse involontariamente, un respiro più ampio e fornisce indicazioni e chiavi di lettura valide per leggere e valutare criticamente tanti altri lavori cinematografici.
Stefano Andreoli e Stefano Borgato (rispettivamente giornalista e responsabile dell’Ufficio Stampa di DM), infine, ci raccontano come e con quali risultati il mondo del no profit ha scelto di utilizzare il cinema d’animazione per sensibilizzare l’opinione pubblica sul tema della disabilità, facendo riferimento, in particolare, alle campagne d’informazione sociale Muscoli di cartone (italiana) e Creature Discomforts (inglese). Quello dell’informazione sociale è un terreno molto delicato, in cui i rischi, i difetti, gli errori e gli elementi critici già emersi nelle pagine precedenti tendono ad amplificarsi ed aggravarsi, sia per il formato tipico di una campagna d’informazione, sia per il fatto che questa è intimamente legata ad un obiettivo (a prescindere dal suo effettivo raggiungimento): da questo punto di vista il cinema è più libero, svincolato, ma, come abbiamo già visto e anche se può sembrare paradossale, la libertà è una “condizione” difficile da gestire e comporta una “responsabilità” maggiore. Comunque sia, la realizzazione di una campagna di informazione sociale richiede una riflessione “sottile” attorno alle strategie formali da utilizzare e all’idea, all’immagine della disabilità sottesa a questa scelta e che si intende comunicare ai destinatari.

3.1 Dare “luce e voce”: il cinema non mediato di Daniele Segre
Intervista a Daniele Segre di Luca Giommi

Lei realizza film da più di trent’anni, raccontando argomenti diversi tra loro, ma che, in realtà, presentano aspetti comuni, elementi che li avvicinano l’un l’altro. Si potrebbe dire che il suo modo di filmare ci suggerisce una sensibilità dello sguardo, attraverso la quale guardare alle cose del mondo. Una sensibilità complessa, che fugge la “semplice” denuncia e l’ approccio pietistico e didascalico. Ancor prima il suo cinema ci indica “cosa” guardare, ci presenta storie spesso inspiegabilmente invisibili al nostro sguardo, eppure di una quotidianità e prossimità “profonda”: anche qui, un invito ad alzare il nostro livello di attenzione. Dovendo preparare qualche domanda, ho sentito il bisogno di partire dalla definizione storica, cronologica del suo rapporto con il cinema. Potrebbe raccontarmi qualcosa a riguardo? Come nasce la scelta di praticare e sviluppare questo tipo di cinema?La scelta di dedicarmi al cinema nasce dal mio lavoro di fotografo della realtà che ho svolto in modo non professionale fino alla prima metà degli anni ’80; a partire dal 1975 ho iniziato a usare la cinepresa (16mm) e poi la telecamera. Perché droga è stato il mio primo film documentario (1975), e poi dal 1978 con Il potere deve essere bianconero fare il regista è diventata la mia professione.
La scelta di praticare e sviluppare questo tipo di cinema è stata un’esigenza naturale, un impegno di testimonianza e di intervento per documentare e raccontare la realtà, quella più sola e abbandonata, espropriata del rispetto e della dignità; fin dall’inizio il mio è stato un cinema politico come d’altronde lo è stato il lavoro con la fotografia; il cinema è stato un’esigenza e un bisogno naturale di evoluzione di linguaggio, una vocazione nata per caso, senza alcuna scuola o un maestro in particolare, semplicemente dalla consapevolezza di poter essere più determinato nel mio bisogno di raccontare la realtà del mio tempo.

Considerando la sua esperienza, come  intende la differenza tra cinema documentaristico e di finzione e come la “piega” all’obiettivo che intende raggiungere? Quali possibilità favorisce l’uno e quali l’altro? In che modo l’argomento incide sulla scelta?
Non ho mai fatto distinzione tra il cinema della realtà e quello di finzione, ho sempre avuto la necessità di raccontare qualcosa, qualcuno; il cinema della realtà è stato sicuramente il laboratorio primario della mia ricerca, laboratorio che mi ha permesso di sperimentare i vari linguaggi con costi abbordabili, convenienti per le mie esigue risorse economiche; fin dall’inizio ho compreso che la mia libertà espressiva poteva esistere solo grazie alla mia indipendenza e così è stato; nel 1981 ho creato la società di produzione I Cammelli che ancora esiste e con la quale porto avanti il mio progetto di cinema. Il mio cinema di finzione è sempre stato molto particolare, ci sono sempre stati prima degli incontri determinanti con persone/attori che mi hanno ispirato delle storie; così è stato con Carlo Colnaghi, incontro che ha prodotto prima il video Tempo di riposo (1989-1991) e poi il lungometraggio Manila Paloma Blanca (1992); poi l’incontro con Barbara Valmorin e Maria Grazia Grassini che ha generato il film che è anche diventato uno spettacolo teatrale, Vecchie (2002); e poi con Stefano Corsi e Antonello Fassari per Mitraglia e il verme (2004).
Incontri di grande ispirazione che mi hanno permesso di “vedere” storie che con il cinema della realtà non avrei potuto raccontare; di fatto l’ispirazione è stata immediata e la realizzazione è stata in certi casi “fulminante”; per esempio con Vecchie da quando è nata l’idea a quando ho realizzato il film, compresa la scrittura della sceneggiatura, è passato solo un mese e mezzo.
Ho riflettuto molto e a volte lo faccio ancora sul perché di queste scelte; una risposta precisa non so darla, ma so che è stato un bisogno primario che con fortuna sono stato in grado di esprimere; di certo l’esperienza del cinema della realtà mi è stata di grande aiuto, mi ha fatto comprendere alcune questioni essenziali legate al linguaggio e alla messa in scena che poi nella finzione sono state determinanti. E’ anche chiaro che il mio modo di raccontare la realtà si è sempre avvalso, anche inavvertitamente, della finzione, anche nel suo aspetto di “messa in scena”; e così la mia finzione si è sempre avvalsa della realtà.  

3. Limitandomi ai suoi film che parlano di disabilità, di persone con disabilità (A proposito di sentimenti…, Sto lavorando?, ecc.), ho notato che ci sono alcune sequenze in cui la sua presenza, la presenza di un set, di una telecamera è quasi ricercata, e anche laddove sembra più casuale, non è poi stata eliminata in fase di montaggio. E’ un modo per dirci che, al di là della forma documentaristica, anche quella è in parte finzione, che quel dato finzionale è insopprimibile? Oppure, come io credo, che un cinema oggettivo è impossibile e forse nemmeno auspicabile e che è necessario che ci sia un “io” che non si nasconde, che instaura un contatto con una realtà e propone a chi guarda il risultato di quel suo rapporto con il reale?
A queste considerazioni ci sono arrivato quasi sempre in montaggio, anche se in Sto lavorando? (1998) la scelta del bianconero e del colore è stata fatta già in fase di ripresa; mentre invece la messa in scena della telecamera è stata determinata da Matteo, il protagonista della storia, che ha “messo in scena” la telecamera ed io ne ho preso consapevolezza solo in montaggio, in fase di ripresa sono stato sorpreso in contropiede, quasi spiazzato; ma poi ho capito che dovevo seguire la sua ispirazione improvvisa, non determinata da scelte di regia. Le riprese di Sto lavorando? sono durate solo due giorni e mezzo ed è stato un viaggio molto intenso da tutti i punti di vista; grazie al montaggio ho potuto riflettere e comprendere elementi espressivi che in fase di ripresa non avevo totalmente percepito.
In A proposito di sentimenti…(1999) la presenza del set è stata casuale e inizialmente non prevista: parlo in particolare della sequenza dove si vedono le rotaie del carrello sulla spiaggia di Torvajanica e una coppia che si bacia appassionatamente; nei fatti avevamo terminato le riprese di una scena che poi nel film non ho messo; stavamo smontando tutto ma la telecamera non era stata ancora tolta dal carrello, per caso mi sono accorto di quello che stava capitando così ho chiesto all’operatore di inquadrare la scena tenendo in campo le rotaie, così è andata e poi la scena ho deciso di metterla nel montaggio definitivo; le altre scene girate in bianco e nero dovevano essere solo di documentazione del backstage, poi anche quelle ho deciso di inserirle nel film. E’ stato di fatto un gioco di specchi, voluto o non voluto non lo so, so che ho voluto girare quelle scene, anche per caso, e poi la riflessione sulla costruzione della struttura del racconto mi ha imposto alcune domande alle quali ho dato una risposta e così ho deciso di inserire quelle scene nel racconto. 

Esiste a suo parere un linguaggio veramente appropriato per rappresentare la disabilità nel cinema?
Non so se esista un linguaggio appropriato per rappresentare l’handicap nel cinema, quando mi sono trovato di fronte a questa domanda ho sempre cercato di vedere le cose dal punto di vista dei miei protagonisti; mi sono trovato ad essere ad un certo punto, sia nella fase delle riprese che poi nel montaggio, come loro, con il mio handicap cognitivo di una realtà apparentemente lontana da me, ma di fatto molto vicina; è così che ho cercato di trovare le soluzioni di rappresentazione; sia in Sto lavorando? che in A proposito di sentimenti… sono diventato come i miei protagonisti; ricordo che quando stavo montando Sto lavorando? inavvertitamente ho assunto alcune posture di Matteo, in particolare il modo di camminare; in A proposito di sentimenti…, terminato il montaggio ho avuto particolari difficoltà, per alcuni giorni, ad esprimermi come “una persona normale”. Forse avevo bisogno di questa immedesimazione, inconscia, per trovare quel punto d’incontro necessario per rispecchiarmi nella mia “normalità” e raccontare mondi che sembrano non appartenerci, forse per paura, ma che in realtà ci sono molto vicini e ci assomigliano.

Sono numerose le esperienze che prevedono la partecipazione di persone con disabilità alla realizzazione di un film, a livello di recitazione (le più numerose), di sceneggiatura, ecc.; esperienze solitamente organizzate da cooperative sociali o associazioni, ma che trovano spazio spesso anche all’interno di istituti scolastici, e che contribuiscono alla creazione di quella che potremo chiamare “cittadinanza” L’opera cinematografica, peraltro, più di altre forme artistiche, è un prodotto culturale collettivo, la cui produzione richiede numerosi passaggi ed abilità diverse: una caratteristica che di certo può essere “giocata” e valorizzata. Lei cosa ne pensa?
L’audiovisivo è sicuramente uno strumento innovativo che può rafforzare le consapevolezze e far scoprire qualcosa che nel reale a volte sfugge o non vuole essere visto; per esempio mi ricordo che quando ho realizzato un lavoro in un centro diurno psichiatrico a Terni, Vestiti di vita (2004) con protagonisti sia gli utenti che gli operatori, sono successe delle cose straordinarie; gli utenti davanti alla telecamera sono riusciti a dire cose che non avevano mai detto ai dottori e agli operatori; e così gli operatori, che si sono sentiti spogliati della loro “normalità” arrivando al punto di chiedermi di non essere ripresi o intervistati perché avevano paura di svelarsi di fronte agli utenti.
In alcuni casi mi è capitato di vedere lavori che mi hanno particolarmente infastidito: i protagonisti, persone diversamente abili, erano rappresentate in modo improprio e indelicato, quasi come se i documentatori volessero mettere in imbarazzo lo spettatore senza quello spessore necessario alla riflessione e allo scambio, all’educazione, alla formazione; quasi a voler spettacolarizzare la differenza, il disagio, sconfinando, a mio parere, nella mancanza di rispetto verso i protagonisti.

Restando ai suoi film “sulla disabilità”, un’altra caratteristica evidente è quella di lasciare tanto spazio alla testimonianza diretta, in prima persona e senza ricorso alla voce fuori campo, per cui la testimonianza è rafforzata dalla presenza dell’io narrante. A cosa è dovuta questa scelta, che valore attribuisce al racconto orale? Quanto è importante dare “luce e voce” in modo non mediato, in particolare nel “cinema della realtà”?
Il risultato della “testimonianza diretta” è frutto di un  lavoro preparatorio di conoscenza e “scavo” sui protagonisti che sviluppo ogni volta;  l’apparente naturalezza è il risultato di un rapporto basato sulla fiducia e sul rispetto.
Questo dare “luce e voce” in modo diretto ai protagonisti è un elemento identitario del mio cinema; il primo e primissimo piano,  la loro voce non mediata e lo sguardo in macchina. La voce fuori campo l’ho sempre considerata una forma di mediazione didascalica, poco utile al rapporto che desidero avere con gli spettatori, un rapporto di reciprocità e di riconoscimento con i protagonisti.
L’imbarazzo normalmente lo esprime e lo fa vivere chi, dietro la macchina da presa, vive l’ipocrisia dello scoop, della rappresentazione sensazionalistica del diverso; per me il “cinema della realtà” è la restituzione della dignità nel rispetto tra persone che si incontrano per raccontare una storia necessaria.
La naturalezza è un approdo difficile, ma indispensabile, inizialmente l’imbarazzo e la diffidenza ci sono sempre, alla luce dei quotidiani crimini che produce la telecamera invasiva e offensiva dei giornalisti e dei cosiddetti registi furbetti e opportunisti; poi tutto questo si scioglie grazie alla fiducia e alla lealtà del rapporto che ogni volta riesco a creare.

La presenza della telecamera è stata ragione di imbarazzo per chi veniva ripreso o si è svolto tutto tendenzialmente con naturalezza e sincerità?
L’imbarazzo normalmente lo esprime e lo fa vivere chi, dietro la macchina da presa, vive l’ipocrisia dello scoop, della rappresentazione sensazionalistica del diverso; per me il “cinema della realtà” è la restituzione della dignità nel rispetto tra persone che si incontrano per raccontare una storia necessaria.
La naturalezza è un approdo difficile, ma indispensabile, inizialmente l’imbarazzo e la diffidenza ci sono sempre, alla luce dei quotidiani crimini che produce la telecamera invasiva e offensiva dei giornalisti e dei cosiddetti registi furbetti e opportunisti; poi tutto questo si scioglie grazie alla fiducia e alla lealtà del rapporto che ogni volta riesco a creare.

All’inizio di Sto lavorando?, quando Stefano Rulli legge la lettera che le ha scritto pregandola di filmare l’esperienza di Matteo che sta per concludersi traspare la necessità di dover fare in fretta, prendere la telecamera e recarsi sul posto, dando l’idea quasi di un intervento di emergenza…Rispetto ai documentari per l’AIPD, ha avuto più tempo a disposizione per la loro realizzazione? Come è nata la sua collaborazione con l’Associazione?
La collaborazione con l’AIPD di Roma è nata su una loro precisa richiesta dopo aver visto Sto lavorando?. Ho voluto conoscere quella realtà, quella delle persone Down, che non conoscevo, anche se, in particolare per A proposito di sentimenti…, l’idea mi è venuta immaginando i fidanzati che si siedono sui muretti al mare e amoreggiano; le coppie protagoniste del film le ho incontrate una sola volta nella sede dell’AIPD, stimolato dal percorso sull’affettività dell’Associazione e ho fatto un provino con la telecamera, al muretto ho sostituito dei mobili d’ufficio e li ho fatti parlare fra di loro e ho capito che per raccontare quella storia dovevo partire da lì; invece per Futuro presente il lavoro della preparazione è stato più tradizionale, più lungo e complesso.
Per Sto lavorando? la lettera di Stefano Rulli mi ha fatto partire all’improvviso, ma Matteo avevo avuto modo di conoscerlo nei mesi precedenti in un mio viaggio a Perugia.
Mi è sembrato indispensabile e necessario far leggere a Stefano la lettera che gli avevo chiesto di scrivermi quando mi ha telefonato per richiedere il mio intervento filmico.

Che significato è possibile attribuire al punto di domanda del titolo del film Sto lavorando?? Di chi è il dubbio? Chi ha scelto il titolo? Qualcuno ha sostenuto che il nodo del film sta proprio in quel punto di domanda.
La scelta del titolo di Sto lavorando? è della scrittrice Clara Sereni, madre di Matteo Rulli; il titolo è arrivato dopo il primo visionamento del materiale che in copia ho inviato a Perugia terminate le riprese. Sì, è vero, il nodo del film sta proprio in quel punto di domanda di Matteo; è una domanda nella quale mi ritrovo e  in cui mi riconosco molto nel mio lavoro di cineasta indipendente. Sto lavorando? Me lo chiedo molte volte, confrontandomi con le difficoltà di visibilità e di possibilità che ha il mio lavoro di esistere, un po’ come i diversamente abili nella loro lotta quotidiana per la vita.

Cosa pensa di Un silenzio particolare di Stefano Rulli? Per certi versi, mi sembra ci sia una certa continuità, anche formale con il suo Sto lavorando?. Ed è interessante che per il primo dei due Rulli abbia chiesto a lei di filmare e che del secondo sia lui il regista.
Con Stefano c’è un rapporto di grande stima e affetto, lo conosco da molti anni, da quando ha realizzato insieme a Silvano Agosti e Marco Bellocchio Matti da slegare (1975), film che è stato lo stimolo determinante a decidere di dedicarmi al cinema. Mi ha fatto piacere apprendere che si era deciso a girare
Un silenzio particolare, lavoro che ho molto apprezzato e su cui  ho scritto (per il magazine on line Vita) alla sua presentazione al festival di Venezia del 2004.
Quando è stato realizzato Sto lavorando? gli ho chiesto perché non lo girava lui il film, la risposta è che non se la sentiva e anche nella lettera che mi ha scritto lo precisa, una scelta delicata e molto difficile, da comprendere vista la complessità del suo rapporto con Matteo.

In che modi avviene lo scambio tra la concezione della disabilità diffusa socialmente e il tipo di rappresentazione che ne forniscono le opere cinematografiche? A cambiamenti ed evoluzioni a livello della coscienza “collettiva” sono corrisposte opere filmiche più sensibili e profonde? Il cinema, come spesso accade, è stato a suo avviso in grado di anticipare in alcune occasioni tendenze che si sarebbero verificate solo in seguito? Le viene in mente qualche esempio?
Il cinema è un grande costruttore di immaginario e certamente ci sono stati, da sempre, film pregevoli che hanno tentato di rimodellare l’immagine del “diverso”, di favorire la comprensione e la conoscenza di realtà scomode e invisibili. Ma per ognuno di questi film ce ne sono decine, forse centinaia, che veicolano invece stereotipi, banalità, volgarità, intolleranza e violenza…
E poi c’è la questione della diffusione. Oggi fra i giovani, solo per fare un esempio, nessuno conosce più Chaplin, o i capolavori del neorealismo, e anche gli episodi recenti di cinema (di finzione, della realtà) sensibile e approfondito non hanno tutta questa visibilità. Gli stessi Festival mi pare, rischiano di omologarsi un po’ alle tendenze dominanti, o alle mode “alternative” del momento.

Sebbene molte opere cinematografiche restituiscano, da un lato un ritratto emblematico della disabilità, che astrae la stessa dalle vicissitudini del reale, dall’altro quello di un disabile eccezionale, anch’esso poco realistico, possiamo tuttavia considerare l’opera cinematografica come un mezzo per capire il ruolo sociale del disabile. Esiste a tuo parere un linguaggio più appropriato per rappresentare la disabilità nel cinema? Tra i numerosi esempi, quale film consideri particolarmente efficaci da un punto di vista estetico nel raccontare la disabilità?
Se si intende la disabilità in senso esteso, sono molti i film che l’hanno trattata con uno sguardo partecipe e acuto: mi viene in mente Ken Loach con Family Life del 1971, e penso anche ai film sulla vecchiaia che sono usciti in questi ultimi anni (penso a film come Pomodori verdi fritti di Jon Avnett, 1991, o al Clint Easwood di Gran Torino, 2008 e Vuoti a rendere di Jan Sverak, 2009;  ma anche ai recenti film sulla sessualità degli anziani e sull’Alzheimer. Su questi temi sono usciti in sala dei film narrativi: per quanto mi riguarda ho realizzato Quella certa età nel 1996 sull’affettività delle persone anziane, Tempo vero  nel 2000 sui malati di Alzheimer e il film e spettacolo teatrale Vecchie nel 2002).
Tornando al discorso iniziale, in Italia penso al lavoro pionieristico di Agosti, Bellocchio, Rulli e Petraglia con Matti da slegare, del 1975. Più recentemente, Le chiavi di casa di Gianni Amelio (2004), e anche un cortometraggio che mi ha colpito molto, Ivana e Loriano, di Stefano Cattini (2008).
E’ vero che alcuni film di grande successo, per lo più statunitensi, anche con grandi attori e splendide interpretazioni, hanno talvolta “romanzato” la disabilità, ammantandola di rosa oppure dandole un valore positivo che in fin dei conti le fa torto: è come uno sfruttare, in fondo (magari con le migliori intenzioni?) una condizione che invece va vista nella sua complessità e globalità, al di là (o al di qua) dell’eroe solitario e “spettacolarizzato”.

3.2 «Sorriderne si può». Le campagne di informazione sociale Muscoli di cartone e Creature Discomforts
Di Stefano Borgato e Stefano Andreoli

La disabilità, e in senso più ampio la narrazione delle diverse abilità, sono state spesso al centro del cinema d’animazione. Lo svantaggio, l’esclusione, l’handicap, ma anche la dis- e l’iper- abilità, sono presenti nella sterminata filmografia disneiana, sia in quella degli anni Trenta e Quaranta – le due versioni de Il brutto anatroccolo (1931 e 1939), Elmer Elephant (1936) e Dumbo (1941) – che nelle produzioni più recenti – Il gobbo di Notre Dame (1996), Nemo (2003), Gli incredibili (2004).
Oltre a Disney, però, vale la pena ricordare alcuni autori che hanno saputo affrontare la riflessione sulle differenti abilità – magari in modo indiretto, senza ricorrere a una storia specificamente «dedicata» – con esiti sorprendenti, a volte spiazzanti.
È il caso di Vip mio fratello superuomo (1968) di Bruno Bozzetto, di personaggi come Gerald McBoing Boing, Mr. Magoo, Cristopher Crumpet (creati negli anni Cinquanta dagli autori dell’americana UPA, in particolare Robert Cannon e John Hubley), del disegnatore satirico John Callahan (autore dei personaggi delle serie Quads e Pelswick, inedite in Italia) e della arcinota serie televisiva dei Simpson.
Una storia ancora tutta da scrivere, quella della rappresentazione della «diversabilità» nel cinema d’animazione; un’occasione che si rivelerebbe utile non solo a (ri)scoprire personaggi dalle diverse abilità, ma anche a riflettere sulle diverse abilità del cinema d’animazione. Proprio la particolarità del linguaggio dei cartoon ha spinto infatti il mondo del no profit a scegliere in due occasioni (probabilmente le uniche fino ad oggi), il cinema d’animazione per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla disabilità.
Il primo esempio è italiano ed è la campagna Muscoli di cartone prodotta nel 2001 dall’Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare (UILDM), composta da tre spot: Decide chi progetta, La mosca (con la voce di Fabrizio Frizzi) e Sport (con la voce di Claudio Bisio), realizzati da Giorgio Valentini e Silvio Pautasso della Società Motus (tra i creatori della Freccia azzurra e della Gabbianella e il gatto).
Il secondo esempio viene dalla Gran Bretagna: nel 2007, infatti, grazie alla collaborazione tra la società Aardman Animations (produttrice delle serie Creature Comforts, Wallace & Gromitt, Shaun the Sheep e dei film Galline in fuga, La maledizione del lupo mannaro) e la Leonard Cheshire Disability (una tra le principali organizzazioni di solidarietà inglesi nell’ambito della disabilità), sono stati realizzati gli otto spot della campagna Creature Discomforts.
I Muscoli di cartone si possono considerare la naturale evoluzione di una rubrica, le Grandi vignette di DM, che dal 1995 occupa la quarta di copertina del giornale nazionale della UILDM. Nata quasi «per scherzo», la rubrica stessa è diventata un fenomeno sempre più interessante, unico nel suo genere, che via via ha attirato un’attenzione crescente: associazioni, enti locali, ma anche molti «non addetti ai lavori» hanno utilizzato i disegni pubblicati su DM per realizzare magliette, mostre, manifestazioni e altre iniziative.
Dalla prima vignetta, realizzata da Bruno Bozzetto, l’elenco di coloro che nel corso di un quindicennio hanno arricchito le Grandi vignette di DM è lungo: dai «mitici» Altan, Silver Giannelli, Chiàppori, Giuliano, Staino, Bucchi, Cavandoli, Novelli, Valente, Caviglia, Luzzati, agli «ospiti d’onore» di livello internazionale come Mordillo e Quino, ai compianti Jacovitti e Bonvi. Con Le grandi vignette di DM, poi, la UILDM ha realizzato anche due apprezzati calendari, intitolati Sorriderne si può 2000 e 2001.
La cosa sorprendente è che da un’idea estemporanea e partendo da un tema molto ampio – «semplicemente» la disabilità – tutti gli autori sono riusciti senza alcuna imbeccata da parte della redazione, a cogliere «tic» e luoghi comuni del mondo della disabilità, dimostrando come sia possibile coniugare temi seri con il sorriso e la bonarietà.
Visto il successo delle vignette, il passaggio ai disegni animati è stato quasi logico. Se da un lato realizzare un disegno animato è complesso e costoso, dall’altro è altrettanto vero che quello dell’animazione è un linguaggio con una marcia in più. Innanzitutto i cartoon hanno il vantaggio di non identificare il contenuto (in questo caso i vari problemi della disabilità) con dei volti precisi, fotografici; e poi permettono di «esagerare», in tutti i sensi. Wily Coyote può saltare, volare via, cadere nel burrone e rialzarsi senza alcun danno, può fare capriole smisurate, schizzare in alto e ricadere tranquillamente da cento metri. Nessuno si fa male, nessuno si offende: con il cartone animato c’è la libertà di creare situazioni curiose e simpatiche, che possiedono quindi una maggiore forza comunicativa.
Il titolo della campagna, Muscoli di cartone, si riferisce sia alle difficoltà provocate dalle distrofie muscolari (muscoli che diventano letteralmente “di cartone”), sia alla scelta del “medium” (un altro nome possibile era ad esempio Ruote animate). Una campagna, va sottolineato, centrata non su una determinata patologia, ma sui problemi quotidiani delle persone con disabilità, che per altro possono riguardare anche chi disabile non è.
Ad esempio, nel primo spot, Decide chi progetta, il problema delle barriere architettoniche negli autobus può benissimo riguardare anche un genitore che porti a spasso un bimbo in carrozzina. L’importanza dell’assistenza è invece il tema della Mosca: un insetto al naso, che chiunque può scacciare con un gesto banale, automatico, può diventare un vero e proprio «dramma» per una persona con una grave disabilità. Sport vuole dimostrare infine che anche una persona in carrozzina, con ridotta capacità muscolare, è in grado di praticare un’attività sportiva (in questo caso l’hockey in carrozzina).
Ottimo il lavoro di Valentini e Pautasso, che hanno saputo scegliere attentamente i moduli narrativi e le trovate comiche: La mosca e Sport si basano sull’antica tecnica della cosiddetta «agnizione» (il «colpo di scena», la «rivelazione» finale), dal momento che solo nell’ultima inquadratura scopriamo che i protagonisti sono disabili. Oppure il personaggio dell’allenatore «sergente di ferro» (ma in realtà il classico «burbero dal cuore d’oro»), che rimbrotta pesantemente i giocatori per farli reagire, proprio come in qualsiasi altro sport. O la gag dell’omino in carrozzina che schizza fuori dall’autobus sulle molle: se fosse stata girata «dal vero» (ormai oggi con le tecnologie digitali si può fare di tutto) non avrebbe certamente avuto la stessa forza comica del cartone animato.
Un quarto cartone sull’amore è rimasto incompiuto, soprattutto per motivi di costi. Sarebbe stato, forse, il più difficile da realizzare perché trattava questioni delicate e intime come il contatto con la sessualità da parte di una persona disabile.
Come i Muscoli di cartone, anche le Creature Discomforts nascono dall’incontro tra una delle più longeve associazioni di disabili e un’affermata casa di produzione indipendente di film d’animazione.
La Leonard Cheshire Disability nasce, infatti, nel 1948 nella regione dello Hampshire ad opera del Capitano Lord Cheshire di Woodhall, eroe di guerra che al termine del conflitto si offrì di ospitare nel palazzo di famiglia un malato terminale privo di assistenza e di un posto dove stare. In pochi anni il palazzo dei Cheshire divenne un punto di riferimento che forniva cure e assistenza per gli ammalati e gli invalidi della comunità, aumentati proprio a causa del conflitto mondiale: sarà dunque il primo centro di un’organizzazione che nei decenni successivi diventerà una tra le più sviluppate a livello mondiale nel fornire servizi a persone con disabilità.
Peter Lord e David Sproxton, conosciutisi sui banchi di scuola, fondano nel 1972 la Aardman Animations; già dai primi lavori (come ad esempio Conversation Pieces, realizzato per la tv inglese Channel Four nel 1982 o come Early Bird, ambientato in una radio locale) la coppia di autori lavora su personaggi e situazioni della vita reale; rappresenta con acume e umorismo l’«uomo della strada», utilizzando sin dagli anni Settanta personaggi e sfondi in plastilina e animandoli a «passo uno». Una tecnica che – grazie anche a un altrettanto eccellente lavoro di scrittura – consente di creare un contrasto comico tra la raffigurazione caricaturale del personaggio e la riproduzione realistica dello sfondo.
Altra tappa fondamentale è l’ingresso nella società, alla metà degli anni Ottanta, di Nick Park: sua è l’invenzione di Wallace e Gromitt, creati per il suo saggio di laurea alla Sheffield Hallam University (A grand day out with Wallace e Gromitt) che nel 1991 riceve la nomination all’Oscar per il miglior cortometraggio d’animazione, vinto per altro in quell’anno dallo stesso Park con Creature Comforts (1990).
Nel film – uno dei cinque della serie Lip Synch, realizzati dalla Aardman ancora per Channel Four – vengono montate in modo alternato le interviste agli animali di uno zoo. Con l’asta del microfono in campo, una famiglia di orsi polari, un gruppo di tartarughe, un malinconico puma, una femmina di gorilla, un koala occhialuto, delle galline, parlano a ruota libera delle loro non invidiabili condizioni di vita, del poco spazio, del cibo scarso, del pessimo clima inglese.
Dal successo del cortometraggio nascerà l’omonima serie (giunta alla seconda stagione e diretta da Richard Goleszowski), con nuovi personaggi in plastilina, ma con lo stesso tipo di umorismo. Altro aspetto interessante sono le voci degli animali, affidate non ad attori ma a persone comuni lasciate improvvisare. Una caratteristica che purtroppo non viene mantenuta nell’edizione italiana (nota col titolo di Interviste mai viste), nella quale sono stati utilizzati doppiatori professionisti.
La scelta di utilizzare le voci dell’«uomo della strada» è alla base anche degli otto spot, rinominati per l’appunto Creature Discomforts, realizzati nel 2007 per la Leonard Cheshire Disability. In questo caso le voci sono di persone con disabilità, scelte, tramite l’associazione, anche in base al tipo di deficit dei personaggi: Spud la lumaca, Peg il porcospino, Flash il cane bassotto, Tim la tartaruga, Slim l’insetto stecco, Brian il bulldog, Callum il camaleonte, Sonny il gamberetto, la gatta Cath, Ozzy il gufo, la topolina Millie e Roxie la coniglietta (rimandiamo, in appendice a questo articolo, alla trascrizione integrale dei dialoghi della serie).
La campagna di informazione inglese, anche se non mancano gli spot più specificamente dedicati ad alcuni aspetti della vita quotidiana (le barriere architettoniche in Negozio di dolciumi e la sessualità  in Amore e sesso), è imperniata principalmente attorno a due nuclei tematici: da un lato la percezione sociale della disabilità e il modo di rapportarsi ai disabili da parte di chi non lo è, dall’altro il superamento dello svantaggio da parte della persona con disabilità e la riconquista della propria autostima.
Lo slogan che compare al termine di ogni film («Cambia il tuo modo di vedere la disabilità») è un invito dunque a scrollarci di dosso le barriere della mente, ma anche agli stessi disabili a non farsi ingabbiare dalle barriere della loro condizione.
In conclusione, più che un confronto tra gli spot italiani e quelli inglesi, vale la pena riflettere sul tratto fondamentale che li accomuna: l’ironia.
«Il comico – scrisse il filosofo Henri Bergson nel 1900 – nasce quando uomini riuniti in gruppo dirigono l’attenzione su uno di loro, facendo tacere la loro sensibilità ed esercitando solo la loro intelligenza». Questa frase esprime il significato non solo del lavoro che è alla base delle Grandi vignette prima e dei Muscoli di cartone poi, ma anche della campagna delle Creature Discomforts.
Vi è però un altro punto importante, ovvero la differenza che c’è tra il ridere e il sorridere. La risata può essere grassa, sincera, sguaiata, rumorosa; può essere liberatoria, cioè proprio far bene alla salute, nell’aiutare a «buttar fuori» quello che fa male o che inquieta «dentro». Il sorriso invece non è mai né sguaiato né rumoroso, è sempre un fatto intimo, frutto di riflessione a volte anche profonda.
Insomma, semplificando, la risata viene dalla pancia, il sorriso dal cervello e come tale richiede un esercizio di riflessione e di intelligenza complesso; possiamo anche dire che la risata è spontanea, mentre il sorriso è il frutto di una scelta.
È importante capire che con le vignette, i calendari, i cartoni animati, siamo nel campo del sorriso e non della risata. Infatti, i problemi di cui si parla (malattie gravi, disabilità, persone che stanno male e che soffrono) presi in sé sono pesanti, delicati, spesso drammatici.
Perché allora sorridere di tutto ciò? Perché per farlo ci vogliono appunto la riflessione e l’intelligenza. E dopo il primo impatto «simpatico», «divertente», sono la riflessione e l’intelligenza che aiutano a formarsi un’idea precisa sui problemi che si stanno esponendo.
In poche parole: la risata è come un’ubriacatura che fa star bene, ma poi passa e spesso ci si dimentica di quello che si è fatto e visto durante la sbornia. Il sorriso resta e dapprima fa riflettere sulla battuta del disegno o del cartone animato, poi su «quello che c’è sotto».



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