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Autore: admin

4. Se gli utenti disabili reclamano il diritto all’accessibilità

Intervista a Carlo Filippo Follis, che dal luglio del 2006 al 2009 ha tenuto un interessante blog sul tema dell’accessibilità delle nuove tecnologie e disabili, con un occhio particolare al web e ai cellulari. Il blog è ancora visibile ma non più aggiornato a causa delle difficoltà che ha avuto l’autore nel coinvolgere le stesse persone disabili sul tema.

Che cos’è Norisberghen.it e quali sono le idee fondamentali che ti hanno mosso?
Norisberghen.it è nata come area di sperimentazione per portali realizzati tramite il celebre software WordPress. Doveva essere un’area prototipale dalla quale generare cloni tematici destinati a blog dove si sarebbe veramente discusso di temi specifici. Sebbene ciò sia accaduto per DisabileDoc.it – Libera Community di Disabili Protagonisti – Norisberghen.it ha iniziato da subito a esaminare la tecnologia nelle sue differenti espressioni tanto da dar vita a un progetto specifico: l’Apple D-User. D-User è un termine che ho voluto coniare per estrarre dal mazzo il Disabile ed evidenziare così un mondo che ha bisogno di attenzioni anche per poter essere di utilità a chi disabile lo può diventare per quello che io chiamo “evento storico”: un incidente, la manifestazione di una patologia di carattere genetico o, semplicemente, un invecchiamento che mina le capacità residue abbassandone il livello.

Che cosa significa per te accessibilità a un dispositivo tecnologico?
Una forma di utopia da commutare in realtà. Mi spiego meglio. A nessuno sostanzialmente interessa realmente impegnarsi nella realizzazione di dispositivi accessibili. Di fondo ci sono essenzialmente alcune spiegazioni: oggi vengono prodotti molti hardware che si vendono perché stupiscono la massa dell’utenza, una sorta di prodotto non sempre utile, ma che piace a tal punto da rimpiazzare ciò che già abbiamo. I killer product servono per continuare a vendere generando un’evoluzione che, quasi sempre, non è innovativa bensì un esercizio di stile che fa marketing. I prodotti poi sono progettati da ingegneri che non essendo disabili non possono conoscere le nostre necessità. In quei pochi casi in cui il genio prevede, il marketing sovente obbliga a rivedere in funzione a canoni estetici globali. Non dimentichiamoci poi del paradosso accettato dai disabili, almeno dai più, che negando i propri limiti ed esigenze in espressioni false e abominevoli come “diversamente abili” soffocano quella consapevolezza che invece li dovrebbe portare a urlare le innumerevoli necessità.
L’utopia dell’accessibilità deve essere resa reale proprio da coloro che amano meno esporsi sottolineando un essere palese, ma che non va detto per non sentirsi disabili. E come se i neri d’America o i gay avessero condotto le loro battaglie dichiarandosi chi “diversamente bianco” e chi “diversamente etero”.
Se accessibilità è sinonimo di raggiungimento, beh, allora ci vuole il giusto coraggio per percorrere una strada che sarà di vantaggio a tutti: disabili e normaloidi.

Internet, attraverso i dispositivi hardware e software, è accessibile ai disabili? Dove si riscontrano le maggiori mancanze?
Non basterebbe un trattato di quattrocento pagine per rispondere, quindi giungiamo al verdetto: no. No, non è accessibile, o meglio, non lo è per tutti in egual misura. I disabili sono talmente variegati nelle loro caratterizzazioni che non vi è una copertura tecnologica per realizzare un’accessibilità per tutti. Mancano ancora le tecnologie e quelle che ci sono non vengono spesso applicate. Siamo costantemente in una fase di concertazione globale dove un soggetto promuove la filosofia e traccia le linee di base, ma poi arriva l’interlocutore forte e impone canoni fuori regole. Il futuro HTM 5, ad esempio, è già oggi in fase di reinterpretazioni che lo indeboliranno proprio sui fronti usabilità e accessibilità.
La maggiore mancanza è sempre espressa in una lacuna culturale e sarà così sino a quando non si comprenderà che l’impegno su questa materia è una polizza sul futuro di tutti. E ancora che l’espressione di forza non viene manifestata attraversa la discussione di regole che devono essere di tutti, bensì sulla bontà di prodotti e servizi di maggiore eccellenza.

Internet sempre più sarà consultabile tramite reti mobili, attraverso cioè cellulari, palmari… Quali sono i principali problemi di accessibilità in questo caso?
Il disabile che non ha problemi motori agli arti superiori o problemi di grave ipovedenza potrà beneficiare di dispositivi convergenti sempre più evoluti e meno costosi. Per tutti gli altri sarà una strada in salita o impraticabile. I dispositivi mobili esasperano una miniaturizzazione che rende l’apparecchio sempre più ingestibile anche da chi non ha problemi.
Poniamoci poi anche una domanda mettendo da parte le attuali tendenze o mode tecnologiche: il cellulare, che sia smartphone oppure no, è proprio il mezzo a cui guardare per navigare in Internet?

Oltre alle disabilità sensoriali e motorie (di solito quelle prese più in considerazione quando si parla di barriere) anche i disabili psichici possono avere difficoltà nell’uso dei dispositivi tecnologici per accedere alla rete, ad esempio se sono troppo complessi. Cosa si fa per loro?
Non vorrei apparire banale o peggio, ma da dire c’è ben poco. Mi spiego. Se sono un disabile con deficit psichici avrò le stesse possibilità di rapportarmi alla rete, o alla tecnologia, che ho nello sfogliare una rivista, un mensile. Il prodotto se ben fatto offrirà a tutti il beneficio della chiarezza che andrà incontro anche, ma non solo, al disabile psichico.
Il punto è proprio sempre quello: non abbiamo ancora imparato a realizzare format evoluti che esaltino accessibilità e usabilità per tutti. È ancora una volta una carenza culturale oltre che professionale.

I disabili possono rappresentare una fetta di mercato appetibile per i produttori di dispositivi software e hardware; il mercato è consapevole di questo? E questa fetta di mercato si sta organizzando, sta facendo pressione sui costruttori per richiedere dispositivi già accessibili?
I disabili che andrebbero sempre scritti con la D maiuscola sono certamente un mercato vastissimo come anche ignorato, quindi non noto nei fatti. I disabili non solo non sono organizzati, ma non partecipano neppure laddove esistono dei progetti mirati. In poco più di un anno di vita del progetto Apple D-User non ho ricevuto un solo input, idea o richiesta da parte di un disabile. Di contro sono stato accusato di mercificare l’immagine di una categoria a tutto vantaggio di un’industria. Sinceramente non ho ancora compreso di chi è la follia… Poi vi è il paradosso delle imprese che non ascoltano i consigli specifici per non palesare carenze per altro ovvie che delegittimerebbero i propri uffici tecnici, non considerando invece il suggerimento come complementare a uno staff di ingegneri che, se non disabili, non possono prevedere necessità che non vivono.

Cosa intendi con il concetto di D-mercato e di D-users?
Il D-Mercato è un bacino di potenziali clienti che conta nel mondo 650 milioni di unità. I D-Users sono le unità del D-Mercato.
Il D-Mercato è anche miliardi di euro l’anno, ma molti vengono persi dalle imprese che ignorano una realtà che non spende solo per piacere, ma soprattutto per necessità e che per questo ha (raggiunge) anche budget più alti…

Si sa che costruire fin da subito case senza barriere architettoniche è molto più economico che adattare quelle che ne hanno: questo principio vale anche per i dispositivi tecnologici?
Il principio vale in linea teorica e deve valere come principio ispiratore anche se non esiste l’adattamento di un computer o di un cellulare. Non sarei invece così sicuro della certezza espressa. Se così fosse saremmo di fronte a una marea di deficienti mefistofelici e insensibili per pura cecità e pigrizia.
Beh, a pensarci bene…

Qual è la tua sensazione rispetto a questo tema, tu pensi che in futuro si realizzeranno prodotti tecnologici fin da subito attenti alle esigenze di persone “diverse”?
Il futuro è un tempo presente nel momento in cui si manifesta e, paradossalmente, propone prodotti realizzati su idee vecchie. Questo è un dato di fatto e non un esercizio filosofico. I prodotti dei prossimi anni sono già stati immaginati e in parte progettati. Oggi stiamo vivendo in un medioevo tecnologico che non credo sappia bene il perché produca questo o quel prodotto o soluzione. È un momento di alambicchi che distillano oggetti da comprare, elementi sempre più complementari a una illusoria vita digitale castrata anche dalle carenze di strutture e reti potenziate rispetto alle origini.
Il futuro, quello dei film, è molto lontano. Il prossimo futuro sarà peggiore del presente e i disabili avranno sempre più difficoltà a utilizzare quegli strumenti che invece dovrebbero essere di Vita Indipendente.
Come sempre sarà un problema figlio di una lacuna culturale…

Se tu potessi creare un dispositivo per accedere alla rete, senza badare ai limiti tecnologici di oggi e pensando a qualcosa che appartiene al futuro, come te lo immagineresti?
Sottintendendo la mia natura disabile mi vien solo da pensare a una cosa che, se fantascienza oggi, un domani non certo vicino potrebbe trovare riscontro nella più spinta ricerca. Se un disabile si deve rapportare a innumerevoli hardware e quindi software, è egli stesso il fattore comune di una realtà che dovrà evolvere con lui e non solo per lui.
Ecco che entrano in gioco le potenzialità cerebrali che canalizzate e rese decodificabili potrebbero offrirci un potere mentale che è noto come telecinesi. Tasti, manopole, touch screen e qualsiasi altro elemento fisico potrebbero essere “toccati” con la mente e non con il corpo.
Troveremmo l’autonomia diventando Jedi, ma senza per questo dover recitare in Guerre Stellari… Consideriamo che questa utopia, oggi, un domani potrebbe essere una soluzione super tecnologica. Io, affetto da tetra paresi spastica, avrei le stesse potenzialità di un distrofico, atassico o altro disabile con pari capacità intellettive. Addirittura un cieco potrebbe vedere, percepire e avere l’ambiente circostante definito. Sarebbe possibile per la bidirezionalità del segnale: input e output.
La folle soluzione che ho descritto trova già applicazione in alcuni confortanti “tentativi tematici” come l’occhio bionico che ora punta al riconoscimento del colore oltre che ai già conquistati toni di grigio.
Sino a quel tempo la risposta trova riscontro nei ragionamenti precedenti che alla base hanno prodotti che dovrebbero essere pensati in collaborazione/consulenza con noi disabili. Purtroppo questa è un’utopia più forte e amara della precedente proprio perché attuabile mentre invece non la si considera neppure…

Per contattare l’autore: cffollis@gmail.com

3. Il sociale e il sanitario vanno sul web

CUP 2000 è la principale azienda italiana che gestisce i sistemi CUP (Centri Unificati di Prenotazione) di dimensione metropolitana e regionale di accesso alla sanità. Molti di questi servizi vengono erogati attraverso il web; ne parliamo con Gianluigi Amadei, progettista, che si occupa dell’area servizi sociali all’interno dell’azienda.

Che tipo di servizi socio-sanitari offre CUP 2000 e verso chi sono rivolti?
CUP 2000 non si muove solo nell’area del sanitario fornendo servizi per l’accesso alla sanità ma da qualche anno a questa parte fornisce servizi nell’area propriamente sociale; non siamo specificatamente indirizzati verso la disabilità, l’area del sociale è più indirizzata all’anziano, ma il confine tra le due aree è molto labile; ad esempio quando si parla di occasione di socializzazione o di agevolazione dell’accesso ai servizi, cambia l’offerta ma le modalità spesso sono simili.
Nell’area dei servizi informativi abbiamo sviluppato nel corso del 2009 un punto di accesso per tutto il mondo della sanità e del socio-sanitario; il cittadino ma anche il disabile può trovare tutte le informazioni sul sociale e il socio-sanitario (sul medico di medicina generale, sul pronto soccorso con liste d’attesa in tempi reali, sugli sportelli sociali…) con la possibilità di avere, una volta individuato il servizio che si sta cercando, anche i percorsi per raggiungerlo, scelti in base alle proprie modalità di mobilità. Stiamo raccogliendo anche informazioni sull’accessibilità.
Il pagamento avviene tramite carta di credito o bancomat, un’operazione molto sicura che si sta estendendo in ambito regionale e non ci sono commissioni aggiuntive da parte nostra.
In questo modo è possibile accedere a un servizio sanitario senza dover fare delle code, ma direttamente da casa.

Ma a quali servizi una persona disabile o un anziano può accedere? Vi sono delle limitazioni?
Lo sportello on line eroga quasi tutte le prestazioni, rimane la difficoltà per quelle che presentano delle impegnative difficili da interpretare, ma attraverso il Progetto Sole stiamo riducendo il numero di queste prestazioni “difficili”, in quanto tutte le impegnative saranno inserite direttamente dal medico di medicina generale nel suo studio e in questo modo non ci potrà essere margine di errore in quanto ci sarà sempre un codice preciso e il sistema recupererà i dati inseriti.
In Emilia-Romagna stiamo completando il collegamento al CUP con ogni medico di medicina generale e dei pediatri che sono circa 4mila complessivamente. Questo consentirà a tutti i medici di generare le impegnative per l’accesso dei sistemi di prenotazione ma anche direttamente negli stessi ospedali; per ogni medico sarà possibile anche ricevere i referti e altre segnalazioni come il ricovero, variazioni anagrafiche e certe certificazioni come quella di invalidità; in Emilia-Romagna infatti esiste il Progetto Rurer che centralizza la gestione delle certificazioni dell’invalidità mettendo in collegamento la struttura sanitaria, l’Inps, l’anagrafe regionale e i sistemi informativi del lavoro. Stiamo sempre parlando di ambienti web di qualcosa che consente al disabile nel momento in cui gli viene riconosciuta la sua situazione, di essere registrato presso gli sportelli del servizio lavoro come disabile e inserito nelle liste di collocamento: in questo modo si passa dal CUP metropolitano al CUP web.
Il web, attraverso il già citato Progetto Sole, dà la possibilità ai medici di base di rendere subito disponibili le loro richieste di accertamenti diagnostici. Tutto quello che è prenotabile dallo sportello entro breve sarà prenotabile dal web direttamente; non sarà così per tutti i servizi, ad esempio, le terapie fisiche si continueranno a prenotare presso le strutture erogatrici, ma la tendenza è inglobare tutte le prestazioni che saranno direttamente prenotabili via web. Avere in tempo reale questi dati permetterà anche una migliore programmazione dei reparti ospedalieri, dell’uso delle macchine, come quelle radiologiche.

CUP 2000 è un’esperienza solo di Bologna e dell’Emilia-Romagna?
È un modello già esportato in altre regioni e in alcune grandi città come Genova, Milano, Napoli.
Abbiamo realizzato questo sportello in Inghilterra nella contea di Birmingham, a Pechino in Cina, ma le dimensioni del CUP di Bologna sono una realtà unica nel mondo sia come numero di prestazioni offerte che come numero di utenti.

Avete dei dati riguardo l’utenza disabile ed esistono dei servizi indirizzati a loro via web?
Non abbiamo dati sull’utenza disabile; ma ci stiamo muovendo molto verso l’area del sociale secondo due linee di intervento; con la prima stiamo cercando di creare il CUP del sociale cioè stiamo cercando di rendere più semplice l’accesso a tutta una gamma di servizi socio-sanitari o socio-assistenziali che sono ancora sparpagliati sul territorio; vogliamo fare una rete integrata del socio-sanitario e assistenziale, anche con lo scopo di creare una cartella socio-sanitaria sul modello di quella sanitaria disponibile sempre on line. Una cartella di questo tipo contiene i trattamenti che mi sono stati erogati, che cosa mi sta succedendo, se ho una assistenza familiare, se sono inserito in particolari programmi, se mi vengono erogati determinati ausili o servizi di supporto (accompagnamento, bagno a domicilio…). Qui il nostro pubblico di riferimento sono gli anziani ma anche i disabili e le persone “fragili”. Vogliamo disegnare intorno all’anziano e al disabile quella che è la sua rete di riferimento e di supporto e di rendere visibile questa rete facilitando gli interventi aggiuntivi. Bisogna uscire dalla logica sanitaria per entrare in quella socio-sanitaria che prende in considerazione non solo la salute della persona ma il suo benessere in generale.
Stiamo realizzando un portale che si chiama Bolognasolidale (www.bolognasolidale.it) che raccoglie tutto che si sta muovendo sul territorio disegnando la rete di chi assiste. In questo modo la persona che si registra sul portale può conoscere questa rete fatta di volontariato, di parrocchie, di minigruppi di supporto familiare; con il progetto Icare lo stiamo già facendo, seguendo circa 3mila anziani. Se un anziano ha problemi di mobilità, vediamo se vicino a lui vi sono dei gruppi che possono aiutarlo. La nostra mediazione è gratuita e non ha costi per l’utenza.

Internet offre non solo dei testi ma anche la possibilità di usare degli strumenti multimediali: ne fate uso all’interno di questo discorso?
Per quanto riguarda la multimedialità abbiamo il Progetto Oldes, che utilizza un computer multimediale collegato a un televisore, ovvero uno strumento facilmente accessibile anche da chi non ha particolari conoscenza tecnologiche. Si offrono dei contenuti informativi, contenuti di intrattenimento mirati sui gusti e sulle caratteristiche dell’utente che tendono alla socializzazione; ad esempio non trasmettiamo un documentario su Bologna ma su dei particolari percorsi che si possono fare in città e che possono essere effettivamente fatti grazie a gruppi di volontariato che organizzano le uscite. Tramite questo sistema è possibile anche telefonare e dall’altra parte si comunica con un moderatore/sollecitatore di dibattito e la rete di persone con cui l’anziano ha scelto di stare connesso; in questo modo ha la possibilità di comunicare direttamente con un gruppo di persone. Viene creato una sorta di centro sociale virtuale per anziani, senza doversi spostare fisicamente per incontrare gli amici.
Il sistema comprende anche una piattaforma di tipo tele-medico che dà la possibilità di tenere controllati una serie di parametri clinici (pressione, peso della glicemia, pulsazioni…).

Ma questo non comporta un rischio di ulteriore isolamento per la persona anziana o disabile?
Questo spostamento della vita di relazione su una piattaforma virtuale rischia di aumentare la situazione di isolamento anziché diminuirla. Per contrastare questo rischio noi organizziamo delle feste, feste vere; sono delle occasioni di contatto fisico, dove gli anziani si incontrano tra loro e con gli operatori telefonici con cui queste persone sono in contatto.

Che progetti avete per il futuro?
Penso soprattutto al fascicolo sanitario elettronico che sarà presto una realtà per chi vive in Emilia-Romagna; avrà una valenza clinica non amministrativa e sarà disponibile on line. Il fascicolo sanitario proposto da Google Health (un servizio sanitario simile) è su base volontaria, il nostro non sarà così. Stiamo digitalizzando, con un’operazione molto impegnativa per l’Asl di Bologna, tutte le cartelle cliniche in modo che sia reperibile on line lo storico cartaceo per il singolo paziente. Anche cambiando residenza una persona potrà immediatamente ritrovare on line la sua cartella clinica completa.
Per finalità diverse abbiamo anche digitalizzato dei registri clinici scritti in folio a mano di fine Ottocento che hanno un valore per la storia della medicina e della scienza.

2. La parte abitata della rete

Abbiamo intervistato Sergio Maistrello, giornalista freelance, divulgatore di nuove tecnologie a misura d’uomo, che dirige dal 2006 Apogeonline, rivista on line di tecnologia e culture digitali della casa editrice Apogeo. Ha scritto due libri: La parte abitata della Rete (Tecniche Nuove, 2007), una guida turistica nel mondo dei blog e dei social software; e Come si fa un blog (Tecniche Nuove, 2004), libro pratico per fare i primi passi nel mondo dei siti personali di nuova generazione. Con lui parleremo delle opportunità che questo “nuovo modo di vivere la rete” offre alle persone disabili (ma non solo) in termini di relazioni sociali, rispetto dei diritti e libera espressione.

Che cos’è il web 2.0 e cosa sono le reti sociali?
Web 2.0 non è altro che il nome che abbiamo dato alla nostra nuova consapevolezza nell’uso di internet. Una consapevolezza che è stata favorita, a partire dal 2000, dal diffondersi dei blog (diari per le idee, il modo più semplice ed economico che abbiamo oggi per pubblicare contenuti su internet), dei wiki (siti collaborativi come Wikipedia), dei podcast (serie di brani audio, una sorta di trasmissione radiofonica o televisiva personale) e dei social network (applicazioni web basate su reti sociali). Il web in realtà è sempre lo stesso, non c’è stata alcuna evoluzione tecnologica in senso stretto: quel 2.0 è solo un vezzo divulgativo, che io nemmeno amo troppo. È cambiato invece il modo in cui percepiamo il nostro ruolo di nodi all’interno di questa rete sociale. Come dire: abbiamo cercato di fare del web una televisione giusto un po’ più complicata, lasciando spesso l’iniziativa alle grandi aziende, mentre ora stiamo finalmente comprendendo che abbiamo di fronte un mezzo di comunicazione nuovo, che lascia spazio a tutti e dentro il quale tutti abbiamo l’opportunità di rappresentare noi stessi e le nostre idee su una scala potenzialmente planetaria.
I social network, in particolare, sono ambienti che abbinano una dimensione sociale ai classici servizi online (comunità virtuali, servizi di pubblicazione e archiviazione di contenuti, punti di incontro fra domanda e offerta di lavoro). Gli automatismi dei social network valorizzano i contenuti messi a disposizione dal singolo iscritto, ma soprattutto permettono di far emergere spontaneamente i contenuti ritenuti più interessanti dalla comunità nel suo complesso. Chi si iscrive condivide i suoi contenuti e traccia le relazioni che lo uniscono ai propri amici o colleghi. L’insieme delle interazioni tra questi individui e tra questi gruppi sociali aggiunge alle funzionalità di base effetti su vasta scala, che generano valore in modo del tutto spontaneo e automatico.
Un esempio. Condividere fotografie su un social network come Flickr, invece che su un servizio di pubblicazione chiuso al suo interno, permette di far circolare le immagini con molta facilità dentro la propria rete sociale di amici e conoscenti iscritti allo stesso servizio. Se la fotografia riscuote consenso, attraverso le segnalazioni dei propri contatti e attraverso le loro reti sociali, questa può incontrare nuovi ammiratori. La condivisione di parole chiave consente di mettere in relazione tra loro fotografie simili per soggetto o tecnica, anche se i rispettivi autori non si conoscono o abitano dall’altra parte del mondo. Il filtro spontaneo e distribuito continuamente sollecitato dalle attività dei singoli iscritti premia le immagini più interessanti, facendole emergere e proponendole all’attenzione generale.

Per una persona disabile che opportunità può presentare questa evoluzione della rete?
Finora ci siamo dovuti accontentare di un racconto del mondo secondo filtri di massa, applicati per noi da chi aveva capitali, spirito imprenditoriale e potere sufficienti a controllare i canali di emissione. Internet ha avviato uno straordinario spostamento di potere (mediatico, politico, culturale) da quest’oligopolio di fonti alle persone. Su internet le nicchie che il mercato di massa giudicava antieconomiche, e dunque ignorabili, diventano una ricchezza, come dimostrano alcuni nuovi modelli economici. Un esempio banale: una libreria on line, superando i limiti fisici del punto vendita e commercializzando un catalogo potenzialmente pari alla totalità dei libri stampati, vende pochissime copie ma di tantissimi libri, e la somma di tutte queste nicchie vale più del giro d’affari delle librerie tradizionali arroccate intorno a pochi bestseller. È l’idea della “coda lunga”: c’è spazio per tutto e per tutti, non c’è filtro in entrata, ogni nicchia di interessi ha la sua possibilità di trovare un suo “mercato””.
Come può riguardare i disabili questa novità? Beh, innanzitutto oggi i disabili hanno la possibilità di vedere rappresentato il proprio racconto del mondo al pari di quello di chiunque altro. Non sarebbe una notizia in sé, se nel racconto di massa di cui abbiamo appena parlato i disabili avessero effettivamente avuto pari dignità, cosa che non mi pare sia stata. Il resto non riguarda le opportunità in quanto disabili, ma le opportunità in quanto persone. La Rete esalta le differenze, aiuta a far incontrare chi ha idee, interessi e caratteristiche simili, favorisce il confronto tra i diversi sguardi sul mondo. Una volta raggiunta la Rete – e so bene che questo passaggio apparentemente banale può nascondere difficoltà enormi, che pure oggi vengono ridotte con soluzioni hardware o software sempre più a portata di mano – un disabile prende il pieno possesso della propria socialità digitale così come chiunque altro.

Questo che effetti può avere sul rispetto dei diritti delle persone svantaggiate?
Se il racconto del mondo è più vario e si arricchisce di percezioni e punti di vista, anche le soluzioni alla crescente complessità contemporanea possono essere più rispettose dei diritti e delle necessità di tutti. È un diritto che assume connotazioni attive: io divento il primo garante del rispetto dei miei diritti, il primo ad agire perché siano riconosciuti e salvaguardati. Non mi posso più nascondere dietro l’inefficacia di un’istituzione miope o insensibile.

In particolare quali strumenti del web possono essere utili per un disabile? (particolari reti sociali, strumenti del web 2.0…)
Non riconosco la categoria “disabile” su internet. Anche perché so bene l’enorme varietà di situazioni che questa parola rappresenta. Di nuovo: parliamo di persone. Non credo avrebbe senso un social network di disabili, per esempio. Sarebbe un modo per rifugiarsi in un recinto rassicurante, ma poco efficace per fare qualcosa che già non facciano gli ottimi siti monografici che esistevano anche prima di questo benedetto web 2.0. I disabili sono persone e ogni persona ha caratteristiche, interessi, professionalità, scopi differenti. Il bello dei blog e dei social network è che ognuno può fare il suo percorso, secondo le predisposizioni individuali.
Qualche idea? Beh, innanzitutto aprire un blog su una delle tante piattaforme gratuite disponibili (Splinder, Blogger, Typepad, IlCannocchiale, ecc.): serve a raccontare, a raccontarsi, a mettere in circolo la propria voce, a sperimentare la bidirezionalità della comunicazione, a stimolare il confronto pubblico nei commenti, a scoprire le analogie spontanee che si creano tra i propri contenuti e quelli altrui, a espandere la propria rete sociale. Il blog è il modo più rapido per popolare il nostro punto di presenza sulla grande rete sociale di Internet. Dopodiché credo che nessuno che ami la fotografia possa fare a meno di provare Flickr (www.flickr.com), chiunque si diletti di riprese video amerà YouTube (www.youtube.com), chi ama la musica scoprirà nuove frontiere grazie alla condivisione dei gusti di milioni di persone su Last.fm (www.last.fm), via via fino a servizi specializzati come quelli per condividere curriculum e professionalità (LinkedIn, www.linkedin.com, o Neurona, www.neurona.com).

Hai delle storie che ti sono capitate in rete o ti ricordi episodi specifici che riguardano il nostro tema?
La tua domanda mi dà l’occasione di ricordare Francesco Grossi, noto in Rete col suo nick ZoneX, che ci ha lasciati proprio alla fine dell’anno scorso. Era ipovedente, aveva grosse limitazioni nell’accesso al pc e a Internet, e su questi temi ha condotto la sua personale campagna di sensibilizzazione. Ma poco importa qui la disabilità specifica: Francesco era una persona che aveva molto da dire, aveva capito che poteva dirlo senza attendere che gli venisse dato un microfono e intorno ai temi che gli stavano a cuore era stato capace di creare una fitta rete sociale.

Quali sono i limiti o le tendenze preoccupanti che può avere il web 2.0 per un disabile (se ve ne sono)?
Spesso in Rete si finisce per mettere in gioco molto di se stessi, senza rete – se mi concedi il gioco di parole. La percezione di ciò che è pubblico e di ciò che è privato, oppure della responsabilità che comporta ogni nostra azione on line, sono spesso sottovalutate. Ecco, ancora una volta la disabilità in sé non c’entra, ma a maggior ragione è bene essere sempre padroni della situazione e non lanciarsi in esplorazioni che non si è in grado di sostenere senza stress.

Se tu dovessi lanciare in rete un’iniziativa riguardante la disabilità e che sfruttasse la “parte abitata della rete” che cosa ti verrebbe in mente?
Semplicemente inviterei tutti i disabili a entrare, nei tempi e nei modi che sono loro possibili, nella parte abitata della Rete. Ne può esistere una sola, secondo me, pur con tutte le sue innumerevoli declinazioni. E così come non conosce confini geografici, non conosce di certo preferenze per le diverse abilità individuali, se non per quelle che – condivise – arricchiscono tutti.

Per contattare l’autore: www.sergiomaistrello.it

1. Introduzione

È da parecchio tempo che da queste pagine parliamo di disabilità e internet; la prima volta nel 1994 con “Spazi sintetici” ci siamo occupati di come la realtà virtuale potesse cambiare e migliorare la vita delle persone disabili in termini di relazioni sociali ma anche di riabilitazione.
Poi l’anno successivo con “Telematici sentimentali” abbiamo trattato del tema dell’informazione sociale che cominciava a viaggiare sulle reti telematiche (ancora non si parlava di internet e di web in Italia, era un mondo nuovo e pieno di promesse). Nel 1998 invece, quando oramai il digitale cominciava a diffondersi un po’ dappertutto e il mondo dell’associazionismo iniziava a dotarsi di posta elettronica e di siti web, abbiamo organizzato un convegno e poi scritto un libro L’handicap in rete (Bologna, Prometeo, 1999) che raccoglieva le maggiori esperienze presenti in rete; si cercava anche di leggere il fenomeno non solo in un modo enfatico o semplicemente descrittivo, ma si ponevano precise domande sui limiti del mezzo, sul suo effettivo uso, sui problemi di accessibilità alle tecnologie (domande che venivano rivolte alle stesse persone disabili). Infine nel 2005, in un panorama tecnologico e in una cultura telematica molto diversi abbiamo scritto la monografia Disabili1.0 che raccoglieva, per la maggior parte del lavoro, una serie di articoli pubblicati sulla rivista dell’Anmic “Tempi Nuovi”. In questo caso la domanda che ci si poneva era: come internet può aiutare la persona disabile nella sua vita quotidiana? Il tutto veniva realizzato attraverso degli articoli brevi dove accanto ai commenti venivano descritte anche le operazioni pratiche, come la prenotazione di un biglietto on line, l’utilizzo dell’home banking… Era un modo per fare l’alfabetizzazione degli strumenti che il web offriva (in realtà il lavoro non si riduceva a questo ma prendeva in considerazione anche varie tematiche culturali come il diritto alla tecnologia e alla privacy).
Tutto quanto abbiamo descritto è ancora raggiungibile in rete negli indirizzi che troverete indicati nella monografia che segue. E che cosa offre questo nuovo lavoro rispetto al passato? Il principale cambiamento avvenuto in rete dal 2005 si può riassumere in una parola: partecipazione. Il web 2.0 consiste principalmente nella partecipazione delle persone al web che commentano, collaborano, scrivono, grazie a una tecnologia sempre più facile da usare. Questo significa anche una maggiore presenza di persone disabili su internet che collaborano e lavorano, in un miglioramento qualitativo di ciò che si può trovare in rete; e non stiamo parlando solo di testi ma anche di foto, audio e soprattutto video.
Metodologicamente parlando, abbiamo usato la tecnica dell’intervista a persone esperte nei campi che più ci sembravano interessanti e cioè le relazioni sociali e la partecipazione (Maistrello), i servizi socio-sanitari (Amadei), l’accessibilità al web e alle tecnologie per comunicare (Follis), l’informazione (Gubitosa e Bomprezzi), l’informazione medico-scientifica (Santoro); infine abbiamo raccolto la testimonianza di persone disabili esperte nell’uso della rete.
Alla fine di questa inchiesta rimane un’impressione, sempre la stessa – percepita anche nei precedenti lavori – di come sia importante, al di là di ogni futura tecnologia, la presenza dell’uomo, al di là di un filo o di un’onda elettromagnetica; una presenza umana che significa anche preoccuparsi dell’altro, farsi carico delle sue esigenze, che significa avere una precisa responsabilità e la percezione che quasi tutto ci riguarda.
L’intermediazione della macchina tende a renderci meno responsabili? Quando siamo a bordo della nostra automobile tendiamo a essere meno gentili e attenti verso un altro automobilista e da pedoni siamo sicuramente un’altra persona.
Forse il paragone non è appropriato o forse riusciamo ad avere ancora poca fiducia in una tecnologia che sembra permettere una sempre maggiore connessione anche senza la presenza fisica dell’altro; ma rimane una strana sensazione di vuoto e di desolazione se l’altro non c’è un po’ di più fisicamente, almeno un po’ di più.

Una comunità garante, Il messaggero di Sant’Antonio, Giugno 2012

Vi ricordate l’argomento che affrontammo nel mese di febbraio? Raccontai cosa accadde una calda domenica mattina di maggio del 1970. Mentre tutti fischiettavano Let it be dei mitici Beatles, io mi apprestavo con gioia a ricevere il sacramento dell’Eucaristia.
Non credevo che mi avrebbero scritto tanti di voi, con innumerevoli testimonianze, e questo mi ha confermato la complessità e la delicatezza dell’argomento che, partendo dalla mia prima comunione, è arrivato a scenari più ampi: il rapporto tra fede e disabilità.
Dopo quell’articolo, un fatto di cronaca ha riaperto il dibattito: in un piccolo paese del ferrarese, alle foci del Po, un parroco si sarebbe rifiutato di ammettere alla prima comunione un bambino con disabilità, considerato non in grado di intendere e di volere.
La notizia è stata smentita e confermata varie volte, ma quello che veramente ci interessa è piuttosto il dibattito, la necessità di affrontare questi temi dati troppo spesso per scontati. Non mi sembra utile dare giudizi sull’episodio in particolare, anche perché tutte le lettere che ho ricevuto mi hanno dato conferma di quanto le esperienze-testimonianze (belle o brutte che siano) raccontino ognuna storie diverse: differenti sono le sensibilità, i parroci e i contesti.

Piuttosto che prendere una posizione netta – anche perché non credo ne esista una «giusta», o una «sbagliata», e oltretutto non tocca a me stabilirlo –, preferisco dare voce ad alcuni dei lettori che, con i loro contributi e le loro testimonianze, mi hanno aiutato ad alzare lo sguardo su altri punti di vista.
Paola mi scrive: «La disabilità non deve “infastidire”, soprattutto se si tratta di ricevere i sacramenti. Deve, al contrario, essere fonte di arricchimento per tutti. Un dare e ricevere».
Nicoletta ci racconta, invece, di suo fratello che «da bambino frequentava un centro diurno per “fanciulli subnormali” (a suo tempo era così!). Un anno è stata fatta l’esperienza straordinaria di ricevere la cresima: tutti i ragazzi del centro e in presenza del vescovo. Poiché era arrivato anche il mio momento, ho trovato naturalissimo partecipare alla cerimonia e ricevere la cresima con mio fratello e tutti gli altri ragazzini. Sono passati tanti anni. Sinceramente non so quanti di loro fossero consapevoli, ma l’esperienza andava fatta, e sono contenta ancora oggi di essere stata parte di quel gruppo».

Alla luce di queste testimonianze, non può che sorgere spontanea una domanda: siamo sicuri che tutti i ragazzini, disabili e non, siano realmente consapevoli dell’importanza del sacramento che stanno per ricevere?
E, soprattutto, da chi dipende questa consapevolezza?
Chi può farsi garante nell’accompagnare colui che sta per accogliere il dono di un sacramento?
Il parroco, certo, ma anche la comunità stessa, intesa non solo come testimone partecipe dell’evento, ma anche come contesto, capace cioè di sostenere il ragazzo sia durante la preparazione al sacramento, sia mentre lo riceve, sia nella fase successiva. Solo così, con una partecipazione condivisa in ogni fase saliente del cammino, sarà possibile parlare di consapevolezza, sia per chi riceve il sacramento, sia per chi è chiamato ad assistervi.
Questo tema è sicuramente interessante e affascinante, perché apre finestre su orizzonti nuovi. Credo, infatti, che la Chiesa abbia bisogno di recuperare quello che è uno dei suoi significati più importanti: essere e farsi comunità.
E voi, cosa ne pensate? Avete mai fatto da garante? Scrivete a claudio@accaparlante.it o sulla mia pagina Facebook.

Orgoglio sbilenco, Superabile, Giugno 2012

Caro Alex Britti, mi sono sempre chiesto che tipo di tazzine utilizzi quando sorseggi i tuoi settemila caffè…
Sempre la stessa? Me lo sono chiesto perché ho scoperto che le tazzine possono parlare, narrare perfino di disabilità, di stereotipi e delle nostre paure.
Alcuni mesi fa riflettevo su come il pregiudizio possa influenzare in maniera negativa la propria esperienza. L’ho fatto partendo da una banale osservazione: una tazzina da caffè, malformata, storta, inutile al primo sguardo. Da quel semplice oggetto sono partito e ho scritto un articolo per il Messaggero di Sant’Antonio che ha scatenato la fantasia degli amanti del caffè.
Il contenuto era scontato ma stimolante, toccando ambiti molteplici del quotidiano. Quante volte giudichiamo qualcosa prima di averla realmente “presa in mano”?
Quante volte giudichiamo una persona dall’apparenza, un film dal titolo o un cibo solo dall’odore?
In quelle tazzine così strane ad una prima occhiata, che avevo giudicato con superficialità, c’era in realtà del delizioso caffè.
Vorrei condividere con voi alcuni pensieri, che mi sono arrivati dai lettori, visto che ognuno ha la sua originalità, il suo rapporto quotidiano ed i propri preconcetti.
Adele ad esempio si sente una vecchia tazzina sbilenca e molto sbeccata…ma è piena di voglia di vivere, cita ricordi, decanta poesie. Mi sembra un esempio esportabile anche nella realtà della disabilità dove troppo spesso ci si ferma ai giudizi del tipo “poverino, com’è sfortunato, chissà come è triste…”.
Emanuela, collezionista di tazzine, ci conferma siamo sempre pronti a giudicare l’apparenza, ma il caffè è buono in tutte le tazzine!
Alla fine, noi, popolo delle tazzine sbilenche, abbiamo preso persino il colpevole, dipendente della nota ditta di caffettiere dell’ omino con i baffi che ci ha scritto: L’azienda non è nel suo periodo migliore, ma leggere il Suo articolo nel quale, forse, cita un “nostro” prodotto semplicemente mi riempirebbe, qualora ve ne fosse bisogno, d’orgoglio.
Sono io quello orgoglioso, orgoglioso di essere sbilenco come le vostre tazzine. Anzi mi riunirei con voi in qualche piazza d’Italia per organizzare il “Crooked-day”, giornata anti-pregiudizio.
Finalmente la giornata dell’orgoglio sbilenco!
E tu, caro Alex, vieni?

Scrivete a claudio@accaparlante.it o sulla mia pagina facebook.

Claudio Imprudente

 

5. Riuscire a fare qualcosa insieme

Intervista a Stefano Rulli
L’idea di girare questo documentario
L’idea di girare questo documentario mi è venuta in modo abbastanza casuale. Non era possibile pensare di fare un film insieme a Matteo ma neanche andare al cinema; non sono mai stato al cinema con Matteo perché lui dopo cinque minuti vuole alzarsi.
Inizialmente l’idea era di fare un documentario sull’esperienza della Fondazione Città del Sole, di cui io sono vicepresidente e Clara Sereni è presidente, che si occupa di esperienze per il tempo libero e di vita per persone con problemi psichici consistenti. I Casali, dove ha sede la Fondazione, sono uno spazio dove facciamo del turismo per tutti, volevamo raccontare, testimoniare l’esperienza delle persone che frequentavano questi Casali ormai da alcuni anni.
Durante un week end in cui ero lì a fare le riprese, Matteo è venuto sul set e a un certo punto si è messo tra me e la macchina da presa. Inizialmente ho pensato che volesse impedire la ripresa perché si sentiva a disagio: il cinema è una cosa che gli ha sempre creato problemi soprattutto riguardo a me, forse perché sa che è una mia grande passione, quasi un amore difficile da contrastare. Poi questa cosa è avvenuta un’altra volta e l’operatore, che è amico di Matteo e lo conosce da tanto tempo, mi ha fatto notare che forse Matteo voleva esserci anche lui dentro il film. E allora ho provato a fare una ripresa, una delle poche cose rimaste delle prime riprese, la scena del taglio dell’albero nel bosco. Abbiamo provato a vedere cosa sarebbe successo se si filmava una scena fra me e Matteo da soli, e quando lui si è messo lì a tagliare quel ramo mi sembrava ci fosse un po’ tutto il sentimento che Matteo aveva rispetto al rapporto con la macchina da presa che ci stava filmando. Da un lato c’era il desiderio di fare una cosa con me, dall’altro c’era la paura di non farcela, ma in fondo io ho sentito che Matteo ce la poteva fare, aveva voglia di farlo. Così abbiamo fatto delle riprese che riguardavano il rapporto fra me e Matteo e altre che riguardavano invece gli ospiti dei Casali. Via via mi sono reso conto che la prima parte era la più complessa però forse anche la più interessante, sicuramente per me e per Matteo. Matteo non sa né leggere né scrivere, quindi quel rapporto che spesso esiste tra un padre e un figlio, legato a insegnargli a leggere, aiutarlo a leggere, a parlare di un libro, è un’esperienza che noi non avevamo avuto. Fare insieme questo film aveva dentro quell’emozione, riuscire a fare una cosa dove stavamo insieme in qualche situazione che apprendevamo tutti e due; lui l’apprendeva perché certo non ha mai fatto l’attore nella sua vita, ma anch’io l’apprendevo perché non avevo mai fatto un documentario come regista, quindi era un terreno su cui ci muovevamo tutti e due con uno spazio di scoperta e con qualche cosa che ci univa. Senz’altro è stata un’esperienza importante, per noi prima di tutto.
Poi ho pensato che potesse essere utile per raccontare un po’ dall’interno a chi non la conosce che cosa si prova a vivere questa esperienza. Spesso c’è una visione ancora più cupa, più rigida dell’esperienza che vivono le persone che hanno dei problemi. Noi siamo una famiglia problematica, non solo lui; il problema è capire che là dentro c’è comunque la vita, c’è speranza, ci sono aspettative, ci sono litigate, ma c’è la vita.
Matteo per noi sa comunicare e volevo sapere se poteva accettare il film o no. Allora l’abbiamo rivisto insieme, a casa, ed è stata la prima volta che abbiamo visto un film insieme a Matteo. Il film era ancora più lungo di adesso, un’ora e mezza, e alla fine mi ha chiesto di rivedere la scena in cui piange. La scena che più avevo paura di fargli vedere era la scena che più l’aveva colpito: è come se gli fosse arrivato questo sentimento, che quel dolore nostro si potesse vedere, si potesse rappresentare e se ne potesse parlare.

Mettere in scena il mio rapporto con Matteo
In questo documentario ci sono anche alcune scene molto private, personali. Credo che la sostanza anche più drammatica, più conflittuale ci sia tutta, mi sembra di averla messa senza particolari censure. Il terreno è molto delicato, cioè decidere se mostrare questi momenti così privati e anche momenti che hanno una loro drammaticità. Mi sembrava importante perché senza raccontare quei conflitti avrei raccontato un rapporto edulcorato, e non sarebbe stato un racconto di un rapporto reale. Quindi non potevo fare altrimenti: se accetto di mettere in scena il mio rapporto con Matteo non posso raccontare solo lui che canta. Cantare è stata una conquista molto complicata per Matteo, lui non riusciva a sentire nemmeno la canzone del suo compleanno. Per arrivare a quel punto, Matteo ha dovuto superare dentro di sé, nel rapporto con me, dei momenti molto drammatici. Quello che ho cercato di fare è di evitare la spettacolarizzazione compiaciuta: nel film, dopo il canto nel salone, si vede che Matteo parte e esce di campo, si sente il rumore di una sedia…  Io non ho fatto vedere la scena dove l’aggressività di Matteo esplode in maniera ancora più forte, poteva essere molto spettacolare ma non era quello che a me interessava comunicare. Era più interessante per me raccontare il dopo, cioè quel momento in cui l’elaborazione di quell’aggressività diventa sofferenza, diventa qualcosa che lui fatica a pensare perché non ha una capacità astrattiva forte. È
come se parlando con lui tu cercassi di ricostruire il senso di quello che è accaduto. Il cinema è anche morale, il modo in cui tu giri le riprese e fai delle scelte non sono solo tecnici ma anche morali.
Avevo dato alcune indicazioni all’operatore, sapevo che ci sarebbero stati dei momenti in cui io non potevo essere regista ma potevo solo essere presente dentro quella situazione, perché il rapporto con Matteo avrebbe prevalso sulla dimensione cinematografica in senso stretto. In quel caso il regista diventava automaticamente lui e doveva sapere che si doveva attenere ad alcune regole di fondo. La prima è quella di non tagliare: normalmente un operatore quando sente una cosa un po’ noiosa stacca per risparmiare pellicola e poi riparte quando c’è un’altra cosa interessante. L’altra è di fare degli zoom cioè di stringere: quando c’è una cosa molto forte normalmente in televisione si stringe perché è quella che fa spettacolo. Tutta la sequenza della crisi di Matteo nella camera è girata con un’inquadratura unica, proprio perché era importante che si capisse che non era una cosa costruita. Credo che sia importante capire la differenza rispetto al cinema normale, anche il cinema migliore: quando nel cinema si racconta la crisi c’è per esempio una frase drammatica che provoca una reazione, poi quella reazione dopo un minuto si ricompone perché uno ha detto una cosa intelligente, perché è intervenuto lo psichiatra bravo; ci sono quei tempi lì perché il cinema va di fretta. Però la percezione che uno ha attraverso il cinema di una crisi psichica è una percezione abbastanza magica che non corrisponde alla realtà. Allora l’ho voluta raccontare con tutti i suoi tempi morti, proprio così come si genera: Matteo parte spesso in situazioni di aggressività su frasi che sembrano apparentemente prive di qualunque contenuto violento; poi, andandole a rivedere, vedi che sono diverse. Io stesso quando le ho riviste mi sono reso conto che ero stato molto più violento di quello che pensavo e ho deciso di mantenerle nel film proprio per questo; quando mi rivedo provo sempre un certo disagio per quelle scene, non per la violenza di Matteo ma per la mia aggressività. In alcune domande che gli pongo, in un certo mio modo di chiedergli ordine continuamente, regole, di chiedergli sempre di più – lui fa una cosa e gliene chiedo subito un’altra – mi sono reso conto che c’è in me un elemento di aggressività di chi in fondo lo vorrebbe normale. Cioè se tu fai un passo io te ne chiedo due, se tu ne fai due te ne chiedo cinque, allora in quella dinamica dove apparentemente la sua aggressività è un po’ sproporzionata, non è sensata, invece c’è qualcosa: lui è una persona dalla sensibilità fortissima, lui avverte questo carico di aspettative e io ho pensato che fosse giusto mettere in scena anche questo perché credo che possa riguardare anche altri genitori. Quella spinta, quel desiderio, quel sogno di normalità poi te lo porti dentro e laddove viene percepito come negazione di quello che tu sei come persona reale diventa un elemento di dolore, per Matteo ma penso anche per altre persone. Per me la cosa più difficile da mettere in scena sono a volte proprio le mie frasi più banali, quelle che apparentemente sembrano più normali quando, per esempio durante la festa di matrimonio lui a un certo punto ha uno scatto verso di me che gli ho detto di venire a ballare. Non gli ho chiesto niente di speciale. Ma lui, prima, per dire quei due versi di poesia a memoria, ha fatto una grande fatica, è la prima volta che l’ha fatto nella sua vita, ha trovato la forza di affrontare una festa, tante persone, tutti gli occhi concentrati su di lui ed è riuscito a dire una frase in qualche modo d’amore perché lui voleva molto bene a quei due sposi. Quindi lui aveva fatto già un grande sforzo per stare dentro la realtà e comunicare con gli altri e io gli ho chiesto qualcosa di più. Gli ho chiesto non se voleva ballare, ma gli ho chiesto di essere normale. C’è una grande violenza in quella frase. Per quello che ho potuto, ho cercato di tenere anche questa contraddittorietà dei miei comportamenti come genitore.
Normalmente il mio lavoro mi porta molto fuori: quando stai dentro un film, dentro alcuni personaggi, ti rapiscono emotivamente e per Matteo questa assenza così violenta è qualche cosa di inaccettabile tant’è vero che io ero giunto alla conclusione di non lavorare mai in sua presenza. Quando Matteo rientrava, smettevo di lavorare perché avevo l’impressione che ci fosse come una sorta di gelosia rispetto al lavoro. Aveva ragione lui: è vero che quando sto dentro una cosa, il cinema, che mi coinvolge molto, faccio una gran fatica a condividere altre cose, è un lavoro dove il coinvolgimento emotivo è sempre molto forte. Per una persona come Matteo che vive di un bisogno di comunicazione emotiva più che razionale, avvertire quella lontananza è qualche cosa di non tollerabile.
Questo documentario è un’esperienza conclusa, che sta dentro la nostra vita. Spesso mi chiedono se dopo quel film Matteo è cambiato, se è cambiato il nostro rapporto. In realtà credo che questo film sia stato possibile perché il rapporto era cambiato prima. Matteo non avrebbe potuto partecipare a questo film se dentro di sé non avesse avuto quella disponibilità a entrare con me in una relazione diversa. È vero che, dopo, il nostro rapporto è cambiato, ma non per il film ma perché il film stava già dentro un sentimento di possibile cambiamento.
Nel 1975 ho fatto un altro film documentario, Matti da slegare: è il primo lavoro che ho realizzato, mi sono avvicinato al cinema con un film che si occupava della malattia mentale, è stata un’esperienza importante a livello personale perché è stata lì la scoperta della malattia mentale, non avevo mai avuto esperienze di quel tipo. Raccontava la storia delle dimissioni dall’ospedale psichiatrico di Parma, dei primi tentativi di uscita dall’ospedale con la riforma Basaglia che era già nell’aria. Quell’esperienza è stata molto ricca, però mi ricordo che c’era una parte che mi mancava in quel film: eravamo riusciti a raccontare molto di quei personaggi e delle loro condizioni sociali che spiegavano in parte la loro emarginazione, la loro diversità, però non eravamo riusciti a entrare nel racconto della loro vita familiare, dei loro sentimenti più privati. C’era una difficoltà, un imbarazzo, è difficile poter dire che hai raccontato il sentimento della malattia mentale se lo racconti solo stando dall’altra parte. Per caso mi sono trovato nella condizione di poter fare Un silenzio particolare, non era stato affatto programmato, non avevo pensato a farlo ma poi è come se Matteo mi avesse cercato. Il legame fra Matti da slegare e Un silenzio particolare è forse questo fatto di aver potuto raccontare, questa volta dall’interno, quell’esperienza che prima avevo potuto filmare soltanto stando dall’altra parte.
In una scena del film, un giovane padre mette la sua bambina di pochi mesi in braccio a Matteo. Ho molto apprezzato e ammirato questo gesto, il coraggio di questo padre. Glielo riconosco con grande gratitudine, è molto importante che esista un clima, un gruppo di persone, una cultura per cui c’è qualcun’altro che fa quel passo che a volte tu non hai il coraggio di fare. Io non avrei mai potuto chiedere a un padre di mettere una bambina in braccio a Matteo. È stato lui che ha dato una lezione a me non solo di coraggio ma di fiducia in Matteo. Di quella situazione mi ricordo in particolare il coraggio del padre e poi Matteo con questa ragazzina che mi dava una certa apprensione fino a quando lui ha detto ridendo “Ma la butto?”.  Ecco, quando l’ha detto ridendo ho capito che poteva addirittura scherzare su quello che sentiva che mi passava nella testa. Quando lui mi legge nella testa un pensiero, mi guarda e me lo dice, forse io sono abbastanza prevedibile ma è come se vedesse il mio pensiero. La sensazione di tenere in mano quella vita era un po’ quello che Matteo ha provato a fare anche dopo, la sua vita con qualche fatica lui l’ha ripresa in mano. Adesso lui lavora, per quello che riesce, in una cooperativa che fornisce attrezzature all’ospedale, vive in una casa con degli amici, fa delle attività pomeridiane, ci vediamo una volta ogni quindici giorni, ci sentiamo per telefono, io abito in un’altra città adesso… Per cui questa sua vita un po’ tremolante se l’è abbastanza costruita.

Raccontare nel modo giusto una storia che riguarda la disabilità
Per raccontare nel modo giusto una storia che riguarda la disabilità, la cosa più difficile per me è cercare di raccontare queste persone come persone. Non è un gioco di parole: spesso la persona che ha dei problemi viene raccontata per i suoi problemi, non per il suo essere persona. Queste persone hanno delle caratteristiche che sono proprio loro, raccontarle come persone significa cogliere ciò che sono come persone. In questo film ognuna di queste persone ha qualcosa per cui tu te la ricordi, io spero non per la sua diversità. Quando Ugo parla del suo sentimento, della sua sofferenza d’amore mi dice qualcosa di così profondo che riguarda anche me cosiddetto normale. La ragazzina Down che racconta che è innamorata di un ragazzo che è innamorato di un’altra non me la ricordo perché ha la sindrome di Down, me la ricordo perché è una persona particolarmente profonda e coraggiosa rispetto ai suoi sentimenti. O quando quel poeta alla festa dice “io vorrei che mia madre fosse fiera di me”. Questo è stato anche il sogno della mia vita quando ho cominciato a scrivere la prima sceneggiatura o si leggeva il mio nome sul giornale… La cosa più difficile, la cosa che sarebbe opportuno fare anche quando si parla di persone con delle disabilità, è quella di raccontarle sempre come persone e non come casi, problemi da affrontare, da risolvere. Spesso, quell’esperienza che uno vive, quella sensibilità particolare che queste persone hanno, può anche comunicarci qualcosa che noi non capiamo o non sappiamo.

Un silenzio particolare

Il titolo del film nasce da una frase che dice Matteo a un certo punto, non ha un senso preciso, è come se quel silenzio che lui sogna sia il silenzio di quelle sue paure, di quelle sue ossessioni, è un sentimento di pace. Un silenzio particolare è quel silenzio non fuori ma dentro di te. Penso che sia un’aspirazione, un desiderio che non riguarda solo Matteo ma anche altri di noi.
Il rapporto fisico sta dentro quella disponibilità a vivere insieme delle emozioni; laddove le parole sono più difficili, i pensieri sono più difficili, i corpi sono importanti per capirsi, comunicarsi delle cose.
Quando tu racconti, scrivendo dei testi, il disagio mentale, la malattia mentale, sei tu che fai una sintesi di tutte le cose che sai, che hai letto, studiato, visto, poi le devi mettere dentro un racconto dove tu scegli i tempi, tu scegli quando quel personaggio esprime una crisi, scappa, torna, si innamora… Quindi è una scelta razionale, controlli tu il racconto, il personaggio, lo controlli sempre, anche se sta raccontando una persona che non si controlla. Ho girato questo film nello stesso periodo in cui ho scritto con Gianni Amelio e Sandro Petraglia il film Le chiavi di casa che è proprio la storia di un padre che rivede suo figlio malato, anche con un forte disagio psichico, dopo tanti anni, e cerca di stabilirci un rapporto. È stato veramente un caso sovrapporre quell’esperienza di scrittura di un personaggio, di una relazione tra un padre e un figlio con quei problemi, mentre giravo questo film.
La percezione diversa è che girando Un silenzio particolare io non potevo controllare niente, io non la sapevo la storia. Il montaggio è stato molto importante: ci sono trenta ore di materiale filmato e quando sono andato a vederlo, ho visto qualcosa che mentre giravo non solo non sapevo e non avevo previsto, ma non avevo neanche capito. Lì c’è stata un’esperienza più di apprendimento per me, mi sono guardato come un personaggio. Invece quando scrivi tu per il cinema, sei tu che decidi se mandare il personaggio di qua o di là, quindi c’è il pericolo di essere sempre un po’ schematici, a volte tu hai un’idea in testa, la vuoi realizzare e quindi in qualche modo la attui. Spesso il cinema è affascinato dalla pazzia, o dalla sua parte più spettacolare, drammatica o da una specie di mito un po’ bucolico per cui “matto è bello”. Invece penso che, proprio perché sono persone, ci sono dei momenti in cui i “matti” li ami da morire e altre volte non li sopporti, altre volte ti fanno male, ti fanno paura. Bisogna accettare che possono suscitare questi sentimenti come li può suscitare qualunque altra persona, non si capisce perché dovrebbe essere diverso.
L’altra cosa che non amo tanto nel cinema italiano è quando vedo delle immagini edulcorate delle persone che stanno male. Quando una persona sta male magari non è simpatica, ma non è una sua colpa, è una condizione, quindi se uno vuole rappresentarla nella sua realtà, appunto come persona non come santo né come fenomeno da baraccone, bisognerebbe raccontarla con questa complessità di forza, di poesia, però anche di dolore, dolore che può diventare qualcosa di difficile da vivere per chi ci sta insieme. Io parlo come genitore per l’esperienza che ho vissuto. Ognuno non se lo sceglie il suo destino, dentro questo percorso credo di vivere una vita molto ricca anche di conoscenze e di emozioni, a volte difficili da vivere: questo film mi ricorda momenti molto belli, alcune scoperte di Matteo molto emozionanti. Una volta Matteo disegnò una specie di cerchietto chiuso sulla parete e dato che lui non aveva mai fatto niente, non sapeva proprio scrivere, mi ricordo quel gesto lì come l’emozione che uno può avere se il figlio si laurea. Tutto è rapportato alla vita che tu hai, alla relazione che tu hai e quindi puoi vivere emozioni molto forti sia in positivo che in negativo. Questo può capitare nella vita di ogni genitore, avere un figlio che ti dà emozioni molto positive o molto dolorose.

Stefano Rulli
Stefano Rulli è nato a Roma nel 1949. Laureato in lettere con una tesi su neorealismo e critica cinematografica, nel 1975, assieme a Marco Bellocchio, Silvano Agosti e Sandro Petraglia, realizza il film-documento Matti da slegare, forse ancora oggi il più significativo documento filmato sul mondo della malattia mentale e sul perché fosse necessaria la legge Basaglia. Dopo aver contribuito alla crescita e all’affermazione di un certo cinema italiano, scrivendo (sempre insieme a Petraglia) sceneggiature come Il ladro di bambini, La meglio gioventù e Le chiavi di casa, Rulli torna dietro la macchina da presa, a trent’anni di distanza, sperimentando, stavolta in prima persona, che cosa significa vivere con qualcuno che, scomodo al cuore e alla ragione, viene da altri definito “matto”, per svelare il più intimo, personale rapporto che lo lega a Un silenzio particolare. Presentato nella sezione Cinema Digitale a Venezia 61, racconta del difficile rapporto tra Matteo e i suoi genitori, la scrittrice Clara Sereni e Rulli stesso.

4. Coltivare un figlio come un bonsai

Intervista a Daniela Rossi
Genitori e figli
Se penso al passato ricordo che la mia parte razionale ha impiegato molto a comprendere che Andrea era sordo. Un anno e due mesi, ma dentro di me direi che l’ho sempre saputo. Avvertivo impressioni, sensazioni rapide ma non affioravano alla ragione tanto da diventare un pensiero definito.
Se rivivessi la stessa esperienza oggi non starei così male perché conosco la sordità e so cosa significa essere la mamma di un bambino sordo. Certo mi dispiacerebbe ma non credo verserei una lacrima.
Ci sono addirittura aspetti della personalità di Andrea che in parte sono legati alla sordità e che io adoro. Questa difficoltà non è solo una cosa che toglie, è anche una cosa che dà, per esempio un’incredibile capacità di provare empatia, di comprendere gli stati d’animo di chiunque, di accorgersi della minima incongruenza tra quello che si dice e quello che si sente. Quando le parole si colgono con difficoltà c’è un maggiore e profondo investimento sulle espressioni del volto, su quello che esprime uno sguardo. Ho notato questa attitudine in mio figlio già quando aveva due anni. Se dicevo “Che bello” ma tra dieci pensieri ce n’era mezzo che forse così bello non era, lui immediatamente se ne accorgeva.
Ho avuto il grande vantaggio di poter trascorrere con lui molte ore, di non avere impegni che mi portassero via, quindi non c’è stato neanche un episodio di non comprensione tra me e lui. Quando vedo, e l’ho raccontato nel libro, certi film americani dove un bambino sordo indica la zuccheriera ed emette un suono e la madre che vive con lui da otto anni non riesce a capire che suo figlio vuole lo zucchero, mi sembra davvero strano anche perché tutti i bambini non parlano prima dell’anno ma le loro madri sono in grado di comprenderne i bisogni.
Andrea si è espresso a lungo anche con gesti inventati da lui. Erano facilmente comprensibili per tutti, gesti comuni che molti usano ma sottolineati in modo più colorito ed espressivo che li rendeva chiarissimi. Io li ho sempre accolti e utilizzati a mia volta fino a che, quando Andrea acquisiva prima un suono sostitutivo, poi le parole complete, decadevano spontaneamente. Mio figlio ha potuto quindi esprimersi in tutti i modi, con suoni, mimica facciale, gesti, nella massima libertà espressiva fino alla conquista del linguaggio.
A un bambino sordo, a un figlio sordo devi dedicare molta più attenzione, energia. Sarebbe auspicabile per tutti ma lo è soprattutto per le persone sorde dato che manca o è molto carente un canale importante d’informazione. Quando ad esempio facevamo una passeggiata ai giardini insieme al figlio udente di un’amica, lui tornava a casa con ore di chiacchiere ascoltate, con nomi di fiori, di piante, bambini e cose, mentre mio figlio imparava solo quello che io intendevo insegnargli quel giorno. Se mi fermavo e dicevo “petunia”, lui forse poteva ricordare “petunia”. È tutto un altro vivere quindi, un impegno fatto d’amore, avendo la possibilità di dedicarcisi. Penso che un buon modo per salvare veramente un figlio sordo, per offrirgli tutte le possibilità, è “coltivarlo” con attenzione e amore… Come un bonsai, con la massima cura, senza dargli l’idea che a lui manchi qualcosa, che sia carente. Aiutandolo a sviluppare le sue doti. Allora crescerlo ha il fascino di una vocazione, gli si offre una presenza molto calda, attenta, raffinata nel cogliere tante cose. Nessun terapeuta può fare questo lavoro. A scuola anche l’insegnante di sostegno può fare i salti mortali ma non riuscirà a fare quello che può fare un genitore.
Sia io che il padre di Andrea, di fronte alla proposta di un impianto cocleare, abbiamo detto immediatamente no. Quando il medico ha mostrato l’apparecchiatura e spiegato che il bambino avrebbe subito un’anestesia totale e un’operazione lunga ci siamo detti: in nessun caso possiamo metterlo su un tavolo operatorio a 14 mesi. Avevamo entrambi amici medici che ci hanno aiutato a capire, in base ai residui uditivi di Andrea, che l’intervento non era neppure necessario.
Altri amici hanno cominciato a insistere pesantemente perché gli insegnassimo il linguaggio dei segni. Io come mamma, come essere umano che ama la libertà e anche come psicologa, non lo ritenevo adeguato alle opportunità oggi accessibili alle persone sorde. Mi sono rifiutata di andare verso mio figlio con un linguaggio diverso da quello della sua famiglia e dei suoi amici prima di verificare le sue possibilità.

La storia in teatro, la storia in TV
Andrea non ha letto tutto il libro. Io non glielo ho imposto né suggerito. Ci sono stati momenti in cui era incuriosito, in cui ha voluto sapere di alcune situazioni, del “dottore cattivo” come lo chiama ancora adesso. Solo in quell’occasione ha letto qualche capitolo.
Ha visto invece lo spettacolo teatrale che è stata un’esperienza molto forte. Anna Rita, la protagonista, ha dato una carnalità, una corporeità a questa vicenda che ha avuto l’effetto di una bomba emotiva per tutti e soprattutto per me e Andrea che eravamo in prima fila. Lui ha visto tutto questo dolore e ne ha voluto di nuovo parlare con me. Gli ho spiegato ancora quella che è la verità: il dolore era legato alle modalità di comunicazione della diagnosi. Mi è stata data in un modo davvero disumano.
Dal mio libro è stato tratto anche uno sceneggiato per la RAI. Per esigenze televisive sono stati modificati alcuni particolari ma devo dire che come produzione è stato fatto il possibile. Purtroppo l’idea di partenza è che il pubblico televisivo, costituito anche da un’ampia fascia di persone molto anziane, non sia particolarmente colto o brillante quindi si tende a semplificare. Detto questo ci sono due o tre scene che valgono da sole tutto il film e di questo devo ringraziare la regista. Il film, la prima volta che è andato in onda, è stato visto da oltre 6 milioni di spettatori. Ci sono state poi due repliche. C’è una scena molto bella dei genitori storditi di fronte alla serie di esperti, che rende perfettamente l’esperienza vissuta da me e da molti altri: uno dice una cosa, l’altro ne dice una opposta. Un’infinità di ipotetiche soluzioni che vengono proposte mentre il bambino sfuma all’orizzonte, non è più centrale. È la sordità a diventare protagonista insieme a tutto ciò che si presume possa “risolverla”.

Gli incontri

Positivo è stato l’incontro con l’ingegnere che prepara gli apparecchi che da 14 anni utilizza mio figlio. È una persona sobria, preparata e franca. La prima che non ha cercato di forzarmi a seguire il suo credo, anzi mi ha detto “Non mi sento di assumermi la responsabilità di realizzare apparecchi per suo figlio” perché Andrea allora era molto piccolo e non aveva ancora imparato a parlare.
Ho dovuto insistere molto per ottenerli.
Era stato positivo anche l’incontro con l’unica associazione che ho frequentato: la Fiadda. Lì siamo stati accolti con un sorriso e con l’idea che ogni bambino sordo andasse considerato un bambino che, se seguito con amore e impegno, può fare tutto. Queste sono parole che in certi momenti ti salvano la vita e la salvano al bambino perché ripristinano una fiducia nel genitore, gli permettono di essere tale con tutte le sue energie.
Io sono stata una madre molto itinerante. Assurdamente ho avuto spesso problemi con le persone che avrebbero dovuto aiutare mio figlio proprio a causa dei suoi apparecchi ad alta tecnologia perché era il primo bambino in Italia a portarli, non li conosceva nessuno e per questo non erano accettati. Trovo che sia stata una grave mancanza di apertura mentale e di informazione. Erano apparecchi elaborati da ricercatori universitari, fatti controllare negli Stati Uniti, apparecchi prodotti da persone qualificate e io nel farli conoscere avrei dovuto essere rispettata. Invece a volte sono stata costretta a cambiare centro di riferimento e persino città.
C’è stata una chiusura che non esito a definire sospetta e giudizi negativi nei confronti degli apparecchi portati da mio figlio espressi da persone che, in una maniera o nell’altra, avevano interessi nel commercio di altre apparecchiature per non udenti
Mio figlio a un anno e due mesi ha avuta una diagnosi di sordità totale, assoluta, diagnosi che si è poi rivelata falsa grazie ad accertamenti successivi fatti negli ospedali di Ginevra, Losanna, Roma.
Sono tornata in quel primo centro quando Andrea aveva nove anni. A quel punto conoscevo bene la sua situazione uditiva e ho voluto fare questa prova, mi sono detta: adesso vediamo cosa dicono. Incredibilmente si è ripetuta la stessa scena: Andrea mi ha riferito di essersi trovato per circa tre minuti davanti a una decina di persone con il camice bianco che lo guardavano serie. Da questo incontro è uscito con una diagnosi di sordità profonda assoluta.
A Ginevra per dirmi quanto era sordo mio figlio l’hanno testato per tutto un pomeriggio. L’hanno portato a passeggiare, a mangiare, l’hanno fatto giocare con i trenini, con strumenti musicali; osservandolo e giocando con lui non indossavano il camice. Hanno persino ascoltato me e quello che avevo da dire senza preconcetti del tipo “la madre è troppo coinvolta”.

Le rappresentazioni
La famiglia, dopo la diagnosi, ha costituito a volte un problema. Questo proprio per il tipo di handicap che è la sordità. Tutto sommato se hai un figlio con un altro tipo di handicap la gamma delle possibilità nel recupero sembra più definita.
I ragazzi con la Trisomia 21, ad esempio, trent’anni o quarant’anni fa erano quasi tenuti nascosti, vestiti sciattamente, non stimolati. Adesso hanno forme di autonomia allora inimmaginabili e hanno dimostrato quello che possono fare, anche se un limite oggettivo, oltre un certo livello, esiste. La sordità è più complessa, oltre a essere l’handicap meno conosciuto dai genitori udenti, proprio perché è abbastanza raro e non si vede. È una difficoltà che ti può portare, l’ho visto conoscendo tante persone sorde, a vivere una vita normale oppure una di isolamento, malessere, gravi carenze. Ci sono tutte le possibilità ma bisogna guadagnarsele con impegno, cura e tante attenzioni. Il genitore deve essere molto presente ma capace di stimolare e accompagnare il figlio all’autonomia.
Penso che quello che manca oggi per comprendere il problema sia la parola dei ragazzi sordi. Tutto viene gestito dagli udenti: genitori udenti, medici udenti. Se invece il genitore è sordo, in un certo senso il figlio ha la strada facilitata ma il percorso dell’ENS è un’altra realtà. Oggi comunque, quando qualche genitore mi chiede informazioni rispondo: “Cercate persone sorde, adulti sordi, fatevelo raccontare da loro che cosa volevano da bambini, come si sentivano”.
Il bambino oggi è un po’ relegato nell’angolo, come se non esistesse più. Gli adulti e gli esperti si prendono le sue orecchie e le studiano, le portano in giro.

Daniela Rossi
Nata a Sanremo il 15 luglio 1957, giornalista pubblicista iscritta all’Albo dal 1986, laureata in Psicologia all’Università La Sapienza di Roma nel 1990, iscritta all’Albo degli Psicologi dal 1992. Dopo la collaborazione a quotidiani e riviste ha esordito con il romanzo Il mondo delle cose senza nome (Roma, Fazi editore, 2004, e in uscita per i Tascabili Bompiani nel 2010) pensato come una lettera d’amore al figlio in cui narra vicende personali e familiari riflettendo sulla fragilità dei rapporti, sulla fallibilità umana, sulla paura e il coraggio. Il libro, che ha vinto il Premio Anima 2005 per la Letteratura, è stato tradotto in lingua tedesca e coreana. Da questo romanzo è stato tratto il film Tutti i rumori del mondo prodotto da Fulvio e Paola Lucisano per RAI International Film, diretto da Tiziana Aristarco e interpretato da Elena Sofia Ricci, Stefano Pesce e Gioele Dix. Il mondo delle cose senza nome è anche il titolo della trasposizione teatrale del romanzo, prodotta dal Teatro dell’Opera di Roma con l’ensemble strumentale e il Corpo di Ballo dell’Opera. Protagonista è l’attrice Anna Rita Chierici, che ha elaborato l’adattamento per il quale è stata a sua volta vincitrice del Premio Anima 2008 per il Teatro.

3. Sono quello che sono perché lei mi ha trasformato

Intervista a Igor Salomone
La scrittura è un modo di esprimermi
Ho scritto a penna solo il mio primo libro poi trascritto pazientemente su una macchina elettrica ma da allora ho sempre usato il portatile. Non riesco a scrivere diversamente, penso con il portatile davanti, penso mentre scrivo.
Scrivo un po’ da sempre, mi è sempre piaciuto, ho pubblicato diversi libri, testi tecnici rivolti a un pubblico professionale; faccio il pedagogista e ho insegnato all’Università quindi i libri in qualche modo appartengono alla mia esperienza un po’ da sempre anche se primariamente sul versante professionale.
Con questo però il percorso è stato molto diverso. Un giorno, ho portato mia figlia a giocare con gli aerei. Io abito vicino a Linate e, assillato da un problema che si ha di solito con i figli, a maggior ragione se si hanno dei figli disabili, di che cosa proporle, di che cosa fare insieme a lei, mi son detto andiamo all’aeroporto lato atterraggio, andiamo a vedere gli aerei che atterrano. Mi hanno sempre affascinato, come credo che affascinino tutti i bambini, questi aggeggi pesanti che volano, che atterrano e ho inventato lì per lì con lei questo gioco del grattare la pancia agli aerei. Quando son tornato a casa, ho sentito il bisogno di  raccontarmi queste cose e ho cominciato a scrivere e lì è nato il primo capitolo.
Questo testo ha preso le prime mosse quindi in un modo molto diverso dalle altre cose che ho scritto, perché non c’era un progetto, non mi son messo lì dicendo adesso scrivo un libro, men che meno mi son messo lì dicendo adesso scrivo delle cose che poi pubblico, che invece è quello che avevo fatto in precedenza con gli altri miei lavori. Ho scritto perché sentivo il bisogno di scrivere.
Il professor Charmet nella presentazione di Milano ha detto che ci sono dei libri che urgono e questo è uno di quelli che urgono di essere scritti, premono. Questo ha premuto dentro di me prima ancora che sapessi o decidessi la possibilità di farlo diventare un libro. Più o meno a metà, ho cominciato a pensare a pubblicarlo, per cui tutte le motivazioni sono ricostruite a posteriori, a posteriori posso dire che ho avuto bisogno di scriverlo perché ho avuto bisogno di elaborare, di capire.
Scrivendo capisco molto di me, di quello che penso, di quello che faccio, di quello che desidero. Dopo ho capito di aver scritto perché avevo bisogno di mettere mano alla difficoltà della mia paternità, all’estremo disagio che avevo accumulato negli anni, non solo e non tanto per il fatto di avere una figlia disabile ma per l’aver smarrito completamente il ruolo paterno. Ho avuto bisogno di far affondare il più possibile questo nodo per poi riuscire a ripescarlo avendone qualche chiarezza in più.
Da quando è uscito Con occhi di padre, e ormai sono più di due anni, sto attraversando l’Italia parlandone e parlando attraverso il libro. Tutte le volte, devo compiere lo sforzo di trattenere il pedagogista, il teorico che è in me: io sono qui perché ho avuto un’esperienza di paternità di un certo tipo, perché su questo ci ho scritto e, certo, sono anche un pedagogista.
Cos’è cambiato? È cambiato tantissimo perché questi due anni sono stati segnati professionalmente e personalmente in modo profondo dall’esperienza della pubblicazione. Ho incontrato e sto incontrando centinaia di persone, sicuramente è un periodo di grande ascolto, di grande viaggio e comunque di crescita professionale e culturale. Stanno cambiando delle cose per me anche professionalmente.
Questo libro è stato un outing, è stato il momento in cui ho detto che, oltre a essere un formatore, sono un genitore che ha un figlio disabile. Voi potete immaginare le facce degli operatori con cui fino al giorno prima andavo a fare il consulente pedagogico. Non è stato semplicissimo perché di solito gli operatori con i formatori parlano male dei genitori perché si possono in qualche modo sfogare…
Devo dire che ora mi sento libero, adesso questa cosa è pubblica e mi ci devo misurare perché quando vado a parlare sono insieme un pedagogista ma anche un genitore e queste due parti non riesco più a tenerle separate, le devo far giocare insieme e sto imparando a fare questo intreccio necessario, importante, in cui parla la mia esperienza personale e la mia esperienza professionale senza che si fondano o si confondano, però ci sono entrambe.

Luna
Il fatto è che io dovevo riuscire a trovare una dimensione in cui prendermi cura di mia figlia che non fosse scimmiottare le cure di mia moglie. Bisogna tener conto che la madre di Luna è una madre con la emme maiuscola, di quelle con una capacità di cura straordinaria, di quelle che vedono sempre prima quello che tutto il resto del mondo non vede. La madre di Luna è una di quelle madri con una capacità di attenzione, di ascolto che è irraggiungibile; io ho dovuto convivere col fatto di non riuscire mai, dico mai, a capire in anticipo qualcosa rispetto a lei. Ho dovuto convivere con questa frustrazione perenne di fronte all’impossibilità di essere neanche la brutta copia delle sue capacità di cura e ho dovuto per forza chiedermi “Va beh ma io cosa devo fare? Qual è il mio compito?”.
Oggi si parla spesso della crisi della paternità ma questa crisi per me nasce anche dal fatto che sento che mi è stato chiesto come padre, indipendentemente dal fatto che mia figlia sia disabile, un impegno su un piano che fa fatica ad appartenermi.
Io sono figlio unico, non ho avuto cugini piccoli da curare, quando mi hanno messo mia figlia in braccio, da subito perché è nata in casa, credo di non essermi mai sentito tanto impacciato. È come se io da una parte non avessi alle spalle un bagaglio personale ma non c’era neanche il bagaglio culturale. Gli uomini non hanno da nessuna parte del mondo e della storia avuto un ruolo significativo nella vita di un bambino sotto i due anni. Ce lo stiamo inventando ma è una cosa recente, è una cosa di qualche decennio a esagerare, e allora il papà tiene il bambino e allora gli dà il biberon e allora lo tiene sul petto, addirittura prima che il bambino nasca cerca di immaginare di averlo nella pancia, e tocca la pancia… Ma son tutte invenzioni recenti e alle nostre latitudini. Fino a quarant’anni fa il padre per i bambini così piccoli era una figura assolutamente inesistente.
Poi i bambini crescono, allora cominci ad arrivare tu.
Crescono, ma se non crescono?
Quando una bambina ha cinque anni e urla ancora e tu non sai se ha sete, ha sonno, ha fame, le scappa la cacca, ha male da qualche parte, è incazzata, questo vuol dire attraversare un’esperienza che ti chiede costantemente un’attenzione al bisogno dell’altro, bisogno immediato, primario. È come se perpetuasse il rapporto con il neonato e questo oggettivamente rende difficoltosa da morire la possibilità che il tuo ruolo come padre trovi qualche spazio.
Dopo aver passato anni a sentirmi del tutto inutile oltre che impotente, ho cominciato a cercare un’altra strada che non fosse quella di fare il vice sostituto, male, di mia moglie ma che fosse quella di provare a capire di che cosa io potessi prendermi cura nell’esperienza di Luna. Non è un caso che questo libro inizi con quel gioco fatto all’aeroporto di Linate perché in quel momento io ho sperimentato qualcosa che istintivamente capivo poteva essere sulla strada giusta, ho sentito che mi si apriva la possibilità di prendermi cura non solo del corpo di Luna, dei suoi bisogni, delle sue fatiche, delle sue sofferenze.
Ho sentito che avevo bisogno di trovare la strada per prendermi cura delle possibilità che Luna incontrasse il mondo, che Luna avesse un ruolo, che potesse esplorare, che anche lei al suo livello di capacità e con la sua età potesse provare a entrare in contatto con il mondo e che io potessi portarcela. È da lì che è iniziato il mio processo di emersione dalla situazione; non è un caso che poi, un paio di anni dopo, sono ritornato lì in quel posto a grattare la pancia agli aerei a Linate, lato atterraggio e c’erano un sacco di padri con bambini che facevano la stessa cosa. Non credo che l’abbiano fatto perché mi han copiato ma perché evidentemente quella è una cosa da papà ed è la strada che sto ancora seguendo, esplorando, che sto ancora cercando di capire.
Del resto, scrivere questo racconto in sé è stato un atto paterno perché ha voluto dire rendere pubblico un mondo privato; potevo scriverlo e lasciarlo in un cassetto, ma pubblicarlo ha voluto dire ok mondo io ho avuto questo problema, io ho questo problema, io questo problema lo sto affrontando in questo modo, questo problema lo sto vivendo e mi sta creando queste difficoltà ma non è un problema solo mio. È un problema mio che io voglio narrare agli altri, che possa essere anche degli altri. Credo che questo sia un compito paterno e per lo meno la madre l’ha riconosciuto in modo straordinario e ha lasciato che lo facessi sostenendomi moltissimo.
La madre non avrebbe potuto scrivere un testo sul suo rapporto con Luna ed è stata ben contenta che l’abbia fatto io, parlando del mio rapporto con Luna.
La madre di Luna, oltre a essere una di quelle madri, come dicevo, con la emme maiuscola, è anche una madre leonessa. Racconto spesso questo aneddoto: nella parte di Milano dove abitiamo, una zona abbastanza centrale ma che fa ancora abbastanza quartiere, Luna è conosciuta da tutti. Mi capita sovente di girare per il quartiere e c’è gente, che io non ho la più pallida idea di chi sia, che saluta Luna. Al tempo stesso però quando Luna gira con me e quando Luna gira con sua madre succedono delle cose completamente diverse. Succede che quando gira con me le persone si avvicinano, quando gira con sua madre no. Non è facile avvicinarsi a Luna quando sua madre le è a fianco ma non perché lei ringhi o minacci di picchiare qualcuno ma perché si vede che lei è lì a protezione di Luna, che bisogna passare da lei per poter avvicinarsi a Luna, e poi è in grado di lanciare delle occhiate preventive assolutamente efficaci e bloccare interi eserciti perché questo è il compito che lei in qualche modo si è assunta nei confronti di sua figlia, proteggerla, proteggerla da tutte le minacce, proteggerla all’ultimo sangue. Quello che ha portato Luna al parco giochi sotto casa dove abbiamo conosciuto un sacco di gente, sono stato io. La madre quando gira cerca sempre di evitare i punti di massimo assembramento ma non perché la voglia nascondere. Sia io che lei siamo assolutamente fieri di nostra figlia, di come è fisicamente, di come si presenta, di quanto piace alle persone, la troviamo bellissima, quindi non è che abbiamo problemi di questo tipo, di impatto, ma lei tende a dire “State lontani da mia figlia, cos’è tutta questa confidenza?”. Non lo dice con le parole, lo dice con l’atteggiamento mentre io la lascio più andare, l’ho sempre lasciata andare verso le persone, verso le situazioni e questo vale anche per il racconto dell’esperienza.
La sua reazione iniziale al mio lavoro è stata molto ambivalente perché era forte e potente l’incontro con la scrittura anche perché forse erano le prime parole un po’ coerenti che riuscivo a dire, riusciva a vederle e vedeva me anche sotto un’altra prospettiva. Non sono riuscito a farmi dire il suo punto di vista su quello che scrivevo, lei diceva questa è una cosa bella, molto bella, ma è una cosa tua e io credo di non aver mai parlato di lei nel testo perché io non parlo di Luna ma del mio rapporto con Luna quindi è ovvio che parli di me. Credo sia arrivata proprio ad accettare esplicitamente che è stato il contributo particolare che io ho dato alla nostra esperienza di genitori quella di scrivere ciò che lei non avrebbe mai potuto scrivere.

Liberarsi dalle retoriche per poter capire
Credo di aver scritto queste pagine proprio perché avevo bisogno di capire che amore fosse il mio nei confronti di Luna. Sicuramente ho avuto bisogno di liberarmi da una serie di luoghi comuni, di retoriche. La disabilità è piena di retoriche e noi genitori di figli disabili ci nutriamo di retoriche. Io ho avuto bisogno di liberarmene nel senso che le sentivo strette.
Come molti genitori, ho frequentato anche le associazioni di genitori di figli disabili. Quando i bambini sono piccoli c’è la tendenza di andare a far parte delle associazioni non dei disabili in senso generico ma di quelli che hanno il problema di tua figlia. Questi luoghi dove i genitori che hanno i figli con lo stesso problema si incontrano talvolta tendono a diventare anche dei luoghi dove ce la raccontiamo un po’ su. Siccome l’esperienza è dura per tutti, quando ci troviamo abbiamo bisogno di farla diventare una cosa normale, tanto abbiamo tutti più o meno lo stesso problema. Ancora adesso facciamo gli incontri a Natale, prima dell’estate e sembriamo un gruppo di genitori che ha dei figli con problemi molto simili ma giochiamo a fare i normali che però hanno fatto un po’ di fatiche e che ci capiamo solo tra noi.
Una delle retoriche che gira è che, in fondo, è come se fossimo chiamati a compiere una missione. Quest’idea che si debba disperarsi perché siamo sfortunati o addirittura ritenersi in qualche modo assegnati di un compito da una qualche divinità perché siamo quelli eletti mi sembrano due strade prive di senso. Un figlio è come è, e ognuno si deve misurare con il “com’è” di suo figlio che può essere disabile ma anche no, che può non avere problemi poi magari a quattordici anni ha un incidente in motorino o sviluppa una sindrome psichiatrica. Forse una delle cose che è possibile imparare in un’esperienza di questo tipo è che la gerarchia delle sfighe non è così scontata, non è così ovvia, non c’è chi è più fortunato e chi lo è meno lungo una gerarchia che dipende dal tipo di dramma, non è così semplice paragonare tra loro le tragedie, non è così facile poter dire quale tragedia è più tragedia di un’altra tragedia.
Allora ho avuto bisogno di pensare radicalmente questa situazione, di liberarmi da molte retoriche per poter capire cosa voleva dire per me amare Luna, perché non potevo tollerare di amarla perché era disabile oppure non potevo neanche tollerare di amarla perché era mia figlia, nonostante fosse disabile. Credo di aver cominciato a sentirmi libero e quindi ho cominciato a capire con la pancia, con il cuore, con l’emozione, cosa volesse dire per me amare Luna quando ho cominciato a sentire che cosa lei mi permetteva di essere, che cosa la sua esistenza ha permesso a me di diventare, cosa il mio rapporto con lei ha fatto di me. E non era un destino, non credo che le cose siano scritte da qualche parte, poteva andare in un modo completamente diverso.
C’erano mille situazioni nella vita i cui bivi potevano portarmi altrove ma dal momento in cui Luna è nata si è creata questa possibilità che ho cercato di raccogliere. Io sento ora che ciò che mi lega a lei è esattamente ciò che lei ha fatto di me, ciò che la sua esistenza ha creato, trasformandomi. Faccio fatica adesso a pensarmi a prescindere da lei perché io sono quello che sono non solo perché sono qui ma sono quello che sono perché lei mi ha trasformato. E questo, è vero, non vale solo per chi ha un figlio disabile; questo credo che valga, che possa valere per chiunque abbia un figlio, se se lo permette.

Ridisegnare la socialità
Credo che avere un figlio disabile rimappi completamente le relazioni sociali. Succede anche nell’avere figli in generale, ma il figlio disabile dal punto di vista sociale è uno tsunami, è un terremoto pazzesco, fa letteralmente sparire all’orizzonte persone che non ti saresti mai aspettato sparissero, fa comportare altre persone in un modo assolutamente imprevedibile che ti costringe a farle sparire all’orizzonte; poi compaiono le persone più insospettate, più insospettabili con una capacità di esserci, di essere presenti che ti stupisce e tutto questo ridisegna completamente la socialità, in modo molto forte.
Su questo scoglio si sono infrante non tanto le persone ma le relazioni con alcune persone, si sono infrante amicizie pluridecennali ora scomparse. O perché sono scomparse realmente o appunto perché, come racconto, si sono permesse cose che non si dovevano permettere assolutamente di fare. Bisogna anche vedere in che momento della tua esperienza accade questo, ci sono momenti più drammatici, più tragici, momenti più difficili e lì tutte le relazioni sono immediatamente messe alla prova, pesantemente messe alla prova e molte non superano questa prova. Però, ripeto, la cosa importante è che altre compaiono magicamente, in modo inaspettato, nuovo. Questo dipende tanto dalle persone, dai genitori, ma dipende tanto anche dai figli. Noi abbiamo, questo sì, la fortuna di avere una bambina di una socialità assoluta, l’esatto opposto di un bambino autistico. Ogni tanto per scherzo mi vien da dire che se vendessi gli abbracci di Luna un tanto al minuto diventerei ricco perché ogni volta che qualcuno prende un abbraccio di Luna vedo un’espressione che parla da sola perché un abbraccio di Luna è talmente privo di qualsiasi doppio senso, di qualsiasi malizia, è talmente immediato, è talmente fresco, insomma è l’abbraccio che ognuno di noi vorrebbe avere e questo è anche una fortuna, perché Luna è assolutamente ricercata soprattutto dagli adulti e quindi questo non fa da ostacolo al fatto che ci siano delle persone che si vogliono avvicinare.

Il silenzio lo imparavo da lei
Io non sono un frequentatore di chiese, o meglio sono un frequentatore di chiese ma perché mi piacciono come posti, come luoghi, perché li ho sempre trovati carichi di energia ma non sono un frequentatore delle liturgie che ci sono nelle chiese, e mi ha sempre colpito come Luna, sin da piccola sembrava percepire l’atmosfera che c’era in una chiesa. Lei, quando vede un sagrato e dei gradini, mi tira verso la chiesa e non ha nel suo bagaglio di esperienze il fatto che io la porti in chiesa, ma quando andiamo in giro e vede una chiesa ci si infila e mi trascina e mi porta un po’ in giro poi arriva alle panche e si siede e io mi siedo vicino a lei e stiamo lì un po’. Lei sta in silenzio, guarda, osserva, ascolta, sembra più ascoltare per la verità.
Io sono curioso per natura e lei pure e devo dire che uno dei motivi per cui amo un sacco mia figlia è che mi incuriosisce, mi stupisce e la guardo e la osservo e cerco di capire che cosa fa, perché sta facendo certe cose, come mai appare così sensibile, così attenta. In certe situazioni, quello che emerge o almeno che mi ha colpito tantissimo è il guadagno, quel famoso guadagno difficile da vedere nella disabilità, cioè che cosa ti offre in più quella cosa che ti manca. A Luna manca il linguaggio, le manca proprio il linguaggio simbolico. Questo vuol dire che ha la testa libera. Noi siamo pieni di parole, io poi sono uno che col linguaggio ci ha vissuto, ne ha fatto una professione, faccio la meditazione la mattina per sgombrare la mente che è sempre piena di parole, di pensieri. Lei non ne ha bisogno, lei ha la testa sgombra e allora sente di più e riesce a percepire delle cose che io devo prima spegnermi per riuscire a percepirle.
Nel libro racconto di una visita alla chiesa di Sant’Eustorgio. Quella volta è stato potente perché abbiamo assistito a una messa, in filippino credo. A Milano, in diverse chiese si fanno messe per le varie comunità cattoliche nelle lingue d’origine, per cui ovviamente io non capivo niente. Già non è che sia un grande esperto di liturgia e per giunta era anche in una lingua straniera per cui non capivo niente io e non capiva niente lei, in termini di parole. Però l’atmosfera era talmente potente che io e mia figlia siamo rimasti seduti in fondo alla navata ad ascoltare un pezzo di messa in assoluto silenzio tutti e due, ma io il silenzio lo imparavo da lei. Ero preoccupato che lei facesse confusione ma in realtà lei stava in silenzio e grazie al fatto che lei stava in silenzio, stavo in silenzio anch’io. Io stavo in silenzio guardando e ascoltando il suo silenzio ed è stata un’esperienza fantastica, un’esperienza di grande spiritualità in cui non credo c’entri la fede ma la spiritualità, intesa come ciò che si riesce ad ascoltare quando si smette di parlare, quella dimensione dell’esistenza che, pieni di parole, rischiamo sempre di non cogliere.

Presidiare il futuro
E quindi il futuro. Qui c’entra la mia professione: chi si occupa di educazione se non ha un po’ di ottimismo può anche cambiare mestiere, però ci vuole anche molto ottimismo in certi momenti della vita individuale e collettiva.
Avere gli occhi puntati sul futuro fa male se non si vede niente né personalmente né socialmente, viviamo in un mondo difficile, un mondo estremamente precario, assolutamente instabile, che cosa sarà fra dieci anni chi lo sa… Poi tu hai un figlio disabile e il tuo futuro in qualche modo è già segnato… Io ho alcune certezze, per esempio sono sicuro che mia figlia non avrà problemi di droga anche perché dovrei iniettargliela io nel senso che non è fisicamente in grado di drogarsi, quindi non avrà problemi di droga. Non rischierà di ammazzarsi su un motorino perché il suo livello di autonomia è talmente basso che non correrà questi rischi. Però sicuramente non avrà figli.
Siccome Luna è figlia unica, io so già che non diventerò mai nonno, poi son figlio unico anch’io per cui non posso neanche essere zio, lei non ha cugini quindi è un futuro molto piccolo, molto ristretto, molto corto.
Il problema, per me come padre, è che anche se mia figlia mi sopravvive e mi sopravvive bene, avrà qualcuno che si prenderà cura di lei, che le vorrà bene, che le starà vicino fino speriamo a tardissima età, comunque il futuro finisce lì, non va oltre, finisce con lei e l’essenza dell’umano, come scrivo, è trasmettersi, ma trasmettere non vuol dire insegnare qualcosa a tuo figlio, vuol dire insegnare qualcosa a tuo figlio perché lo insegni a qualcun altro, questa è la trasmissione.
È la trasmissione attraverso le generazioni, ma io so già che la trasmissione attraverso le generazioni non ci sarà perché finirà lì e quindi con questa prospettiva io non dovrei credere nel futuro, non dovrei neanche dirmi che il mio ruolo come padre è avere uno sguardo sul futuro. Che poi è un futuro vicino, dove vai quest’estate, cosa facciamo quando avrà finito la scuola, dove la mandiamo, il futuro è con chi starà quando noi saremo vecchi e non ce la faremo più ma è un futuro piccolo, è un futuro angosciante e al tempo stesso estremamente piccolo.
E allora il trucco che ho cercato di elaborare e di mettere in pratica è che qualsiasi cosa succeda a me, alla madre di Luna e a Luna, per me quello che conta è di aver lasciato qualcosa a qualcuno, di aver lasciato qualcosa a lei certo, di aver lasciato qualcosa alla madre certo, ma di aver lasciato qualcosa a tutti quelli che ci incontrano, e allora lì il futuro c’è. Poi, il mondo va a rotoli, non lo so può darsi, non è nella mia giurisdizione, ma se il mondo non andrà a rotoli, se qualcosa della mia, della nostra esperienza con Luna resta attaccata all’esperienza di altre persone per me questa è una cosa importante ed è il mio modo di presidiare il futuro.

Igor Salomone
Nato il 18 ottobre del 1956, Igor Salomone è laureato in filosofia. Nel 1985 ha contribuito a fondare, a Milano, dove vive e lavora, lo Studio Dedalo, aprendo un profilo alto di consulenza pedagogica che ancora oggi segna i percorsi di molti professionisti dell’educazione. Docente universitario, ha insegnato dal 1999 al 2005 presso la milanese Facoltà di Scienze dell’Educazione.
Dopo diversi libri di taglio tecnico, scrive Con occhi di padre (Enna, Città Aperta Edizioni, 2006),  sulla sua esperienza di paternità con la figlia Luna. Molto più di un diario non segreto, il libro è forza, provocazione, divertimento, riscatto – anche – dello sguardo dei padri. È un testo nato durante le vacanze, quando l’esperienza dell’insegnante restava come ordito e quella dell’uomo diventato padre di Luna regalava la trama ai pensieri e agli sguardi.
Al libro ha dedicato un blog con questa motivazione: “Ogni libro parla a qualcuno. Anche Con occhi di padre, ultimo nato, per me prezioso e inesauribile. Incapace di esaurirsi, cioè, nell’esser stato scritto. Questo spazio è dedicato a chi, avendolo ascoltato, ha voglia di dire cosa ha sentito”.

2. Una fotografia, una vita

Intervista a Lesley McIntyre
La fotografia, le foto

Una delle cose più difficili da spiegare è quanto avere una bambina con il grado di disabilità che aveva Molly ha consumato il mio tempo. Circa i tre quarti delle foto stampate nel libro non le avevo mai viste prima della sua morte. Per me fare il libro è stato un viaggio emotivo, una scoperta emotiva.
Ho studiato come fotografa e ho praticato la professione di fotografa per circa otto/nove anni prima che nascesse Molly. Inevitabilmente, poiché la fotografia è la mia passione, non ho smesso di fotografare dopo la nascita di Molly ma ho continuato a farlo e il tema delle mie foto, del mio lavoro, è diventata la nostra vita domestica.

Scattavo queste foto che erano parte di me e nello stesso tempo erano un tentativo di dare un senso a quello che mi succedeva, era la mia passione ed era la dote che avevo prima che nascesse mia figlia. Ovviamente, non avevo idea che avrebbero costituito un libro. È stato un processo molto lento e il libro si è costruito durante diversi anni. La prima casa editrice cui mi sono rivolta è una grossa casa editrice che si chiama Randhom House e l’editor, dal primo momento in cui ha visto le foto che gli ho sottoposto, si è impegnato e ha deciso di pubblicare il libro. Il suo problema è stato come proporre questo tema al settore marketing della sua casa editrice. L’editor mi ha chiesto di scrivere qualcosa e quello che ho scritto è ciò che è realmente andato nell’introduzione del libro. È un tentativo di fare un libro che confonde le aspettative sulla disabilità, è un libro che ha una tendenza, un’attitudine verso la morte e la mortalità.

Il libro stesso è un’elegia a mia figlia, alla mia bambina. Se io fossi stata una poetessa avrei scritto un lungo poema, una lunga poesia, ma il mio dono, il mio talento è quello di essere una fotografa, quindi il libro è il prodotto di queste due gigantesche componenti della mia vita: la mia bambina e la fotografia, la possibilità che la fotografia offre di mostrare, di mettere a nudo l’essere umano. Sarebbe difficile descrivere con le parole la disabilità fisica di mia figlia in modo da darvi un’idea, un’immagine che vi restasse nella mente, mentre la fotografia rende il soggetto più tangibile e demistifica questo problema, anche se so che è un territorio difficile per molte persone.

Solo un quarto delle foto che sono nel libro le ho viste mentre Molly era in vita. Non avevo stampato le foto, non avevo tempo ed è per questo che prima ho detto che per me è stato un viaggio emotivo, di scoperta; poi a posteriori ho realizzato che avevo registrato una vita intera dall’inizio alla fine. Una fotografa, una vita. La fotografia è il dono che ho avuto, e Molly è stata la bambina che ho avuto, e questo è quanto.

Molly
È stato molto difficile perché ho avuto una bambina che sarebbe potuta morire molte volte e abbiamo vissuto con un’enorme intensità questa vita con Molly. Vivi con intensità quando sai che non puoi dare per scontata la vita. Nessuno sa quanto potrà durare la propria vita. Io abito territori difficili: la disabilità, il fatto che mia figlia, la mia unica figlia, sia morta, che io sia stata un genitore single per la maggior parte della vita di Molly… Ma nonostante tutti questi problemi che sono, credo, l’incubo di qualunque genitore, ho sentito che mia figlia mi ha insegnato tantissime cose.
A causa del grado di disabilità che mia figlia aveva, avevamo una relazione simbiotica, eravamo interdipendenti. Quando è morta, per me è stata una perdita enorme. Io non ho avuto una bambina che è passata attraverso i normali passaggi di separazione che un bambino fa dal proprio genitore ma, poiché io sapevo che lei sarebbe morta, ho veramente cercato di prepararmi al meglio. Ogni decisione l’ho presa cercando di pensare “Sto facendo la cosa giusta? Perché poi non voglio avere rimpianti, non voglio rimpiangerla”. Per essere onesta, come ce l’ho fatta, come ho resistito dopo la sua morte in alcuni giorni non lo so, non ne ho la più pallida idea ma quello che so è che amare qualcuno così profondamente, tanto quanto io ho amato lei, non significa morire dopo che lei è morta, che questo amore è capace di sostenermi dopo la sua morte.
È molto difficile per me spiegare. Molly e io ci volevamo molto bene, ci amavamo. Avevo una figlia che sapeva che aveva una madre ossessionata dalla qualità della luce. Diceva “Mamma, ferma la macchina, guarda laggiù, luce giusta!”. Per Molly una mamma con la macchina fotografica era la cosa più familiare.
La prima volta in cui ho avuto un incarico importante e lei era grande abbastanza per capire cosa ciò significasse, siamo andate dritte fuori a festeggiare in un ristorante italiano. Era una bambina buffa e filosofica, sapeva che stava morendo, era coraggiosa e, in un certo senso, lei mi ha insegnato tantissimo e io recentemente ho insegnato a mio padre a morire. Mi ha insegnato come stare vicino a qualcuno che sta morendo e poiché le persone muoiono in continuazione, ed è una cosa normale tanto quanto nascere, io penso che sia molto importante per le persone capire come dare aiuto nel momento finale della vita.
Penso che Molly non abbia saputo fino all’ultimo anno della sua vita di dover morire ma aveva un livello di realismo sulla sua fisicità: lei amava i bambini e ha sempre parlato della volontà di adottare dei bambini ma non ha mai parlato di sé dicendo “Quando io avrò un bambino”. Immagino che lei pensasse che sarebbe riuscita ad andare all’Università. Ha fatto un sacco di disegni sull’appartamento che avrebbe avuto quando fosse stata al college. Ma io penso che nell’ultimo mese lo sapesse… Lei era molto intelligente. Nessun dottore le diceva “Tu migliorerai” quindi lei non si aspettava di tornare di nuovo a scuola. Stava dimagrendo e ho chiesto ai dottori di non pesarla più perché lei sapeva che cosa significava e non c’era niente che lei potesse fare per evitare quello che stava accadendo. Io ho volontariamente portato fuori dall’ospedale mia figlia e l’ho curata a casa, così poteva fare quello che voleva, poteva invitare gli amici a dormire a casa, aveva un gatto, poteva fare quello che voleva ed è stata sempre completamente vigile. Le ho dato la buonanotte, il bacio della buonanotte, fino all’ultima sera: quella notte si è addormentata e non si è più svegliata, e per me quella è una buona morte.
Noi abbiamo trascorso tanto tempo negli ospedali, però Molly non ha mai avuto una diagnosi finale, precisa, ma era controllata, monitorata ogni anno. Non è stato come un’improvvisa disabilità, è stato graduale. Penso che se fosse cresciuta, attraverso la pubertà e l’adolescenza, sarebbe diventato molto più difficile. Era frustrata dal suo corpo, negli ultimi tempi, perché il suo corpo non le rispondeva più, non funzionava più. Era una bambina molto dotata, molto intelligente, amava andare a scuola e aveva voti alti in molte materie, amava la sua vita sociale… Semplicemente era –
fisicamente – non pienamente, completamente sana.
Molly voleva andare alla scuola d’arte per essere onesti. Penso che lei amasse il fatto che io lavoravo, che facevo questo lavoro e dato che io sono nel campo artistico ho degli amici artisti, attori, che scrivono commedie, giornalisti, pittori… Quindi erano tutte professioni che mia figlia conosceva. Quando era piccola, molto piccola, venne da me e mi disse molto seriamente “Dobbiamo accendere la televisione per vedere che cosa sta facendo il Governo”. Era molto coinvolta sui temi ambientali, aveva un amico che viveva in Croazia, durante la guerra nell’ex Jugoslavia. Prima che lei nascesse, sono stata molti anni in Africa, lei guardava le fotografie dei bambini in Ruanda…
La nostra era una casa con una tendenza alla visualità. Ho centinaia di disegni e di dipinti di Molly, lei era molto sicura di sé, poteva fare murales sulle pareti di casa. Vivere nella nostra casa era come lavorare in uno studio d’arte. Poteva usare qualunque materiale per dipingere, gessetto, pennelli, pennello da barba… Perché volevo che lei si sentisse durante la sua vita più realizzata possibile, pienamente conscia delle sue doti.
L’ironia è stata la mia scuola, probabilmente una buona scuola, un buon training, per avere a che fare con una bambina come Molly. Facevo delle grandi sculture come dei tepee, delle tende indiane, appendevo al muro pezzi di stoffa, campanellini, creavo un ambiente per incoraggiare questa bambina a muoversi perché all’inizio della sua vita non era molto interessata a vivere. Penso che nel reparto di terapia intensiva mi guardasse chiedendomi “Allora che cosa c’è di bello nel vivere?”. Io l’ho dovuta in parte convincere a godersi la vita.
In Galles ha incontrato un ragazzino che stava facendo campeggio sulla cima delle scogliere, aveva un fantastico cane nero, suonava la chitarra e cantava una canzone che si chiama The house of rising sun e non so come conoscesse le parole perché è una canzone di un’altra epoca. Insomma, si divertiva con degli amici maschi ma non aveva un boy friend particolare. I ragazzi la facevano ridere.
Ho cercato di usare quello che ho imparato attraverso la nostra vita insieme e a volte mi capita di parlare con delle infermiere che lavorano con bambini che muoiono, che sono molto malati. Lavoro in una Help line che ha sede a Londra che supporta i genitori che hanno perso i figli. Noi rivolgiamo il nostro aiuto non solo a genitori che hanno perso i figli per malattia, in ospedale, ma anche a chi ha perso i figli in battaglie, in guerra.
C’è una donna straordinaria in America, il suo nome è Elizabeth Kubler-Ross che dice “I bambini che stanno morendo sono alcuni dei nostri più grandi maestri”. Questo è quello che io ho provato per mia figlia. Io penso che sarò molto fortunata se mi capiterà di incontrare qualcun altro nella mia vita che mi possa insegnare tanto quanto mi ha insegnato lei.

Le mie “battaglie”
Ho dovuto combattere moltissime battaglie e ho speso molto del mio tempo sfidando le istituzioni per adeguare la legislazione governativa a favore dei bambini come Molly. Volevo che mia figlia andasse in una scuola normale come gli altri bambini e ho trascorso tantissimo tempo lavorando con un avvocato, raccogliendo delle prove, e quello era il mio impegno principale così come essere un genitore.
Molly è riuscita ad andare in una scuola normale, ho dovuto combattere, ho affrontato un processo legale per ottenerlo. Nel Regno Unito è molto difficile: è facile per quanto riguarda la scuola elementare mentre è molto più difficile per quella che è la nostra scuola media, io ho fatto causa e l’ho vinta. Così per due anni lei è andata alla sua scuola pubblica e ha avuto un tempo meraviglioso. Io ho cercato di renderla il più possibile indipendente da me. Prima dell’avvento dei cellulari avevo un cicalino come i medici per poter essere contattata per qualsiasi emergenza. Questo le ha dato la libertà di essere separata da me e questo ha significato che lei era molto sicura di sé a livello della sua vita sociale.
Molly ha fatto delle interviste alla BBC, la televisione britannica, raccontando la lotta che ha fatto per sé ma anche per altri bambini come lei. Ne ho parlato con lei, abbiamo discusso e quando le ho spiegato il motivo del caso legale che affrontavamo, lei è stata d’accordo con le interviste e quindi le ha concesse, ma quando si è stancata non ne ha fatte più e ho dovuto parlare io, si annoiava. Io penso che la sua esperienza alla scuola media sia stata assolutamente fondamentale per come lei ha goduto la sua vita, per come l’ha affrontata. Per me è stata la battaglia più dura da combattere ma non ho mai dubitato dell’importanza di questa battaglia.
Lo stato mi dava un contributo, non molto. Io e Molly abbiamo vissuto in Norvegia per due anni perché il padre di Molly è norvegese e il sistema assistenziale in Norvegia era sostanzialmente più realistico rispetto a quello britannico. Pensiamo a tutte le spese in più che si creano quando si vive con una persona disabile e al fatto che io facevo molta fatica a lavorare… Però bisogna considerare che la Norvegia ha il Pil pro capite più alto in Europa e una popolazione molto ridotta quindi loro si possono permettere questo tipo di aiuto materiale. Ma in Norvegia il mio matrimonio è fallito e quindi ho lasciato la Norvegia come genitore single e sono ritornata nel Regno Unito. Una delle ragioni è che sapevo che avrei dovuto combattere per mia figlia e l’unica lingua che parlo è l’inglese e siccome dovevo parlare per lei…
Una delle ragioni per cui ho lottato così duramente è che sentivo che Molly veniva punita per la sua mappatura genetica e nessuno, nessuno, è responsabile per il proprio corredo genetico. E questo è quello che mi ha mandato avanti.

Il film
Benedetto: Io ho conosciuto Lesley in una maniera molto strana, tramite un articolo di giornale, esattamente “la Repubblica” nell’inserto domenicale di qualche anno fa in cui un articolo di Conchita De Gregorio parlava di questo libro (libro che è stampato, al di là dell’Inghilterra, soltanto in Italia dalla casa editrice Contrasto, specializzata in lavori di carattere fotografico).
Questo articolo, due pagine complete, fitte, corredate da alcune fotografie, raccontava in maniera molto esaustiva e molto intensa la storia di Molly e Lesley, riportando anche alcune frasi che si trovano nel libro. La cosa mi ha affascinato moltissimo, allora ho comperato il libro che mi è piaciuto ancora di più e mi sono messo in contatto con la casa editrice. E lì sono successi alcuni piccoli miracoli che normalmente non succedono. Alla mia richiesta la casa editrice ha risposto dopo un giorno. Io dicevo “Sentite ho apprezzato molto il vostro libro, vorrei mettermi in contatto con Lesley perché io faccio documentari e mi piacerebbe fare un documentario della sua storia”. Mi hanno risposto dicendo “Non le possiamo dare l’indirizzo di Lesley ovviamente, ma ci scriva una lettera e noi gliela inoltriamo e poi sarà lei, se vuole, a mettersi in contatto, a risponderle”. E allora c’è stato il secondo miracolo: Lesley mi ha risposto dopo un giorno ringraziandomi dei complimenti che le facevo (con la sua garbata ironia mi ha detto “Credo bene che ti sia piaciuto, mi ha richiesto vent’anni di vita, spero che ci sia un po’ di profondità in questo lavoro”) e ha accettato di incontrarmi. Il primo giorno che ci siamo visti ci siamo incontrati verso mezzogiorno e ci siamo salutati a mezzanotte, parlando, filmando, girando per Londra…

Lesley:  È strano perché sono circa dieci anni che mia figlia è morta e ogni occasione in cui ne parlo è diversa dalle altre, leggermente diversa. Il film è il lavoro di Benedetto e la ragione per cui ci siamo incontrati è stato una parte del lavoro che ho fatto dopo che è morta mia figlia, che è il libro The time of her life. Quando ci siamo incontrati, ci siamo seduti e abbiamo chiacchierato, discusso, parlato per un giorno intero. La qualità delle domande, il modo in cui comunicavamo, mi faceva sentire sicura e poiché la morte infantile, la morte di un bambino, è un argomento così difficile, ho pensato che potevo provare ad articolare alcune mie emozioni, che potevano riguardare anche altri genitori. Questa è una delle situazioni di maggiore solitudine in cui ci si possa mai trovare ed è anche per questo che ho iniziato a lavorare in una Help line perché i genitori si sentono veramente isolati, come se nessuno comprendesse il loro modo di essere, il loro sentire. Così ho pensato di provare a parlare di questo tema con due persone che avevo incontrato e di cui mi fidavo. Sembra ridicolo ma allo stesso tempo facendo questo lavoro ci siamo molti divertiti.

Benedetto Parisi
Nato a Lecce nel 1945, laureato in Giurisprudenza a Roma, da molti anni vive a Udine dove mette la sua passione e il suo talento di regista a disposizione di temi a carattere sociale. Le sue opere precedenti sono state selezionate a numerosi Festival, tra le quali ricordiamo Integrazione (1998), selezionato al Sacher Festival di Roma e al Torino Film Festival, e Figure di un Mondo Scomparso (2004) selezionato al Festival Alpe Adria e ad Anteprima del cinema indipendente di Bellaria. Da molti anni tiene laboratori e corsi sul linguaggio e la tecnica cinematografica presso scuole, enti pubblici e istituzioni culturali, collaborando in maniera continuativa con il Centro Espressioni Cinematografiche di Udine. Il documentario The time of her life (2007) è stato selezionato alla Rassegna del documentario italiano, al Premio Libero Bizzari 2007 e a Visioni Italiane, Bologna 2008. Ha ricevuto il premio come miglior documentario alla Festa del documentario di Siena “Hai visto mai” 2008, con la seguente motivazione: “È un piccolo film che racconta il dolore, la perdita, la memoria con dolce, profonda, straordinaria serenità e vitalità”.
Il film è reperibile presso l’autore: benepa14@libero.it, tel. 0432/50.91.70.

Lesley McIntyre
Lesley McIntyre, diplomata al Royal College of Art di Londra, lavora come fotografa documentarista. Tra i suoi progetti, uno sulla ricostruzione rurale nei primi anni dell’indipendenza dello Zimbabwe e uno sulle proteste contro l’installazione dei missili a Greenham Common, oltre a vari servizi teatrali tra cui uno per la Royal Court. Negli ultimi anni si è battuta per l’inserimento dei bambini disabili nelle normali classi della scuola pubblica. Il tempo di una vita (edizione italiana, Roma, Contrasto, 2004) è il suo primo libro. Quando Molly, la figlia di Lesley McIntyre, nasce a Londra nel 1984, i medici le diagnosticano una grave anomalia muscolare. Sono convinti che vivrà molto poco e che non potrà mai essere dimessa dall’ospedale. Invece la bambina riesce ad andare a casa e a vivere fino ai quattordici anni. Sarà pienamente consapevole del suo stato per gran parte della sua vita.
Lesley McIntyre ha fotografato sua figlia come una madre qualunque, scattando le prime foto poco dopo la nascita della bambina e le ultime qualche giorno prima che morisse nella sua casa, ma le straordinarie immagini e la precarietà della vita di Molly fanno di questo libro una narrazione estremamente densa di significato.

1. Introduzione

“Ma se l’esperienza si elabora attraverso il racconto, e il racconto ha bisogno di un destinatario, ne consegue che elaborare la mia propria esperienza non dipende solo da me. Dipende dall’esistenza di una comunità fatta di narratori e di destinatari”.
(Paolo Jedlowski, Il racconto come dimora. Heimat e le memorie d’Europa, Torino, Bollati Boringhieri, 2009)

“Il tempo delle nostre vite. Quattro incontri sull’esperienza dei padri e delle madri per un sapere condiviso ”, è il titolo che abbiamo scelto di dare all’iniziativa che nelle pagine di questo numero di “HP-Accaparlante” viene raccontata attraverso le parole dei protagonisti, la loro voce opportunamente adattata a una versione scritta.
La scelta di questo titolo rivela almeno in parte alcune delle considerazioni che ne hanno segnato la preparazione.
Come già abbiamo avuto occasione di sottolineare “l’esperienza del Centro di Documentazione Handicap è stata fin dai suoi inizi caratterizzata dall’attenzione alla raccolta e all’organizzazione di testi prodotti da persone disabili e da familiari, iscrivibili quindi al filone delle autobiografie e delle testimonianze narrative”
Questa attenzione costante per tentare di connettere le piste di studio e approfondimento sulla disabilità originate dal versante accademico e tecnico con quelle nate dalla rielaborazione dell’esperienza personale, nella logica di superare contrapposizioni arricchendo la conoscenza delle realtà attraverso la compresenza di più approcci e punti di vista.
A questa prospettiva di sfondo si è accompagnata nel tempo la volontà di realizzare occasioni dirette, vive, di racconto, ascolto, condivisione di storie.
“Il tempo delle nostre vite” è stata una di queste preziose occasioni.
L’occasione/la possibilità di incontrare una storia dove è presente la disabilità.
Incontrare una madre, un padre, la relazione con il proprio figlio, con la propria figlia, attraverso il ritmo di un racconto che si dipana tra l’avvicendarsi dei giorni quotidiani, le scelte e le direzioni che la vita pone e spesso impone.
Ha significato poter incontrare genitori che hanno scelto di dare visibilità alla propria vicenda, che hanno voluto, per certi versi anche dovuto, riprendere contatto con la materia incandescente, difficile, vitale delle storie per rielaborarla attraverso la scelta di ciò che si desidera offrire di sé a chi è al di fuori rendendola sapere comunicabile.
La rielaborazione è un processo che mette tempo e spazio tra ciò che si vive e ciò che di quell’esperienza fluida e magmatica si deposita nella memoria e nella storia della persona; impone una distanza che ha bisogno, poi, di trovare uno strumento di comunicazione che la possa far uscire da sé.
Ne “Il tempo delle nostre vite” gli strumenti di espressione che i nostri ospiti hanno utilizzato per raccontare sono stati diversificati: i libri, la fotografia, i film.
Scelte queste fortemente legate al percorso biografico di ognuno di loro, espressione dei talenti personali e anche filo di continuità tra il prima e il dopo l’arrivo dei figli, tra il ruolo genitoriale e la vocazione e competenza professionale.
Sono quindi storie, quelle che abbiamo ascoltato durante gli incontri, che si situano in quel versante dell’universo narrativo che possiamo dire della testimonianza, esprimendo in questi casi una grande capacità di portare con sé un valore sociale. La loro forza però, a nostro avviso, va oltre questa specifica funzione per attingere a un’attitudine narrativa potente che le fa emergere con grande qualità e capacità di raggiungere chi ascolta, legge o guarda.
Sono quindi racconti a tutto tondo che, lontanissimi dalla tentazione di ammaestramento, parlano a noi e narrano dei percorsi umani attraverso cui si costruiscono legami e si cerca di tornare a flettersi, riflettere, su ciò che ci è dato vivere.
Mai storie dunque che si ergono a modello, ma ricerca di senso, appunto, dentro cui sta anche l’unicità delle situazioni, non categorizzabili, la comunanza possibile, la consapevolezza degli snodi che la vita chiama tutti ad affrontare.
Ancora, storie che rimangono tenacemente attaccate al proprio specifico, ai tratti singolari e mai del tutto svelati che racchiudono il mistero enigmatico di ogni esistenza.
È proprio non tradendo questo segno personale che crediamo sia stato possibile sperimentare durante il tempo di questi incontri una dimensione di comunità, seppur temporanea, oggi non abituale, quasi che l’interesse delle persone, uscite dalla propria casa quelle sere per venire ad ascoltare le storie di altri, si sia poi in modo reciproco reso disponibile a condividere
i propri racconti, ricordi o almeno pezzetti di essi, portando a un dialogo intenso, per il quale ancora una volta ci sentiamo di esprimere la nostra gratitudine.

“La differenza la fa l’esperienza”: la parola all’Assessore del Comune ospitante
Proviamo a rimescolare un po’ le carte e a metter i padri e le madri in cattedra… Sì in cattedra: dispensatori di saperi derivati dall’esperienza, ahimè spesso troppo tremendamente maestra di vita, e consultiamoli… facendoli anche docere.
Nel mio primo mandato da Assessore (2004–09) ho cercato di impostare i presupposti di questo percorso, anche mediante l’istituzione della Consulta Comunale per il Superamento dell’Handicap, l’apertura dello sportello Informahandicap con uno “Spazio Risorse” che potesse fornire argomenti documenti e sostegno ai cittadini diversamente abili, ai familiari, alle istituzioni compresi gli operatori del settore.
A cavallo tra il vecchio e il nuovo mandato amministrativo (2009 –2014) si è felicemente inserita la proposta di questa rassegna che ci fa riflettere su come, a parità di strumenti, dati e opportunità, la differenza la fa proprio l’esperienza, la relazione, il rapporto di sperata reciprocità a volte vissuto nel dubbio e nella tremebonda incertezza che l’altro (tuo figlio disabile, il tuo compagno, il mondo) siano in grado di comprenderti, di accendere la spina della connessione relazionale con te, comunque intesa.
Allora le Istituzioni studiano il libro della vita di queste persone e umilissimamente imparano condividendo. Sì perché quello che resta e conta è la condivisione attenta e disponibile. Fare da nave scuola per altri, magari non percependolo…
Questa è la sfida degli uomini e delle donne che si sono cimentati nell’avventura di scrivere, riprendere, fotografare, sceneggiare la loro eccezionale storia (in tutte le accezioni del termine).
Un abbraccio grato a Igor “Qualsiasi cosa possano dire queste pagine a chi le leggerà, in fondo, spero riescano a dire dagli occhi del padre che le ha scritte, che uno sguardo che impara è uno sguardo che insegna”; a Lesley “È una storia che trascende tutte le barriere di razza, classe e genere. Qualunque famiglia, in qualunque momento e in qualunque luogo, può trovarsi di fronte alla realtà della disabilità. Spero che, giungendo al punto del volume in cui l’invalidità di Molly appare con tutta la sua evidenza, il lettore si sia già affezionato alla persona contenuta in un involucro tanto delicato”; a Stefano “Scoprire in prima persona che cosa significa vivere con qualcuno che, scomodo al cuore e alla ragione, viene da altri definito ‘matto’”; a Daniela “Nonostante le incertezze scommetto su di te e credo tu possa avere tutto, l’infanzia più serena possibile e la vita adulta che sboccerà”.
Un grazie particolarissimo all’amica Dott.ssa Piera Carlini, compagna dalla prima ora, Responsabile del Servizio Integrazione Sociale Minori del Comune di San Lazzaro.
A tutti gli amici della cooperativa Accaparlante, che hanno pensato, proposto e sostenuto questa esperienza sanlazzarese, va la mia richiesta di proseguire l’impresa iniziata nel lavorare insieme che ha portato, tra l’altro, tanta fraternità e competenza.
Continuiamo a faticare insieme perché il percorso fatto si consolidi e diventi vita condivisa.
Lasciando ciascuno alla lettura e alla meditazione del materiale prezioso, auspico che il percorso di condivisione intrapreso continui, estendendosi anche ai lettori, a vario titolo, della rivista, ai quali chiedo, se lo ritengono, di avviare un dialogo- confronto “Da San Lazzaro di Savena al… Mondo”, per la vita piena della nostra gente.

Maria Cristina Baldacci
Assessore alla Qualità della Salute, Diversabilità e Politiche per la Famiglia
mc.baldacci@comune.sanlazzaro.bo.it

Caro Giuseppe ti scrivo… Superabile, Maggio 2012

Caro Giuseppe,

il 2 Giugno si avvicina e così ci accingiamo a festeggiare la nostra Repubblica che tu hai contribuito a costruire, prima come partigiano, poi come membro dell’Assemblea Costituente. Grazie a te (e a quelli come te) abbiamo un pilastro, un punto di riferimento al quale rimanere attaccati anche in momenti di crisi come quello che stiamo vivendo ora. Come sai bene, proprio in questo periodo, ci sono stati molti terremoti (non parlo solo di sismologia…) che hanno minato le basi della nostra democrazia e dei nostri muri domestici. L’attentato di Brindisi e il terremoto in Emilia, sarebbero già sufficienti per annullare questa festa. E invece no.

No, perché ho riletto alcuni articoli della nostra Costituzione e sono sempre convinto che sia la migliore del mondo, base dell’integrazione sociale. No, perché c’è chi ha dato la vita per creare questo grande sogno e tu, caro Giuseppe, lo hai vissuto in prima persona. No, perché questa festa ci ricorda anche il suffragio universale, ovvero ci rammenta che grazie alle vostre battaglie possiamo avere voce in capitolo e partecipare attivamente alla vita democratica. No, perché grazie alla nostra Costituzione la disabilità acquista un’identità e comincia ad approcciarsi verso pari diritti e opportunità. Non è un caso quindi che il Centro Documentazione Handicap decida di festeggiare i suoi trent’anni insieme alla Festa della Repubblica il 2 Giugno. Un modo per non dimenticare e dire piuttosto nuovamente sì, con forza e con vigore, ai diritti conquistati che oggi più che mai ci sembra necessario continuare a trasmettere. Così cita il primo articolo della Costituzione "L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro" e noi da trent’anni lavoriamo per fornire una diversa visione culturale, una prospettiva di inclusione. Proprio come auspicavi tu, caro Giuseppe. Vi aspettiamo per festeggiare insieme a noi.

Scrivete a claudio@accaparlante.it o sul mio profilo facebook.

Claudio Imprudente

 

La pedagogista Littizzetto, Superabile, Maggio 2012

Che bello vedere la televisione a letto, specialmente quando sei stanco! Il problema è che non sempre è semplice trovare qualcosa di piacevole e sano… Per fortuna Fabio Fazio è passato a la7 e ha portato con sé Roberto Saviano e Luciana Litizzetto in una nuova trasmissione dal titolo Quello che (non) ho. Già dal titolo, oltre a ricordarmi subito di Fabrizio De Andrè, ho intuito che non si sarebbe trattata della solita trasmissione "sciacquacervelli" in prima serata…Martedì 15 Maggio mi sono infatti imbattuto con grande piacere nel monologo di Lucianina, questa volta incentrato, senza peli sulla lingua, sulla parola "stronzo". Un monologo che ha fatto un record di ascolti, in cui qualcuno ha avuto finalmente il coraggio di parlare apertamente del buonismo, delle ipocrisie e dei pregiudizi che ancora circondano le persone con disabilità.

Non ho mai sentito in televisione un intervento così ironico, spietato e onesto sul tema dell’handicap. Sembrava quasi un mio discorso! Spunto dello show è stato il triste caso di Cerrie Burnell, conduttrice televisiva di un programma per bambini della BBC, attaccata dai genitori dei piccoli spettatori perché con un solo braccio e quindi, secondo loro, spaventosa agli occhi dei figli.

Peccato che, come ci dice Lucianina, "i bambini fin da piccoli sono capaci di accettare la disabilità con leggerezza. Il problema, piuttosto, è degli adulti". Il fatto è che, continua la Litizzetto, i presentatori con l’handicap di solito non li vogliamo, così come le babysitter straniere… Scelte, queste, mi sento di aggiungere, che non appartengono solo allo show business ma che incontriamo ogni giorno nella nostra quotidianità, a partire proprio dagli ambienti educativi e dalla scuola. Il rischio del pietismo, tanto per cominciare, è sempre in agguato proprio come, con estrema lucidità, prosegue la comica torinese: "Il compagno di scuola down? Che tenerezza! Ma meglio non invitarlo alle feste di compleanno se no, poverino, si sente a disagio!".

In poche parole e nel giro di cinque minuti, ve lo garantisco, è stato compiuto con queste affermazioni un salto culturale che in trent’anni non mi era ancora capitato di vedere, di certo non in prima serata. L’apice del salto, a mio parere, è stato quando con forte provocazione l’artista ha affermato: "Perché non ce la prendiamo con una deformazione volontaria? Perché una con le tette che sembrano la cupola di San Pietro rientra nel concetto di normalità e una persona senza braccio no? Non si capisce!" È vero, Lucianina, proprio non si capisce perché ci ostiniamo a considerare normale un’idea di perfezione imposta dall’alto, dalla pubblicità, dai media ma anche dai nostri luoghi comuni. Senza saperlo sei riuscita a regalarci una bella lezione di pedagogia. E voi, avete visto la trasmissione? Scrivete le vostre impressioni a claudio@accaparlante.it o sulla mia pagina facebook.

Claudio Imprudente

Cervello accessibile? Sì, grazie, Superabile, Maggio 2012

"Certamente si può definire ‘di moda’ – o per lo meno si auspica che diventi sempre più tale – quell’accessibilità intesa come un piccolo scivolo che rende percorribili alcuni gradini. Molto meno di moda, invece, è il pensare in maniera accessibile e magari agire di conseguenza, dando cioè accesso ai diritti, alle necessità e forse anche ai desideri di tutti". Non avrei mai creduto che questa bellissima frase del mio amico Giorgio Genta, presidente dell’ABC (Associazione bambini cerebrolesi) Liguria, mi avrebbe coinvolto tanto da accettare di far parte della giuria che valuterà le opere del concorso "Cervello accessibile". Dietro il progetto c’è un’intuizione davvero originale e innovativa: utilizzare la creatività con un nuovo obiettivo, aprire un diverso punto di vista sul mondo della disabilità per modificarne l’immagine. Creare un differente orizzonte culturale è un’idea che mi ha sempre affascinato molto, parte fondamentale in tutto il mio percorso professionale, prima come formatore e poi come scrittore.

Il concorso è organizzato dal CRIBA (Centro Regionale di Informazione sul Benessere Ambientale) ed è aperto alle classi prime, seconde e terze del corso di grafica della "Scuola internazionale di Comics" di Reggio Emilia. I lavori dei ragazzi sono già visibili sul sito ufficiale di "Cervello accessibile" e hanno chiaramente l’intento di mostrare tramite la comunicazione una visione "diversa" della disabilità. Questo fine settimana presso il famoso quartiere fieristico di Bologna si terrà l’evento Expo Sanità 2012 (16-19 maggio), all’interno vi sarà lo stand del CRIBA dove sarà possibile osservare in anteprima questi lavori dal vivo, in attesa della mostra ufficiale che partirà da fine giugno. Io sicuramente farò un salto, per curiosare e verificare di persona le qualità di questi giovani artisti! Appuntamento dunque all’Expo, diamo fiducia alla creatività, un’arma non convenzionale che può salvare questo mondo!

Scrivete a claudio@accaparlante.it o sulla mia pagina facebook.

Claudio Imprudente