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Autore: admin

Il servizio di assistenza domiciliare: la voce degli operatori

di Giovanna Di Pasquale e Luca Baldassarre

Servizi, Fascino, Cura, Esperienza, Gratificazione, Sollievo, Alleviare, Missione, Indipendenza, Autonomia, Aiuto, Benessere, Identità, Crescita reciproca, Passione, Conoscenza: queste le parole che danno significato al lavoro.
Gli operatori seduti in cerchio ascoltano e raccontano, dal loro punto di vista, il servizio di assistenza domiciliare così necessario, prezioso e nascosto. Provano con una parola per ciascuno a definire il senso più forte del loro mestiere, si costruisce così una lista che tocca vari registri del lavoro.
In questo primo giro di parole troviamo una ricerca di significato rispetto all’agire quotidiano. Questa ricerca per alcuni va verso una definizione di obiettivi possibili per la persona disabile, destinatario primo dell’intervento – promozione di autonomia e indipendenza, aumento delle situazioni di benessere – mentre per altri si dilata a un’idea di aiuto più ampio che comprende l’intero contesto familiare verso cui si cerca di dare sollievo e di alleviare le fatiche.
Ancora, altre parole scelte (fascino, esperienza, gratificazione, crescita reciproca, passione, conoscenza) mettono in primo piano la centralità del concetto di cura educativa, una cura cioè che non è né esclusivamente tecnica né una teoria di cui impadronirsi, ma è una relazione, un atteggiamento personale e contemporaneamente un fare che si impara facendo.

Quale idea di cura
Dalle parole degli educatori è possibile, quindi, entrare in modo più preciso dentro l’idea di cura che sostiene il loro ruolo e orienta le azioni nella quotidianità.
Sono parole che concretizzano alcuni dei significati che molti studiosi hanno privilegiato nel tentativo di dare una definizione che aiuti a comprendere cosa si può intendere per cura e lavoro di cura.
Un primo significato è riferito al fatto che la cura consiste in molteplici attività finalizzate a sostenere il benessere. Queste attività vengono agite non per il o sul soggetto interlocutore, ma con lui, nel suscitare la partecipazione attiva dell’azione di cura, verso un obiettivo di benessere condiviso.
Questa centralità della compartecipazione emerge con estrema consapevolezza nelle riflessioni proposte, dove l’idea di cura si lega a un lavoro di vicinanza e ascolto della persona, delle sue difficoltà ma soprattutto delle possibilità potenziali.
“Ritornando al concetto del prendesi cura per me è molto importante l’ascolto, un ascolto partecipe, ascolto tutto quello che dice il ragazzo, aiuto il ragazzo a sviluppare le parti sane”.
“Prendersi cura degli utenti per me è cercare di guidarli verso una riscoperta delle parti buone, sane”.
“Bisogna rendere la persona consapevole più per le cose che riesce a fare rispetto a quelle che non riesce a fare, anche se è disabile non è detto che non abbia delle potenzialità, anche se sono diverse, o vengono nascoste, o non espresse e a volte la famiglia non aiuta”.
“Il concetto di prendersi cura cambia da utente a utente. Per me prendersi cura degli utenti significa cercare di capire e sostenere quello che loro vogliono, a prescindere dalla famiglia, sostenere e filtrare le loro aspettative: un po’ come nella commedia dell’arte si cambia maschera a seconda della necessità”.
“Lavoro nel disagio mentale, per me prendersi cura della persona significa prendere in considerazione la persona globalmente e lavorare sulla disabilità per riuscire a reinserirla all’interno della società”.
L’ultima frase riporta come centrale un altro significato forte attribuibile alla cura; significato che si collega a quell’insieme di attività e attitudine che hanno a che fare con l’attenzione per il benessere di una o più persone dentro un contesto che ha sempre una ricaduta in termini sociali.
Il benessere individuale, infatti, è un bene sociale; l’incapacità di prendersi cura di se stessi genera sempre non solo ansia e fatica personale ma paura e insicurezza a livello collettivo.
In questo senso il ruolo educativo degli operatori ha, tra le sue funzioni principali, quella di sviluppare collegamenti e comunicazioni, l’operatore diventa mediatore fra la persona disabile e il mondo. Esemplari le parole di un partecipante al focus:
“Quando penso al caso che seguo, è quella di un estremo isolamento, intorno a loro, una sorta di barriera nei confronti di tutto, vedo la possibilità di farli uscire dall’isolamento, aprire la famiglia all’esterno. Mi ricordo questa immagine: entravo in casa e oltre a chiudere la porta chiudevano anche il cancello a chiave, poi si doveva fare lo sforzo di riaprire il cancello”.
I servizi di intervento domiciliare costruiscono il loro senso e la loro utilità proprio nel poter essere ponte fra gli ambiti di vita della persona disabile, ambiti troppe volte separati e non comunicanti. La capacità che gli operatori hanno risiede, appunto, nel riuscire a stare in equilibrio fra istanze diverse (famiglia, servizi, persona) per trovare lo specifico del proprio intervento che possiamo definire come un accompagnamento leggero e costante per aumentare le possibilità che la persona disabile sia riconosciuta, anche a livello sociale, per le sue parti adulte e capaci.
Inoltre gli interventi assistenziali o educativi si realizzano nelle relazioni, ma l’obiettivo non è far sì che il soggetto si affezioni o interessi all’operatore, bensì al mondo esterno.
“Cerco di aprirgli la strada, di fargli vedere che c’è un mondo, la relazione con i familiari per me è problematica”.
“Per me significa essere il filtro tra l’utente e la società, l’esterno. Prendersi cura dell’utente significa affacciarlo nel migliore modo possibile al mondo esterno affinché lui si possa sentire a suo agio e far avvicinare la società alla diversità”.
Il sostegno a un benessere possibile passa attraverso l’instaurarsi di una relazione che aiuti la persona disabile a entrare in rapporto con le sue potenzialità, a partire da ciò che è.
“Cerco di lavorare per fare in modo che la persona con disabilità si veda non come malato ma come persona; la persona con disabilità vive sospesa tra la consapevolezza/peso della propria ‘malattia’ e la voglia/possibilità di liberarsi di questo ‘pre-concetto’.
Le possibilità di un cambiamento nascono da un atteggiamento educativo disponibile a entrare anche in punta di piedi nel mondo dell’altro, accettando in termini non valutativi la situazione personale e familiare che è il dato di partenza, spesso duro, con cui gli operatori si confrontano.
“Per me prendersi cura è accompagnare una persona che ha dei problemi, è stabilire una relazione”.
“Per me prendersi cura è una responsabilità, è entrare nel loro mondo, capire tutte le cose che loro fanno, come lo fanno”.
La pesantezza delle situazioni con cui ci si confronta fa sì che il senso della cura che si presta lo si ritrovi anche nelle possibilità di alleggerirne il peso, e questo chiama direttamente in causa il rapporto con la famiglia.
“Alleggerirli e cercare di distrarli, di distoglierli da tutti i problemi del quotidiano, dare questo sollievo anche alla famiglia; l’intervento è indirizzato sì all’utente ma anche alla famiglia”.
Così come tante volte viene affermato per i servizi alla prima infanzia, accogliere e lavorare con una persona disabile o in difficoltà significa confrontarsi costantemente con la famiglia d’origine, svolgendo spesso anche con quest’ultima un’azione importante di rassicurazione e confronto.
“ Siamo la valvola di sfogo per i genitori dell’utente che seguiamo (per esempio lo sfogo di un ausilio che non va bene), ascoltiamo entrambi, i genitori dell’utente e l’utente stesso. Alcune volte riusciamo a tranquillizzare i familiari, altre volte no”.
“Occorre sostenere il ruolo dei genitori in questo compito, nell’accettare un figlio disabile, e attivare anche nella famiglia le risorse utili per far sì che l’individuo possa crescere”.
È importante la comprensione che emerge dalle riflessioni degli operatori su come la relazione con la famiglia segna l’intervento che si sta mettendo in atto. La famiglia non è mai una variabile neutra e diventa risorsa che supporta il percorso o, spesso, elemento che giocando in difesa non è capace di attivarsi come presenza collaborativa.
Siamo comunque ancora davvero lontani da quell’idea di “essere insieme” per il soggetto disabile, di quell’alleanza fiduciosa che è alla base di una presa in carico condivisa e percepita da tutte le parti come utile e positiva.
“A volte può capitare che i genitori ti vedono come un aiuto per quelle ore in cui stai con il ragazzo, e così loro possono fare altre cose e dedicarsi ad altro; in altri casi invece il genitore stesso ti vede e sta lì, ti osserva sempre, controlla se stai facendo quello che lui vuole”.
“Quando si lavora sul domiciliare si può provare a cambiare le abitudini che la famiglia usa cercando comunque di non invadere i loro spazi; purtroppo la ricettività da parte delle famiglie è spesso nulla nonostante il tentativo di incentivare a fare più uscite, o creare una rete di relazioni sociali utili al ragazzo”.

Gli aspetti positivi
Gli aspetti percepiti come maggiormente positivi dagli operatori sono raggruppabili in due grandi aree che riguardano due nodi profondi delle professioni di aiuto e cura.

Lavoro in équipe
La prima è quella identificabile con il supporto insostituibile costituito dal lavoro in équipe.
“Un aspetto fortemente positivo è dato dal lavoro di équipe con una supervisione psicologica.
Vi sono due riunioni al mese dove il coordinatore fa il quadro della situazione. Rispetto all’organizzazione interna nostra mi trovo abbastanza bene, nel senso che dal punto di vista di comunicazione sia dal punto di vista orizzontale che verticale va benissimo. Anche con l’équipe ho un buon rapporto, con gli educatori dell’ASL va bene, c’è attenzione e cura”.
Questa funzione risulta tanto più valida rispetto agli interventi come quelli di assistenza domiciliare che vengono assolti da una sola figura in un contesto di grande coinvolgimento relazionale; diventa quindi essenziale poter contare su di un gruppo di riferimento che, in modi e tempi diversi a seconda delle scelte organizzate, appoggino gli interventi praticati attraverso la condivisione, lo scambio informativo e la rielaborazione degli snodi significativi. Quando questo avviene c’è il riscontro positivo da parte degli operatori e il riconoscimento del valore.

Relazione, gratificazione
La seconda area di positività mette in gioco ciò che torna indietro in termini non solo di risultati delle prestazioni ma di significato più ampio attribuito al sostegno che si dà alle persone e ai nuclei familiari. L’assistenza domiciliare è un terreno in cui la qualità delle azioni si alza se si inseriscono in un circuito di scambio relazionale in cui anche chi “aiuta” percepisce la comprensione da parte dell’altro e riceve apprezzamento. In questo senso anche il proprio lavoro può essere vissuto come un’opportunità di crescita reciproca.
“Tra gli aspetti positivi, ci sono le gratificazioni, il fatto di seguire un progetto, il fatto di aiutare le persone ed essere ringraziati per questo”.
“Gli aspetti positivi rispetto all’utente riguardano l’aspetto della relazione, sento che c’è uno scambio umano, sento che c’è un apprezzamento sia da parte dell’utente sia da parte della famiglia”.
“Un aspetto positivo è l’autonomia”.
“L’aspetto positivo: opportunità di fare il lavoro che faccio”.

Gli aspetti negativi
Le aree critiche che emergono dalle riflessioni possono essere raggruppate in tre filoni di riferimento.

Difficoltà di veder riconosciuto il proprio specifico ruolo professionale
Il primo si riallaccia al tema del riconoscimento del profilo professionale di chi opera nel campo dell’assistenza domiciliare, riconoscimento che si muove sempre sul doppio livello di una definizione di specificità del campo di azione, da cui deriva anche la possibilità dell’autorevolezza del ruolo, e della motivazione a ricoprirlo in termini professionali investendo quindi non solo su “cosa si fa” ma anche sul “come lo si fa”.
“A volte non siamo riconosciuti come professionisti, siamo visti come delle persone che vanno a aiutare in casa, e in casa i familiari ti danno delle imposizioni”.
“Un servizio alla collettività è quello di legittimare la nostra figura, tante volte ancora siamo l’amico, il volontario. Vogliamo fare capire alla società chi siamo e cosa facciamo, anche se rispetto a 30 anni fa la visione della nostra figura è cambiata, non c’è paragone”.
“Io sono un operatore socio-assistenziale, con funzioni anche educative, e lamento il fatto che la cooperativa non dedica dovuto tempo agli operatori per riordinarsi le idee, sfogarsi”.
“Un altro aspetto negativo della cooperativa è quello che quando ci sono i colloqui di ammissione si tende a sottovalutare la motivazione personale”.

Carenza di incontri/comunicazione/informazione
Il secondo filone riprende la considerazione che l’intervento professionale di assistenza domiciliare corre più di altri il rischio non solo della solitudine ma anche della separazione e frammentazione rispetto a una presa in carico più complessiva. Questo dato amplifica il bisogno di raccordare il proprio intervento all’interno di un quadro più ampio e di ricevere/fornire informazioni prima e durante l’intervento; le considerazioni degli operatori su questa specifica area informativa-comunicativa la descrivono ancora come carente e necessaria di ulteriore cura.
“Ci sono pochi incontri, poche riunioni, poche formazioni”.
“Si pensa che questi pochi incontri con i referenti siano causati dalla mancanza di tempo materiale”.
“La difficoltà principale è quella di interfacciare professionalità diverse, a me manca molto il contatto con lo psichiatra, abbiamo chiesto un confronto ma dall’altra parte c’è un muro”.
“Si sente la mancanza di riscontri con gli assistenti sociali e gli psicologi, o se avvengono sono molto altalenanti”.
“Manca una informazione dettagliata e approfondita sul tipo di patologia che si va a trattare”.
“C’è differenza fra gli utenti domiciliari sui quali spesso ci sono lacune riguardo al quadro clinico e utenti residenziali sui quali la struttura possiede dei fascicoli dettagliati quanto, spesso, incomprensibili”.

Scarsità di risorse
Il terzo filone si inserisce nel tema più ampio della necessità di supporti e risorse maggiori rispetto a quanto il dato economico-politico è oggi in grado di garantire.
“Un’altra cosa che mi dà fastidio è riferita all’ASL, in quanto il ragazzo che seguo ha bisogno di quantità di cose in più, però tagliano i fondi, e loro sono costretti a tagliare, nel senso che avrebbe bisogno di due educatori ma devono fare i conti con il budget e perciò tagliano”.
“Tra le carenze del servizio si può citare un fatto pratico: mancanza di mezzi di trasporti. Nel mio caso si possedeva una sola macchina, perciò era contesa da tutti. Cito inoltre il problema del personale, delle volte non ci sono le sostitute”.
“Rispetto al sostegno psicologico alla famiglia, penso anche io che ce ne sia poco, penso che serva un sostegno terapeutico preciso, perché poi altrimenti si arriva al collasso e ciò si riversa sull’utente. C’è bisogno di sportelli di ascolto, non deve essere l’educatore che fa da psicologo”.
“La cooperativa di cui faccio parte è piccola, ci sono spesso emergenze, c’è un flusso continuo di gente che viene e che va, per malattia, o per maternità”.

A ulteriore rinforzo integriamo anche la sintetica e significativa risposta data alla domanda “Se ne aveste il potere che cosa cambiereste del vostro servizio?
“Maggiore formazione per gli educatori, maggiori mezzi, maggior stipendio”.

Si può fare a meno del servizio?
In conclusione proviamo a chiudere il cerchio delle riflessioni riportando le risposte maggiormente condivise all’ultima domanda posta nei focus-group che richiedeva agli operatori di fare lo sforzo, impegnativo ma sempre utile, di mettersi nei panni degli utenti: “Secondo voi gli utenti potrebbero fare a meno del vostro servizio, del servizio che fornite?”.
“Non potrebbero farne a meno, l’utente ha bisogno, il nostro servizio è utile per il raggiungimento dell’autonomia, per il potenziamento delle capacità, questo servizio serve, non ne potrebbero fare a meno in questo momento, in questa fase storica”.
“Togliere questo servizio sarebbe negativo per l’utente, traggono benefici dal servizio, come il sostegno all’autonomia”.
“Quando l’utente inizia a interagire con un servizio è difficile poi che ne faccia a meno.
È vero che ci sono casi e casi, perché esistono casi di handicap gravi, i quali dovranno fare riferimento a noi sempre, a vita, noi dovremmo esserci sempre”.
“Dipende dalla coerenza del progetto”.
“Il servizio è utile, c’è un reale bisogno ma l’obiettivo dovrebbe essere quello di rendere autonomi l’utente e la famiglia”.
“C’è comunque differenza se il bisogno è di tipo assistenziale, quindi continuativo o di tipo educativo e quindi temporaneo con finalità ultima di restituire l’utente a una condizione di totale o parziale autonomia”.
“In linea di massima il servizio fornito viene inteso dagli utenti o come necessario da un punto di vista operativo-pratico quindi indispensabile, oppure vantaggioso perché migliora la qualità della propria vita e quindi difficilmente rinunciabile”.

Le famiglie raccontano: “crescere” insieme

di Giovanna Di Pasquale e Luca Baldassarre

Il servizio
Ricevo il servizio di assistenza socio educativa domiciliare dal settembre 1992.
Mi sono rivolto al servizio per il trasporto e il rientro al lavoro dopo l’incidente che ho avuto nel marzo del 1991. Io lavoro come medico presso l’Igiene Mentale, e avevo bisogno di un operatore che potesse stare con me e aiutarmi negli orari lavorativi, per non impegnare infermieri e colleghi che lavorano con me. Le prestazioni partivano da casa mia; il primo operatore non sapeva guidare, e quindi avevamo un autista che mi accompagnava e ci veniva a riprendere. Inizialmente c’era un orario ridotto, di 3 giorni la settimana, per un totale di 4/5 ore al giorno compreso il viaggio.
Le prestazioni del servizio sono state concordate con le referenti del servizio; hanno fatto un progetto ad hoc di rientro lavorativo part-time (3 giorni la settimana con orario parziale), e l’hanno concordato con la mia responsabile.
Oltre al servizio di assistenza (socio-educativa) domiciliare residenziale fruisco di altri servizi che riguardano gli ausili, ogni tre mesi vado a Corte Roncati, per sacchi da letto e da gamba per l’incontinenza urinaria – è una fornitura dell’ASL per invalidi che non rientra nel progetto personalizzato. Per il resto mi organizzo per conto mio.

Le risposte, gli adattamenti, i cambiamenti
La risposta che ho ottenuto è stata quella che mi aspettavo di ricevere.
Il servizio si è adattato alle mie esigenze, e mi sono sempre chiesto se è lo stesso per tutti o se il fatto di lavorare in sanità come medico è stato in qualche modo un privilegio.
Il servizio negli anni si è anche modificato innanzitutto per gli orari, se non erro nel 1999 il servizio è stato esteso a 6 ore al giorno, dalle 8 alle 14, per 5 giorni la settimana. Il mio orario di lavoro attuale verte su 4 ore e 20 minuti lavorativi dal lunedì al venerdì, e con il trasporto si arriva alle 6 ore. Una volta al mese, il venerdì, partecipo come medico specialista alla Commissione Invalidi Civili, e quindi l’orario del servizio si sposta dalle 11.30 alle 18.30 per coprire la riunione e la Commissione. Altri interventi differenziati riguardano l’aggiornamento obbligatorio, 8/10 volte l’anno, in sedi diverse in altri Comuni della provincia.
Tutte queste necessità lavorative sono coperte dal servizio.
Inoltre, visto che la mensa ha delle barriere, l’operatore ha la mansione di andarmi a prendere il pasto con un contenitore termico e aiutarmi a consumarlo in ambulatorio.
Oltre all’aumento di orario, l’operatore di ora inoltre guida anche il furgone per il trasporto, e questo è una facilitazione.
Gli operatori sono cambiati in questi anni, ne ho avuti una decina, ma ho sempre mediato con la coordinatrice del servizio di assistenza domiciliare della cooperativa che gestisce il servizio per avere un operatore con determinati requisiti. Siamo a contatto con il pubblico, quindi ho sempre richiesto persone con buona presenza, capacità di relazione e un livello di studio (studenti universitari o laureati) tale da consentire di aiutarmi nelle operazioni lavorative, e il fatto di essere medico mi ha probabilmente agevolato.
Nei primi anni ci sono stati dei problemi legati alla necessità di capire di che tipo di supporto sul lavoro avevo bisogno, ma poi, una volta “cresciuti insieme”, le scelte degli operatori sono state sempre molto mirate. Nel tempo, infatti, è stata garantita una sempre maggiore professionalità, nel senso che l’operatore sa usare il computer e può così aiutarmi nell’espletamento tecnico del mio lavoro, come l’inserimento dati, la battitura delle cartelle cliniche e delle relazioni o la ricerca di informazioni.

I punti di forza, le criticità
In tanti anni non ho da muovere un appunto, il servizio è stato sempre molto efficiente. Inoltre gli operatori hanno sempre assicurato puntualità, discrezione e educazione, e in generale alta professionalità.
In passato, non più di 8 o 10 volte in questi anni, è successo che, per indisposizione dell’operatore, io mi trovassi “scoperto” la mattina, e questo implicava dover trovare al momento qualche amico che potesse accompagnarmi e venirmi a prendere, e comunque gravare durante le ore di servizio sui miei colleghi. Poi, da circa sei mesi, un operatore della cooperativa funge da supervisore rispetto agli operatori, e oltre al mio operatore fisso ci sono due “jolly” che all’occorrenza vengono contattati la mattina e nell’arco di mezz’ora possono arrivare come sostituti. Questo sistema mi mette al riparo da spiacevoli “sorprese” mattutine.
Oggi posso dire che il servizio risponde al mio bisogno in modo completo.
Senza il servizio dovrei pagare direttamente un operatore, oppure il mio colf potrebbe accompagnarmi la mattina, ma poi dovrei gravare sui miei colleghi – per un giorno un infermiere può vicariare, ma oltre diventerebbe un disservizio per la struttura. La mia possibilità di lavoro è strettamente correlata al fatto di avere con me un operatore.

Il futuro
Il servizio di cui fruisco per come è adesso è perfetto, non vedrei come possa migliorare.
Sono molto preoccupato per i possibili tagli a tutti i livelli. Se c’è bisogno di tagli, sarebbe insensato farli nei servizi erogati a disabili, ad anziani o all’infanzia. Tagliare sul piano della sanità o dell’aiuto alle persone più deboli è un controsenso folle e assurdo.
Vedo che anche in ambito sanitario sempre più cose vengono delegate a cooperative (ad esempio le pulizie), per cui credo che sia nella natura delle cose. Se effettivamente questa modalità implica un risparmio, perché all’Azienda costa meno pagare una cooperativa che avere dei dipendenti a tempo pieno, e se il servizio erogato è buono come quello che ho io, credo non ci sia niente da eccepire.
Il problema è se la qualità del servizio viene a cadere – io però ho sempre avuto operatori di cooperative, e della decina di operatori che ho avuto solo con uno ho avuto difficoltà, perché era il meno affidabile e il problema di essere “scoperto” la mattina è capitato la maggior parte delle volte con lui, e comunque oggi con il nuovo sistema non sarebbe più un grave problema.
 

Le Famiglie raccontano: mettere le relazioni al centro delle organizzazioni

di Giovanna Di Pasquale e Luca Baldassarre

Il servizio tra bisogni e risposte
Riceviamo il servizio dall’autunno 2006. I bisogni erano quelli di una figura educativa che aiutasse C. a fare un passaggio nella vita quotidiana dopo la maturità conseguita a luglio.
C. ha avuto un grave peggioramento nell’ultimo anno della scuola superiore rispetto ad alcune competenze e c’era il problema di cosa farle fare. La scuola era stata un momento di aggregazione magari difficile ma di aggregazione: a scuola incontrava gente, aveva un insegnante di sostegno… Invece a settembre di quell’anno sarebbe stata sola, isolata dal contesto sociale. Per cui si è ipotizzato insieme a una educatrice di costruire un intervento personalizzato visto il tipo di handicap che si era sviluppato, con l’aggiunta del fatto che in quell’anno lei aveva smesso di parlare. Non era opportuno inserirla in un centro per attività diurne e si è ipotizzato quindi un intervento totalmente educativo che all’inizio doveva essere di 80 ore mensili in modo che C. potesse fare tutta una serie di attività che si stavano identificando: prendere contatti con l’Università, seguire una disciplina, conoscere dei ragazzi, ecc.
Poi i servizi, nella figura dell’assistente sociale di riferimento, ci hanno fatto la proposta di dirottare le ore educative in ore di assistenza di base (senza che nessuno avesse mai visto C. o avesse contatti con la neuropsichiatra), cosa che noi non abbiamo assolutamente accettato perché nel 2006 non c’era una necessità conclamata di un’assistente di base mentre a noi interessava che C. potesse potenziare ancora quello che lei poteva fare in termini di relazioni e di attività varie.
Ci sono stati una serie di incontri difficili e complessi che hanno portato alla mediazione di 40 ore di assistenza di base e 40 ore di intervento educativo, più 6 ore di intervento educativo fatto con l’educatrice del materno infantile per dare continuità all’intervento in modo che C. non si trovasse improvvisamente in un contesto nuovo.
Il passaggio dal servizio del materno infantile all’handicap adulto è un buco nero perché mentre nel materno infantile c’è un’interazione molto forte fra neuropsichiatra, famiglia, terapista, scuola, quando si passa all’handicap adulto c’è una tabula rasa, non c’è passaggio di consegne.
Nel caso di C. lei è stata aiutata dal fatto che l’educatrice che la seguiva in 4° e 5° liceo conosceva bene il servizio handicap adulto, per cui è stata lei a tenere i contatti e a fare un po’ di passaggio di consegne.
È proprio un passaggio traumatico quello dal servizio del materno infantile all’handicap adulto. C., dopo un esame di maturità anche più brillante di tanti suoi compagni “normali”, è passata a essere una persona disabile adulta senza alcuni diritti di riabilitazione.
In tutti i protocolli c’è scritto che se una persona ha delle capacità residue occorre intervenire per mantenerle e potenziarle, dove è possibile.
Manca l’informazione sui diritti, nessuno ti dice: “i tuoi diritti sono a, b, c, d”. Bisogna rosicchiare una cosa alla volta; la motivazione, che è prevalentemente economica, è quella di non dare niente che costi tanto. A noi hanno detto che gli interventi educativi costano di più di quelli assistenziali e quindi tendono a privilegiare un intervento che non sia educativo. Accanto al dato economico, c’è anche una pregiudiziale ideologica, c’è quasi una preclusione a pensare che una persona disabile adulta, anche se ha solo diciotto anni e un giorno, non debba più imparare niente.
Nel 2006 noi non avevamo assolutamente bisogno di qualcuno che la “lavasse e la stirasse”, c’era bisogno di qualcuno che la portasse fuori di casa, che la interessasse, per questo per noi la mediazione a cui si era arrivati è già stata una mediazione pesante.
Se ci fosse una buona comunicazione istituzionale sarebbe possibile ricostruire la storia della persona, con il suo percorso precedente e non solo fermarsi all’osservazione del dato presente. È veramente un grosso buco quello del passaggio dall’età infantile all’età adulta, almeno per i casi più complessi che hanno delle involuzioni, dei cambiamenti.

L’adattamento del servizio
Noi non siamo ringiovaniti, C. ha una situazione che il suo neurologo definisce di “alti e bassi”, non è un peggioramento globale. Ha un quadro complesso ma non ha mai un settore che in assoluto peggiora. Non avendo una diagnosi precisa anche i medici ci dicono che bisogna basarsi sull’osservazione del suo stato perché nessuno sa dire cosa le succederà. Dimostra sempre curiosità, voglia di vedere, conoscere. Questo per dire che di interventi educativi ne ha ancora bisogno.
Allo stato attuale, rispetto al bisogno che C. e noi manifestiamo, la risposta che l’ASL ci dà è adeguata, anche se spesso ci sono problemi di organizzazione dell’ultimo minuto, ad esempio la disdetta del pullmino poco tempo prima dell’avvio dell’attività (il che significa non solo non fare l’attività, ma anche non potersi organizzare in altro modo).

Valutare il servizio
Quando iniziano interventi che prevedono la presenza di persone che arrivano e in un qualche modo invadono la tua privacy c’è sempre un periodo di adattamento, molto faticoso. Il primo momento è emotivamente molto pesante, la tua privacy non esiste più, le persone arrivano e vivono della tua vita ed è una cosa che bisognerebbe provare per capire quanto è pesante dal punto di vista emotivo.
Poi pian piano tu impari a relazionarti con le persone e le persone con te, e diventa più tollerabile e a volta anche piacevole e, per certi versi, se la relazione con C. funziona, di grande aiuto e sollievo.
Ci vuole rodaggio e pazienza da parte di tutti ma poi qualitativamente è un intervento che dà aiuto. Per una persona che ha un deficit e dipende dagli altri, relazionarsi solo con il padre e la madre è una cosa mortifera, avere altre persone che si occupano di te in modo diverso, che ti portano fuori in altri contesti è un sollievo per la persona stessa.

Aspetti da migliorare, da cambiare
È tutto un lavoro fatto di relazioni prima che di organizzazione. Di tecnico c’è l’organizzazione dei trasporti che di solito è regolare, per il resto il servizio è un servizio di relazione. Una volta che si è stabilito, nell’incontro annuale cosa è andato bene e cosa eventualmente va modificato, il tutto va avanti di ruotine. Gli aspetti negativi possono essere quelli iniziali legati alla relazione fra C., le persone che si occupano di lei e noi; poi, imparato un meccanismo comunicativo accettabile per tutti, occorre che tutti quanti impariamo a collaborare perché se questo non succede la persona che resta schiacciata è C.
L’appuntamento annuale viene fissato dall’assistente sociale, poi c’è un incontro ogni tre mesi circa; gli incontri sono stati più frequenti nel momento iniziale. Per questo tipo di servizio l’organizzazione ci sembra funzionale. Ovviamente gli educatori si incontrano mensilmente con l’assistente sociale per discutere dell’andamento dell’intervento.

Si può fare a meno del servizio?
Teoricamente sì, ad esempio nei mesi estivi in vacanza non c’è né assistente di base né educatrice, il mese di agosto è ridotto a un terzo e tutta la settimana di ferragosto non c’è nessuno. Nel tempo potrebbe essere pesante per due cose; la prima è legata al fatto che C. ha bisogno di relazionarsi con persone giovani che la portano fuori e che non devono essere la madre e il padre. Senza la figura dell’educatrice bisognerebbe trovare qualcuno che possa fare questo tipo di attività. La seconda, legata alla figura dell’assistente di base, riguarda le energie disponibili: io adesso sto bene, ma se non dovessi più riuscire a sollevarla dovrei avere qualcuno che mi aiuti, e nel tempo qualcuno che ti sostituisca almeno in alcune giornate e in alcune fasce orarie anche per poter avere dei propri spazi personali di ricarica, altrimenti alla fine non si è utili a nessuno. Quindi si può fare a meno del servizio, ma a tempo, cioè per un periodo limitato di tempo.

Suggerimenti
Avendo coperti cinque mattine e due pomeriggi non possiamo certo lamentarci. Una cosa che a me manca è poter avere ogni tanto un intervento serale perché è difficile organizzarsi autonomamente, non possiamo certo chiamare una normale baby-sitter. Avere un servizio serale, per esempio due volte al mese non sarebbe male. O anche un sabato o una domenica al mese. Certo tutto è migliorabile. Avere spazi per sé è un bisogno prioritario. Noi fino a quest’anno ci siamo alternati dandoci spazi reciproci di ricarica, e sono momenti che ti bastano per tirare di nuovo il fiato per altri sei mesi. Vista la situazione non lo abbiamo neanche proposto ai servizi ma io mi sto attivando per vedere se c’è qualche tipo di alternativa anche fuori del servizio.

Il servizio come legittimo diritto?
Il nostro bisogno continua a esserci e mi sembra invece che si stia andando verso il taglio delle risorse; il ragionamento che abbiamo fatto è che se un servizio come questo costa allo Stato tot di euro, se questa stessa persona fosse messa in una istituzione costerebbe 3 o 5 volte tanto. Quindi anche in un’ottica economica questo servizio fa risparmiare lo Stato sociale, e mi sembra che sia un tipo di settore che vada potenziato e non tagliato.
 

Le Famiglie raccontano: il servizio è frutto di un adattamento reciproco

di Giovanna Di Pasquale e Luca Baldassarre

Il servizio: incontro e aspettative
Ricevo il servizio di assistenza domiciliare dalla fine di settembre 2008, poco dopo che sono venuta a casa alla fine di agosto, dopo aver avuto un incidente con la macchina contro un pullman francese, ed essere stata in coma.
Ci siamo rivolti all’assistente sociale che ci ha detto che c’erano degli operatori disponibili. (G.)

Non ci siamo rivolti direttamente ai servizi, è stata l’assistente sociale che ci ha proposto una soluzione, perché io e lei siamo da soli, non abbiamo una famiglia numerosa cui appoggiarci, e se io esco lei non può rimanere da sola.

Ci è stata fatta una proposta che ci andava bene, legata ai suoi impegni per le terapie, ed è saltato fuori un programma di orario. Gli operatori vengono martedì mattina dalle 9 alle 12 e giovedì dalle 9 alle 12 e dalle 15 alle 18. Non avevamo esperienza di servizi in precedenza.
Non avevamo aspettative, anche ora non abbiamo idea di cosa ci si possa aspettare. Lei va fuori con queste ragazze, e a volte va tutto bene, altre meno. (P.)

Ci sono sempre due operatrici, una fa le due mattine e l’altra il pomeriggio, non cambiano mai. (G)

Adattamenti, cambiamenti, innovazioni
Certe volte i giorni cambiano, o li cambiamo noi, in base per esempio a esigenze come le visite mediche. A volte i giorni cambiano quando le operatrici, che fanno l’Università, hanno gli esami. Oppure, il giorno cambia per uscite particolari, ad esempio il sabato per andare a fare un giro in mercato. (P.)

In questi mesi il servizio è rimasto lo stesso ma sono cambiata io, nel rapporto con le operatrici. All’inizio mi piaceva sempre G., l’operatrice che fa il pomeriggio, e avevo qualcosa da ridire con D. che fa la mattina; adesso, all’inverso, con D. ci siamo conosciute e i nostri caratteri accettano che si può cambiare e ci si può adattare, mentre G. è molto lineare, e se segui la sua linea va benissimo, ma se ti allarghi un po’ ci sono dei contrasti. (G.)

Se fosse ampliato, ad esempio in ore serali, si potrebbe andare al cinema tranquillamente. Poi, se ci fosse qualche ora in più rispetto alle tre ore di adesso, si potrebbe fare qualcosa di più e di meglio –per esempio a me piaceva andare in balera il pomeriggio, ma con solo tre ore consecutive non ci riesco. E poi, all’inizio del servizio lei era appena uscita dal coma, oggi va molto meglio e con l’assistente sociale si pensava di lavorare un po’ di più, ma mi rendo conto che già adesso lei arriva il giovedì sera in uno stato di forte stanchezza. Comunque, stando in città con le tre ore si riesce a fare abbastanza, sarebbe peggio se abitassimo fuori Bologna. Dipende molto dalle aspettative che si hanno. (P.)

Non dipende da me, ci sono tante cose che si potrebbero fare, ma va bene così, perché nel tempo che ho devo riprendere a fare tante cose che prima facevo, come cucinare, scrivere, stirare, fare i lavori di casa, e poi i giorni che non ci sono le operatrici devo fare gli esercizi di calligrafia. Quindi, ho tante cose da fare e il tempo adesso è quello che è, e quando ci sono le operatrici o quando ho altri appuntamenti non ci riesco. Alla sera dopo cena, mentre prima facevo tante cose ora sono stanca, quindi le situazioni per me stanno ancora cambiando. (G.)

Gli aspetti positivi
Adesso la posso lasciare da sola anche mezza giornata, ma all’inizio ci doveva essere qualcuno perché non potevamo abbandonarla mai, e quando venivano le operatrici, dopo un minuto, dopo magari quattro chiacchiere con loro, toglievo il disturbo, perché dovevo andare a sbrigare delle faccende, e sono tante. Adesso, specie il pomeriggio, ne approfitto anche solo per andare a fare quattro passi, ma all’inizio, soprattutto la mattina, era una cosa utilissima.
Io non ho provato servizi diversi, e inizialmente non sapevo neanche che questo servizio potesse esistere, quindi non so quale sia il “livello zero” né se il “convento poteva passare di più”, ma con questo servizio mi trovo bene.
Di tutto si può fare a meno, ma è un servizio molto comodo, perché anche se ormai capita che vada fuori lasciandola sola a casa, sono sempre un po’ sul chi vive, mentre per le tre ore con le operatrici sono tranquillo. (P.)

Gli elementi critici
Il giovedì lei ha le operatrici sia mattina che pomeriggio, e questo impegno intenso la stanca molto, magari si potrebbe spostare una mattina o il pomeriggio ma non ci sono molte possibilità. (P.)

Ormai ho imparato che il giovedì non posso fare niente delle faccende di casa, e il mercoledì mi regolo, anche perché altrimenti loro ci potrebbero essere solo due volte o il sabato mattina. Mi è capitato di parlare con il mio ex-ragazzo, e lui dice che il mercoledì mi lamento e sono agitata per il giovedì perché è molto pesante, devo fare tante cose nella “pausa pranzo”, e quindi sono già stanca per il giorno dopo. (G.)

Non so se questo servizio possa essere richiesto come un diritto, e poi non conosco la situazione in altre città d’Italia o anche fuori dal Quartiere San Donato. Tutte le cose costano, e questo servizio è frutto di scelte dei servizi sociali che probabilmente altrove sono diverse. (P.)
 

Le Famiglie raccontano: fare le cose in due

di Giovanna Di Pasquale e Luca Baldassarre

L’incontro con il servizio
Da due anni abbiamo una ragazza, in precedenza avevamo avuto un’altra ragazza per tre anni, quindi sono circa cinque anni che usufruiamo di questo servizio. A. comunque è seguita dai servizi sociali da quando è nata fino a oggi, che sta per compiere 37 anni.
A. va a lavorare in un laboratorio protetto qui vicino; inizialmente ci andava da sola, poi è diventata cieca e quindi per circa un anno, nel 1995/96, l’abbiamo tenuta a casa. Poi A. ha ripreso a lavorare, ma alla mattina l’accompagno io e a mezzogiorno la vado a prendere, può fare solo le tre ore del mattino perché la ditta ha una mensa esterna e servirebbe una persona per portare solo lei.

L’operatrice viene tutti i lunedì pomeriggio per tre ore, dalle 15 alle 18. In effetti l’esigenza di questo servizio, per seguire Antonella a casa, era stata segnalata dall’Istituto Cavazza, e parlando con l’assistente sociale è emersa questa possibilità. L’orario è stato concordato direttamente con l’operatrice, che ci è stata segnalata dall’assistente sociale, sulla base della sua disponibilità.
L’operatrice viene a casa a insegnare varie cose ad A., dal portarla fuori al cucinare o fare alcuni lavori di casa, che non fa quando glielo chiedo io. Ad esempio, ultimamente sono andate spesso in Sala Borsa, dove A. può toccare i CD e sfogliare i libri. In cucina stanno meno, perché ad A. piace solo fare i biscotti. Altre volte, quando A. non vuole fare nulla, si mettono a sedere e parlano.

Intorno al servizio di assistenza domiciliare
Il lunedì sera A. esce con amici del gruppo di volontariato San Donato; il giovedì pomeriggio fa danzaterapia; una volta alla settimana, il venerdì, sabato o domenica, va fuori con ANFFAS, ad esempio al bowling, al cinema o in pizzeria. Inoltre, una volta al mese A. va all’Istituto Cavazza per circa due ore a fare attività manuali come lavorare la creta – prima ci andava una volta la settimana per imparare il Braille, ma non ci riesce perché non ha abbastanza sensibilità manuale.
Poi, una volta ogni mese/mese e mezzo circa, usciamo tutti insieme con l’AUSER di San Lazzaro, ad esempio a mangiare fuori, e siamo una quarantina tra genitori e ragazzi disabili.

Vivere il tempo a casa
Non ci sono stati problemi con l’operatrice, è capitato solo una volta in due anni di spostare la giornata perché avevamo un impegno di lunedì; qualche volta è capitato che lei avesse un esame e non potesse venire di lunedì, ma ha sempre cercato di recuperare alla sera, magari andando a mangiare una pizza.
Le attività le decidono ogni settimana per quella dopo, ad esempio se il lunedì seguente vogliono fare i biscotti la settimana prima vanno al supermercato per fare la spesa. Comunque l’operatrice si basa su quello che vuole fare A. e non le impone nulla. Più o meno, comunque, in questi due anni le attività sono rimaste le stesse.
Ad A. piace uscire, tranne che nelle “giornate no”, piuttosto che lavorare in casa, e in questo il servizio sa adattarsi alle situazioni.
Non ci sono elementi negativi, solo A. a volte ha dei momenti di chiusura in cui non c’è verso di farla parlare o fare cose. Della ragazza noi possiamo solo dire bene, tra l’altro è laureata in psicologia.
Il servizio risponde al bisogno, se aumentassero le ore per A., che ha già tanti impegni, non riuscirebbe a soddisfare tutti i bisogni. Quando andava al Cavazza tutte le settimane, venne un professore da Roma e disse che per A. l’impegno era eccessivo, per cui poi abbiamo diradato anche le visite al Cavazza.
Fare a meno del servizio sarebbe un dispiacere, soprattutto per A., perché quando usciamo, ad esempio per fare la spesa, spesso la prendiamo con noi, ma quando è da sola in casa si mette a sedere con la televisione, oppure ascolta la musica o la radio – in casa è autonoma –, ma quando non ne ha voglia rimane a non fare nulla.

I bisogni tra diritti e limiti
Gli altri servizi dovrebbero essere obbligatori e a carico dello Stato. Ci sono persone che usufruiscono di molti servizi, noi invece nulla; ad esempio non abbiamo mai chiesto il servizio di trasporto, perché lo consideriamo un obbligo nostro, ma vedo ad esempio che dove A. lavora c’è gente con le macchine ma che viene trasportata con i pullmini.
D’altra parte non ci siamo mai fatti avanti per il servizio, perché il pullmino scarica le persone davanti al luogo di lavoro, mentre A. bisogna seguirla dentro, portarla all’armadietto e aiutarla a vestirsi.
Non abbiamo mai chiesto nemmeno i buoni taxi, però sarebbe un servizio che secondo me dovrebbe spettarci. Anche nei servizi per il tempo libero, che A. frequenta con volontari, lo Stato dovrebbe intervenire, però la situazione è che i Comuni stringono, lo Stato non dà niente, e quindi è difficile che si garantiscano i servizi per il “divertimento”. Un’altra cosa da migliorare riguarda gli abbonamenti agevolati dell’ATC, adesso abbiamo fatto l’abbonamento ad A., ma l’accompagnatore deve pagare, mentre secondo me chi l’accompagna dovrebbe essere esente, o meglio dovrebbero essere esenti tutti e due, e lo stesso per l’uso dei treni.

Nei primi anni di A. noi eravamo all’oscuro di tutti i servizi; solo dopo le associazioni come ANFFAS ci hanno dato delle indicazioni, anche se forse ci vorrebbe una associazione unica con voce in capitolo, perché spesso ci sono delle indicazioni contrastanti dalle diverse associazioni. Comunque, una volta era peggio, c’era meno organizzazione, c’era solo il servizio del Comune e magari si ottenevano indicazioni sbagliate; oggi, appoggiandosi a esterni, le cose funzionano meglio e in maniera più veloce.
 

Introduzione

di Giovanna Di Pasquale e Luca Baldassarre

Is there anybody out there? La citazione del brano dei Pynk Floyd è pienamente azzeccata per introdurre “il servizio che ti bussa all’uscio”, ovverosia il SAD (acronimo di Servizio di Assistenza Domiciliare). L’assistenza domiciliare di cui parliamo in questo numero è quell’importante opera di sostegno e cura erogato direttamente dai comuni o per loro delega dalle Aziende USL ai nuclei familiari dove sia presente una persona con disabilità. Il tutto con l’attiva partecipazione delle organizzazioni del Privato Sociale, cooperazione sociale in primis, anche se non solo. Sul territorio nazionale vengono adottati modelli di gestione che si differenziano da regione a regione, che spesso portano a rimescolare ruoli e funzioni degli attori presenti sul campo: ASL, Comuni e Privato Sociale. Gli elementi di diversità non si limitano alla conduzione operativa ma riguardano anche le modalità di assegnazione degli interventi (le principali sono l’affidamento mediante apposite gare di appalto o licitazioni private e “l’accreditamento” dei soggetti gestori) e il coinvolgimento dalle famiglie e dei fruitori diretti degli interventi nelle varie fasi di attuazione del servizio (dalla rilevazione del bisogno iniziale fino a eventuali modifiche da apportare a intervento partito). Noi daremo spazio all’esempio di Bologna, dove convive, a volte un po’ faticosamente, un modello di gestione mista, nemmeno tanto semplice da spiegare. Ecco perché per entrare nel cuore dei materiali abbiamo scelto di descrivere in dettaglio l’oggetto del contendere, ovvero come funziona esattamente il SAD, nello scritto di Andrea Veronesi, uno dei responsabili della Cooperativa CADIAI.

Cos’è il SAD

Il Servizio di Assistenza Domiciliare in favore di Disabili Adulti della Città di Bologna è gestito in ATI (Associazione Temporanea di Impresa) dal 2006 da 5 cooperative sociali, tutte connotate da un forte radicamento nel territorio bolognese: CADIAI Cooperativa sociale (Capofila), ADA, Società DOLCE, Consorzio EPTA, Accaparlante. Il servizio, gestito dal raggruppamento dal 2003, ha visto nel 2006, in seguito all’aggiudicazione della gara d’appalto, l’ingresso nell’ATI della cooperativa Accaparlante che opera all’interno del servizio di Assistenza Domiciliare svolgendo prestazioni educative ad hoc presso il Centro di Documentazione Handicap della città di Bologna. Per accedere al servizio il cittadino/utente si deve recare presso le USSI (Unità SocioSanitarie Integrate Disabili Adulti) competenti per territorio di residenza, dove gli Assistenti Sociali, coadiuvati da Educatori Professionali, elaborano una prima valutazione del bisogno. Le risorse attivabili dalle USSI sono di vario tipo, e dipendono dalle caratteristiche/bisogni del cittadino/utente; queste possono essere: – centri diurni – gruppi appartamento – laboratori protetti – centri residenziali – centri semi-residenziali – borse lavoro – assistenza domiciliare; nello specifico l’ultima tipologia di servizio attivato comporta, da parte del soggetto gestore, una forte capacità di adattamento e flessibilità alla richiesta.
Una volta che, da parte dell’assistente sociale, viene fatta la richiesta (sulla base del bisogno riscontrato e delle richieste della famiglia/utente) di servizio di assistenza domiciliare, questa passa alla direzione per l’autorizzazione definitiva. Ricevuta l’autorizzazione l’assistente sociale contatta il capofila del raggruppamento, che sulla base della tipologia di intervento richiesto e sulla base di una prima analisi delle caratteristiche dell’intervento individua all’interno del raggruppamento l’associata che poi andrà concretamente a condurre l’intervento stesso. Questo assetto organizzativo, sviluppatosi nel tempo ha consentito e consente una più rapida attivazione nella risposta e una semplificazione del processo mantenendo al contempo standard di qualità elevati. La struttura organizzativa dell’ATI si è dimostrata sino a oggi funzionale in quanto consente all’azienda ASL di avere un unico interlocutore diretto (il capogruppo) per la prima fase di attivazione, che si fa carico del rispetto dei tempi di attivazione e delle eventuali criticità che possono emergere sul versante amministrativo.

La tipologia di prestazioni

 il servizio è attivo 12 mesi l’anno e prevede interventi socio-assistenziali, educativi individualizzati e di gruppo in favore di disabili adulti.

Le attività svolte all’interno del servizio sono distinte in due diverse tipologie: assistenziali ed educative. Le prestazioni di assistenza domiciliare hanno come obiettivo il recupero psicofisico dell’assistito, il mantenimento nel suo ambiente di vita, la conservazione e il miglioramento delle sue relazioni all’interno e all’esterno del proprio nucleo familiare. In particolare l’assistenza domiciliare di base si rivolge a persone con gravissime o gravi disabilità psico-fisiche, non autonome nel soddisfacimento dei bisogni primari con la finalità generale di garantire la permanenza al proprio domicilio e più specificatamente di garantire prevalentemente interventi di cura e aiuto alla persona.

Gli interventi educativi hanno come obiettivo il recupero socio-educativo dell’assistito, il mantenimento nel suo ambiente di vita, la conservazione e il miglioramento delle sue relazioni all’interno e all’esterno del proprio nucleo familiare; gli intervento educativi individuali si rivolgono a persone con bisogni educativi, di socializzazione e di sostegno nella vita quotidiana. Le attività educative di gruppo hanno prevalentemente come tematica attività di tipo ricreativo, artistico-musicali, ludico; tali attività sono finalizzate a favorire processi di socializzazione; in tali attività l’operatore, oltre a supportare l’utente per favorire la sua partecipazione deve agevolare le dinamiche relazionali in collaborazione con il conduttore e interagendo con gli altri utenti.
Le attività vengono pianificate a ogni attivazione di intervento attraverso incontri tra il Coordinatore/Responsabile, il Referente ASL e il/gli operatore/i proposto/i.
Il servizio, come già anticipato, presenta forti elementi di variabilità di adattamento e di flessibilità, ogni nuovo intervento è come un nuovo “servizio” che apre con nuovi orari, nuovi obiettivi, nuove attività tarate e pianificate sui bisogni e sulle caratteristiche dell’utente.

Per far sì quindi che il servizio funzioni “bene” è di fondamentale importanza la consapevolezza, da parte dei vari attori coinvolti (Referenti ASL, famiglie, Operatori delle Cooperative, Referenti delle Cooperative), del lavoro di rete e del lavorare in rete.

( Andrea Veronesi, referente Cooperativa CADIAI )

Premessa

di Giovanna Di Pasquale e Luca Baldassarre

Nel progettare questa monografia insieme ai responsabili del servizio di assistenza domiciliare delle cooperative e consorzi che, raccolti in una ATI (Associazione Temporanea d’Impresa), gestiscono oggi interventi di questo tipo nella realtà bolognese, abbiamo avuto in mente per questo approfondimento due punti di attenzione.
Il primo riguarda l’obiettivo che ci siamo proposti e che può essere riassunto dall’idea di contribuire alla conoscenza di questo servizio importante ma nascosto nelle pieghe della quotidianità e dalle mura domestiche, un “tesoro nella dispensa” per l’appunto.
Gli interventi sul territorio, direttamente svolti a casa delle famiglie e degli utenti, hanno come riferimento di fondo l’importanza di consentire alle persone di rimanere quanto più possibile nei propri contesti di vita, condizione, questa, che viene interpretata come un indicatore essenziale di qualità. Questo dato però, se assunto in modo dogmatico, può favorire la comparsa di una sorta di schermo opaco che fatica a far emergere non solo di cosa è fatto questo servizio, ma anche le qualità organizzative e relazionali che deve avere per rispondere in modo efficace ed efficiente alle esigenze e richieste di chi del servizio fruisce o potrebbe/dovrebbe fruirne.
Il secondo punto di attenzione richiama più direttamente il modo con cui abbiamo attraversato questo ambito e che ha cercato di mettere in primo piano la voce diretta e quotidiana degli attori del servizio stesso. Il nostro è stato quindi un percorso di ascolto e raccolta di descrizioni, riflessioni, valutazioni portate da famiglie, utenti e operatori, soggetti questi tutti coinvolti operativamente nel rendere effettivo il servizio. Con strumenti diversi (interviste per famiglie e utenti; focus-group per gli operatori) si sono costruiti racconti che, crediamo, permettono di entrare dentro alle situazioni facendo venire a galla aspetti positivi e difficoltà.
Accanto a queste voci due contributi che si pongono in un’ottica di complementarietà rispetto agli altri. L’intervista a Mara Grigoli, responsabile ArOA USSI Disabili Adulti Azienda USL Bologna, delinea un quadro complessivo entro cui si attuano gli interventi di territorialità e indica anche le direzioni che, dal suo osservatorio, caratterizzano l’impegno dell’Azienda USL; dal focus-group condotto con i coordinatori del Servizio di Assistenza Domiciliare delle cooperative che gestiscono il servizio proponiamo una serie di riflessioni e pensieri che il gruppo ha portato dopo aver letto i materiali realizzati nella ricerca (materiali più ampi di quelli disponibili in questa monografia) e avere “reagito” alla luce del proprio ruolo ma anche esperienza e sensibilità.
A tutti loro va un ringraziamento non formale per l’effettiva disponibilità a mettersi in gioco in un dialogo a distanza che, al di là di quanto accade sulle pagine di una rivista, rimanda a quella necessità intrinseca di mettere in comune i punti di vista, accettando l’esistenza di opinioni anche diverse come un valore aggiunto per i servizi che si pongono al fianco delle persone.
 

L’estetica dell’accessibilità. L’esperienza della compagnia teatrale Graeae

Per molti attori hollywoodiani (normodotati), l’interpretazione di un protagonista con disabilità è stata cercata come la consacrazione di una professionalità, spesso premiata con i massimi riconoscimenti; ben più raro è che un attore o un’attrice con disabilità, quando riescono a emergere, vengano scelti per personaggi che non siano incentrati sul loro deficit. Ancor più raro, se possibile, è che l’accessibilità delle rappresentazioni sceniche sia garantita non appiccicandovi gli strumenti tecnici necessari, bensì integrandoli entro il testo artistico stesso.
Il superamento per via estetica di queste barriere è al centro dell’esperienza di Graeae, compagnia teatrale londinese che dal 1980 unisce attori e tecnici disabili e normodotati. Ne chiediamo di più a Jenny Sealey, direttrice artistica della compagnia dal 1997.

Come descriverebbe la storia e la mission della Graeae Theatre Company?

La visione artistica di Graeae comprende quattro elementi chiave:
• una varietà di opere teatrali scritte da autori disabili e non disabili, che ci permetta di coprire l’ampio spettro del teatro e il linguaggio della rappresentazione;
• una varietà di modelli educativi, che agisca come un catalizzatore per ispirare la creatività di una nuova generazione di autori teatrali;
• opportunità globali di rappresentazione, scrittura e formazione tecnica, che diano forma a un lascito durevole di persone sorde e disabili come corpo di talento da impiegare nell’industria creativa;
• esplorazioni estetiche dell’accesso, che diano forma al teatro come un’esperienza unica sia per i creatori che per i pubblici.
I piani artistici di Graeae prendono sempre forma dalla mission della compagnia di ottenere pari opportunità per le persone disabili che lavorano in tutti gli aspetti del teatro professionistico. La compagnia ha sviluppato uno stile di programmazione e un’estetica totalmente nuova che l’hanno resa una concorrente per un posto nel mainstream. Graeae ora si ritrova annunciata come una compagnia che fa da pioniera, che è difficile da “incasellare” a causa dell’ampia diversità di stili e pratiche che il suo lavoro abbraccia. La comprensione della compagnia di “diversità accessibile”, diversità culturale e diversità di stile teatrale dà forma e permea ogni aspetto del piano artistico e della filosofia del gruppo.
Graeae non è solo una compagnia teatrale, in quanto formazione, educazione e ruolo di sostegno sono un nucleo essenziale della filosofia del gruppo. La visione continua è di usare il teatro, la formazione e l’educazione per promuovere l’inclusione e per lavorare per cambiare la paura sempre diffusa della differenza, e l’atteggiamento secondo cui attori disabili possono solo interpretare personaggi disabili, e il pubblico sarà offeso vedendo attori disabili interpreti in un’opera che non tratti di disabilità.

Avete mai avuto esperienze di rappresentazioni teatrali o laboratori indirizzati al pubblico più giovane, anche nelle scuole, o che coinvolgessero direttamente gli studenti come attori o staff di supporto? Come sono state vissute queste opportunità dagli studenti?
Graeae ha una lunga storia di lavoro di sviluppo per i giovani. Le opere teatrali più recenti, entrambe di Mike Kenny, sono Diary of An Action Man [Diario di un uomo d’azione] e Whiter than Snow [Più bianco della neve ].
Diary of An Action Man è stata una coproduzione con il teatro per bambini Unicorn. Il cast include tre attori disabili e un attore non disabile. L’opera segue il viaggio di un ragazzino che ha un papà immaginario, ma poi ci si rende conto che il suo vero papà è vivo ma ha lasciato la casa di famiglia. Le lingue utilizzate nell’opera sono inglese e Lingua dei Segni Britannica. La scrittura è realizzata in modo da essere accessibile a pubblici di ciechi.
L’opera è stata in tour a livello nazionale, con le scuole che venivano alla sede del teatro. Abbiamo ricevuto critiche eccellenti e il riscontro da insegnanti e giovani è stato molto positivo, soprattutto perché tanti bambini si identificavano con il personaggio principale e la sua relazione con i suoi genitori divorziati.
Whiter than Snow è stata una coproduzione con il Teatro Stabile di Birmingham. È una rielaborazione della storia di Biancaneve dalla prospettiva dei nani. L’opera è ambientata in un paesaggio di guerra e scienza, e usa riferimenti alla sperimentazione di Mengele sulle persone disabili e lo sradicamento delle persone disabili durante l’olocausto. Il cast è tutto di disabili, ma con solo tre attori di bassa statura. C’è un’interprete di lingua dei segni sul palco come personaggio in costume nell’opera, e fa parte del cast usando il linguaggio dei segni per il pubblico sordo.
C’è un programma di laboratori che sono andati nelle scuole (per disabili, non disabili e integrate) e ha esplorato la natura, l’educazione e chi ha diritto di dire che i disabili non possono essere scelti come interpreti in un’opera teatrale. Il gruppo dei laboratori è composto di facilitatori e attori disabili e non disabili. Il lavoro fornisce ruoli di modello positivi della disabilità per giovani disabili e non disabili, e permette alle persone di usare un processo creativo per smantellare atteggiamenti e pregiudizi che si possono avere sulla disabilità. Graeae svolge inoltre laboratori nelle università esplorando il nostro processo creativo unico, usando lingua dei segni e descrizione narrativa audio per comunicare a un pubblico sordo e cieco.

Ci può parlare di buone (e cattive) esperienze e pratiche tra attori e tecnici disabili e non disabili nelle prove sul palco e nelle rappresentazioni? Avete colto indizi in questo per una società più inclusiva?
Sono in Graeae da 11 anni e ho avuto solo molte esperienze positive di lavoro tra attori, autori, amministratori e produttori disabili e non disabili. Credo che se tutti capiscono il modello sociale della disabilità e abbracciano l’inclusione e la partecipazione, e tutti i requisiti di accesso sono predisposti in modo appropriato, allora tutti nell’ambiente di lavoro sono alla pari.
L’unico caso in cui ci sono problemi è quando professionisti non disabili non sono abituati a lavorare con persone disabili, non sanno come impegnarsi nei differenti modelli di discorso, stili di comunicazione o fisicità delle persone.

Qual è la vostra relazione con i drammaturghi che presentano le loro opere alla vostra compagnia? Avete mai avuto problemi o idee a proposito del loro testo o dell’adattamento teatrale in riferimento alle caratteristiche della vostra compagnia?
La nuova scrittura è la linfa vitale di Graeae. Stiamo portando avanti nuovi schemi di scrittura in collaborazione con writernet, BBC Radio, Paines Plough e il gruppo di autori Royal Court Young People. Commissioniamo ad autori sia disabili che non disabili. Negli ultimi 11 anni abbiamo commissionato 9 nuove opere e abbiamo avuto almeno 12 letture di scena come parte del progetto Display 4 con writernet, e anche Paines Plough Wild Lunches, che consiste in “uno spettacolo, una torta e una pinta di birra” nella sede del teatro all’ora di pranzo. Abbiamo altre tre commissioni in itinere – una è per un nuovo luogo di scrittura, una deve andare nelle scuole e la terza è un musical.
Graeae elabora temi e idee con un autore e un gruppo di attori da una a due settimane per generare materiale per un’opera teatrale. L’autore se ne va per scrivere una prima bozza. Io ho una relazione molto stretta con il gruppo durante lo sviluppo del copione e rispetto a come l’accesso artistico (uso del linguaggio dei segni e descrizione narrativa audio) possa essere integrato nella scrittura. Io e il manager letterario di Graeae abbiamo sviluppato un corso di perfezionamento di scrittura che esplora l’accesso come forma d’arte, e ci rivolgiamo anche al problema di come scrivere sulla disabilità.
Graeae riceve copioni da autori che non conoscono il raggio d’azione della compagnia e pensano che vogliamo solo fare rappresentazioni sulla disabilità. Diamo loro opinioni, ma se davvero vogliamo fare una rappresentazione su questioni di disabilità vogliamo commissionarla a un autore che ci interessa.

Quali sono i vostri progetti futuri nella rappresentazione scenica e nella formazione?
La compagnia ha una solida storia di sostegno ad artisti emergenti, e recentemente ha ricevuto incoraggiamenti dall’Arts Council England a esplorare piattaforme di rappresentazione più vaste per artisti disabili le cui competenze attengono a arte performativa, farsa, esibizione solista, lavoro site-specific e all’aperto. Il potenziale della diversità di piattaforme aumenta la visibilità dell’artista disabile e fornisce la possibilità per il suo lavoro di essere integrato indipendentemente entro generi differenti.
Graeae ha fornito la prima opportunità professionale per un gran numero di attori sordi e disabili. La compagnia è attiva nell’offrire sviluppo professionale continuo per gli ex-attori. Graeae ha da sempre un impegno a formare attori, e per 5 anni abbiamo gestito un corso di formazione dove abbiamo formato 49 attori che ora lavorano in teatro, cinema, TV e radio. Ora lavoriamo con scuole di arte drammatica per accertarci che il loro processo di costruzione, marketing e reclutamento e la loro pratica di formazione siano accessibili. Stiamo anche lavorando su progetti di relazioni esterne che incoraggino giovani con disabilità a fare domanda per le scuole di arte drammatica.
Graeae offre ripetutamente consulenze di casting e promuove attori quando siamo contattati da compagnie teatrali, aziende cinematografiche e TV. La compagnia sta sviluppando 12 artisti associati, la maggior parte dei quali hanno concluso precedenti corsi di formazione per attori. Tutti hanno recitato o scritto per la compagnia, e gestiscono laboratori, letture di copione, corsi di sviluppo e formazione, e svolgono un importante ruolo di ambasciatori.
Graeae ha un posto unico nel teatro del 21° secolo. È la sola compagnia che usa attivamente il processo teatrale per garantire che la lingua dei segni e la descrizione audio siano fermamente integrate con l’intera produzione, e non solo aggiunte in via eccezionale per spettacoli. Se un’opera teatrale richiede un approccio più tradizionale a linguaggio dei segni e descrizione audio, la compagnia tuttavia sviluppa il lavoro al proprio interno e utilizza l’opportunità per formare nuovi interpreti di linguaggio dei segni e descrittori audio.
La compagnia è vista sempre come un “rischio” dal mondo del teatro mainstream, dal momento che osiamo avere attori disabili in narrazioni che tradizionalmente sono state sempre e solo impersonate da attori non disabili (es. Bent di Martin Sherman – un cast maschile tutto di disabili ed etnicamente vario –, Blasted [Dannati] di Sarah Kane, The Changeling [Gli incostanti], ecc.) ed esporre la complessità dell’accesso a tutti i pubblici. Comunque, abbiamo passato gli ultimi 10 anni a costruire alcune relazioni molto forti con il Lyric Hammersmith, il Teatro Stabile di Birmingham, i teatri New Wolsey di Ipswich e Soho e la compagnia Suspect Culture, e continueremo a fare coproduzioni non solo per condividere nuovi processi teatrali, ma per dare ai nostri attori l’opportunità di lavorare con altre compagnie di alto profilo. Le coproduzioni danno anche ai nostri partner una consapevolezza del lavorare con persone disabili e una penetrazione globale nell’eccitante processo di creare teatro accessibile.
Abbiamo un contatto in corso con il Giappone. Ho diretto un adattamento di Bodas de Sangre [Nozze di sangue] di Garcia Lorca con un cast di disabili e non disabili al teatro pubblico di Setagaya a Tokyo nel 2007. Inoltre, abbiamo due nuovi spettacoli all’aperto in coproduzione: uno si chiama The Medal Ceremony, ed è una rappresentazione che fonde esibizioni sui trampoli con attori a terra che combinano abilità fisica e linguaggio dei segni per indicare il momento della consegna di una medaglia, mentre The Rhinestone Rollers sono 8 signore che usano carrozzine elettriche, che danno un significato totalmente nuovo al ballo di gruppo – quest’opera è disponibile per festival di arte di strada.
La nostra relazione con la più ampia ecologia del teatro è vitale non solo per promuovere le capacità di attori disabili, ma anche per aprire il potenziale di opportunità per scrittori e registi disabili e per dare forma alla pratica attuale.
La nostra collaborazione più recente è stata con BBC Radio4, dove due scrittori disabili hanno adattato Il Gobbo di Notre Dame con un cast di disabili e non disabili. L’opera è stata diretta da registi BBC. I laboratori di Whiter than Snow partono a febbraio 2009, e lo spettacolo debutta il 3 marzo e va in tour fino ad aprile.
Alla fine di aprile Graeae si sposterà finalmente nella sua nuova casa, che avrà uffici, spazi di prova e una stanza creativa in cui scrittori, artisti associati e professionisti lavoreranno. Sarà la prima volta in 30 anni che la compagnia avrà una propria casa.

Per informazioni:
www.graeae.org

Lettere al direttore

Caro Claudio,
mi chiamo Beatrice e ho appena finito il liceo classico Minghetti di Bologna dove ti vidi per la prima volta in un incontro a scuola grazie all’invito della mia prof di religione Martina Amaduzzi.
Ho letto il tuo ultimo articolo su “Il Messaggero di S. Antonio” e vorrei raccontarti come, grazie a una serie di “voci” completate poi da un mio gesto, ho avverato il sogno dei miei 15 anni (ora ne ho 19) e cioè come ho conosciuto il ragazzo che ha triplicato per la prima volta i battiti del mio cuore.
[…] Dunque… era la metà dell’agosto 2004 quando una domenica mi sono recata a messa nella chiesa di Marina di Ravenna dove vado regolarmente in vacanza. Ero insieme ai miei genitori e nella panca davanti alla nostra sedevano nell’ordine un ragazzino dalla chioma riccia rossa, una signora magra bionda, un bimbo piccolino che dava sempre tanti bacini alla sua mamma e un ragazzo di media altezza e media corporatura dai capelli dorati. Fu quando si voltò per il segno della pace che vidi che portava un paio di occhiali Rayban che mi ricordarono subito il fascino indelebile di Tom Cruise in Top Gun (hai presente vero?!). Purtroppo di quella messa non mi rimase granché perché i miei occhi si erano incollati su quell’arcangelo biondo seduto davanti a me e quando al ritorno dalla Comunione vidi i suoi occhi verdi, molto simili a quelli della signora di fianco, il cuore moltiplicò i suoi battiti per tutta la settimana successiva per poi triplicarsi la domenica seguente quando lo rividi nella stessa occasione.
Inutile dirti che per la prima volta desiderai che la messa durasse all’infinito… ma purtroppo anche la messa più bella ha un termine di tempo e, appena iniziato il canto finale, la signora bionda-mamma del piccolo uscì subito dalla chiesa e con mia grande meraviglia vidi mia madre uscire dalla chiesa velocemente prima di me mentre io… beh immagini chi stessi guardando io!!
Solo più tardi mia mamma mi disse che aveva seguito la signora bionda e aveva in mano un foglietto con la targa della macchina in cui era salita con il piccolo. Tutto ciò che sapevo di quella meraviglia era questo: una Mercedes station wagon panna.
Passò un anno […], l’estate successiva andò così: ovviamente andai alla messa domenicale con molto più entusiasmo del solito, che però un po’ si affievoliva quando con lo sguardo setacciavo la chiesa in lungo e in largo e non sfolgorava nessun ragazzo biondo, ma non persi di certo la speranza e continuai così per tutto giugno e luglio fino a quando non riconobbi a stento la signora (meno bionda) e il piccolo già discretamente cresciuto rispetto all’anno precedente… di lui, però, nessuna traccia.
Quando uscimmo dalla chiesa mi colpì in modo particolare la mini mountain bike del bimbo, era minuscola e tutta colorata, mi rimase molto impressa mentre la mamma la stava slegando dal porta bici che fiancheggia la chiesa dedicata a S. Giuseppe.
La settimana dopo andai a messa il sabato pomeriggio ma non la domenica mattina, per esaudire la richiesta di mia mamma di andare a raccogliere pinoli freschi per una torta, passeggiando lungo le strade costeggiate dai pini, mi ritrovai dalla chiesa e vidi la biciclettina… “è già passato un anno” –
mi dissi – “se non voglio lasciarne passare un altro devo fare qualcosa”. E il qualcosa si chiamava vecchio scontrino e pennarello indelebile.
Ho scritto, appoggiata a un vaso di fiori, “A che bagno sei? un’ammiratrice di tuo fratello (quello più grande) e il mio numero di cellulare” e ho poi incastrato il bigliettino nel portapacchi della bicicletta multicolor.
[…] Morale della favola (perché la considero una favola) al pomeriggio ricevetti uno squillo seguito da questo messaggio: “Sei tu quella che ha lasciato il biglietto sulla bici di mio fratello?”. Un arcangelo non poteva che andare al bagno Paradiso, che guarda caso era il secondo bagno dopo il mio, ci siamo incontrati la mattina dopo e la prima cosa che mi disse dopo il suo nome (Giovanni) fu che sperava che l’autrice del biglietto fosse quella ragazza riccia che l’anno prima sedeva dietro di lui e che indossava una gonna beige, lui avrebbe tanto voluto conoscerla ma la paura di un rifiuto lo terrorizzava troppo (quanti battiti avesse il mio cuore in quei momenti non saprei dirlo, ricordo però che quella sera lo sterno mi ha creato un poco fastidio!). Siamo stati insieme circa un anno e mezzo e di cambiamenti nelle nostre vite ce ne sono stati tanti da quel nostro primo, sognato, bramato, pregato incontro e ringrazio ancora oggi il Vero Autore di tutto ciò, per aver realizzato questo mio sogno d’oro.
Beatrice

Avrei voluto da sempre tenere una Rubrica del Cuore, come quella di Natalia Aspesi sul Venerdì de la Repubblica, nella quale la smaliziata giornalista solitamente “trafigge” i malcapitati scrittori/confidenti con i suoi giudizi pungenti, ma in ultima istanza comprensivi.
Al liceo già mi esercitavo: le mie compagne di classe mi confidavano i loro travagli sentimentali, a volte mi chiedevo se avessero tutte le rotelle al posto giusto, ma poi ammettevo sempre che l’amore ha poco a che fare con dei meccanismi ben oliati e perfettamente funzionanti. Altrimenti non sarebbe amore…
Col tempo mi ero anche accorto che le situazioni ritornavano, ed era come se avessi costruito, un po’ alla volta, una gamma di risposte che poi adattavo al singolo caso: su queste potevo fare affidamento per cercare di risolvere anche gli intrecci e gli intrighi più complicati, o per tentare di ricomporre i pezzi dei cuori più infranti.
Insomma, ero diventato un esperto: io rappresentavo un punto fermo per le mie compagne e il fatto stesso che a me si rivolgessero mi dava fiducia. In fondo era un dare e ricevere reciproco, proprio come l’integrazione. Ma non è di questo che vorrei parlarti, per una volta: piuttosto mi fermerei volentieri sull’“Arcangelo Biondo” di cui mi hai raccontato.
Intanto per farti notare, cara Beatrice, la fantastica variazione sul tema: non siamo di fronte a un comune Principe Azzurro, ma a un Arcangelo Biondo… se non altro quest’ultimo esiste, mentre il primo resta così, sospeso tra finzione letteraria, mito, sogni e aspirazioni irrealizzabili…
In secondo luogo, ed è questa la cosa più importante, mi hai ricordato un aspetto fondamentale dei movimenti amorosi del cuore, e della vita in generale: che quel che conta non è la soddisfazione dei bisogni (per realizzare la quale si possono scegliere percorsi poco accidentati e dal risultato praticamente certo), ma la realizzazione dei propri sogni. E questa può prevedere sconfitte, sentieri tortuosi, sofferenze. E ancora: tormenti, digiuni, attese impazienti di un trillo del cellulare…
Cara Beatrice, tu già dal nome dantesco ti porti dietro un destino d’amore ai più alti livelli, e certamente riuscirai ancora a far tuoi Angeli e Arcangeli. Io, intanto, ti ringrazio per le intime e illuminanti memorie che hai voluto raccontarmi. E che dire? All you need is love, papparapapà ma questo non vale solo per Beatrice…
Dr. Claudio “Stranamore” Imprudente

Un tesoro nella dispensa

Il servizio di assistenza domiciliare per persone con disabilità 

In questo periodo Giovanna e Luca condividono lo stesso bisogno: un lungo, ritemperante letargo.

Una somma difficile da calcolare – Superabile, ottobre 2011 – 1

Ogni inizio di anno scolastico porta con sé tante speranze, aspettative, desideri, espressi e sentiti da tutti gli "attori" coinvolti, insegnanti, alunni, personale amministrativo, dirigenti… Allo stesso tempo ogni anno scolastico è una finestra aperta su un mare di dubbi, preoccupazioni, criticità. Anzi, una doppia finestra: la prima guarda a quello che verrà, la seconda a quanto viene dal o resta del passato e si è sedimentato, accumulato, in questo caso con riferimento a quegli elementi che potremmo definire problematici. Come se la fine di un anno scolastico non coincidesse con la fine delle istanze che nell’arco del suo svolgimento si erano presentate e che, allora, si presentano puntuali a due-tre mesi di distanza. Aggiungendosi a quelle che invece potrebbero presentarsi per la prima volta.

Perché il mondo dell’educazione e dell’insegnamento non è mai uguale a se stesso, e non solo dal punto di vista pedagogico. Spesso a comportare delle differenze sostanziali (oltre, ovviamente, alle politiche nazionali e locali in materia di scuola pubblica o meno) è la composizione stessa delle classi, la qualità e le caratteristiche dei singoli alunni che insieme strutturano il "gruppo-classe". Ogni sezione è diversa dalle altre, certo, e questo è vero da sempre. Ma possono esserci alunni che alla scuola (oggetto di questo articolo, ma il discorso vale per tanti altri ambiti che con la scuola intrattengono legami più o meno forti) richiedono un "adattamento" meno meccanico, più complicato e, quindi, per certi versi, un riassestamento a più livelli.

La rivista Hp-Accaparlante aveva pioneristicamente dedicato al tema la monografia del numero 2 del 2008, Una casa di vetro lungo il fiume. Migranti con disabilità: contesti, vissuti, prospettive, riservando un capitolo ad una ricerca svolta dall’Università di Bologna – Facoltà di Psicologia di Cesena, condotta dal prof. Alain Goussot e relativa proprio ai bambini migranti con deficit. Dalla quale emergeva, a grandi linee, che i bambini disabili stranieri hanno gli stessi "bisogni speciali" degli altri ragazzini, ma con "l’aggravante" di conoscere, più o meno bene, una lingua diversa. Anche la cultura differente e la fatica dei maestri, dei professori e degli insegnanti di sostegno di rapportarsi con la famiglia di origine, nonché la loro scarsa preparazione sui temi dell’approccio interculturale alla disabilità, si presentavano come variabili che rischiano non solo di non dare risposte concrete all’integrazione scolastica, ma anche di incidere sulla diagnosi funzionale dei bambini disabili figli di genitori immigrati. Soprattutto quando si tratta di distinguere tra difficoltà e disturbi dell’apprendimento.

Di pochi giorni fa la notizia di uno studio condotto a Piacenza dalla ricercatrice Caterina Martinazzoli, che sottolinea la doppia condizione di svantaggio vissuta dai bambini allo stesso tempo "migranti" e disabili e i problemi inediti che la loro presenza pone alle figure docenti. Come è già avvenuto e tuttora avviene con la "semplice" disabilità, la condizione di disabile-straniero ci garantisce un punto di osservazione privilegiato per vedere non solo se e come la scuola sarà in grado di modellarsi per riuscire a gestire e valorizzare anche situazioni così problematiche, ma per valutare la risposta della società nel suo complesso (l’idea, da me espressa più volte, che la disabilità sia un potente "monitor sociale").

Se, come già emergeva dalla ricerca cesenate, una delle difficoltà principali è la capacità di comprendere se le difficoltà di apprendimento siano legate allo svantaggio socio-culturale dovuto alla migrazione o a una effettiva disabilità, a questa si aggiungono le difficoltà dei genitori ad accettare l’eventuale deficit (spesso non certificato nel paese d’origine), vissuto a volte con vergogna. Ma superato questo primo passaggio, le famiglie accettano e collaborano con le insegnanti per cercare di stendere un progetto educativo e di sostegno quanto più adeguato. Tenendo presente che le ricerche empiriche e, in generale, il materiale di documentazione sono praticamente inesistenti, così come non è ancora possibile rinvenire modelli didattici specifici e "replicabili": si tratta, quindi, il più delle volte di creazioni, elaborazioni ex-novo, la cui efficacia è tutta da verificare, caso per caso.

Si tratta, indubbiamente, di una sfida aperta che necessita di essere affrontata con convinzione ed organizzazione da subito, dal momento che è difficile immaginare un futuro in cui questi casi diminuiranno piuttosto che aumentare. Una sfida che cade in un momento non facile per la scuola italiana, che di tutto avrebbe bisogno tranne che di nuove urgenze e priorità con cui confrontarsi, date le condizioni in cui si trova ad operare, soprattutto negli ultimi anni. Ma anche una sfida, ne sono certo, che darà nuova linfa e nuovi stimoli a chi ha fatto e farà dell’insegnamento il proprio ambito ed orizzonte di vita e che saprà restituirci in modo ancora più evidente la qualità dei maestri ed egli insegnanti della nostra scuola; e che, di necessità, richiederà una collaborazione ancora più stretta (e potenzialmente molto fertile) tra l’istituzione scolastica e tutte quelle realtà e professionalità che operano in ambiti affini (associazioni, cooperative, enti no-profit, mediatori culturali…) e che hanno avuto già modo di indagare il fenomeno e di affrontarlo nella sua concretezza.

A proposito di concretezza: mi piacerebbe che questo articolo fosse di stimolo a chi ha già vissuto esperienze di questo tipo a condividerle e metterle in circolazione. Mi offro come calamita e come messaggero: scrivete a claudio@accaparlante.it o cercate il mio profilo su Facebook. Cercherò di far girare quanto più possibile ogni segnalazione, racconto, progetto, programma che possa arrivarmi. (Claudio Imprudente)

(3 ottobre 2011)

Lo sguardo sullo scafale – Sordità minorile in Bas-Congo: il nuovo istituto “Florentia”

A Boma, città portuale congolese adagiata sull’estuario del fiume Congo, è sorto un nuovo istituto che accoglierà circa un centinaio di bambini sordi e darà loro la possibilità di essere curati e istruiti e di sperare in un futuro di più facile inclusione sociale. L’istituto “Florentia” è il risultato del progetto “La Sordità non ha Colore”, portato avanti con caparbietà dall’omonima associazione e da una rete di solidarietà guidata dal Prof. Giuseppe Gitti, direttore del Centro di Riabilitazione Ortofonica di Firenze e grande esperto per tutto ciò che riguarda la sordità minorile.
È proprio il prof. Gitti a chiarire le ragioni di un tale progetto e le sfide che lo animeranno.

Sappiamo che nonostante le grandi ricchezze naturali la Repubblica Democratica del Congo resta uno dei paesi più poveri del globo, nel quale prima una feroce dittatura e poi un conflitto armato tra i più sanguinosi della storia hanno completamente distrutto Stato e comunità. Può aiutarci a tracciare un quadro più preciso della situazione nella quale vi siete trovati a operare?
Innanzitutto consideriamo che il nuovo istituto per bambini sordi “Florentia” si trova a Boma, in Bas-Congo, in una zona cioè che per povertà e assenza di infrastrutture non fa purtroppo eccezione rispetto al resto del paese.
Lo Stato è sostanzialmente inesistente e diritti che per noi sono scontati, come l’accesso alle cure mediche e all’istruzione restano ancora un privilegio riservato a chi ha certe possibilità economiche, mentre continuano a essere un miraggio per la maggior parte degli abitanti.
In una situazione come questa è facile immaginare che le persone disabili non ricevono dallo Stato nemmeno i servizi più essenziali, quando per di più le famiglie stesse versano in condizioni tanto drammatiche da non poter provvedere in alcun modo al loro sostentamento e alla loro cura.

Qual è, da un punto di vista più specifico, la situazione rispetto alla sordità in Repubblica Democratica del Congo?
Premesso che in Congo è pressoché impossibile stilare statistiche, abbiamo comunque potuto verificare che contrariamente a quanto si potrebbe pensare la percentuale dei sordi laggiù non è molto diversa da quella italiana. Questo perché le prime vittime dello spaventoso tasso di mortalità infantile sono tutti i bambini con qualche disabilità, quindi anche quelli sordi. Un dato interessante – anche se mancano numeri precisi – è il fatto che tra le cause ereditarie della sordità figuri anche il matrimonio tra consanguinei, una pratica che io stesso ho potuto constatare durante i miei viaggi in Bas-Congo.
Per quanto riguarda l’educazione e abilitazione dei bambini sordi la situazione è a dir poco disastrosa. Esistono piccolissime realtà a Kinsasha e in altri centri, gestiti con indubbia generosità da congregazioni religiose, ma che hanno a che fare con difficoltà oggettivamente insormontabili. Gli abitanti del Bas-Congo non possono contare sulla presenza di ambulatori medici facilmente raggiungibili… Basti pensare che prima dell’apertura del centro “Florentia” non esistevano centri specializzati per le patologie dell’udito nel raggio di 400 km, una distanza infinita se consideriamo la carenza di vie di comunicazione e di mezzi di trasporto della zona.
Non dobbiamo dimenticare che la qualità della vita di una persona affetta da deficit uditivo dipende essenzialmente dalla tempestività della diagnosi e dalle cure che le vengono offerte. Un bambino sordo non è condannato a essere muto e ancor peggio a restare escluso dalla comunità, ma per scongiurare questo rischio occorre mettere in campo risorse, competenze e azioni specifiche.
Proprio per questa urgenza di fare qualcosa e di dare una chance a quei bambini, ci siamo avvicinati all’idea di attivare un filo diretto con il Congo. Ma l’esperienza ci ha insegnato che se non si valuta obiettivamente il contesto nel quale si va a operare si rischia di vedere vanificato il proprio lavoro. È indispensabile costruire realtà sufficientemente strutturate in grado di garantire una certa continuità di azione, altrimenti si finisce per creare piccole o grandi “cattedrali nel deserto” che non servono assolutamente a nulla. Da qui è nata l’idea di costruire l’istituto “Florentia” per bambini sordi.

Si tratta di premesse attente e importanti: quali saranno allora le varie anime dell’istituto “Florentia” di Boma?
L’istituto “Florentia” è senza dubbio alcuno una struttura complessa, che vuole rispondere alle varie esigenze degli ospiti che vi abiteranno e della comunità che l’ha visto sorgere.
Il plesso è stato progettato e costruito per accogliere circa 50 bambini in internato, e se sarà possibile, 50 in esternato. Il nostro obiettivo è quello di offrire ai piccoli ospiti condizioni di vita più dignitose, sollevando le famiglie dal lavoro di cura. I giovani che vivranno in istituto incontreranno le famiglie con regolarità ma restando al “Florentia” potranno ricevere le cure adeguate e intraprendere percorsi di rieducazione e abilitazione specifici. A tal fine l’istituto è completo di ambulatori di audiologia, otorinolaringoiatria, odontoiatria, neuropsichiatria e in esso sarà possibile intraprendere percorsi individualizzati di protesizzazione, fondamentali per il buon sviluppo del linguaggio e della comunicazione.
Uno dei punti fondamentali del progetto è la nostra volontà di dare ai bambini di cui ci occuperemo gli strumenti per la loro futura inclusione sociale: in un paese nel quale l’analfabetismo è quasi la regola l’istruzione resta una priorità, ma oltre alle aule in cui i ragazzi seguiranno le lezioni scolastiche più tradizionali, abbiamo predisposto anche laboratori – come la falegnameria, la sartoria, la panetteria – nei quali i ragazzi possano acquisire competenze concrete e specifiche da spendere poi in futuro, contribuendo allo stesso tempo all’autofinanziamento del centro. Infine saranno presenti anche strutture che consentiranno attività di agricoltura e allevamento nelle quali saranno coinvolti i ragazzi e gli abitanti della zona.

Nonostante tutti i limiti del nostro vivere insieme in Italia siamo abituati a pensare a un sistema che includa le persone disabili nella comunità, prima di tutto in ambiti come quello scolastico. A cosa è dovuta la vostra scelta di costruire un “istituto per sordi” che potrebbe sembrare a prima vista una struttura quasi totalizzante?
Non avevamo scelta. Abbiamo agito in questo modo per cercare di creare una struttura che desse continuità al progetto. In Italia gli istituti per sordi non esistono più, ma pensare che a breve possa essere così anche in Congo equivale a negare la realtà dei fatti. Ad oggi pensare all’integrazione dei bambini sordi nelle scuole congolesi è inconcepibile e sicuramente ogni tentativo in quella direzione sarebbe un fallimento. È indispensabile a mio parere limitarsi a realizzare ciò che è possibile senza creare aspettative irrealizzabili al momento. Teniamo conto che in Repubblica Democratica del Congo lo Stato ancora non esiste e la situazione economica è disastrosa.
Questo non significa dimenticarsi dell’importanza di legare il progetto alla comunità: l’intera struttura sarà proprietà e verrà gestita dalla Curia di Boma, mentre i professionisti che svolgeranno nell’istituto il proprio lavoro saranno i congolesi impegnati al momento in stage e percorsi di studio e formazione in Italia. E come al momento della costruzione delle strutture e degli edifici erano operai congolesi a dare vita al centro, saranno i professionisti a curare i piccoli, aiutati nel loro grande impegno – speriamo – da personale volontario proveniente dall’Europa. Vorremmo che l’istituto “Florentia” non fosse un luogo isolato, ma al contrario siamo decisi a fare in modo che divenga un luogo chiave della comunità, a essa legato, in essa inserito.
Vorrei concludere con una nota sul concetto di integrazione, tanto discusso e tanto importante: in base alla mia esperienza ho avuto la netta sensazione che in Congo l’integrazione non sia da intendersi come un obiettivo, ma un dato di fatto, soprattutto se si considera che la comunità è formata da famiglie molto allargate e risulta animata da reti di relazione ben più strette di ciò che si verifica nella nostra società occidentale.

Per saperne di più: www.lasorditanonhacolore.it
 

Una squadra speciale

Navigando in internet mi sono imbattuto in una storia che mi ha incuriosito molto e che mi ha fatto riflettere sulla percezione che ogni persona ha dei propri limiti: è quella del Team Hoyt. Su YouTube circolava un video, di quelli con frasi a effetto che si susseguono sullo schermo sopra le immagini, con annesso sottofondo musicale strappalacrime… Ho voluto approfondire la storia dei protagonisti, al di là della realtà romanzata del video. Ho scoperto un padre e un figlio, con nomi che all’inizio mi hanno fatto sorridere: Dick e Rick. Nomi abbastanza banali, e anche la storia dell’handicap di Rick mi è sembrata altrettanto banale: nato con il cordone ombelicale stretto intorno al collo, ha subìto una paralisi cerebrale per la mancanza di ossigeno al cervello. Una storia abbastanza comune, forse, almeno fino a qualche anno fa, uno dei modi più frequenti per acquisire un deficit da parte di un bambino sano. Anche gli anni a venire sembrano segnati da una “normalità dell’handicap”: un bambino sveglio intrappolato in un corpo totalmente inattivo, i dottori che vedono Rick solo come un vegetale, che non ne riconoscono l’intelligenza, che lo condannano alla previsione di una vita da “pianta da appartamento”.
I genitori, invece, ne scrutano l’intelligenza e, qui, la mia prima sorpresa, il dettaglio che mi fa intuire che la storia del Team Hoyt merita uno sguardo più approfondito. I genitori di Rick convincono il suo medico riguardo alle sue capacità intellettive chiedendo al luminare di raccontare una barzelletta a Rick. Il medico racconta perplesso una di quelle freddure che fanno rabbrividire… e Rick ride. Ecco, ho trovato questo modo di dimostrare l’intelligenza di una persona molto poetico. La cosa assurda è che quando io mi metto a ridere, magari perché solo io ho trovato divertente qualcosa, che, per esempio, mi ha riportato alla mente un episodio simpatico, i più pensano che io rida da solo perché sono “semplice”, uno sciocco, insomma. Invece, l’ironia è una delle principali forme di intelligenza, è una delle forme verbali di più sottile e difficile comprensione. Ci sono persone per così dire “normali” che non sono dotate del minimo senso dell’umorismo. Rick, invece, dimostra al mondo la sua intelligenza ridendo a una battuta.
Una volta conclamata la sua intelligenza, finalmente i medici si decidono a trovare un modo per farlo comunicare. Attraverso uno speciale computer, a 12 anni Rick, per la prima volta, parla. Le prime parole che digita, però, non sono “ciao mamma” o cose simili, bensì… “Go Bruins!”, un incitamento per la sua squadra del cuore. Solo in quel momento, il mondo, genitori compresi, scoprono che è appassionato di sport. Anche questo fatto è abbastanza significativo. Un ragazzino di 12 anni, che fino ad allora non ha mai avuto modo di esprimersi, si racconta per la prima volta in vita sua dicendo al mondo di essere un tifoso di una certa squadra. Insomma, per un giovane segnato da un handicap così grave è abbastanza particolare riassumere il proprio sé in un atto da tifoso sfegatato di uno sport che mai potrà praticare in vita sua. Inoltre, non è facile per un ragazzo con un grave deficit, che viene accudito in tutto e per tutto, nascondere per anni un simile “segreto”, che può essere interpretato come una bella manifestazione di indipendenza e libertà del pensiero. Anche una persona come Rick, che non può nascondere nulla del suo corpo e delle sue (poche) azioni a chi lo accudisce quotidianamente, può coltivare una passione sua propria, qualcosa che, quando rivelata, è in grado di stupire tutto il suo mondo.
Con gli anni Rick, che ha evidentemente ereditato lo spirito battagliero dal padre, ex colonnello dell’esercito, ottiene anche una laurea, impresa non da poco per uno che fino a poco prima era considerato un vegetale. Ma il bello della storia viene quando Rick decide di rendere concreta e attiva la sua passione per lo sport. Un giorno, chiede al padre di partecipare, insieme, a una maratona. Chiede al padre, cioè, di correre una maratona spingendo lui sulla carrozzina. Il padre all’inizio è titubante, dal momento che è sulla quarantina e non molto allenato. Naturalmente, prevale il desiderio di rendere felice il figlio. Dick comincia così un duro allenamento. È significativo notare come il padre si alleni e cerchi di trasformare il suo corpo perché esso possa sopperire alle mancanze fisiche del figlio, quasi come se dovesse diventare forte abbastanza per tutti e due. In fondo, è come se Rick in tal modo abbia indotto anche il padre a confrontarsi con i suoi limiti fisici e a cercare di superarli. Probabilmente, il padre, durante l’allenamento, scontrandosi con le difficoltà che conseguono lo sforzo fisico e con i suoi limiti, si sarà sentito ancora più vicino al figlio, ai suoi deficit, perché avrà scoperto le proprie mancanze e compreso quanto siano “normali”. Semplicemente, nel padre esse sono visibili solo nel voler correre la maratona, nel figlio sono invece più trasparenti, più immediate, limitanti per cose meno complesse di una lunga corsa, ma non per questo meno simili. Dopo quella maratona, ne sono seguite molte altre. Anzi, sia il padre, sia il figlio hanno cercato di andare veramente oltre i loro limiti, passando addirittura dalla maratona al triathlon, dura disciplina per veri atleti che consiste in gare di corsa, nuoto e bici. Ancora più incredibile, dal triathlon sono approdati addirittura all’Ironman, disciplina solo per atleti estremamente forti e allenati che prevede le stesse discipline del triathlon, ma su distanze raddoppiate. Tale sport è così impegnativo che i pochi temerari che lo praticano si sentono davvero un gruppo, ne fanno uno stile di vita. Come dice il nome stesso, Ironman, “uomo di ferro”, coloro che lo praticano si sentono quasi superuomini, con caratteristiche di prestanza fisica ben superiori alla media. Il padre, nel raccontare le loro imprese, sempre più ardue, sempre in team, scontrandosi spesso con le diffidenze degli organizzatori e degli altri atleti, oltre a descrivere le tecniche usate per trasportare il figlio sulla bici o sul canotto, spiega come lui si senta solo due gambe e due braccia prestate al vero atleta, il figlio. Tuttavia, la cosa che più mi ha colpito è stato leggere che, al momento di correre in due questa coraggiosa maratona, il ragazzo ha detto al padre che, mentre prima si sentiva diverso, handicappato nel senso più limitante del termine, dopo la prima corsa, per la prima volta, e sempre, da allora, quando gareggiano, si è sentito davvero “normale”, forte, uguale a tutti gli altri. Questa frase ha commosso tutti, viene sempre citata dal padre come il vero motivo di gioia per lui e di sprone a tutti i sacrifici cui si sottopone per gareggiare col figlio. Tuttavia, mi ha subito fatto pensare che io, al suo posto, mi sarei sentito davvero handicappato solo nel momento in cui mi fossi messo a gareggiare con atleti forti e dal fisico perfetto, e semplicemente perché ero trasportato da un’altra persona, non certo per una conquista mia personale. Da giovane, durante le vacanze con altre persone disabili giocavo a calcio in carrozzina ma questo sport non mi ha mai convinto del tutto perché era chi mi spingeva a decidere la mia posizione in campo e dove andare quando avevo la palla tra i piedi, mentre ho sempre pensato che un giocatore è bravo quando sa muoversi con o senza palla autonomamente. Ho sempre creduto che le scuole speciali che ho frequentato nell’età dell’obbligo siano state un vero toccasana per la mia autostima e la mia crescita equilibrata. In una classe di ragazzini normodotati, il mio deficit mi sarebbe pesato molto, per quanti talenti avessi avuto e per quanti sforzi avessi fatto, sarei comunque partito in una condizione di svantaggio. Frequentando, invece, una scuola speciale, mi trovavo a partire nella stessa condizione di “trasparenza” e potenzialità dei compagni. Pertanto, nel tempo, ho avuto modo di apprezzare le differenze fra noi, di gioire dei miei successi, talvolta, ebbene sì, di sentirmi più bravo degli altri, cose che per un bambino sono indispensabili per cementare la propria autostima, figuriamoci per un bambino con limiti così evidenti. Ho imparato ad apprezzare ciò che avevo, le mie qualità, le mie capacità, perché queste hanno avuto lo spazio e il modo per risaltare adeguatamente. Per questo motivo, le parole di Rick mi hanno fatto pensare, ma esse sono anche il segno che, fortunatamente, non tutti la pensano allo stesso modo, neanche sui propri deficit e la propria autostima. Questa è una cosa molto positiva, perché chi meglio di noi può affermare che la diversità è una ricchezza?

Una pennellata, una parola, una… e una…

“Ci sono mondi che sembrano distanti
anche quando si incontrano nello stesso palazzo,
nel quartiere o nella città
e mondi che sembrano lontani per lingua, cultura,
religione o geografia”.

(dal sito della Comunità di Sant’Egidio)

Sono mondi che devono coesistere e convivere sotto lo stesso cielo, spesso nelle strade di una stessa città, sui banchi della stessa classe; e sono i protagonisti di questa tredicesima edizione della mostra “Abbasso il grigio”, ospitata al Museo di Roma in Trastevere a inizio autunno. Sulla scena sono gli ingranaggi della coabitazione, le sue vie e i suoi percorsi all’interno dei quali si intrecciano i vissuti, le vite, le storie e i volti di stranieri, rom, anziani e gente comune. Come sempre succede anche l’arte contemporanea è chiamata a interrogarsi sulle questioni importanti del nostro tempo, a colpi di colore è chiamata a tentare delle risposte o, perlomeno, a comunicare un pensiero, un modo di sentire, capace di andare oltre le parole. Spesso usate. Spesso abusate.
Con “Abbasso il grigio” a farlo sono artisti disabili, protagonisti dei laboratori creativi di ricerca e sperimentazione della Comunità di Sant’Egidio e che fanno parte de “Gli Amici”, movimento della Comunità, costituito da migliaia di disabili mentali, con i loro familiari e amici, presente in diverse città italiane ed europee, e di altre dieci associazioni.
Sono gli ingranaggi e i meccanismi del vivere insieme che caratterizzano le nostre città di oggi, spesso violenti ma anche accoglienti: le migrazioni di oggi insieme a quelle del passato, la convivenza che attraversa i diversi colori degli uomini, la presenza degli zingari, le guerre che ancora abitano questo mondo, i viaggi della speranza di chi scappa dalla disperazione per tentare di concedere dignità a una vita che tanta ne potrebbe avere. Tutto questo passa attraverso i colori, nei profumi e nelle forme delle opere di questa tredicesima edizione, che sembra voler urlare, insieme a quel “Abbasso il grigio”, anche la fiducia nella costruzione di un mondo che sia per tutti. Opere forti che mostrano questa nostra società estremamente stratificata, ricca di contraddizioni e di barriere contro le quali scontrarsi ma anche un bacino di potenzialità, di ricchezze e meraviglie da non lasciar andare. Tele, sculture, video, parole e scritti a rappresentare proprio questo percorso, attraverso la ricerca della coabitazione pensata come possibile. Una sfida possibile.
Il quadro La tonnara dei clandestini racconta i viaggi della speranza che gli immigrati intraprendono per raggiungere le nostre coste e cercare un futuro migliore. Fuoco a Marcinelle, incentrata sulla tragedia in cui rimasero uccisi duecentocinquanta nostri connazionali immigrati in Belgio, mostra come anche gli italiani fino a non troppi anni fa, abbiano lasciato la loro terra per subire, o semplicemente vivere, il confronto con un mondo nuovo nel quale immergersi e integrarsi, nel quale l’incontro del diverso era, anche allora, una sfida. Molte le opere che hanno scelto come protagonisti i Rom e gli Sinti, definiti in una poesia che ha accompagnato le opere, come un “popolo piccolo libero senza papà”; così come il ricordo alla loro persecuzione e sterminio nei campi nazisti, illustrato nella tela Il triangolo marrone, a ricordare proprio il segno distintivo dei Rom all’interno dei campi di concentramento.
Tutto passa dalla tela: colori diversi e diverse tecniche espressive, così come sono molteplici le personalità artistiche dei partecipanti. Si passa dagli acquerelli con colori vivaci, ai pastelli con sfumature delicate, dall’essenzialità morbida dei carboncini, alle linee stilizzate delle chine. Fantasia e sensibilità diventano spontaneità di espressione, colori e tratti sostituiscono l’inadeguatezza della comunicazione prettamente verbale. In “Abbasso il grigio” i colori e le immagini si mescolano alle parole per diventare un importante invito all’ascolto: quel grido alla possibile coabitazione è anche un vero e proprio appello a prendere sul serio la voce di questi artisti che non usano la comunicazione verbale. Non lo sanno fare, non lo possono fare. Non per questo non comunicano. Lo fanno in un modo del tutto originale: mettono mano alla fantasia, alla creatività che si nasconde nel “dire senza dire”, nella pennellata, nel tratto a volte deciso e a volte debole e soffice in mezzo al mescolarsi convulso di parole. E ancora parole. E ancora parole.
Una carrozzina smontata, di cui sono stati scelti pochi pezzi, viene rimontata liberamente. I pezzi di tre carrozzine vengono riassemblati in qualcosa che non è una carrozzina, non sono nemmeno tre carrozzine. Sono qualcosa d’altro, Qualcosa di diverso. Sembra un nuovo pensiero. Così l’arte che “Abbasso il grigio” mostra non è solo espressione artistica, non è nemmeno lavoretto per impiegare il tempo delle lunghe giornate d’inverno all’interno di un centro diurno. Si tratta di un’esperienza artistica che è innanzitutto un canale espressivo, laboratorio del bello e stanza delle idee. È stimolante vedere l’intrecciarsi di linguaggi, l’affollarsi di tratti, suoni, parole, ingranaggi e bulloni; stimolante vederne la forza comunicativa. Sono persone disabili che comunicano senza inventarsi nulla di nuovo, semplicemente dando forma concreta alle idee, ai modi di sentire, alle passioni che riguardano il nostro vivere di tutti i giorni.
I quadri non parlano di disabilità, i testi non parlano di disabilità, la carrozzina smontata e rimontata niente ha a che vedere con la disabilità. Finalmente un contesto nel quale possiamo trovare un dolce connubio tra disabilità e comunicazione, tra disabilità e linguaggio. Lo si fa senza dover passare attraverso la disabilità negli argomenti e nei contenuti. Si parla di altro, di molto altro. Unico elemento in comune con la disabilità è la ricerca e la fiducia nella costruzione di un mondo per tutti. Dove anche il diverso è uno tra tutti. Dove anche l’uno può esprimere il meglio di sé in mezzo a tutti.

Qualche consiglio di letture

a cura di Giovanna di Pasquale, pedagogista

Mario Lodi, Il paese sbagliato. Diario di una esperienza didattica innovatrice, Milano, Feltrinelli, 2007 (ultima edizione)

Il libro racconta il diario di una esperienza didattica innovatrice, realizzata con i miei alunni nella scuola di Vho di Piadena (Cremona) dal 1964 al 1969. Un’esperienza incentrata sulla libera creatività del bambino, documentata giorno per giorno dalle conversazioni dei ragazzi, dai loro testi, dalla loro vita reale.
Quando uscì, Il paese sbagliato rappresentava per me la conclusione di un percorso iniziato negli primi anni del dopoguerra quando, dopo la caduta del fascismo e la fine del conflitto, il problema di fondo era la ricostruzione materiale e morale dell’Italia sui nuovi valori espressi dalla Liberazione. E proprio nel 1948, l’anno in cui veniva promulgata la Costituzione, io giovane maestro ancora fresco di studi ma inesperto sul piano didattico venni mandato allo sbaraglio in una scuola ancora verticistica e autoritaria, con nel cuore e nella mente i valori della libertà, della democrazia e della partecipazione che dovevano essere alla base della nuova società da costruire.
Era un momento storico stimolante soprattutto per noi giovani docenti diplomati in una scuola dove esperienze dirette non si facevano. Nella mia stessa situazione psicologica erano tanti altri docenti convinti che i nuovi valori dovevano entrare nella scuola per rinnovarla.
La libertà di pensiero e di parola, la democrazia, la partecipazione alla cosa pubblica, non erano cose da imparare leggendole sui libri, ma momenti da vivere dentro la scuola. Ma come si potevano cambiare le cose?
Ricevetti circa diecimila lettere e risposi a tutte. La prima fu quella di un prete, don Sandro Lagomarsini che, come don Milani, ha trasformato la sua parrocchia in scuola, a Cassego di Scurtalò (SP). Mi scrissero genitori, maestri, studenti, soldati, poeti, scrittori, casalinghe, e tante altre persone che volevano sapere perché nella loro scuola non avevano fatto quelle esperienze, che avevano trovato nel libro una speranza, una concreta proposta di cambiamento della scuola autoritaria. Persone alle quali la lettura di questo libro aveva portato riflessioni profonde e stimoli nuovi.
(Mario Lodi)

Albino Bernardini, Un anno a Pietralata, Firenze, La Nuova Italia, 1968

Un maestro come “essere sociale” attivo.
Bernardini è insieme una figura isolata e partecipe del complesso Movimento della “pedagogia popolare” italiana. Nato e cresciuto, come uomo e come maestro, in una fra le terre più “primi¬tive” del nostro Paese, la Barbagia, e trasferitosi nel cuore urbano e istituzio¬nale dell’Italia, Roma e le sue borgate, ha saputo rimanere “essere sociale” anche dentro l’aula scolastica (fatto tutt’altro che comune) e insieme esprimere una carica eversiva a difesa degli altri, gli uomini-bambini, umiliati e piegati nella società contadino-pasto¬rale da una cultura tradizionale violenta o assediati e corrosi da una sottocultura di marginalizzazione e di violenza so¬ciale caratteristica dello sradicamento culturale migratorio delle periferie ur¬bane metropolitane.
La sua testimonianza di educatore è molto diversa da quella “razionale” di Ciari o “poetica”di Lodi; egli è un crudo fotografo della “sua” scuola: quella che è riuscito a realizzare.
Senza concedere nulla alla mistificazione e all’abbellimento di sé, egli ci ha lasciato una testimonianza viva di nuo¬va storia: storia della pedagogia vera (quella praticata e non solo predicata), della didattica viva, della cultura popo¬lare non mitizzata.
La sua, comunque, non è stata solo ope¬ra di testimonianza trasferita attraverso la capacità della scrittura ma è stata in¬sieme quella della militanza pedagogica: certamente meno partecipe sul terreno associativo alla vita della “cooperazione educativa” ma comunque condivisa sul piano metodologico della prassi di¬dattica e della relazione educativa, svi¬luppata all’interno di una cultura laica e di una visione sociale di liberazione.
(Rinaldo Rizzi)

Sandro Onofri, Registro di classe, Torino, Einaudi, 2000

È un libro esile Registro di classe: soltanto cento pagine, ma di grande peso morale, perché vi si avvertono le ansie, i timori e le riflessioni dell’autore, ovvero Sandro Onofri, professore d’italiano in un liceo romano di periferia e scrittore di romanzi (Luce del Nord, Colpa di nessuno e L’amico di infanzia) e reportages (Vite di riserva e Magnifiche sorti). Registro di classe era nato come un libro sulla scuola, solo in seguito Onofri si era risolto a utilizzare la forma del diario e ne aveva iniziato la stesura nel 1998: questo volume raccoglie i testi scritti dall’autore (nato nel 1955) prima della sua prematura scomparsa. È un diario, a tutti gli effetti, che accorpa le classiche “schegge” e riflessioni che un insegnante potrebbe scrivere sull’onda di uno spunto indotto dai suoi alunni, dai loro tagli di capelli o dalle mode più in voga nella classe. Onofri si arrovella in continuazione nel tentativo di comprendere i suoi studenti, di lanciare loro appropriati salvagenti culturali: e, come accade anche ai bene intenzionati, a volte è compreso e seguito, altre no. Ma i ragazzi hanno sempre salutari riserve di immaginazione, e in qualche modo alla fine riescono a stupirlo, nonostante assistano freddamente a una proiezione di Train de vie o si lascino contagiare dall’appiattimento degli show televisivi. Magari entusiasmandosi nella scoperta del Pinocchio di Collodi, molto al di sopra della riduzione disneyana a cartoni animati, oppure apprezzando oltre le più rosee previsioni Se questo è un uomo di Primo Levi e Un borghese piccolo piccolo di Vincenzo Cerami. Dentro Registro di classe c’è un anno di scuola raccontato in tralice: i compiti (ovvero il divertimento) per le vacanze natalizie, i colloqui con i genitori, i temi degli alunni, la gita scolastica, il topico momento del voto sul registro ovvero l’insostenibile circoscrizione dell’intelligenza adolescenziale. È il diario di un insegnante che s’interroga di continuo sul proprio compito di educatore, che si chiede cosa possa mai cambiare anche un solo professore dotato di buona volontà: forse poco, ma significativo e per fortuna questa esperienza Onofri l’ha riversata in Registro di classe.
(Paolo Boschi)

Eraldo Affinati, La città dei ragazzi, Milano, Mondadori, 2007

Si chiamano Nabi, Faris, Francisco, Ivan, Mihai, Angus, Adulali ecc., sono giunti in Italia nei modi più imprevedibili e tortuosi, scaraventati da tutte le parti del mondo, hanno quattordici, quindici anni e alle spalle un carico di esperienze talmente sconvolgenti che ci si stupisce a pensare che riescano ancora a parlare, a sorridere, a vivere. Sono i paria della globalizzazione e del fanatismo ultraliberistico, i lazzarilli e gli sciuscià del nuovo millennio, gli Oliver Twist dei giorni nostri. Alla fine dell’apprendistato scolastico narrato in questo volume, sapremo che uno sarà scaricatore di bagagli in un albergo a Termini, un altro venditore di frutta sulla Portuense, un altro ancora commesso in un negozio di fotocopie sull’Anagnina e così via. Aver avuto il privilegio di essere stato loro insegnante significa non solo “compiere un’opera umana”, come dice l’epigrafe in apertura di libro di Teilhard de Chardin, ma anche offrirsi indifesi a una sequela di squassanti emozioni, vere e proprie fitte del cuore: significa arrendersi alla “tenerezza che sentivo invadermi quando spiegavo il Risorgimento agli slavi e il groppo che mi attanagliava la gola nel momento in cui elencavo i gradi di parentela italiana agli afgani”.
In tempi assai grami per l’istituzione scolastica, Affinati riconsegna all’esperienza dell’insegnamento quel ruolo che le spetta di diritto: “Quello che accade in aula produce effetti indelebili. È la potenza dell’insegnamento”. È questo che spinge l’insegnante-scrittore a ricopiare, con la stessa paziente acribia con la quale un severo copista trascriverebbe preziosi codici manoscritti, le lettere che questi ragazzi gli inviano. Tutte iniziano con una struggente e bellissima storpiatura “caro raldo”. Tutte sono ovviamente piene di sgrammaticature, di svarioni ortografici, di punteggiatura sconnessa, ma rivelano una straordinaria, incontenibile urgenza comunicativa che pochi altri testi hanno. In quelle righe sbilenche c’è un sapore inconfondibile: quello della vita vissuta che chiede ascolto e comprensione. Affinati reagisce alla sfida che proviene da queste vite di scarto: vuole scoprire l’enigma delle radici, vuole sapere come e perché essi sono giunti lì. Si ingegna a proseguire lungo quel tracciato che aveva già sperimentato nelle altre sue opere, restituendo alla letteratura la sua ineludibile responsabilità morale e sociale: studiare i fatti, decifrare le incurie, scoprire le distrazioni, accertare le responsabilità.
(Linnio Accorroni)

Paola Tavella, Gli ultimi della classe, Milano, SuperUE Feltrinelli, 2007

Paola Tavella riferisce l’esperienza di un anno accanto a Cesare Moreno, il coordinatore del gruppo di sei insegnanti che si è occupato dei quartieri di Barra e San Giovanni. Si racconta la vita di questi ragazzi (24 in tutto), emerge il quadro desolante del loro contesto familiare e sociale, si segue il tentativo di strapparli a un destino segnato e lo sviluppo del progetto educativo. Quando si parla dei ragazzi, l’autrice ricorre ovviamente a uno pseudonimo, mentre può mantenere i nomi autentici degli insegnanti. “Chance” nasce nell’indifferenza, se non ostilità, delle istituzioni. Dotato di un budget miserabile, ha come sede un edificio in condizioni fatiscenti. Mentre la Tavella scriveva queste pagine, non era nemmeno sicuro che il progetto venisse nuovamente autorizzato e finanziato. Sembra però che proprio la lettura di questo testo abbia spinto il ministro Livia Turco a impegnarsi e a mettere a disposizione le risorse necessarie. Non si tratta comunque del resoconto di un esperimento sociale, per quanto interessante e nobile. Ciò che più rende apprezzabile Gli ultimi della classe è invece da una parte la profonda umanità che traspare da ogni pagina, dall’altra la qualità letteraria. Umanità che si esprime nelle storie individuali dei protagonisti, ma anche nella passione civile ed etica che anima gli insegnanti, fino a coinvolgere l’autrice stessa. Qualità letteraria che conferisce un aspetto romanzesco alla narrazione, tanto che l’editore ha sentito la necessità di chiarire, in ultima di copertina: “Le storie di questo libro sono vere, non sono inventate”.
(Paolo Perazzolo)

Altri libri:
Daniel Pennac, Diario di scuola, Milano, Feltrinelli, 2008
Andrea Bajani, Domani niente scuola, Milano, Einaudi Stile Libero, 2008
Francois Bégadeau, La classe, Milano, Einaudi Stile Libero, 2008
Margherita Oggero, Orgoglio di classe. Piccolo manuale di autostima per la scuola italiana e chi la frequenta, Milano, Mondadori, 2008