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Autore: admin

6. La lettura del deficit: secondo la cultura di origine o secondo la cultura familiare!

di Luca Baldassarre

Conversazione con Ivana Bolognesi, insegnante e ricercatrice presso il Dipartimento di Scienze della Formazione, Università di Bologna.

Emerge la doppia differenza
“Quando ho cominciato a lavorare nelle scuole come insegnante ma anche come formatrice non c’erano molti casi di bambini con deficit di famiglie immigrate e questo sia nella regione Emilia Romagna che fuori.
Nel corso della ricerca che sto facendo per conto del Dipartimento di Scienze della Formazione della Regione Emilia Romagna sull’integrazione delle famiglie straniere nei servizi ho realizzato alcuni focus e specialmente in alcune zone, come quella di Campogalliano nel modenese, le pedagogiste mi dicono che si stanno presentando molti casi di bambini immigrati con deficit che vengono inseriti nei nidi e nelle scuole dell’infanzia.
Emerge questa problematica che poi è una doppia problematica perché coesistono sia l’aspetto del deficit che l’aspetto dell’appartenenza culturale.
Le insegnanti devono affrontarla non potendo contare su una vasta letteratura di approfondimento fatto salvo gli studi dell’etnopsichiatria che si concentra in particolare sul disagio psicologico.
Questo percorso di approfondimento lo stiamo cercando di portare avanti anche a Bologna attraverso il lavoro del Centro di Psichiatria Multietnica “George Devereux”, che fa riferimento in particolare al lavoro di M.R. Moro sullo studio e la ricerca di soluzione del disagio dei bambini collegato alla situazione di migrazione dei genitori”.

Gli aspetti più difficili da affrontare
“Per quanto riguarda la presenza di un deficit bisogna considerare che noi abbiamo un modo di affrontare il deficit che dipende dalla nostra elaborazione culturale e bisogna vedere come le famiglie affrontano la disabilità dal punto di vista della loro cultura di appartenenza.
Sicuramente l’appartenenza culturale è un dato che le insegnanti tengono ben presente nel considerare il deficit quando devono inserire un bambino, accoglierlo e prospettare per lui il percorso. Questa è una sensibilità che si è andata sviluppando negli ultimi decenni nelle scuole, anche attraverso gli aggiornamenti e la formazione sull’intercultura. Poi da qui, capire bene come fare, come avvicinarsi al percorso culturale delle famiglie è un’altra cosa perché, dal mio punto di vista, posso dire che ancora si lavora molto sulle rappresentazioni della cultura delle famiglie un po’ stereotipate. Si corre sempre il rischio di prendere in considerazione la cultura di origine ma non la cultura familiare, di quella specifica famiglia.
La difficoltà, che esiste anche per i bambini senza deficit, può essere quella di ricondurre la loro appartenenza a una cultura di origine molto cristallizzata, molto stereotipata che porta a darsi delle spiegazioni senza relazionarsi su come quella famiglia si attiva rispetto al deficit o alla difficoltà del bambino.
Per il futuro prossimo è importante trovare modalità di incontro, far capire che cosa è per noi il deficit, come vogliamo lavorare sull’handicap e capire come le famiglie si relazionano con esso.
In base a questo è importante considerare la cultura, ma sempre partendo dai familiari: se non si fa questo si arriva a una contrapposizione spesso rigida perché è quello che accade quando ci si aspetta dall’altro determinate risposte solo in base alla cultura di origine di appartenenza.
Quindi è sempre necessario andare a relazionarsi con la cultura familiare; per vedere quale è il rapporto con la presenza di un deficit è importante andare a vedere come quel nucleo familiare pensa e vive il deficit, che tipo di immaginario ha, che considerazioni fa. Anche perché se si tratta di una famiglia che si è spostata dal paese di origine è una famiglia in forte cambiamento, le cui elaborazioni incontrano le nostre in una situazione assai diversa per loro da quella di partenza. Bisogna sempre considerare il nucleo, quella famiglia lì: come vede il bambino, come lo considera, come gestisce la vita quotidiana. Questo è importante da capire”.

Accogliere il bambino e il suo disagio: l’importanza di passare attraverso la famiglia
“C’è poi differenza fra un bambino che frequenta la scuola nel paese di origine, dove anche i genitori hanno appreso un certo modo di rapportarsi con il deficit del proprio figlio e un bambino che nasce in Italia e comincia a frequentare la scuola qui. In questo secondo caso, la famiglia impara a relazionarsi con il deficit anche in base alle strutture che trova qua e si accultura su come viene gestito a livello educativo anche in base a cosa vede in Italia.
In generale i bambini immigrati che hanno frequentato le scuole nel paese di origine sono bambini che hanno un sistema culturale e linguistico già organizzato, hanno una madrelingua più strutturata e devono adattarsi a questo grande cambiamento che li coinvolge.
I bambini che nascono qua hanno altre difficoltà; è vero che apprendono subito la lingua italiana fin dal nido ma contemporaneamente apprendono la lingua d’origine nel contesto familiare; è una forma di bilinguismo sempre difficile da mantenere, anche se si sa che bisognerebbe coltivare entrambe le lingue, mentre invece si tratta di bambini che perdono più facilmente la loro madre lingua. Anche per i genitori c’è una differenza; il bambino che nasce qua è un bambino che segna un distacco simbolico elevato. Di fronte a bambini che esprimono un disagio psicologico, i genitori spesso cercano di darsi delle risposte rifacendosi a tradizioni e a riferimenti culturali propri, cercano di capire perché quel bambino ha manifestato quel disagio secondo riferimenti culturali propri anche riprendendo le cure della propria cultura di appartenenza. Il lavoro della Moro e del suo Centro è proprio quello di cercare di integrare le diverse visioni che si hanno sul bambino per il bene del bambino stesso.
Questo potrebbe essere fatto anche rispetto all’accoglienza di un bambino con deficit dentro la scuola, per capire che visione hanno i genitori di questo bambino, come si spiegano il deficit, come si relazionano in casa anche rispetto alle proprie tradizioni culturali perché più si capisce l’altro più si riesce ad avere consapevolezza di quello che l’altro fa rispetto al deficit; così anche le insegnanti riescono maggiormente a integrare e a comunicare come loro si rapportano al bambino.
È importante passare il più possibile attraverso la famiglia e mettersi il più possibile in una posizione di ascolto e dialogo con i genitori perché altrimenti non si riesce proprio a capire dove questo bambino viene posizionato rispetto sia alla scuola che alla famiglia.
Per questo, durante gli incontri di formazione, noi insistiamo molto sulla comprensione della cultura familiare per evitare di predisporre progetti basati sugli stereotipi delle culture di appartenenza, su schematismi preconfezionati. Questo crea molte difficoltà nell’accoglienza di questi bambini che il più delle volte sono bambini di seconda generazione che hanno tratti molto differenti rispetto ai genitori e hanno riferimenti meticci.
Occorre lavorare ancora molto su stereotipi e pregiudizi che minano fortemente la relazione con i genitori. Questo è un lavoro costante da fare con gli insegnanti, non tanto per eliminare il pregiudizio quanto per controllarlo ed essere consapevoli della sua presenza nella relazione.
C’è il rischio di non riuscire a costruire niente, di non condividere un’educazione che poi deve essere il più possibile comunicata e compresa. Più si sale nei cicli scolastici più questo scollamento esiste; già nella scuola primaria il contatto con i genitori è minimo così come la condivisione di quello che si fa in classe per sapere anche cosa le famiglie si aspettano e cosa pensano di poter fare. Secondo me bisognerebbe ripensare alle forme di partecipazione delle famiglie a scuola permettendo anche l’incontro di gruppi etnici differenti, incontro che nella realtà quotidiana fuori dalla scuola avviene molto di rado”.

5. Un’esperienza di inserimento scolastico

di Luca Baldassarre

S., 13 anni, di origine marocchina, con Sindrome di Down e difficoltà nell’articolazione delle parole e nell’astrazione, è arrivata in Italia nel 2000 con la mamma e una sorellina appena nata. Il papà era già in Italia dal 1987. Il primo anno è rimasta a casa, mentre è poi riuscita nell’anno successivo a frequentare la scuola d’infanzia, dove è rimasta per due anni.

Una giornata a scuola
Quando arriva a scuola è tutta allegra, contenta e sorridente, ancora di più da quando c’è anche la sorellina. Si baciano e si abbracciano nei corridoi prima di lasciarsi e raggiungere ognuna la propria classe da cui usciranno alle 16.30 per tornare a casa con il papà in autobus.
La lezione del lunedì [giorno in cui abbiamo fatto l’intervista agli insegnanti] è cominciata con la conversazione, guidata dall’insegnante di sostegno O., in cui i bambini hanno parlato di cosa si era fatto il giorno prima. In questa attività che è svolta in diverse mattinate e che dura circa un quarto d’ora, mentre si aspetta che tutti arrivino e si sistemino, si coinvolge tutta la classe. “Lo scopo è cercare di prendersi quel tempo per parlare tra di noi, per cercare di riflettere sul modo di esprimere i propri sentimenti… Non è facile naturalmente, spesso scoppiano delle liti e delle divisioni radicali tra maschi e femmine. I bambini devono imparare anche ad ascoltare chi, come S., ha delle difficoltà nell’espressione”, dice il maestro.
Anche lei infatti racconta la sua esperienza e ha sempre qualcosa da dire, mima anche cose che ha visto il giorno prima, e si esprime come può, perché ha dei problemi nell’articolazione delle parole. “La bambina da qualche anno balbetta, e lo fa sia nella sua lingua madre, l’arabo, che in italiano, sia a casa che a scuola”, racconta V., l’insegnante di matematica. Da quest’anno è infatti seguita dalla logopedista, la quale ha voluto incontrare sia le insegnanti che il padre per insegnar loro degli esercizi da ripetere con la bambina. Il problema non sembra legato quindi alla scuola o a situazioni particolarmente delicate. Questo handicap si pensa che sia apparso in seguito ai notevoli passi in avanti che la bambina ha compiuto in diversi ambiti, tanto che probabilmente non è riuscita a gestirli del tutto perché sono stati troppo grandi per lei. “Progressi che sono dovuti anche al suo modo di essere solare, disponibile e curioso, senza particolari idiosincrasie, anche se vorrebbe fare spesso le cose a suo modo – senza ascoltare – e con una certa pigrizia che talvolta prende il sopravvento”, racconta il maestro.
Quindi, nonostante il problema nell’espressione linguistica, ci è descritta come una bambina serena che ha in realtà una grande facilità nell’imparare le lingue. Una volta, al termine di una lezione di inglese, ha tirato fuori un panino enorme per merenda e il maestro O. le ha chiesto: “Ammazza che panino, ma così grande te lo mangi tutto?!”. E lei in una battuta: “I like!”, per farsi sentire dall’insegnante di inglese e dimostrando un senso dell’ironia notevole, o perlomeno il senso del comico, della battuta pronta. “E questo è molto rassicurante, perché nell’handicap non è dato per scontato. Ci sono poi altri momenti in cui la vedo in crisi, anche per il discorso delle dinamiche coi compagni. A volte i bambini sanno essere spietati, duri e vanno a cercare proprio il punto debole per fare pressione là”.
S. è una bambina aperta, espansiva, disponibile e le piace molto scherzare: infatti “tra di noi ci sono un sacco di dinamiche che si basano sull’umorismo”, racconta sempre O. A proposito del cogliere lo scherzo ma anche della fragilità di una persona con Sindrome di Down, però, la possibilità di dialogare con un soggetto Down, di scoprire la sua capacità di cogliere l’ironia, è molto nota, ma non è possibile in tutti i contesti: se il contesto condiziona fortemente la percezione di sé come persona incapace, un soggetto Down si adegua all’immagine di incapacità.
La bambina esce dalla classe e va nell’“auletta” con il maestro per svolgere delle attività individualizzate per non più di due ore. Con lui trascorre o le prime due ore o le ultime due della mattina per un totale di 14 ore, e tutti i pomeriggi arriva l’insegnante di sostegno comunale che copre 22 ore.
Questo spazio è abbastanza ampio e la bambina può ritrovarvi le sue cose, i suoi disegni appesi e quelli ancora da finire, i suoi colori, libri, pennelli. Nell’aula ci sono due armadi pieni di materiali e libri anche per il resto della classe, otto banchi disposti a file di quattro tutti uniti a formare un rettangolo, c’è una lavagna e una grande finestra; non ci sono cartelloni appesi, solo dei bellissimi disegni fatti da lei con varie tecniche, raffiguranti delle figure umane e dei ritratti, due mappe create con l’aiuto del maestro dove è raffigurato il percorso che lei fa con la sua famiglia per arrivare a Casablanca a trovare i parenti rimasti là. “Lei sa che quando arriva nell’auletta si trova in uno spazio che le appartiene, si riesce a rilassare, considera quella parete come la sua e può addobbarla come vuole”. Questo spazio non è certo precluso al resto della classe che, durante la ricreazione, può entrarvi spontaneamente e usufruire dei vari materiali a disposizione. Il maestro conta di riempire quella parete e vedere cosa succederà a giugno, se fare una piccola esposizione dei suoi disegni ad esempio. Ci spiega che hanno cercato di usare varie tecniche e il risultato raggiunto è straordinario, perché prima di arrivare a fare la figura umana S. ci ha impiegato anni. Le persone che ha rappresentato hanno facce sorridenti, con bocche spalancate e sono coloratissime.
Mentre il resto dei compagni è impegnato in un’attività di italiano, la bambina e il maestro cominciano nell’auletta la lettura ad alta voce di un libro che ha per titolo L’alfabeto del deserto. Questa attività ha lo scopo non solo della comprensione e ascolto della lettura del maestro, ma dell’indurre S. al rilassamento iniziale, e poi, naturalmente, si vuole valorizzare la sua cultura madre. Sono ventotto favole arabe, semplici, che cominciano ognuna con una lettera con anche le indicazioni di pronuncia in lingua araba.
L’anno scorso il maestro ha puntato molto sulla lettura, quest’anno si raccolgono i miglioramenti che ci sono stati. “Adesso questo salto va rafforzato, però, e non si deve mai abbassare la guardia per paura che la bambina dimentichi. Il percorso è ancora lungo e deve tendere all’autonomia della bambina, il più possibile, per quanto può. Deve essere in grado di ragionare, di vedere le cose”.
Dopo la lettura, il maestro passa al dettato e poi di nuovo fa rilassare la bambina e la gratifica con il disegno. S. riesce a lavorare per un’oretta, altre volte anche una mezzora in più.
Suona la campanella della ricreazione. S. va in aula e prende dallo zaino la sua merenda. Gioca con i compagni, in particolare con la sua migliore amica.
Alle undici rientrano in classe per la lezione di inglese e S. partecipa inizialmente con interesse, aiutata dalla compagna che le siede vicino o dall’insegnante di italiano che osserva se ha bisogno. Col passare del tempo però sembra appisolarsi sul banco o fare altro, tipo guardare fuori dalla finestra o colorare sul quaderno.
Da qualche tempo S. tiene un diario in cui descrive delle giornate particolarmente significative da far leggere poi ai genitori e ai compagni stessi. Questo le funge anche da memoria, viste le difficoltà nel ricordare, per potervi ritornare sopra in altri momenti e riflettere evocando. Si lavora molto dunque anche sul tempo: dalla descrizione della routine giornaliera con la scansione delle varie azioni, al confronto con il concetto di contemporaneità, con il mentre.
Anche lei come gli altri riceve degli incarichi che ruotano ogni quindici giorni, come distribuire le merende o il materiale, sparecchiare la tavola, innaffiare le piante.

Cosa pensano i genitori
Il papà è molto contento della vita a scuola di S. e sottolinea anche come a lei piaccia. Ha un’ottima opinione degli insegnanti e dei collaboratori scolastici che sono sempre disponibili. Si sentono coinvolti come famiglia dalla programmazione scolastica e dagli operatori dell’ASL che svolgono un lavoro efficace sul piano tecnico.
Sia lui che la moglie non vedevano l’ora di poter mandare la bambina a scuola, di poter trovare un aiuto concreto negli insegnanti e oggi sono certi di averlo trovato. “Anche in Marocco la mandavamo in una scuola, era privata, io pagavo, ma come andava la mattina, tornava anche la sera. Non cambiava niente per lei, non migliorava”, racconta il signor M.
Oggi le cose stanno lentamente cambiando in Marocco, il nuovo re sta fornendo degli aiuti economici, il trasporto, le carrozzine, dei centri di assistenza per gli invalidi, delle associazioni di volontariato; e cominciano le prime forme di integrazione nelle scuole normali. Un tempo per nulla lontano, i bambini come S. o con altri problemi dovevano restare a casa o in scuole appunto private a pagamento. Nell’anno in cui S. è dovuta rimanere a casa, il primo rispetto al suo arrivo in Italia, perché non riuscivano ad accompagnarla alla scuola materna che era lontana, la bambina non ha fatto un progresso e non ha imparato una parola di italiano, secondo l’opinione del padre. Poi non appena ha iniziato la scuola dell’infanzia i cambiamenti si sono visti giorno dopo giorno.

Cosa pensano gli insegnanti
I tre insegnanti intervistati sono molto soddisfatti di come S. sta a scuola, di come l’esperienza scolastica sia positiva per lei, per i compagni e per loro stessi, di come sia migliorata nell’apprendimento, nelle autonomie di base, nella funzionalità motoria e comunicativa.
Tuttavia emergono importanti divergenze di pensiero per quel che concerne il concetto e la pratica di integrazione di S. Le insegnanti V. e M. da un lato pensano sia più fruttuoso il lavoro dentro alla classe, mentre O. propende per quello fuori.
La programmazione di S. è infatti diversa dal resto della classe, ha degli obiettivi specifici per quanto riguarda lo scrivere, il leggere, il contare e quindi – secondo O. – “necessita di uscire dalla classe, a meno che non si abbia intenzione di svolgere un’attività integrativa. Per questo è utile stare in classe, altrimenti se deve fare qualcosa di completamente diverso è inutile starci perché sappiamo i rumori che ci sono, le distrazioni… e S. non ha una capacità di attenzione molto lunga, si stanca velocemente. Secondo me quindi è del tutto controproducente stare in una classe dove si fanno altre attività”. Il maestro ha l’impressione che la bambina si sia abituata a uscire dalla classe e lo faccia volentieri tanto che, quando capita di restarci, lo guarda male e gli dice sottovoce che è arrabbiata. “Per lei è difficile seguire anche una lezione di scienze e nel momento in cui sta in classe deve svolgere delle attività che possano toccare il suo mondo per interagire e interiorizzare quanto sta facendo”, sempre secondo O.
M. e V. la pensano diversamente, per loro è proprio l’opposto, infatti S. dovrebbe stare in classe il più possibile: mediando il lavoro, oppure lavorando per piccoli gruppi, qualcosa S. percepisce, le rimane impresso. A loro non piace che venga portata fuori, a parte ovviamente la volta che è più stanca o che ha bisogno di rilassarsi perché è un po’ ammalata. In questi casi anche M. la fa uscire e la porta su dei divanetti che hanno predisposto come spazio relax per tutti i bimbi nello spazio antistante all’aula, lì leggono una favola. “Però deve essere in classe il grosso del lavoro, gli altri spazi sono di supporto”, dice l’insegnante comunale. Quando fanno un lavoro di gruppo, tutta la classe trova i materiali nell’auletta che funge un po’ da valvola di sfogo dell’aula grande. Anche S. – quando sta facendo un lavoro di geografia – va di là da sola per prendere i giornali e tutto l’occorrente per ritagliare, perché ha una buona autonomia per questo.
Nel caso di S. lo spazio è progettato e pensato dagli insegnanti per lei e per gli altri; è uno spazio composto da tante facce. C’è quello della scuola, quello comune in classe e quello personale dentro e fuori. Lo spazio di S. comunica una pluralità di interventi e di cambiamenti apportati all’organizzazione scolastica per favorire comunque sempre la sua integrazione, da qualsiasi angolatura la si osservi.
Per quanto riguarda il rapporto e il raccordo tra operatori dell’ASL, scuola e famiglia, sembra esserci una catena che funziona abbastanza bene e che serve anche per conoscere a tutte le parti in causa i progressi della bambina nei vari campi. Il neuropsichiatra chiamato dalla scuola, e che segue S. da anni una volta al mese, ha coinvolto a sua volta la logopedista, e lei di ritorno è andata dagli insegnanti e dai genitori a riferire come aveva trovato la bambina e cosa si poteva fare per aiutarla. Visto poi che la famiglia fatica a fare un lavoro sulla lingua italiana, è stato chiesto soprattutto agli insegnanti di collaborare.

Il futuro fra limiti e risorse
Quando S. è arrivata in prima elementare aveva dei problemi motori, faticava a fare le scale; ora riesce a farle con un po’ meno titubanza. Non riusciva né a leggere né a scrivere o a disegnare. Ora legge tutto lo stampato maiuscolo e sta cominciando con il minuscolo; scrive per inviare messaggi a qualcuno; pittura con varie tecniche e rappresenta diverse figure e oggetti per lei significativi. “Tutto questo grazie alla scuola”, ci dice il padre.
Il sogno del padre è che la bambina un giorno possa gestire se stessa e la casa, andare a lavorare, magari in una struttura protetta o in qualche luogo dove possa imparare un’attività, che riesca a prendere un mezzo pubblico da sola per fare il tragitto da casa al lavoro. Tutte le mattine il signor M. prende un autobus per recarsi in fabbrica e lì vede da tanti anni due gemelle con Sindrome di Down che si accudiscono a vicenda mentre fanno il tragitto per andare a lavorare. Lui è disponibile affinché sua figlia studi il più possibile, non vuole che resti a casa con la mamma tutto il giorno, desidera la sua autonomia.
L’integrazione in un contesto si realizza anche grazie all’equilibrio tra le diverse forme di responsabilità e l’autonomia.
Il padre, dal canto suo, sente che i progressi raggiunti li deve tutti alla scuola italiana e agli insegnanti. E loro, dall’altro, sottolineano la relazione fra i progressi e l’atteggiamento della famiglia: è anche grazie alla loro disponibilità, apertura e affetto se S. sta formando un carattere così positivo.
È come se questa bambina fosse “nata due volte”, prendendo a prestito il famoso titolo del libro di Pontiggia: la prima in Marocco dove, nonostante frequentasse una scuola speciale privata, non aveva fatto un solo passo in avanti; la seconda in Italia, dove la famiglia ha potuto credere finalmente nella possibilità di una vita felice per S.

4. La favola di Nonno Doc: Cappuccetto Nero

“Cappuccetto Nero era una sgarzola di tredici anni che viveva a Harlem con una nonna rompipalle. La mamma puliva i pavimenti da Ronnie, il locale chic per pescecani, dove si sniffava coca a tutto andare e gli spacciatori sudavano più dei camerieri. Bene, a fine serata la mamma di Cappuccetto puliva la moquette con l’aspiratutto e ci trovava dentro un bel mucchietto di coca e lo portava a casa. Dovete sapere che Cappuccetto aveva anche una nonna cieca, ex-sassofonista jazz, che viveva da sola con un canarino, e tutti e due tiravano coca come mantici, la nonna addirittura se le sparava nel naso con il sassofono, il canarino ci si infarinava dentro e poi cantavano insieme I get a kick of you e svegliavano il palazzo. Ogni settimana Cappuccetto Nero doveva attraversare tutta Harlem per portare la coca alla vecchia, se no quella dava di matto e andava a suonare il sax per strada col canarino che teneva il piattino in bocca (era un canarino robusto) finché qualcuno non le dava una dose se la smetteva, perché la nonna con l’età era un po’ rimbambita e suonava il sax sbagliato tenendo in bocca la parte grossa e non era un bel vedere”.

(Brano tratto da Stefano Benni, Terra!, Milano, Feltrinelli, 1992, p. 211)

3. La rete dei servizi territoriali: il caso dell’Emilia Romagna

di Luca Baldassarre

Per il passaggio dal tema degli infortuni sul lavoro a livello nazionale a una panoramica complessiva della rete dei servizi territoriali (sociali, sanitari, educativi, di inserimento lavorativo, ecc.) indirizzati a minori e adulti, siamo scesi ad analizzare un contesto regionale. A Luigi Mazza, funzionario della Regione Emilia Romagna, Servizio Governo Integrazione Socio-Sanitaria, abbiamo chiesto di raccontarci la situazione di questo territorio.

Innanzitutto partiamo dalle dimensioni del fenomeno: sono disponibili dei dati sul binomio immigrazione e disabilità?
Purtroppo al momento attuale non sono ancora disponibili dati che descrivano con precisione quanto è diffusa la disabilità tra la popolazione immigrata. Abbiamo fatto una breve ricerca di sfondo e l’impressione è che dati organizzati non siano ancora disponibili né a livello regionale, né a livello nazionale. Per adesso possiamo dunque fare soltanto delle ipotesi, sulla base di studi che sono stati fatti in altri Paesi e di dati che ci segnalano i nostri servizi, in assenza comunque di una rappresentazione esaustiva di questo fenomeno.
Considerando che, come emerge ad esempio dal rapporto Caritas/Migrantes, in Italia l’immigrazione è ancora un fenomeno relativamente nuovo e ancora in fase di “strutturalizzazione”, possiamo ipotizzare che la disabilità sia diffusa tra la popolazione immigrata in misura inferiore rispetto alla popolazione complessiva, anche se si tratta di un fenomeno in crescita e comunque già rilevante dal punto di vista qualitativo, considerando i bisogni assistenziali espressi. Come emerge anche dai dati raccolti dall’ISTAT, la principale causa di disabilità è il processo di invecchiamento. La struttura demografica della popolazione immigrata, invece, si sta ancora stabilizzando, sono quasi assenti gli anziani, soltanto recentemente sta aumentando la presenza di minori e donne. Chi arriva in Italia lo fa principalmente per lavorare e deve spesso affrontare un viaggio difficoltoso. Per questi motivi, come è documentato nella letteratura straniera, generalmente la popolazione immigrata presenta livelli di salute migliori di quanto invece ci si sarebbe dovuti aspettare considerando le condizioni socio-economiche generalmente meno favorevoli nelle quali gli immigrati vivono. Funziona in questi casi una sorta di fenomeno di selezione, che tuttavia è un effetto destinato ad attenuarsi con la stabilizzazione demografica. Questo fenomeno contrasta con il pregiudizio spesso diffuso, che considera gli immigrati stranieri sempre e comunque un gruppo di popolazione che consuma più servizi di welfare rispetto alla popolazione generale.
Tutte queste considerazioni ci portano infatti a ipotizzare che la percentuale di persone con gravi disabilità presenti tra la popolazione immigrata non dovrebbe sicuramente raggiungere la quota di presenza che si registra invece tra la popolazione italiana, che è intorno al 5%. In Emilia Romagna è il 3,8%.
Tra i minori la presenza di disabilità dovrebbe essere invece più vicina a quella della popolazione generale, anche se alcuni autori sottolineano che la popolazione immigrata, poiché vive in una situazione di svantaggio sociale, è più esposta alla disabilità. Al momento attuale comunque non abbiamo dati che ci dicono che a scuola ci sono più minori stranieri, che in generale sono circa il 10% della popolazione scolastica, certificati in situazione di handicap o seguiti dai Servizi di Neuropsichiatria infantile delle ASL, rispetto alle quote del 2% e del 6% che si registrano in Emilia Romagna sulla popolazione in generale. È comunque rilevante sottolineare che in alcuni territori della nostra Regione già oggi ci segnalano che oltre il 10% degli alunni in situazione di handicap è anche straniero, situazione che spesso comporta un doppio svantaggio.
Ecco perché possiamo parlare di un fenomeno rilevante soprattutto dal punto di vista qualitativo. È bene ribadire che si tratta comunque di un fenomeno che non è ancora stato studiato in maniera sistematica e accurata.

Volendo fare una ricerca su immigrazione e disabilità a quali fonti si deve fare riferimento?
Innanzitutto è necessario definire con precisione cosa intendiamo per immigrazione e cosa per disabilità. Le cose cambiano ad esempio se si considerano i soggiornanti, i residenti oppure cercando di fotografare la situazione degli irregolari. Allo stesso modo, per quanto riguarda la disabilità, in questo tipo di studi generalmente si può considerare o la semplice presenza di una limitazione funzionale, oppure una situazione di disabilità più complessa. Nel caso della popolazione italiana, ad esempio, le stime dell’ISTAT sono nel primo caso del 12%, mentre per le disabilità più gravi si scende al 5%.
Volendo invece individuare le fonti già disponibili rispetto all’accesso al sistema dei servizi, si dovrebbe seguire l’approccio del cosiddetto “progetto di vita”, che consiste nel considerare a 360 gradi i bisogni della persona e tutti gli interventi disponibili. La stessa Legge quadro sull’handicap n. 104/92 prevede un insieme piuttosto articolato di servizi e prestazioni, a vario titolo collegate alle certificazioni di handicap e invalidità, che è possibile ricondurre ai quattro ambiti fondamentali della salute, della scuola, dei servizi sociali e socio-educativi e infine delle prestazioni assistenziali, anche se ci sono comunque delle limitazioni di accesso, che variano da settore a settore.
L’approccio del progetto di vita ci porta dunque ad analizzare i dati di attività non solo dei servizi sociali e socio-educativi, ma anche i dati relativi alle diagnosi e prese in carico da parte dei servizi di Neuropsichiatria per l’Infanzia e l’Adolescenza (NPIA) e degli altri servizi territoriali o ospedalieri, così come i dati relativi all’integrazione scolastica forniti dall’Ufficio scolastico regionale e infine i dati relativi alle provvidenze di carattere assistenziale. Si tratta di un lavoro che non è ancora stato fatto in modo sistematico e che richiede qualche attenzione perché in tutti questi flussi, proprio perché parliamo ancora di un fenomeno emergente, non è ancora abituale l’analisi congiunta del binomio immigrazione e disabilità. Sicuramente più complesso è invece uscire dalle fonti ufficiali per stimare la presenza di disabilità tra i cosiddetti irregolari.

Quali sono le priorità per le politiche regionali?
Un primo obiettivo è sicuramente quello della tutela e della lotta alla discriminazione. In questa direzione il primo risultato da raggiungere è una legislazione che garantisca l’accesso al sistema di welfare rivolto alla generalità della popolazione, senza creare separazioni o discriminazioni.
Raggiunto questo primo obiettivo, con l’aumentare dei flussi, si apre una seconda questione che riguarda l’efficacia e l’appropriatezza dei servizi.
Se è vero che gli immigrati stranieri hanno gli stessi diritti, non va dato per scontato che i bisogni da soddisfare siano sempre gli stessi e che i nostri servizi siano già in grado di farlo.
Per fare soltanto alcuni esempi, la diagnosi e il trattamento delle disabilità intellettive tra i minori stranieri presenta sicuramente dei punti di attenzione e delle peculiarità da considerare. In generale la presenza di una situazione di svantaggio economico, sociale e culturale amplifica i problemi legati a una determinata patologia o disabilità. Ad esempio, l’assenza di una rete familiare di riferimento è un elemento che molto spesso i servizi sociali devono affrontare nelle situazioni di deficit acquisito tra gli immigrati stranieri. Ancora, molti studi sottolineano che tra gli immigrati è spesso frequente un uso non appropriato dei servizi sanitari, in particolare ospedalieri. Infine, non sappiamo molto sugli atteggiamenti che gli appartenenti alle diverse comunità straniere presenti nel nostro paese hanno nei confronti della disabilità. Sappiamo invece che gli atteggiamenti personali e culturali possono contribuire a superare o amplificare una situazione di handicap.
Questi esempi ci fanno capire che non è sufficiente garantire l’accesso ai servizi, ma anche sviluppare la qualità e le competenze presenti nei servizi stessi. Nella Legge regionale n. 5/2004 sull’immigrazione sono presenti entrambi gli obiettivi. Come indicato nella norma, infatti, la legislazione regionale è finalizzata non solo alla garanzia delle pari opportunità di accesso ai servizi, ma anche a indirizzare concretamente l’azione amministrativa nel territorio della Regione al fine di rendere effettivo l’esercizio dei diritti.

2. Alla ricerca di dati nazionali: gli infortuni sul lavoro dei cittadini migranti

di Luca Baldassarre

L’ambito del mercato del lavoro e degli infortuni a esso collegato rappresenta un osservatorio che intercetta indubbiamente elementi che sfuggono ad altri contesti. Questo perché il sistema assicurativo INAIL (Istituto Nazionale per l’Assicurazione contro gli Infortuni sul Lavoro) si basa sul principio sociale della automaticità delle prestazioni, che garantisce il diritto d’accesso alle stesse a tutti i lavoratori, indipendentemente dalla nazionalità e dalle condizioni di regolarità del soggiorno nel nostro Paese. L’unico requisito per accedere alle prestazioni è che l’infortunio sia riconducibile a un’attività lavorativa. Questo vale anche se il datore di lavoro non è in regola con i propri obblighi assicurativi poiché, in questa ipotesi, l’INAIL esercita automaticamente l’azione di rivalsa nei suoi confronti. Abbiamo chiesto all’Istituto di fornirci il totale degli infortuni indennizzati in un arco temporale superiore all’anno e l’incidenza, sul totale, di quelli erogati a favore dei cittadini migranti. Va specificato che le prestazioni INAIL possono dare luogo a risarcimenti o a rendite: lo spartiacque è la percentuale di limitazione funzionale o di disabilità riconosciuta. Nella fattispecie, sotto il 16% si ha diritto a un indennizzo per il danno biologico subito. A partire da quella soglia, si dà luogo a una rendita, che assomma danno biologico e patrimoniale. È interessante constatare nell’evoluzione storica del fenomeno la crescita progressiva dell’incidenza della popolazione straniera sul totale.

1. Introduzione

Di Luca Baldassarre

Di cosa parliamo quando accostiamo la disabilità all’immigrazione? Di due condizioni di svantaggio che si addizionano? Di un accresciuto fertile potenziale scambio di differenze? O di cos’altro? Fin dalla prima riunione di redazione di questo numero è parso chiaro che lavorare sul tema non sarebbe stato facile. L’argomento è di quelli tosti: riscuote interesse, preoccupazione, ispira dibattiti. Permea tutti i settori del nostro vivere quotidiano: il lavoro, la sanità, la scuola, i servizi sociali. E se ne parla molto ma quasi sempre su un piano emotivo. Come molti fenomeni sociali emergenti anche questo riposa sulle percezioni, i sentito dire, i credo che. E in fondo, non c’è nulla di male in questo: è un destino comune a molte manifestazioni che non riusciamo subito a inquadrare, a informare di una connotazione precisa e rassicurante. Ciò non toglie che questa modalità, utilissima in una prima fase di orientamento del cosa ci si trova a fronteggiare, debba successivamente lasciare il testimone a un’analisi più incisiva, che aiuti a pianificare il da farsi. Prima di agire però bisogna conoscere. E conoscere vuol dire interrogarsi. Con curiosità. Allora emergono quesiti; leciti per altro. Si rende necessario circoscrivere il fenomeno indagato: qual è la sua dimensione quali-quantitativa? Isolarne alcune peculiarità: come si vive e come viene vista una persona che assomma a sé disabilità e condizione di migrante? A quali servizi territoriali può accedere e in che modo? Come vengono rilevati i suoi bisogni? Che modalità operative vengono messe in atto per favorire processi inclusivi?
Non è nient’affatto semplice rispondere a queste domande. Soprattutto quando, come in questo caso, si constata l’estrema penuria (o addirittura l’assenza) di dati quantitativi e di studi al riguardo. Un’importante eccezione viene dall’INAIL che ha potuto fornirci il dato nazionale aggregato degli infortuni sul lavoro, che hanno prodotto una disabilità, liquidati nel triennio 2004-2006. L’ampia letteratura disponibile sullo status di migrante e la presenza di disabilità, si riduce drasticamente quando le due condizioni, anziché essere assunte separatamente, vengono abbinate. Questa carenza di informazioni sembra accomunare tutto il panorama dei soggetti interessati: i servizi privati, la Pubblica Amministrazione, il Terzo Settore, gli Enti di Ricerca e l’Università. Per superare questa difficoltà senza eluderla abbiamo cercato spaccati, esperienze, progetti di ricerca locali fiduciosi che possano fornire suggestioni e indicazioni da approfondire.
Questo lavoro è quindi solo un primo, speriamo apprezzabile, tentativo di innescare ulteriori riflessioni e ricerche sull’argomento, del quale anche noi, torneremo presto a occuparci.

Una casa di vetro lungo il fiume

Migranti con disabilità: contesti, vissuti, prospettive

Luca Baldassarre lavora per l’associazione CDH e per la Cooperativa Accaparlante. È un grande corridore di corse in salita.

Gestione e marketing del non profit

“Ho fatto le tagliatelle, ma son venute tristi”, dice la massaia di Bologna, sempre pronta all’autocritica e alla ricerca sincera della perfezione quando si tratta di pasta sfoglia fatta a mano. Il tortellino è triste quando non sa di nulla, è triste la crescentina quando è troppo unta, è triste il cibo che non mantiene quello che promette.
Gustave Flaubert, nel suo Dizionario dei luoghi comuni, definì l’economista “scienziato triste” ed è per questo che l’economia viene spesso denominata “la triste scienza”. Forse perché l’economia è una scienza ingrata, le cui leggi pare si divertano a cancellare il sorriso anche dei più ottimisti: è la scienza dove gli errori si pagano caro, anche con la vita. Sono moltissimi i contadini indiani suicidi perché non sono stati in grado di pagare i debiti contratti con le multinazionali del grano, quel famoso grano i cui semi bisogna ricomprarli ogni anno. È ormai un luogo comune, non più messo in discussione, che l’economia sia il luogo dove finiscono i buoni sentimenti, dove si attua la lotta del tutti contro tutti, dove l’egoismo viene premiato.
È possibile, sfatando questi luoghi comuni, fondare un’economia diversa?
Un medico brasiliano, Eugenio Scannavino, ha chiamato il suo progetto di educazione in Amazzonia Saude e alegria, salute e allegria, perché la salute è l’allegria del corpo e l’allegria è la salute dell’anima. È utopico pensare all’economia come una scienza sana e allegra?
L’etimologia del termine felicità viene da felicitas, la cui radice “fe” significa abbondanza, ricchezza, prosperità. I campi di grano per i latini erano felici, nel senso di fecondi.
Si può essere veramente felici solo se si è fecondi. Solo se sapremo riappropriarci dell’economia intesa come capacità dell’essere umano di essere fecondo e creativo potremo essere felici come solo una massaia di Bologna sa esserlo.
 

Alcuni riferimenti per chi volesse saperne di più

V. Andreoli, Un secolo di follia, Milano, Rizzoli, 1991.

V. Andreoli, Matto inventato, Milano, Rizzoli, 1992.

V. Andreoli, Cronaca dei sentimenti, Milano, Rizzoli, 2000.

Atti Parlamentari (XIII Legislatura), Relazione sullo stato del processo di superamento degli ospedali psichiatrici e sull’attuazione del Progetto-Obiettivo “Tutela della salute mentale 1994-1996”, Doc. CXXVI, n. 3, Camera dei Deputati, Roma 2000.

F. Basaglia, La maggioranza deviante. L’ideologia dello scontro sociale, Torino, Einaudi, 1971.

F. Basaglia (a cura di Franca Ongaro Basaglia), Scritti volume II 1968-1980. Dall’apertura del manicomio alla nuova legge sull’assistenza psichiatrica, Einaudi, Torino, 1982.

E. Bornia, I conflitti del conoscere. Struttura del sapere ed esperienza della follia, Milano, Feltrinelli, 1998.

F. Basaglia, L’istituzione negata, rapporto da un ospedale psichiatrico, Milano, Baldini & Castoldi, 1998.

E. Bornia, Come in uno specchio oscuramente, Milano, Feltrinelli, 2007.

G. Canguilhem, Il normale ed il patologico, Firenze, Guaraldi, 1975.

R. Canosa, Storia del manicomio in Italia dall’unità a oggi, Milano, Feltrinelli, 1979.

A. Cicalini, Progetto Teatral – Mente. Un pretesto: il postino di Neruda, Legatoria della Nuova Serra, Porto Sant’Elpidio (AP), 2007.

P. Coelho, Veronika decide di morire, Milano, RCS Libri SpA,1999.

Dipartimento della Programmazione, Nucleo SAR e Ufficio di Statistica (a cura di), Stato di realizzazione dei dipartimenti di salute mentale. Data di rilevazione: 31.3.1998, Ministero della Sanità, Roma 1998.

U. Fornari, Il trattamento del malato di mente e la legge 180/78: aspetti psichiatrico-forensi e medico-legali, in “Rivista Italiana di Medicina Legale”, VI, 1984.

U. Fornari, Monomania omicida. Origini ed evoluzione storica del reato d’impeto, Torino, Studio Scientifico, 1998.

M. Foucault, Presentazione a ‘‘Io, Pierre Rivière, avendo sgozzato mia madre, mia sorella e mio fratello…’’, Torino, Einaudi, 1976.

M. Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Torino, Einaudi, 1976.

M. Foucault, Storia della follia nell’età classica, Milano, Biblioteca Universale Rizzoli, 1999.

M. Foucault, Gli anormali. Corso al Collège de France (1974-1975), Milano, Feltrinelli, 2000.

E. Pascal, Follia e ricerca: una esperienza collettiva di sofferenza e liberazione, Torino, Rosenberg & Sellier, 1991.

B. Saraceno, La fine dell’intrattenimento. Manuale di riabilitazione psichiatrica, Milano, Etas libri, 2000.
 

Una chiacchierata a quattro voci

di Alessandra Pederzoli

Protagoniste di questa chiacchierata sono quattro voci di cui solo una pone domande e le altre raccontano esperienze. Sono tre persone e tre esperienze tutte da ascoltare e raccogliere per gustare fino in fondo questo postino di Neruda che l’assaggio del libro di Alessandra Cicalini ci ha già fatto conoscere. Persone che in misura diversa hanno messo parte di sé e del proprio lavoro in questo spettacolo e in questa attività con i ragazzi di San Girolamo.

Eugenio Scarabelli, psicologo e responsabile della Comunità di San Giorolamo (Fermo)

A te Eugenio chiederei qualche notizia su San Girolamo: brevemente quando è nato, di cosa si tratta, quale sia il legame con la Comunità di Capodarco, quanti sono i vostri ospiti e che vita conducono in San Girolamo.
San Girolamo nasce nel 1999 come comunità protetta, luogo che rappresenta l’ultimo stadio di intervento nella psichiatria. Inizialmente arrivarono venti persone uscite dal manicomio di Fermo, quindi si trattava di accogliere i cosiddetti “residui manicomiali” per i quali l’ASL aveva chiesto alla Comunità di Capodarco di trovare una sistemazione e una nuova collocazione.
Con il passare del tempo a San Girolamo sono arrivate persone sempre più giovani con condizioni psichiche croniche e con provenienze differenti che richiedevano un intervento riabilitativo. Siamo stati quindi stimolati a riorganizzarci e ad attrezzarci perché San Girolamo non fosse un ultimo stadio e un ultimo luogo di vita per le persone, ma perché esso rappresentasse una fase di passaggio. Attualmente le persone accolte sono 33.
La vita a San Girolamo è abbastanza rituale negli orari e nelle attività. Quello che si cerca di ricostruire e di mantenere è l’atmosfera che si respira in una casa, cercando di dare il meno possibile un’organizzazione di tipo ospedaliero alla vita quotidiana: nessuno indossa la divisa per esempio. Si cerca di lavorare molto sulla relazione interpersonale sia all’interno della casa ma anche all’esterno, cercando e mantenendo quanti più legami possibili con il territorio e le realtà circostanti.

Quale, in breve, il percorso storico che ha portato all’avviarsi del laboratorio teatrale?
L’idea del teatro in Comunità nasce molto in sordina e quasi per gioco. Come una di quelle sfide (diverse in verità) che in questo tempo ci siamo sentiti di raccogliere e lanciare al territorio, per non rassegnarci mai a considerare soltanto malate le persone ospiti nella nostra struttura.
Era l’autunno del 2003 quando per la prima volta prendemmo in considerazione quest’idea del “Teatro”. L’abbiamo fatto con grande rispetto e molto timore, pensando di accostarci a qualcosa di abbastanza complesso, privi di esperienza e con la nostra realtà che invece si connota proprio per la sua caoticità.
Il timore ci spinse a parlare semplicemente di laboratorio d’espressività psico-corporea. Erano una decina le persone coinvolte in quella prima esperienza che, con cadenza settimanale, lavoravano insieme facendo uso di tecniche teatrali. Quell’esperienza andò bene e forti furono le nostre emozioni nel constatare i risultati, estremamente migliori del previsto. I nostri ospiti, tutti appartenenti alla fascia della cronicità psichiatrica, sapevano accogliere quella sfida, usare quel linguaggio espressivo e tirar fuori da quel laboratorio, delle comunicazioni significative per tutti noi.
Fu a quel punto che ci dicemmo di poter lavorare su un testo. La prima esperienza fu quella di cimentarsi su una fiaba: Il Tesoro del Crociato, scritta da don Vinicio Albanesi; e la prima rappresentazione fu “in privato”: cioè dentro la comunità dove, dividendo lo spazio della stanza adibita alle feste, ricavammo un’area palcoscenico e una per il pubblico. Fu molto divertente e non ne venne fuori, per noi come per chi guardava, la “recita di poveri ragazzi sfortunati” di fronte alla quale, battere comunque le mani per premiare almeno lo sforzo. Fu teatro! Si poteva dire che, nella particolarità contestuale del teatro, i nostri ospiti riuscivano ad agire in modo sano. Da qui la voglia di provare a misurarsi con un testo diverso, più francamente teatrale, e con un contesto differente, un vero teatro, continuarono a farci crescere e a motivare il nostro lavoro. Abbiamo così ampliato il gruppo teatrale creando una piccola compagnia. Abbiamo coinvolto in questa esperienza altre persone: ospiti di altre strutture sia pubbliche che private e volontari Scout. Ci siamo attrezzati per reperire i fondi necessari a un vero spettacolo e abbiamo continuato a lavorare arrivando così alla sera della prima il 27 maggio 2005 al teatro di Porto San Giorgio con Novecento, rappresentazione tratta dal testo di Alessandro Baricco. La paura e la preoccupazione che non tutto potesse filare liscio erano grandi. Erano molte le variabili che potevano influenzare negativamente la riuscita: circa trenta persone in scena, quattro strutture coinvolte, il lavoro di alcuni professionisti tra psichiatri e psicologi, il confronto con il teatro vero, con lo spettacolo vero e infine, con un vero pubblico. Tutto vero, quindi. Niente finzione per noi che c’eravamo impegnati un anno di seguito nel creare qualcosa. Così come vera sentivamo l’emozione che gli ospiti ci avevano comunicato in circa sette mesi di laboratorio e che, da sola, valeva la prova. Il teatro, pieno in ogni angolo, ci ha ripagati dello sforzo e ci ha fatto capire definitivamente che l’esperienza doveva continuare. Eccoci quindi a mettere in atto un altro periodo di lavoro che ha portato poi a vedere in scena Un pretesto: il postino di Neruda: un nuovo stimolo alle persone perché esprimano il tanto e il bello che c’è sotto la corazza del loro malessere.

Quali le intenzioni che ne hanno mosso l’attivazione? Perché la scelta del teatro come strumento di lavoro con i ragazzi e con quali obiettivi?
Abbiamo scelto il teatro perché il teatro è uno strumento di espressione ed è un luogo all’interno del quale si finge e nel quale si vive la metafora che è propria del circo, in cui la stranezza diventa la normalità. Tra il gioco e la serietà ci si può infatti permettere di essere diversi. Nel teatro esiste un flusso bidirezionale: il teatro permette alla stranezza di divenire normalità e i pazienti a loro volta possono dare al teatro ciò che il teatro vuole. Il nostro obiettivo principale era di ampliare le possibilità espressive delle persone, fornendo magari qualche strumento in più oltre la parola; qualche cosa in più oltre al pensiero: spesso delirante e avvinghiato attorno alle solite stereotipie mentali e fisiche, che conoscevamo bene. Pensavamo alle possibilità del corpo, alle possibilità della fantasia. Credevamo di poter raggiungere meglio le persone che si nascondevano dietro le malattie, attraverso l’uso di un canale insolito e nuovo per tutti: ospiti e operatori della Comunità.
Il laboratorio e l’intero progetto è partito dal basso: prima l’idea di acquisire alcune tecniche di base poi è arrivata la consapevolezza che le persone riuscivano a dare altro, oltre alla semplice messa in atto delle tecniche. Chi partecipava al laboratorio riusciva a esprimersi ad altri livelli. Questi livelli di espressione diventavano e diventano stimolo alla patologia che non è da vedersi e da considerarsi come l’unico vestito della persona, quanto piuttosto come qualcosa che deve essere smontato. In psichiatria non si punta mai alla totale ristrutturazione della persona perché la patologia è per la persona stessa un adattamento creativo alla vita; è necessario dunque che la persona mantenga questo equilibrio. Il teatro ci permette dunque di decostruire e, allo stesso tempo di ricostruire qualcosa di diverso, di giocoso, di finto in cui è la stranezza a diventare la normalità e la normalità a essere la stranezza.
Il senso del gioco in fondo è poi questo: si tratta di un meccanismo che ci permette di fare cose diverse, di agire comportamenti diversi, fornendoci un pretesto per farlo. Faccio un esempio, se io e tu che mi stai intervistando ora ci incontriamo e rimaniamo fissi nei nostri ruoli, continuiamo a vivere in quel range di possibilità che la situazione professionale ci sta imponendo. Se noi invece ci concediamo di giocare con quei ruoli allora ci stiamo concedendo altre opportunità. E non perché stiamo parlando di gioco, di sciocchezze e di banalità; ci riferiamo a un’interazione vera e a una comunicazione autentica in tutto e per tutto.
In questo caso specifico significa anche avere il coraggio di andare oltre la malattia, pur scegliendo una dimensione di gioco, per incontrare innanzitutto la persona. Farlo attraverso il teatro, significa solo farlo in una dimensione altra.

Nell’introduzione che tu hai scritto per il libro della Cicalini leggo testualmente: “Gli ospiti, che noi conoscevamo bene nella loro patologia, giocavano con essa utilizzandola in funzione dei personaggi che dovevano interpretare. Interpretando realmente delle maschere; ossia giocando, con se stessi e con noi, nel fare altri da sé”. Il gioco con la patologia mi sembra uno degli elementi più avvincenti del vostro lavorare con il teatro. Quanto questa dimensione del gioco, dell’interpretare agisce favorevolmente per il benessere dei ragazzi, agisce cioè sulla loro capacità di apertura e di espressione?
Questo accade per ogni cosa che mettiamo in piedi. Il teatro, il gioco, l’improvvisazione, ma non solo. Questo è quello che si rivive e si mette in atto anche nella vita quotidiana e nei ritmi di vita condivisa dentro San Girolamo. Anche i familiari talvolta si stupiscono dei livelli di autonomia raggiunti dai nostri ospiti. Per noi significa mettere in atto delle strategie e delle modalità di interazione che, come dicevo prima, guardano prima di tutto alla persona e poi tengono conto della malattia: che va pensata come qualcosa non da arginare dal punto di vista farmacologico o terapeutico, quanto piuttosto come una componente della persona che la costituisce e con la quale deve imparare a fare i conti e a convivere. Ritorniamo a quell’equilibrio tra persona e malattia pensata come l’adattamento creativo che l’individuo stesso fa della propria vita. In quest’ottica non è certo un qualcosa da arginare, quanto piuttosto qualcosa su cui lavorare e tenere in considerazione. Ecco il gioco con la patologia, ecco anche il lavoro sull’improvvisazione che ha costituito il laboratorio. Si tratta di agire su un livello di rapporto personale che riconosce il paziente, gli affida delle responsabilità e lo aiuta ad acquisire delle autonomie via via sempre maggiori. Un’interazione che diventa normale.

Stefania Petracci, psicologa e co-conduttrice del laboratorio teatrale di cui è memoria e collante

Lo spettacolo Un pretesto: il postino di Neruda, nasce dall’esperienza di un laboratorio teatrale, ma soprattutto dall’esperienza di un gruppo di persone che hanno lavorato sull’espressività psico-corporea. Stefania, cosa significa un lavoro di questo tipo nel concreto dell’agire con i ragazzi?
Il laboratorio è innanzitutto un luogo di integrazione e interazione tra individui, è un’occasione per unire persone molto diverse tra loro: il teatro mette infatti tutti sullo stesso livello, perché concede a tutti la possibilità e l’opportunità di esprimersi. E non esiste un modo giusto o un modo sbagliato di espressione. Noi abbiamo lavorato sulla espressività psico-corporea: questo ha significato partire dal corpo per arrivare ad altri contenuti. Tutto l’agire del laboratorio segue una circolarità su cui si muovono diversi livelli. Una circolarità di posizione ma anche di azione nel tempo. Siamo tutti seduti in cerchio e la prima fase di lavoro è una fase puramente dialogica che conduce le persone a portare nel cerchio del laboratorio il loro vissuto, le loro esperienze. A questa prima fase seguono le attività laboratoriali vere e proprie, quelle previste e programmate per la giornata. La fase finale poi è un ritorno al dialogo in quanto è il momento della restituzione, il momento in cui portare nel gruppo il proprio sentire e le emozioni provate durante le attività appena conclusesi.
Di fatto questo è il lavoro che importa e che ci interessa portare avanti: farli esprimere, il resto è appunto un “pretesto”, un’occasione che diventa traccia su cui poi lavorare, agire, e anche improvvisare.

Cosa comporta per un paziente psichiatrico stare all’interno di un’esperienza complessa come può essere un’esperienza teatrale, in cui occorre misurarsi con l’uso del linguaggio, con la percezione del corpo, con l’assunzione e il riconoscimento di ruoli differenti?
Io credo che innanzitutto si tratti di un’occasione per stare insieme e per confrontarsi con gli altri componenti del gruppo (un gruppo di ventinove persone). Il momento della restituzione per esempio è molto importante perché si agisce il rispetto dell’altro, l’ascolto di quello che ha da dire e da dare. I nostri ospiti sono persone che spesso vivono in un mondo auto centrato nel quale faticano ad accogliere gli altri e ad accettarli per quello che hanno da dare. Questa dimensione del rispetto e dell’accoglienza degli altri componenti del gruppo, per esempio, è una dimensione che il teatro permette di trovare alla quale peraltro fatica a corrispondere un’altrettanta disponibilità e pienezza nella vita reale. Si tratta, in effetti, di uno spazio protetto e definito che va oltre ai ruoli ma questo permette lo scambio. Anche i ruoli attribuiti per lo spettacolo in effetti non sono altro che un pretesto, infatti non vengono mai definiti una volta per tutte. Spesso lo stesso personaggio è interpretato da due o tre attori che si scambiano nel procedere dello spettacolo; perché ciò che acquisisce importanza è il tipo di esperienza che si conduce, non il ruolo impersonato.

Il postino di Neruda immagino sia stato un passaggio e una tappa del vostro percorso. Oggi, quale seguito ha avuto il laboratorio? Cosa c’è in programma, se qualcosa c’è?
Il laboratorio infatti sta andando avanti anche se per il momento non c’è ancora un testo specifico. È ancora un lavoro tutto improntato sull’improvvisazione, quindi non legato a qualcosa di specifico quanto piuttosto a quello che emerge di volta in volta dai ragazzi. Poi vedremo… Magari da loro emergerà l’esigenza di mettere in piedi un altro spettacolo, a quel punto, allora, ci penseremo. Di fatto in questo modo la struttura si è modificata, non essendo pensato in vista di un copione in particolare, ci si è concentrati su un lavoro molto più centrato sulla espressività. Abbiamo giusto scelto il filone che è quello della comunicazione e su questo filone ci muoviamo di volta in volta, anche in base a quello che emerge. Conduttore del laboratorio di quest’anno è Oscar Genovese, che già aveva partecipato con Il postino di Neruda. E il gruppo si mantiene di ventinove persone.

Roberta Fonsato, attrice e regista teatrale, regista dello spettacolo Un pretesto: il postino di Neruda

Roberta, tu operi nel teatro da molto tempo. Questo laboratorio messo in piedi alla Comunità di San Girolamo è la tua prima esperienza di lavoro con il disagio mentale? Quali le sensazioni, le novità? Cosa c’è di particolare nel condurre e nel mettere in piedi uno spettacolo all’interno di un contesto come San Girolamo?
Il mio lavoro con il disagio mentale è nato con San Girolamo e nel tempo si è mantenuto, nel senso che ho cominciato lì per poi fare molte altre esperienze nel campo del teatro e disagio mentale; posso dire che adesso il disagio mentale è il mio campo di indagine e di lavoro preferito.
La novità del lavoro Un pretesto: il postino di Neruda è il fatto di venire inteso proprio come un “pretesto” di lavoro, in quanto rappresenta una traccia che offre l’input alla modalità del nostro lavoro, che è quello dell’improvvisazione. Un pretesto, quindi, per dare al gruppo l’occasione di creare qualcosa di unico, in quanto frutto di un processo di lavoro comune.
L’intero percorso ha previsto infatti la realizzazione di tre laboratori e due fasi: oltre al laboratorio teatrale vero e proprio, si sono inseriti il laboratorio di scrittura, che ha visto prodotti una serie di scritti, alcuni dei quali sono poi confluiti nel testo dello spettacolo, e il laboratorio di scenografia, durante il quale è stata realizzata la scenografia dello spettacolo.
La prima parte del laboratorio teatrale è stata di lavoro sulla tecnica, rivolta al gruppo per creare delle “intenzioni sceniche”. Queste intenzioni sceniche venivano in un primo momento proposte al gruppo, successivamente si lavorava proprio su questi temi e non solo da un punto di vista strutturale e testuale, ma soprattutto sulla corporeità.
Gli attori in questo modo, si sono trovati, naturalmente, ad appropriarsi di quelle caratteristiche dei personaggi, sulle quali abbiamo lavorato in un primo momento; i personaggi, le situazioni si sono così inserite in una struttura scenica ad hoc.
Il contesto di San Girolamo è stato un importante passaggio per il gruppo di attori della Compagnia; sicuramente frutto di un lavoro teatrale che dura ormai da anni, ora il gruppo era pronto per un lavoro più strutturato e tecnicamente più avanzato, cioè passare dal generale per arrivare alla scena specifica, piuttosto che arrivare direttamente alla scena “strutturalmente imposta”. Importante ricordare come nel corso degli anni il gruppo si sia trasformato in una vera e propria Compagnia teatrale, intendendola in modo molto ampio come un gruppo di attori che lavorano insieme, si allenano, mettono in scena spettacoli, che talvolta producono. Il gruppo è variabile, ci sono attori che entrano e attori che escono, ciò che però è garantita è la continuità di lavoro. La compagnia di San Girolamo, è così: ha un carattere professionale, proprio perché gli spettacoli sono frutto di lunghi e articolati lavori di produzione. Credo che il laboratorio a San Girolamo non sia una delle tante attività delle strutture, quanto piuttosto il lavoro della compagnia “Teatral – Mente”, che proprio per la sua peculiarità e modalità è una compagnia teatrale vera e propria.
Vorrei fosse chiaro che i nostri spettacoli non sono la recita di fine anno, ma sono il frutto di un lavoro reale e serio. Professionale è l’emozione, l’attesa, la volontà di andare avanti, la creazione, il gruppo, tutti ingredienti presenti nel nostro laboratorio. Il teatro è fatto di sudore, di attese, di sbagli, rettifiche e dignità.
Massima ambizione: il pubblico sceglie di venire a vedere i nostri spettacoli, fra i tanti del cartellone, o almeno questo vorrei fosse lo spirito.
Mi ha fatto piacere, quando l’anno scorso, dopo il debutto di Novecento, una persona fuori dal teatro mi ha detto: “Mi ha fatto uno strano effetto, pensavo di venire a ridere e invece ho pianto”, oppure “Sul palco, in scena, non si distinguevano i pazienti dai normali”.
Non è strano, è il teatro… forse quello della vita.

Leggendo il diario di Alessandra, tra le altre cose, colpisce in particolar modo il lavoro sull’improvvisazione che sembra una costante nella costruzione di quello che poi abbiamo visto in scena. Da dove viene questa intenzione di raccogliere l’improvvisazione per la costruzione del copione?
L’improvvisazione è il mio metodo di lavoro oltre che l’ambito dove muovo la mia ricerca. La mia metodologia parte da un metodo de il “Teatro dell’oppresso” di Augusto Boal, che fa dell’improvvisazione la base del proprio lavoro. Credo che l’improvvisazione sia una delle forme teatrali più complesse, proprio perché è quasi come se non avesse tecnica: in realtà la tecnica è un tutt’uno con l’essenza di quello che si sta rappresentando in un preciso istante. Lavorando con la psichiatria, l’improvvisazione risulta essere per me il metodo reciprocamente più adatto; l’una per l’altra: non c’è bisogno di tecnica nella totale spontaneità, pensando alla psichiatria come campo di totale spontaneità. Attori famosi ed esperti, di grande rispetto, necessitano anni di espropriazione tecnica e spesso non raggiungono i livelli che un paziente psichiatrico ottiene al primo incontro.
Nell’improvvisazione ognuno porta il suo momento, quello che è in quel momento; il gruppo come momento creativo, di creazione appunto, stiamo creando un unicum, uno spettacolo del momento. Teatro e psichiatria a confronto, come facce della stessa medaglia. Un unicum è ogni volta uno spettacolo diverso, ogni improvvisazione è frutto di un processo creativo, stiamo creando qualcosa di nuovo, di straordinario, possibile solo per quel preciso momento, con quel gruppo, con le emozioni ed energie che concorrono a quel preciso istante. Necessario diventa “il parto-scenico”, la scena come realizzazione e superamento, in quanto e-dotta (condotta fuori, partorita) dall’emotività inconsapevole dell’improvvisazione. L’improvvisazione non lascia possibilità di predefinire, di guidare l’emotività, sono adesso perché sono così, mi muovo e dico questo o non mi muovo e non dico, perché il momento me lo suggerisce, “sento” questo, non penso. Stop. Il dopo è un’altra cosa.

Una cosa mi ha particolarmente colpito guardando lo spettacolo, un capolavoro, tra l’altro. Le lettere e quella buchetta della posta messa in scena, nate da un laboratorio di scrittura interno al lavoro teatrale. Come spiegheresti a chi non ha visto lo spettacolo questa scelta? Cosa fanno gli attori in scena che “si leggono” al pubblico?
La scelta della cassetta delle lettere è nata un po’ per caso dal gruppo stesso, un po’ come esigenza scenica, un po’ forse come significato intrinseco dello spettacolo… Lettere come messaggi che dovrebbero arrivare al cuore di chi lo guarda. Non dimentichiamo che:
“I primi protagonisti sono gli occhi della gente, che sbirciano dalle tende e chiacchierano di ciò che vedono.
Danzando tra l’indifferenza e la curiosità…
La provocazione è proprio questa: si parla tanto di chi è strano, di chi è normale, ma aldilà delle chiacchiere, dove sta il confine: il giudizio di vedere lo strano o il normale o il sentirsi l’uno o l’altro?
Il dubbio rimane, la scelta è personale.” [dagli appunti di regia di Roberta Fonsato, NdR.]
Direi quindi che il pubblico dovrebbe leggere tra le righe di quelle lettere.

Un’ultima curiosità, la scelta dello spettacolo e del tema. Il postino di Neruda. Da dove arriva questa scelta?
La domanda più difficile, benché la più ovvia per me: nasce da un impulso improvviso, da un’improvvisazione emotiva. La scelta dei miei spettacoli nasce da ciò che mi emoziona, leggo un libro, se questo libro mi emoziona sicuramente è buono per uno spettacolo e così spero che ciò che ha emozionato me, possa emozionare anche gli attori e il pubblico.
E poi c’è il mio amore per la poesia di Neruda, che non lascia commenti. Ora sto vivendo in Sud America, la terra di Neruda e come in un flashback penso a quando ho preso in mano il libro di Skármeta e ho pensato “vada per questo”, una scelta del “corazon” direbbero qua e, qua, questa parola fa ancora effetto.
 

Un diario per rivivere il teatro

a cura di Alessandra Pederzoli
tratto da A. Cicalini, Progetto Teatral – Mente. Un pretesto: il postino di Neruda, Legatoria della Nuova Serra, Porto Sant’Elpidio (AP), 2007

“Era un tardo pomeriggio d’inverno. Stavo camminando verso casa, persa, come mio solito, in oziose considerazioni”.

Così comincia il diario scritto da Alessandra Cicalini, giornalista professionista, sull’esperienza del laboratorio teatrale “Teatral – Mente” che ha coinvolto la Comunità San Girolamo, il Servizio riabilitativo residenziale Asur 11 di Fermo, la Comunità di San Claudio e il Centro diurno “La Serra”. Già, perché in quel tardo pomeriggio d’inverno, bastò uno squillo al suo cellulare perché Roberta Fonsato, amica e regista teatrale, le proponesse di lanciarsi a occhi chiusi in quell’impresa assolutamente sconosciuta e nuova per lei. Si trattava di seguire un laboratorio di espressione teatrale presso la Comunità di San Girolamo: un luogo di accoglienza e riabilitazione del disagio psichico. E così da quel primo “sì” di Alessandra, oggi possiamo sfogliare un attento e coinvolgente diario di un’esperienza d’arte che ha dato vita a uno spettacolo teatrale vivace, movimentato e pieno di contenuti, frutto di un elaborato percorso con gli ospiti di San Girolamo.
È un diario, un racconto, che porta il lettore a immaginarsi seduto in quel cerchio in cui si disponevano i partecipanti all’inizio di ogni appuntamento di laboratorio, la cui continuità ha portato in scena Un pretesto: il postino di Neruda (titolo anche del libro di Alessandra Cicalini) al Teatro delle Api di Porto Sant’Elpidio (Fermo), il gennaio scorso.
Eccone un collage di alcune giornate, capaci da sole di spiegare natura e pienezza di questa esperienza.

Il diario
di Alessandra Cicalini

15 febbraio
Si parte dal vissuto

Roberta ci spiega qual è il suo piano: in questa prima fase del laboratorio vorrebbe partire dalle “intenzioni sceniche che evocano certe situazioni”. Nel caso specifico, l’ambientazione che si
cercherà di creare è la piazza di un paese. Le azioni che avverranno su questo spazio saranno “incastonate” nelle scene dello spettacolo. Io la guardo ammirata con sguardo presumo non
molto intelligente mentre cerco di decodificare le sue parole. […] Camminiamo, dritti, in diagonale, in tondo, come capita, Roberta cambia più volte la musica di sottofondo, mentre ci esorta a guardarci l’uno con l’altro, tenendo lo sguardo alto. È sempre appagante incrociare gli occhi degli altri: inevitabilmente s’instaura un clima di complicità dato dall’essere parte di un’esperienza comune. […] Quindi lancia l’ipotesi: “Siamo in piazza, diciamo in una piazza di un paesino del Sudamerica, mettiamo, in un villaggio di pescatori. Ogni tanto questa piazza è animata dall’arrivo di qualche personaggio strano, che magari cammina e si muove in modo strano… Proviamo?”.

5 aprile
Il mestiere dell’attore

Roberta ha spiegato al gruppo che siamo in una piazza di un villaggio di pescatori, su un’isola dell’America Latina. Nel paese vive un personaggio strano, di nome Mario, che di mestiere fa il
postino. Nell’incontro di oggi si proverà a definire alcune battute.
Laura legge il brano introduttivo: Isla Negra è una piccola isola dell’America Latina, un’isola di pescatori. La sua caratteristica è di essere molto vivace: ad animarla, ci sono i suoi abitanti. La chiamano l’isola delle piccole cose, perché accadono solo piccole cose, ma ai suoi abitanti
sembrano grandi.
Salvatore: “Ma se tutti i pescatori pescassero tutto, finirebbe tutto il pesce!”. Seguono diverse battute, alcune a doppio senso, che rischiano di confondere un po’ le acque. Il fatto è che tutti si rendono conto di quanto sia complesso interpretare un ruolo. Illuminanti le parole di Salvatore: “È difficile fare l’attore, ridere quando non vuoi, piangere quando non ti viene da piangere, ricordarsi tutto il copione!”. Salvatore non può saperlo, ma queste parole entreranno a far parte del testo dello spettacolo.

26 aprile
Il concetto di stranezza

Roberta ci parla dei messaggi nascosti nel lavoro che stiamo costruendo. In particolare, ci invita a riflettere sul concetto di stranezza. Per lei è un nodo centrale. Chi è lo strano? A saperlo, mi dico. Incalza di nuovo, con gli occhi sgranati, tipici di quando parte per la tangente: “Mi piace confondere il pubblico, sbaragliarlo”, aggiunge sorridendo. Noi rimaniamo in silenzio anche se siamo divertiti: che vuoi dire, cara la nostra funambolica regista? “Voglio instillare il dubbio: chi sono i diversi?”, s’interroga Roberta. E già, chi sono i diversi? Da quando sono arrivata in questo posto la domanda mi frulla costantemente nella testa. Mentre siamo lì, che camminiamo, ci prendiamo per mano, ci gratifichiamo con reciproci applausi, che differenza c’è tra tutti noi? Chi potrebbe dire chi è il “matto” e chi il “normale”? Roberta mi riporta sulla terra ricollegandosi alle scene che abbiamo già provato: “Quando Mario il postino dice che c’è Neruda non viene creduto: questo è un nodo molto importante”. Dice la verità ma nessuno gli crede. A volte i pregiudizi accecano. Direi che capita molto spesso, più di quanto anche la mente più aperta potrebbe credere.

10 maggio
La festa di paese

Il gioco insistente sui “tipi strani” è cioè frutto di premeditazione. Anche stavolta, poi, il finale sarà scelto dagli attori, però in maniera differente: nell’opera di Skármeta c’è Matilda che è innamorata di Mario, ma la madre ostacola l’unione perché Mario è strano. Roberta ha intenzione di chiedere agli attori di stabilire se ha ragione Matilda o sua madre. Se questo matrimonio, insomma, s’ha da fare o no. Tutto questo, cioè, prima di costruire lo spettacolo: gli attori non lo sanno (anche se qualcuno, come Laura, l’ha capito), ma stanno contribuendo anche loro alla stesura del copione. […] Poco alla volta, quasi tutti partecipano al ballo; come capita spesso, le donne decidono di ballare anche tra di loro e l’atmosfera è davvero gioiosa. Mentre le coppie danzano, ogni tanto Roberta stoppa la musica e tutti devono rimanere immobili: in quei momenti, prima Paloma e poi Danilo leggono la poesia di Neruda sull’amore:

Amore mio,
andiamo al cinema del paesino.
La notte trasparente gira
Come un molino,
muto, elaborando stelle.
Noi, amore mio,
finché saremo vivi
faremo nostra tutta la vita vera
ma anche i sogni:
tutti i sogni
sogneremo.

Stefania guida il giro di commenti finali. Com’era questo ballo?
Aldo: “Per me è tutto un macello!”.
Marco: “La musica è divina”.
Gualtiero: “Tutti i giorni così sarebbe festa nazionale”.
Laura: “Ci siamo divertiti da matti!”.
Non è finita qui. L’incontro di oggi prevede anche il dialogo tra Matilda e la madre: la ragazza le rivela di essersi innamorata di Mario. La madre si arrabbia. Provano superbamente la scena Laura, che fa la madre, e Giusy, Matilda. A un certo punto Giusy s’inginocchia persino, mentre Laura continua ad aggredirla: “Ma come ti viene in mente? Ma sei ammattita?”. Mentre Laura s’infervora e Giusy resta china implorandola di darle il suo consenso, Roberta alza il volume della musica per consentire alle due attrici una via di fuga dalla scena. Giusy e Laura, allora, si tirano su intrecciandosi in una specie di saltarello a due, e tra gli applausi e le risa generali si allontanano verso il fondo del palcoscenico.
L’improvvisazione funziona così bene che sarà di sicuro inserita nello spettacolo.

7 giugno
La radio protagonista

Il primo a entrare in scena con la camminata strana è Giorgio: le sue sopracciglia sono sempre corrugate e gli occhi guardano lontano, mai in direzione di qualcuno. Magrolino, Giorgio è un ottimo “camminatore strano”: lo si vedeva già le prime volte, quando le improvvisazioni erano ancora del tutto libere. Segue Marco, un po’ dondolante, infine Daniela, che vibra come un uccello spaventato, ma alla fine partecipa sempre. Mentre passano i personaggi strani, si fanno commenti ad alta voce su di loro: Roberta ha stabilito che a turno, donne e uomini devono parlare prima male e poi bene di quelli che passano, alternandosi tra loro. Daniela sottolinea spesso la maldicenza della gente: mentre cammina, percepisce qualche parola di scherno e sembra offendersi, ma il tutto avviene così velocemente che non ci sono conseguenze negative. A dire il vero, anzi, Oscar nota una certa confusione nella piazza e mi bisbiglia se non sia il caso di far parlare una persona sola per gruppo. Io lo esorto a riferirlo a Roberta, ma non ora. Adesso è il momento di tacere e di osservare.
Mery introduce le chiacchiere del villaggio: "Le giornate scorrono tranquille a Isla Negra, tra le chiacchiere delle donne e dei pescatori. Nel villaggio abita anche Mario, un tipo che la gente dice sia un po’ strano…”.

13 giugno
Il laboratorio di scrittura

L’elenco di vocaboli e perifrasi è notevole.
Per gli attori l’amore è:
due persone che si vogliono bene;
– due persone che si percepiscono, che si danno fiducia;
– sofferenza;
– fedeltà;
– viene dal cielo;
– accettare l’altro;

– timidezza;
– può essere la rappresentazione di chissà che cosa ma non si sa;
– una scoperta giorno per giorno;
– provare per credere;
– una cosa meravigliosa tra persone, popoli;
– passione;
– vi darà le ali;
– indebolisce;
– gioia;
– ansia;
– felicità;
– dirsi la verità.

L’esilio invece si identifica con:
– prigionia;
– sofferenza;
– solitudine;
– emarginazione;
– ricordi brutti di mio padre in guerra;
– povertà, assenza di risorse;
– una cosa costretta;
– come sa di sale lo scendere e lo salire le altrui scale;
– un portone chiuso;
– una cosa umana fatta senza violenza;
– distanza;
– stare agli estremi della realtà;
– vuoto, assenza;
– alternativa costruttiva.

La diversità è invece:
– arruso (gay in siciliano);
– sospensione;
– condivisione;
– accettazione;
– razzismo;
– inusuale;
– ricchezza;
– ognuno ha diritto alla propria diversità;
– disagio psicologico;
– non sentirsi uguali;
– la cosa più bella del mondo;
– una bella cosa;
– soggiogare l’altro;
– religioni diverse;
– né io né nessuno;
– inferiorità;
– amore-odio;
– bello e brutto;
– può esprimere tutto.

L’ipocrisia e l’indifferenza vengono abbinati perché non si riesce a riassumere che in questa maniera il concetto di “chiacchiere della piazza”, ossia quell’attività di taglia e cuci che impegna quotidianamente i pigri abitanti di Isla Negra, come succede in qualsiasi paese sperduto della provincia più anonima. Al tema doppio il gruppo abbina le seguenti espressioni:
– peggio dell’odio;
– peggior tortura fatta all’uomo;
– insensibilità;
– menefreghismo;
– la più brutta cosa al mondo;
– contraddizione odiosa;
– poca fiducia;
– insicurezza;
– chiacchiere;
– maldicenza;
– diplomazia politica;
– una cosa brutta;
– falsità;
– cattiveria;
– chiudersi in se stessi;
– invidia;
– alimento degli stupidi;
– egoismo;
– disonestà.

Conclusioni
Acqua e idee in un pomeriggio di inizio luglio

Nella mia cucina, tiriamo fuori copioni e idee. Roberta spiega che cosa significhi per lei un lavoro come quello che ha messo in piedi a San Girolamo. “Vorrei che fosse chiaro che i nostri spettacoli non sono la recita di fine anno, ma sono il frutto di un lavoro reale e serio”, precisa. Sarebbe un sogno, aggiunge, se i suoi allestimenti fossero accolti nel cartellone di una stagione teatrale e se la gente decidesse di venire a vederli al posto di qualcos’altro. Roby è cosciente di quanto la sua ambizione sia difficilmente realizzabile, ma non per questo smette di crederci. Per lei il teatro è “fatto di sudore, di attese, di sbagli, rettifiche e dignità”. Una roba grossa, insomma. Di tutt’altra natura, invece, il punto di vista di Stefania. Il suo è un parere professionale, non privo di profonda umanità. Alla mia domanda, banale, giornalistica, se il laboratorio teatrale possa aiutare a “guarire”, Stefy risponde con intelligenza e competenza: che cosa significa guarire? Chi e come stabilisce il confine tra “sano” e “malato”?. La psichiatria non è una scienza esatta, come ogni disciplina concepita dall’uomo; soprattutto, muta orientamento con il mutare della società, della storia. Con il tempo, ad esempio, sono stati vietati dalla legge i manicomi, una “parola brutta”, come ha detto qualcuno degli attori nel pomeriggio a Torre di Palme. Si è capito, in definitiva, che il “matto” è qualcuno che percepisce la realtà in una maniera diversa da quello che vi si è inserito più o meno bene (e in questo più o meno si potrebbe annoverare un intero campionario di esseri umani che tutto sembrano fuorché normali. Ma questo è un altro discorso). Tutto sta a cercare di valorizzare questi modi differenti di adattarsi al reale, al qui e all’ora. Sempre, naturalmente, che sia possibile. Un modo per stabilire un “contatto” con chi ha un rapporto inconsueto con la realtà è proprio il laboratorio teatrale detto, non a caso, nella dicitura completa, “laboratorio di espressività psico-corporea”. A chi vi partecipa, in sostanza, si dà l’opportunità di sperimentare modalità inedite di autopercezione circoscrivendole però alla durata ben delimitata nel tempo della lezione, senza dimenticare all’interno della medesima un necessario momento di rielaborazione. Perché non si può rischiare che qualcuno rimanga attaccato alla parte o all’esercizio corporeo che gli è stato assegnato: lo scopo è un altro, ossia indurre gli attori a scoprire che, sì, possono “errare nella persona”, come dice Stefania, sperimentando nuove maschere, ma solo perché protetti da un gruppo che vuole loro bene e che li incoraggia, e che soprattutto li aiuterà a tornare in loro stessi, una volta terminato l’esercizio, rinvigoriti, forse, da una grinta e un senso di catarsi inediti. Il teatro, in sostanza, non rimuove le sofferenze, non può né gli spetta farlo; però può infondere un coraggio mai sperimentato
prima, almeno lì, sulla scena, sotto il calore delle luci e degli sguardi del pubblico.

Dopo questa parentesi pseudo-impegnata, fortunatamente il nostro incontro prosegue su un piano più pragmatico: come cambierà il copione visto quello che è venuto fuori dal laboratorio di scrittura? Roberta sembra assai sicura di sé: alcune poesie del sommo Neruda (non se ne abbia a male) saranno sostituite dagli scritti degli attori. In particolare, salta la poesia sul “cammino errante”. Il tema dell’esilio è stato analizzato più volte durante l’anno, come si capisce dal testo che ne è venuto fuori:

Come sa di sale lo scendere e lo salire l’altrui scale
al termine dei miei giorni mi trovai esiliato
in un paese lontano
e nulla mi rimaneva nella mano
qui in esilio sto bene
ho gioia e poche pene
vagabondo in questo vuoto e nell’assenza dei miei affetti
trovo sempre dei difetti
lontano dall’amore mio
batte il cuore dell’amato mio
desiderio di solitudine ed isolamento
ciò a volte mi rende contento
ma… troverò un’alternativa costruttiva?

E chi lo sa? Verrebbe da dire: capita sempre qualche bivio durante l’esistenza davanti al quale non si sa cosa fare. Il brutto è quando ci si sente di essere arrivati in fondo. Ma lasciamo perdere la (mia) filosofia da quattro soldi. L’altra novità è invece al passaggio dei tipi strani, più o meno all’inizio del vecchio copione. I commenti malevoli e benevoli erano troppo confusi? Allora Ro ha ipotizzato il seguente stratagemma: al passaggio di ogni personaggio i due gruppi di uomini e donne pronunceranno alternandosi le battute della filastrocca sulla diversità composta durante il laboratorio di scrittura.
Eccola:

Amo le cose di diverse, pazzamente
amo il bello e il brutto
sono indifferente a tutto
né io, né nessuno
ci sentiamo uguali a qualcuno
gay, africano o musulmano
ateo, cattolico o sciamano
ognuno ha il diritto di sentirsi normale
ognuno ha diritto alla propria diversità
tu diverso non hai un difetto
esprimi tutto con grande affetto.

[…]

L’ultima innovazione è a monte del copione e di questo stesso volume. L’autore dell’aforisma degno del miglior Aristotele è Mario:

La diversità è informe infinito
poiché la forma
è limitante e finita.

 

Maddalena* e la sua storia

di Alessandra Pederzoli

Maddalena è una ragazza giovane, seguita per qualche difficoltà personale da uno dei Centri di Salute Mentale del distretto di Bologna. Al piano terapeutico si affianca per lei la proposta, venuta dagli educatori, di iniziare a partecipare alle attività del gruppo sportivo. Ha tre scelte Maddalena: calcio, pallavolo o basket. Perché non provare. E così Maddalena comincia a seguire gli allenamenti, partecipa alle partite e inizia a non mancare a tutti gli incontri in cui è impegnata la squadra. Già, perché i gruppi sportivi che fanno parte di ANPIS, oltre a gustarsi il gioco e lo sport degli allenamenti, non perdono occasione per incontrare altre squadre e altre realtà in competizioni sportive a cui solitamente seguono momenti ludici e “goderecci”. Passa il tempo, il gruppo cresce, le affinità si moltiplicano e il benessere sembra essere di casa. Maddalena sente di avere altro da mettere in quel gruppo, oltre alle sue schiacciate e ricezioni. Anche l’educatrice che l’accompagna in questo percorso sente arrivato il momento di compiere con lei un passo in avanti, osando un po’. Così una telefonata. “Alessandra, hai voglia di incontrarci al volo, abbiamo una proposta/richiesta da farti? Che dici?”. Sentiamo quindi. La curiosità mi muove e mi smuove. Ecco l’incontro con Maddalena e con la sua educatrice. Quello che esce dalla serata è una sfida in cui la ragazza si lancia e io con lei. Maddalena da ora in avanti continuerà sì a partecipare alle attività sportive ma lo farà con un occhio e un interesse differente. Gioco e sport ma anche occhio attento della ragazza che da oggi in avanti ha il compito di documentare le attività del suo gruppo, elaborando periodicamente articoli da pubblicare sulla rivista del comune in cui si svolgono le attività. Per farlo sceglie spesso la forma dell’intervista in modo da far sentire la voce di quanti più possibile.
Maddalena viene ad assumere un ruolo che le riconosce il protagonismo di chi sceglie di fare qualcosa sulla scia dei propri interessi. A due anni di distanza dall’esperimento avviato, è vincente il risultato. Maddalena partecipa attivamente alle attività e all’identità del gruppo, portando lì quello che ha da dare ma anche portando fuori quanto l’intero gruppo ha da dire al mondo intorno. Maddalena fa informazione, e non un’informazione di serie “b”, un’informazione locale certo, ma capace di godere del valore aggiunto di quella informazione “autogestita” che viene dall’interno. Quel “fare informazione su se stessi” che diventa anche un’operazione culturale, capace di incidere sulla percezione di quei cittadini che leggano le attività di quel gruppo, così variopinto e vivace nelle sue manifestazioni.

[Maddalena è un nome di fantasia, per una persona e un fatto realmente accaduto]
 

ANPIS e la promozione della salute

di Alessandra Pederzoli

Nel dicembre del 2000 si è costituita formalmente l’ANPIS, Associazione Nazionale Polisportive per l’Integrazione Sociale. Tale associazione attualmente conta l’adesione di circa 90 polisportive o enti che, diffusi su gran parte del territorio nazionale, a partire dalla prima metà degli anni Novanta, si sono progressivamente costituiti come strumento di promozione sociale e lotta alla marginalità nei diversi settori del disagio psicosociale. Oggi ANPIS è capace di coinvolgere circa 2000 persone a livello nazionale.
Le polisportive sono nate inizialmente sulla spinta di operatori e utenti di servizi pubblici e cooperative sociali, operanti nel settore della salute mentale, ma sono cresciute successivamente anche nell’ambito del disagio giovanile e della tossicodipendenza. Il moltiplicatore di una simile progettualità va rintracciato in una precisa prospettiva teorica e pratica che unisce concetti chiave come “prevenzione” e “promozione della salute” attraverso un costante lavoro di co-costruzione di responsabilità sociale e civile, tesa alla promozione di individui e gruppi attivi e partecipi alla vita.
È ormai pratica diffusa e consolidata su tutto il territorio nazionale l’attiva collaborazione tra i Dipartimenti di Salute Mentale (Centri di Salute Mentale, Centri Diurni, Day Hospital, ecc), gli enti di promozione sportiva e l’ANPIS nella promozione della salute mentale.
A partire dalla Toscana, che è stata la prima realtà regionale a muoversi, oggi in tutte le regioni italiane a eccezione della Calabria, è presente un Coordinamento Regionale: il luogo di incontro delle polisportive e dei gruppi sportivi iscritti che operano a livello regionale, degli operatori dei Centri di Salute Mentale coinvolti, i volontari e quanti abbiano scelto la pratica dello sport per la reintegrazione sociale. I contatti instaurati tra i gruppi, così come gli scambi fra gli operatori coinvolti sono stati stimolo nel tempo per la nascita di molte altre progettualità accomunate da una medesima intenzionalità. Tale collaborazione vede innanzitutto lo sport come strumento privilegiato per innescare processi aggregativi di prevenzione e promozione sociale dei soggetti deboli con difficoltà di inserimento nei circuiti sociali ed economici: persone seguite dai Servizi di Salute Mentale ma anche adolescenti, giovani e adulti che si trovano ad affrontare difficoltà familiari o legate ai contesti sociali più generali. L’obiettivo primo della prevenzione è fondamentalmente un mutamento delle condizioni che influiscono sulle storie personali e sui destini di tali storie; a partire dalle condizioni materiali, ecologiche, sociali, culturali e psicologiche.
Quando si tratta di pensare a mettere in atto dei mutamenti si pone come prima questione, oltre a quella degli obiettivi, quella del metodo e degli strumenti che non possono prescindere da alcune considerazioni di fondo che ne diventano il motore.

Il valore aggiunto dell’essere rete e in rete
Perché creare una rete come quella di ANPIS, organizzata a livello nazionale e poi a livello regionale ancor prima che locale, per mettere in atto pratiche sportive per la riabilitazione e la prevenzione? Evidentemente, a prima vista, questo non fa che complicare il tutto.
Allora è interessante andare a scoprire, oltre alle motivazioni della scelta dello sport come strumento, come ha ben delineato Ennio Sergio nel suo intervento, anche ciò che ha spinto il costituirsi di una realtà associativa come ANPIS per vederne il valore aggiunto.
Innanzitutto è bene tener presente che le ricerche dell’Organizzazione Mondiale della Sanità indicano come il sostegno sociale sia uno dei principali fattori predittivi positivi del decorso della schizofrenia; a partire da queste considerazioni e dal pensare al sostegno sociale come a una delle funzioni della rete sociale delle persone, risulta proprio come il legame sociale diventi uno dei cardini della cura. Con la consapevolezza di come sia proprio il sostegno sociale uno dei fattori di prevenzione del disagio psicosociale, un concetto che discipline quali la psicologia di comunità e la psichiatria sociale reputano centrale per la produzione di salute.
Da queste considerazioni prende il via l’azione dei gruppi sportivi che scelgono proprio l’associazionismo come forma organizzativa, in quanto si tratta di una forma di aggregazione fra le persone dettata dalla condivisione di obiettivi comuni. Di fatto quindi il “fare associazione” diventa la modalità culturalmente sancita di produzione di legame sociale che nel tempo si è inoltre dimostrato un luogo di condivisione e di sostegno per quanti vi siano coinvolti. Questo di ANPIS è un associazionismo che si propone come aperto a tutta la cittadinanza, in quanto in esso non esistono degli spazi in cui si riconosce e si colloca la “normalità” e spazi in cui si riconduce invece la “malattia”. Questo di fatto è una precondizione importantissima a un efficace processo di reinserimento sociale che sia autentico ed efficace.
Ancora oggi la collettività purtroppo vive la dimensione del pregiudizio, vive cioè nell’attribuzione di stigma e di (dis)valore alla realtà della salute mentale. Il pregiudizio, di per sé, non costituisce una deformazione del processo di conoscenza ma semplicemente rappresenta la forma dell’approccio reale, nel senso della preconoscenza (senso comune) che si viene a costruire nelle persone in riferimento a una certa porzione della realtà, all’interno di determinate condizioni strutturali. Così la collettività si trova a vivere una condizione di non-interazione con la malattia mentale in quanto realtà che continua a essere separata; gli operatori dei servizi vivono un’interazione con i propri utenti che si intreccia in ambienti separati quali la clinica, i servizi di Salute Mentale o in contesti comunque protetti; i familiari invece vivono una relazione che si dispiega nell’assistenza che alterna mura domestiche a luoghi di cura o assistenza.
ANPIS e l’attività sportiva dunque dove si vanno a collocare?

Uno spazio intermedio
Si tratta probabilmente di uno spazio intermedio tra i luoghi della cura e quelli invece della “normalità”. E lo fa coinvolgendo direttamente la collettività, sia nei suoi individui che presi singolarmente partecipano in vario modo alla realtà di ANPIS, sia nelle sue istituzioni. Questo significa cercare l’incontro con le persone, con quelle schiere di non addetti ai lavori, a cui viene data la possibilità di entrare in contatto con la dimensione del disagio psicosociale, per rivederne e rivalutarne i pregiudizi e per attribuire valore. Questo nel lavoro quotidiano non significa eliminare sofferenza/malattia o difficoltà/disabilità delle persone seguite dai servizi ma sicuramente ha contribuito a riformulare le attribuzioni di pericolosità, stupidità, imprevedibilità e asocialità che spesso sono associate alla malattia mentale o ad altre forme del disagio. Riformulazione che non è sostituzione di un pregiudizio negativo con uno positivo ma verifica, caso per caso e momento per momento dell’equilibrio fra sofferenza/malattia/necessità di supporto e assistenza e salute/possibilità di interazione e scambio.
ANPIS ha scelto di fare tutto questo utilizzando proprio lo sport come strumento. Solo facendo incontrare le persone si favorisce la conoscenza e solo favorendo la conoscenza si abbatte la diffidenza e il pregiudizio, per compiere un lavoro che è certamente un percorso per il benessere dei ragazzi utenti dei servizi. Evidentemente è anche qualcosa in più. Tutto questo operare infatti ha permesso ai familiari, da un lato, di interagire con il parente malato in situazioni che lo impegnano in attività sociali (quali gli incontri sportivi, per esempio) nelle quali anche lui contribuisce come protagonista e non come paziente in cura; questo consente alla famiglia anche di riformulare le proprie aspettative per vedere quanto ci sta oltre alla mera assistenza quotidiana. Dall’altro, ha permesso anche agli operatori di ricredersi sulle situazioni dei propri utenti, soprattutto per quanto riguarda le quote di benessere che essi possono esprimere in ambito non strettamente terapeutico, permettendo quindi un’efficace riformulazione dei percorsi ad hoc per i ragazzi.
I gruppi sportivi che fanno parte di ANPIS hanno costituito e costituiscono dei mezzi attraverso cui persone spesso completamente estromesse dal circuito economico-produttivo hanno potuto partecipare direttamente ad attività sportive, sociali, ecologico-ambientali, culturali e dunque recuperare una propria significatività sociale.
ANPIS, dunque, nel creare occasioni sportive, svolge un duplice ruolo: da una parte, permette ai ragazzi la riscoperta della dimensione del corpo e della sua cura (con tutti i ritorni diretti in termini di prevenzione della salute fisica); dall’altra, in generale, contribuisce all’idea dello “sport per tutti”, recuperando quote di popolazione estromesse o non interessate dalla pratica sportiva competitiva. Di fatto quindi l’agire di ANPIS e dei gruppi afferenti si realizza come modalità concreta di promozione della salute e di lotta ai processi di marginalizzazione di varie fasce di popolazione a rischio.
Questo è il senso che negli anni ANPIS e le persone che lo costituiscono hanno acquisito, nello stesso tempo opportunità progettuale nell’ambito della cura e presa in carico della malattia mentale e di altre forme del disagio e della devianza e modalità comunitaria di promozione di forme attive di cittadinanza. Nonostante questa indole comune occorre sempre considerare come le varie e numerose realtà nazionali presentino situazioni differenziate in funzione delle situazioni locali, dell’esperienza maturata dagli operatori e dai soci in generale, del rapporto che si è potuto istituire fra istituzioni sociosanitarie e operatori impegnati in simili esperienze.
I gruppi sportivi, oltre a ritagliarsi tempi e spazi nel corso della settimana per allenamenti e “preparazioni atletiche”, non perdono occasione per organizzare e promuovere incontri sportivi, e non solo, con altri gruppi: prima a livello locale, ma anche a livello regionale, interregionale e nazionale. Giusto per fare un cenno a quelli che sono gli appuntamenti principali a livello nazionale si può ricordare il torneo nazionale invernale di pallavolo, in programma i primi giorni dell’anno; la settimana di vacanza, sport e contaminazione estiva di inizio giugno, in programma per l’anno 2008 a Palinuro (SA) all’oggi la manifestazione con i numeri maggiori (coinvolte la passata edizione, 1300 persone); il torneo nazionale di beach volley di Rimini di fine agosto, sulle spiagge della affollata riviera romagnola e il trofeo di calcio settembrino di Prato (FI).

Ma tutto questo e probabilmente molto altro sta in poche parole di Federico del gruppo sportivo “Va pensiero” di Parma, lasciate agli studenti degli istituti superiori imolesi nel corso di un incontro di testimonianza: “Non siamo più pazienti, siamo diventate persone e, quando giochiamo, siamo sportivi. Siamo pazienti quando andiamo dal medico, o quando entriamo nell’ambulatorio dello psichiatra. Fuori siamo madri, padri, colleghi, compagni di gioco… capite ragazzi, cambia tutto. Siamo diventate persone con delle responsabilità negli ambiti in cui viviamo”.
 

La scelta della pratica sportiva: un modello di relazione, un luogo di reciproco incontro

di Ennio Sergio
psicologo di comunità, coordinatore Centro Diurno del Dipartimento Salute Mentale ASL Imola (BO)

L’idea di considerare la pratica sportiva all’interno dei servizi di salute mentale come uno strumento utile a conseguire una condizione di maggiore benessere per le persone con disagio mentale ha avuto in questi anni, dalla fine degli anni Novanta a oggi, un notevole impulso. In Emilia Romagna, lo sport, grazie soprattutto allo sviluppo del movimento sportivo targato ANPIS (Associazione Nazionale Polisportive per l’Integrazione Sociale) ha costituito, e costituisce attualmente, un importantissimo strumento per superare le vecchie pratiche di approccio al disagio mentale, ancora fortemente medicalizzate, che ancora oggi prevalgono all’interno del servizio di salute mentale e passare a una visione che inquadri la questione del disagio mentale all’interno di una cornice in cui la comunità, la promozione dei diritti di cittadinanza, il protagonismo di cittadini con o senza disagio mentale, costituiscono i perni attorno ai quali far girare le proposte per migliorare la qualità della vita delle persone.
In tutti questi anni abbiamo constatato, come operatori che lavorano all’interno dei Dipartimenti di Salute Mentale, che lo sport può aiutare la crescita delle persone con un disagio mentale affinché esse possano acquisire gli strumenti necessari a divenire soggetti consapevoli, responsabili, parte attiva nel processo di costruzione della propria identità sociale, capaci di rientrare nel gioco della vita, se si inserisce la pratica sportiva all’interno di un processo più complesso.
Ciò è possibile solo uscendo dagli spazi dei servizi, guardando i problemi in termini più generali, abbandonando le categorie diagnostiche delle malattie mentali, recuperando le biografie personali, le storie di ciascuno e, guardandoci attorno, far ripartire il pensiero critico che possa aiutarci a reinterpretare il ruolo delle persone all’interno delle dinamiche sociali.
In questa ottica le persone in difficoltà emergono come indicatori di un disagio che attraversa tutti i cittadini, i cui tutti siamo immersi e che le crisi personali pongono in evidenza. La crisi quindi come rivelazione che si pone davanti ai nostri occhi e che richiede l’attenzione di tutti. La crisi come un problema individuale che, però, cerca soluzioni collettive. E le crisi sono tante e parlano di tanta umanità sofferente che di volta in volta veste gli abiti dell’immigrato, del clandestino, dei giovani che vivono una vita senza orizzonti certi, una vita sempre più precaria, donne, studenti che spesso frequentano una scuola che fa fatica ad ascoltarli, anziani soli, persone diversamente abili, ecc. Tutte persone candidate a una sofferenza mentale
Quando ci si pone in questo modo, allorché ci si avvicina alle questioni relative alla salute mentale, ci si accorge che c’è qualcosa che non va. Ci si accorge che viviamo all’interno di rapporti sociali, all’interno di un modello economico di mercato orientato ad affermare logiche di sviluppo esclusivamente legate alla crescita del profitto. Ci si accorge che non siamo più proprietari del nostro tempo e che la nostra esistenza è strettamente legata al consumo degli oggetti. Che viviamo in città frammentate in cui le persone fanno fatica a incontrarsi e in cui gli oggetti e il consumo hanno sostituito le storie delle persone. Lo sport moderno è lo specchio di questa tendenza: abbiamo a che fare con discipline sportive che veicolano valori fortemente agonistici e competitivi e propongono modelli identificatori campionisti in cui l’individualismo diventa stile da premiare. Lo sport spesso diviene motore di quelle logiche consumistiche, ed è sempre più orientato a un processo di spettacolarizzazione in cui le persone divengono clienti liberi di scegliere tra le varie proposte che il mercato televisivo offre. Il sistema sport è un sistema che veicola valori antagonisti a valori quali la solidarietà e la mutualità tra le persone, esso è parte organica del sistema economico liberista che a oggi ha prodotto una forte divaricazione tra sud e nord del mondo e che alimenta i conflitti e le guerre per lo sfruttamento delle materie prime, produce seri danni all’ambiente mettendone a rischio la sua riproducibilità, sfrutta i lavoratori che prestano la loro opera in totale assenza di diritti. Ciò determina povertà materiale, malattie, rottura di legami sociali, politiche di mercato e produzione slegate dai bisogni delle popolazioni locali con conseguente abbandono delle colture locali e del sistema di relazioni umane che ruotano attorno a esse e la creazione di produzioni orientate al soddisfacimento dei bisogni delle popolazioni del nord. E conseguente esodo verso i paesi ricchi del mondo. Il sistema, sul piano globale e locale, può andare avanti solo attingendo alla logica del conflitto permanente del binomio amico-nemico sulla creazione artificiosa di un clima sociale in cui la percezione del pericolo è forte e nel quale solo logiche sicuritarie e di controllo trovano spazio come risposta all’allarme sociale. È proprio questo sentimento di paura diffuso che richiama a soluzioni emergenziali che smette di farci pensare e ci costringe all’angolo lasciandoci in compagnia di immagini stereotipate, utili a designare gli altri, che si sostituiscono a quelle reali compromettendo la possibilità di incontrarli fuori da categorie pregiudiziali. Ci si accorge che il modello di sviluppo economico che ha “scelto” l’Occidente nella sua versione liberista, un darwinismo sociale in cui solo chi ha determinate capacità sopravvive, è strettamente legato alla produzione di disagio mentale.

L’impegno sportivo per la ricerca del benessere
Queste riflessioni hanno permesso ad alcuni operatori e utenti dei Servizi di Salute mentale di orientare l’impegno sportivo alla ricerca di una condizione di benessere, percorrendo la strada della promozione umana, avendo come prospettiva l’affermazione dei diritti di cittadinanza insieme ad altri soggetti che fino a qualche hanno fa non avrebbero pensato di incontrare (gli immigrati, gli anziani, gli studenti, i precari, le donne, i disabili, ecc.) uscendo fuori da una lettura del proprio disagio all’interno di una cornice biomedica.
La pratica sportiva intesa in questo senso porta la vita delle persone al centro della scena, il loro essere peculiari, le loro differenti competenze e da esse si fa interpretare. Ciò diviene un’opportunità per gli operatori di mutare, contaminandole, le pratiche tradizionali dei Servizi di Salute mentale: non c’è alcuno che debba essere riabilitato ma ci sono persone che devono essere sostenute nella promozione dei loro diritti di cittadinanza.
Lo sport inteso in tal senso rappresenta per chiunque e non solo per chi attraversa, o ha attraversato, un momento critico nella sua vita, un’occasione per ripensare al tipo di rapporto che si stabilisce con gli altri, al ruolo che si gioca all’interno della comunità, di ripensare ai processi di inclusione e al fatto che questi passano attraverso la riformulazione dinamica delle regole a partire dai soggetti che di volta in volta si mettono in gioco. Restituire allo sport un ruolo centrale nella possibilità di costruzione di legami sociali e nella capacità di attivare processi di riconoscimento e rispetto delle differenze.
Uno sport che veicola modelli di relazione tra le persone competitivi e non cooperativi, che sottolinea gli elementi individualisti e prestazionali, che ripropone una visione darwinista del tipo “vince il più forte” rischia di diventare una fabbrica del disagio mentale. Diviene necessario rifondare le regole dello sport partendo però dai soggetti in campo. Ciò passa attraverso la valorizzazione delle differenze e quindi un’attenzione a quest’ultime allorché si formulano nuove regole. Regole che non possono essere date una volta per tutte ma che di volta in volta debbono essere rivisitate; di volta in volta, poiché le persone che si confrontano su un campo da gioco non sono sempre le stesse, cambiano di volta in volta.
Non c’è da perfezionare un gesto atletico avendo modelli esterni come riferimento ma misurare il gesto a partire da chi lo produce, abbandonare uno sport che frustra, che crea disorientamento con gravi conseguenze sulla propria autostima poiché fa volgere lo sguardo verso modelli irraggiungibili.
All’interno di questo riferimento culturale è la persona che viene messa al centro e non tanto facendo riferimento ai suoi punti di forza o di debolezza (categorie inadeguate in questo contesto) ma alla propria differenza e al gioco dialettico che si stabilisce con le altre differenze. È proprio da questa dialettica che nascono conoscenza degli altri e regole del gioco. È questo un processo che rende le persone protagoniste del cambiamento attraverso la valorizzazione di sé come persone che fanno una particolare esperienza esistenziale e non come malati disabili o “handicappati”. Ciò non può essere possibile farlo se si aderisce al sistema delle regole a cui fa riferimento lo sport tradizionale. Le regole dello sport tradizionale rispondono a una cultura che esclude (quella delle classifiche, retrocessioni, capocannonieri, pallone d’oro, ecc.) e non che include. Diviene necessario riformulare le regole fuori da una visione paternalistica stando all’interno di una logica delle pari opportunità. La ricerca di nuove regole non può passare che attraverso un sistema, un meccanismo che permetta la conoscenza attraverso l’applicazione di una metodologia che attivi un percorso di riconoscimento reciproco in vista della costruzione di un evento sportivo. Ciò lo si realizza concretamente preparando incontri conoscitivi a partire dai quali si stabiliscono le regole strutturali e adattando in tempo reale sul campo, durante gli incontri sportivi, le regole, prendendo atto delle differenze in campo e introducendo una serie di handicap per permettere alle squadre di confrontarsi su un piano di equilibri, senza concessioni paternalistiche.
La riflessione sull’andamento dell’evento con i soggetti che hanno partecipato all’impresa sportiva e, in conclusione, la premiazione per categorie fanno riferimento alle qualità che hanno caratterizzato il singolo o il gruppo. Si superano le categorie, adulti/ragazzi giovani/vecchi
donne/uomini, operatori/utenti, stranieri/italiani, in quanto si tratta di soggetti che hanno come unica discriminante il desiderio di partecipare a un evento che ha come finalità quella di creare nuovi luoghi all’interno della comunità. Luoghi trasversali, che possano favorire lo scambio tra
persone di provenienza geografica differente, di età e sesso differente e con abilità differenti evitando che ciascuno si ritrovi a cadere nel pregiudizio di dover necessariamente scambiare relazioni, rapporti, per omogeneità di età, sesso, abilità o provenienza geografica.
In conclusione riporto ciò che scrive Benedetto Saraceno, direttore dell’OMS nel suo La fine dell’intrattenimento. Manuale di riabilitazione psichiatrica (Milano, Etas libri, 2000, V capitolo, pag. 79): “[…] non esistono le disabilità né le abilità ‘in sé’, ossia decontestualizzate da quei complessi insiemi di determinanti costituiti dai luoghi degli interventi, dalle organizzazioni dei servizi, dalle interazioni con le agenzie sanitarie e sociali di un territorio, dalle risorse messe in campo. La riabilitazione non è la sostituzione delle disabilità con delle abilità ma un insieme di strategie orientate ad aumentare le opportunità di scambio di risorse e di affetti: solo all’interno di
tale dinamica degli scambi si crea un effetto ‘abilitante’ […] La riabilitazione è un processo continuo che implica l’apertura degli spazi negoziali per il paziente, per la sua famiglia, per la comunità circostante e per i servizi che del paziente si occupano: la dinamica della negoziazione è continua e non può essere codificata una volta per tutte in quanto gli attori (e i poteri) in gioco sono molti e reciprocamente moltiplicatisi”.
 

L’acqua della follia

Io non so che cosa sia un matto, sussurrò Veronika. Comunque io non lo sono. Sono una suicida frustrata.
Matto è colui che vive nel proprio mondo. Come gli schizofrenici, o gli psicopatici, o i maniaci. Quelle persone, cioè, che sono diverse dalle altre. […]
Ti voglio raccontare una storia, disse Zedka.
Un potente stregone, con l’intento di distruggere un regno, versò una pozione magica nel pozzo dove bevevano tutti i sudditi. Chiunque avesse toccato quell’acqua, sarebbe diventato matto.
Il mattino seguente l’intera popolazione andò al pozzo per bere. Tutti impazzirono, tranne il re, che possedeva un pozzo privato per sé e per la famiglia, al quale lo stregone non era riuscito ad arrivare. Preoccupato, il sovrano tentò di esercitare la propria autorità sulla popolazione, promulgando una serie di leggi per la sicurezza e la salute pubblica. I poliziotti e gli ispettori, che avevano bevuto l’acqua avvelenata, trovarono assurde le decisioni reali e decisero di non rispettarle.
Quando gli abitanti del regno appresero il testo del decreto, si convinsero che il sovrano fosse impazzito, e che pertanto ordinasse cose prive di senso. Urlando si recarono al castello chiedendo l’abdicazione. Disperato, il re si dichiarò pronto a lasciare il trono, ma la regina glielo impedì, suggerendogli: – Andiamo alla fonte, e beviamo quell’acqua. In tal modo saremo uguali a loro.- E così fecero: il re e la regina bevvero l’acqua della follia e presero immediatamente a dire cose prive di senso. Nel frattempo, i sudditi si pentirono: adesso che il re dimostrava tanta saggezza, perché non consentirgli di continuare a governare?
La calma regnò nuovamente nel paese, anche se i suoi abitanti si comportavano in maniera del tutto diversa dai loro vicini. E così il re poté governare sino alla fine dei suoi giorni.
Veronica si mise a ridere. Tu non sembri matta, disse.
Ma lo sono. Adesso mi stanno curando, perché il mio è un caso abbastanza semplice: è sufficiente reintegrare nell’organismo una certa sostanza chimica. Io, comunque, spero che la terapia risolva solo il mio problema di depressione cronica, perché voglio continuare ad essere folle, vivendo la vita nel modo in cui la sogno e non come la desiderano gli altri. Sai che cosa c’è là fuori, al di là dei muri di cinta di Villette?
Gente che ha bevuto nel medesimo pozzo.
Proprio così, disse Zedka. Pensano di essere normali, perché tutti fanno le stesse cose. Fingerò di aver bevuto quell’acqua.

(P. Coelho, Veronika decide di morire, Milano, RCS Libri SpA, 1999, pp. 36-38)

Veronika ha appena tentato il suicidio e in questo brano si è appena svegliata in un ambiente che assomiglia a un ospedale e che capisce solo durante la chiacchierata con Zedka essere un manicomio. Il manicomio di Villette a Lubiana. Zedka è rinchiusa lì da molto tempo e accompagna Veronika a scoprire la follia, le sue declinazioni, le sue saggezze che contrastano così evidentemente con la piatta e assurda omologazione della normalità.
Ho scelto questo pezzo come passaggio dalla storia alle esperienze dell’oggi, soprattutto per due motivi. Innanzitutto perché ha bisogno di ben poche parole di commento poi perché il racconto del re e dei suoi sudditi mostra così chiaramente e semplicemente le fragilità e labilità delle categorie entro cui pensiamo e riconduciamo le persone. E fa pensare.