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Autore: admin

Nei luoghi della follia

di Massimo Falcone
responsabile della biblioteca del Centro Documentazione Handicap di Bologna

Tu partita.
Senza desiderare la parola
che avevo nel cuore e che non seppi dire.
[…] Io rimasta
lungamente al mio tavolo, dinnanzi
a un vecchio ritrattino della mamma,
specchiando fissamente dentro il vetro
i miei occhi febbrili, inariditi.

(Antonia Pozzi "Distacco", in Parole, Milano, Garzanti 1989 p. 7)

Prima di addentrarci e cercare di fornire alcune nozioni storiche sui manicomi sarà necessario cercare di capire brevemente i motivi che ne portarono l’istituzione.
Per tutto il Medioevo la lebbra e il lebbroso vengono “ritirati” dal mondo e dalla comunità della Chiesa, ma la loro esistenza manifesta Dio, poiché indica al tempo stesso la sua collera e mostra la sua bontà. L’abbandono, l’internamento è per il lebbroso una forma di salvezza; la sua esclusione gli offre un’altra forma di comunione: benché egli sia separato dalla Chiesa e dalla compagnia dei sani, tuttavia non è separato dalla grazia di Dio. Sparita la lebbra negli stessi luoghi, si ritroveranno gli stessi meccanismi di esclusione. I poveri, i vagabondi, “teste pazze” riassumeranno la parte abbandonata dal lebbroso: soprattutto quella di una separazione rigorosa che è sì esclusione sociale ma reintegrazione spirituale.
La follia verso la fine del Medioevo assumerà un ruolo importate, essa simbolizzerà tutta un’inquietudine che appare nella cultura europea: minaccia e derisione, vertiginosa irragionevolezza del mondo, meschino e ridicolo. Fin a tutto il Medioevo la follia è stata ospitata nella gerarchia dei vizi, essa governa tutto ciò che è facile, che è gioioso, tutto ciò di leggero nel mondo.
Nella letteratura del XVI secolo e l’inizio del XVII la follia inizierà a essere percepita come la “definitiva vittoria sulla ragione”, si svilupperà in questo periodo quel processo che porterà alla conferma dell’esperienza tragica della follia. In Cervantes, sotto un apparente critica facile dei romanzi d’invenzione, si nasconde un’inquietudine sui rapporti tra realtà e immaginazione. La passione disperata, l’amore deluso, e soprattutto l’amore ingannato, non hanno altro esito che il suicidio; in Shakespeare le follie si imparentano definitivamente con la morte e con l’assassinio e assumeranno un profilo ben diverso da quello che avevano prima di questo momento: erano segni ironici che confondevano i punti di riferimento del vero e del falso. Descartes, nel suo cammino del dubbio, incontra la follia accanto al sogno e a tutte le forme d’errore ma la loro situazione è diversa, in rapporto alla verità e a colui che la cerca; i sogni e le verità sono superati dalla struttura stessa della verità, la follia viene esclusa dal soggetto che dubita. La follia si trova a essere esiliata: se l’uomo può essere folle il pensiero non può più essere insensato.
Nel XVII secolo assistiamo alla creazione di grandi case di internamento e, come fu per i lebbrosari che non avevano soltanto un significato medico, la creazione di spazi “maledetti” ebbe significati politici, sociali, religiosi, economici, morali. L’usanza dell’internamento indica una nuova reazione alla miseria, un nuovo rapporto dell’uomo verso ciò che di inumano c’è nella sua esistenza.
Siamo soliti affermare che il folle durante tutto il Medioevo era considerato come “sacro” perché invasato. Nulla di più falso. La sua sacralità era dovuta al fatto che, per la carità medioevale, egli era parte integrante della miseria; miseria che ormai viene concepita solo nell’orizzonte della morale. Nel XVII secolo assistiamo, appunto, alla desacralizzazione della follia. Ormai la pazzia troverà ospitalità tra le mura dell’ospedale accanto a tutti i poveri. Cambia la sensibilità nei suoi riguardi: non più religiosa, ma sociale.
L’isolamento, prima di avere il senso medico, si rese necessario per tutt’altra causa che la preoccupazione di guarire. Per lungo tempo la casa di correzione servirà a mettere al chiuso i disoccupati, i senza lavoro, i vagabondi. Nei momenti di crisi, quando il numero di poveri si moltiplica, esse saranno lo strumento per garantire protezione sociale contro le agitazioni e le sommosse. Ma al di fuori di questi periodi, l’internamento assume un altro significato, non si tratterà di rinchiudere i senza lavoro ma di dar lavoro a coloro che sono stati rinchiusi e di farli servire alla propria comunità. Tra loro e la società si stabilisce un sistema implicito di obbligazioni: hanno diritto a essere nutriti, ma devono accettare la costrizione fisica e morale dell’internamento.

Una prassi medica per normalizzare la condizione umana
Nel corso del 1700, con il pensiero illuminista e il nuovo concetto di razionalità, le pratiche contro la follia vengono riconsiderate: non più un sistema punitivo ma una teoria e una prassi medica in grado di normalizzare la condizione umana dell’internato. Gli istituti diventano luoghi di cura dove il malato dovrebbe rimanere in maniera transitoria. Con l’uso di cartelle cliniche, osservazioni e controlli, si cerca di comprendere la malattia: nasce così la psichiatria. I suoi pionieri sono, in Italia, Vincenzo Chiarugi, medico dell’ospedale Bonifazione di Firenze, e Philippe Pinel e Jean Etienne Esquirol, suo allievo, in Francia. Da questo momento in poi la follia, ritenuta incurabile, diverrà “contenibile”. La follia acquisirà i suoi connotati fondamentali: l’alienazione mentale è una malattia del corpo e il comportamento che ne consegue è contro la moralità.
Dall’assunto che l’alienazione mentale è una malattia del corpo nascerà la teoria organicistica secondo la quale i processi morbosi che lo psichiatra deve studiare non differiscono dagli altri fenomeni somatici, quindi la cura della malattia mentale deve essere sempre essenzialmente somatica. La Società italiana di freniatria, fondata nel 1873, adotta il termine “freniatria” anziché psichiatria per sottolineare la sua impostazione organicistica. Il concetto di moralità, invece, fa nascere la “cura morale” addentrandosi nel carattere spirituale della pazzia. L’impostazione di questa teoria parte dal presupposto che la ragione, l’intelletto, l’immaginazione, la memoria sono le qualità più operative dello spirito sulle funzioni celebrali. Dove ci sarà una malattia celebrale e quindi non si avrà la capacità di distinguere e correggere le azioni, lì risiederà la follia. In definitiva: un uomo pazzo e un uomo criminale presenterebbero le stesse anomalie fisiche. Allo psichiatra per capire basterà osservare i fatti. Individuando nel folle non solo un delinquente ma anche un’artista, Cesare Lombroso si farà paladino di questa teoria.
La nuova scienza, la psichiatria, continuerà ad adottare metodi drastici; gli alienati continueranno a essere sottoposti alla cura dell’acqua perché certo che i bagni e le docce siano delle terapie contro la malinconia e il furore. Gli stessi pionieri della psichiatria, Chiarugi e Pinel, adotteranno tecniche già conosciute, come il salasso, provocato con sanguisughe sui genitali, pediluvi in acqua bollente con aggiunta di acido muriatico.
Sostanzialmente il manicomio dell’’800 è sinonimo di isolamento per la propria e l’altrui sicurezza e verrà inteso come cura in sé, al di là di ogni altra terapia. La stessa progettazione dei manicomi viene fatta in modo che l’isolamento sia totale. Edifici immensi divisi in ale simmetriche, padiglioni a più piani dove si trovano le celle dei malati, viali alberati. L’isolamento acquisirà una funzione rieducava e punitiva. Unica attività concessa negli spazi sarà il lavoro meccanico.

Il sistema manicomiale in Italia
In Italia fino alla metà del XIX secolo non esiste un reale censimento sugli internati. Il primo indicatore complessivo verrà fornito nel 1866 dall’Archivio italiano di malattie nervose presentando uno scenario così composto: 4.139 uomini e 3.580 donne internate. Questo primo, parziale e incompleto censimento viene migliorato nel 1880 quando risulteranno: su una popolazione di oltre 28 milioni di abitanti, i pazzi ricoverati nei manicomi e negli ospedali saranno 17.471, di cui 9.000 uomini e 8.471 donne. Nel 1908 gli internati risulteranno 45.009 e nel 1914 aumentano a 54.311 raggiungendo l’1,5% della popolazione. Esponenzialmente al numero degli internati crebbe anche il numero degli istituti: 43 nel 1875, 152 nel 1914. Di pari passo cresceranno anche le spese di mantenimento delle strutture pubbliche, l’incremento supera il 200%.
L’eccesso di ricoveri crea malumori e molte case e istituti passano in gestione a opere pie, spesso proprietarie delle mura. Frati e suore, ripagati con rette misere dalle province, risparmiano su tutto fino alle estreme conseguenze. La situazione è fuori controllo e già nel 1901 la Società italiana di freniatria ordina lo sgombero dai manicomi delle persone che non dovrebbero restarvi. Nonostante la situazione sia al collasso da tempo, in Italia non si riesce ad approvare un quadro normativo che regoli il mondo della follia fino al 1904. Il 12 febbraio 1904 passa la legge che resterà in vigore, nonostante alcune modifiche, fino al 1978. Con la prima normativa unitaria sulla follia si stabiliranno alcuni principi decisivi, in particolare che il ricovero è previsto per i soli malati pericolosi o che diano pubblico scandalo. A partire da ora ogni commissario di pubblica sicurezza ha il potere di emettere ordinanze di ricovero sulla base di certificati medici che contengano almeno una sommaria dichiarazione di pericolosità: non occorre la firma di uno specialista, ed essendo la pericolosità sociale sempre presunta è sufficiente avere un malessere in pubblico per essere spediti in manicomio. Chi entra in manicomio non può più uscire per sua volontà, nemmeno se è stato lui a chiedere il ricovero. Per tutti è prevista l’indelebile iscrizione nel casellario giudiziario.
All’inizio del ‘900 esordisce anche in Italia la psicanalisi. Ciò che si sviluppa è un approccio che riconosce al malato una nuova dignità. La natura della malattia si nasconde nella sua psiche e quindi, scavando a ritroso, è possibile affrontare una serie di disturbi. Contemporaneamente la psichiatria definisce i nuovi parametri clinici per inquadrare la malattia mentale. Emil Kraepelin, psichiatra tedesco, conia i termini “psicosi maniaco-depressiva” e “demenza precoce”, ma già nel 1911 la terminologia clinica cambia di nuovo sotto l’impulso dello psichiatra belga Eugen Bleuler. “Schizofrenia” prende il posto di “demenza precoce” e “ritardo mentale” sostituisce la denominazione di “cretino, imbecille e idiota”. Intanto fuori dal mondo accademico, i manicomi scoppiano. I ricoverati secondo la “Rivista sperimentale di freniatria” del 1946 sono 62.127 distribuiti in 142 istituti nel 1926, nel 1933 sono 81.009 e nel 1939 raggiungono quota 95.679. Una spiegazione a questo vertiginoso aumento del popolo manicomiale è che, anche se con modalità diverse rispetto al passato, il manicomio continua a raccogliere le persone considerate pericolose per la società. Senza alcuna tutela per la persona, l’internamento rimane un’operazione fuori controllo. Prassi che peggiora durante il ventennio fascista. Il manicomio diventa uno strumento di lotta politica, mentre la strada delle terapie alternative viene ostacolata. Tra il 1925 e il 1945 in Italia viene censurata la psicanalisi, le cliniche psichiatriche universitarie vengono chiuse e inglobate a quelle di neurologia, mentre tornano in voga teorie organicistiche. Per molti anni si avvertirà dalla Germania l’influenza del pensiero dello psichiatra nazista Ernest Rubin, teorico della “razza pura”che contribuì a mandare nelle camere a gas oltre 275.000 malati cronici, anziani, disabili.
Con la psicoanalisi tuttavia si apre la strada per l’utilizzo più generale delle psicoterapie. Dalla metà degli anni ‘50 fino alla metà degli anni ‘60 si assiste allo sviluppo della psicanalisi e una serie di psicoterapie ma non esiste una vera e propria alternativa ai manicomi.
Tra il 1959 e il 1961 vengono pubblicate le opere dello psichiatra inglese Ronald D. Laing e dell’americano Thomas S. Szasz, che condannano l’uso del manicomio e la reclusione come terapia. Il manicomio è considerato uno spazio dove manca la libertà, dove il malato perde la propria identità, dove viene soffocato e annientato: il folle diventa una vittima che finisce in manicomio perché sgradito alla società, lo psichiatra diventa un aggressore che fornisce beneficio solo ai parenti. È una rivoluzione: questa nuova impostazione prende il nome di antipsichiatria.

La sofferenza dei malati mentali e il via ai cambiamenti
Lo scontro tra antipsichiatria e psichiatria istituzionale arriva solo in parte in Italia dove la battaglia culturale sposta il suo obiettivo su un piano più concreto: la sofferenza dei malati mentali. Secondo la nuova corrente di pensiero, l’origine della malattia mentale va cercata nel passato familiare della persona e nel suo “conflitto sociale” con gli altri.
A partire dal 1968, il numero dei ricoverati coatti si riduce e arrivano anche alcune modifiche normative. La legge 431 del marzo 1968 riconosce il ricovero volontario, l’abolizione dell’obbligo di annotazione nel casellario giudiziario da parte del giudice, la creazione di centri d’igiene mentale a livello provinciale. Sempre nel 1968 la Corte Costituzionale cancella parte dell’articolo 2 della legge del 1904 che non permetteva la difesa del malato di mente e che consentiva alle forze dell’ordine di riferire al magistrato anche dopo 48 ore. Ormai tutti condividono che il manicomio tradizionale debba essere superato. Su come fare restano le divisioni. Nel 1973 appare sullo scenario Psichiatria Democratica, che fa suoi i principi anitimanicomiali e la battaglia entra nel vivo; il dibattito parlamentare viene accelerato e si giunge al 1977 con l’approvazione del disegno di legge per la riforma del sistema psichiatrico. A dare lo scossone definitivo perché la riforma venga varata è la raccolta, nella primavera 1978, di 700.000 firme per un referendum da parte del Partito Radicale contro la legge manicomiale del 1904. Il governo Andreotti, insediato da appena due mesi, non intende fornire occasioni di sfiducia. La votazione referendaria è prevista per l’11 giugno e il governo, retto da un’alleanza DC-PCI, teme che la votazione possa spaccare la maggioranza. Il Parlamento stringe più che può i tempi. La legge numero 180 del 13 maggio 1978 viene approvata, solo pochi ne prederanno atto, sono passati solo quattro giorni dall’uccisione di Aldo Moro.
La legge 180, meglio conosciuta come “Legge Basaglia”, rivoluziona il modo di pensare la malattia mentale, anche se identificata dallo stesso Basaglia come “legge di transizione”, e scatena immediate proteste: dei direttori di manicomi che vedono minato il loro potere, dei sindacati che difendono gli interessi di chi lavora nei manicomi e anche dei familiari dei ricoverati che sono spaventati del futuro che li aspetta.
In un colpo solo la legge 180 spazza via secoli di abusi e ingiustizie a carico delle persone che via via, a secondo dei “processi d’integrazione”, sono stati chiamati: pazzi, folli, alienati, malati. Ora il paziente ha riconosciuti diritti e gli è garantita tutela. I punti sui quali poggia la legge sono semplici e chiari: non si possono costruire nuovi manicomi, i manicomi esistenti verranno gradualmente chiusi, il trattamento sanitario d’ora in avanti sarà volontario e potrà essere obbligatorio solo in alcuni casi particolari. Anche la struttura della legge è semplice, conta di undici articoli, sei dedicati alla gestione del trattamento sanitario obbligatorio, uno al trasferimento alle Regioni delle funzioni in materia di assistenza ospedaliera psichiatrica, uno all’attribuzione del personale medico, uno agli infermi già ricoverati negli ospedali psichiatrici, due alle modifiche del codice penale e altre leggi. Il malato ora entrerà in ospedale solo per brevi degenze e solo a causa di crisi acute e situazioni insostenibili per se stesso e per la sua famiglia. Questi reparti si chiamano servizi psichiatrici di diagnosi e cura, possono avere un massimo di 15 posti letto e i degenti vi rimangono solo per sette giorni. Per il resto ci pensano i servizi sul territorio, extraospedalieri. A questo punto si pone un unico problema: le Regioni sono del tutto impreparate e i malati che vengono dimessi dai manicomi non sanno dove andare. Fatta la legge mancano le strutture, sulla legge 180 si scaricano subito polemiche e denunce.

Un bilancio sulla legge “Basaglia”
Il bilancio dei primi anni della legge 180 non è esaltante. In molti ospedali psichiatrici le condizioni di vita non sono migliorate. Molte strutture pubbliche a causa delle dimissione selvagge dei medici offrono servizi scadenti e costringono i pazienti o all’abbandono o al ricovero in cliniche private. Nel frattempo la rete dei servizi sul territorio non c’è o non funziona. I governi che si succedono dopo il 1978 danno la colpa alle Regioni, le Regioni si giustificano con la povertà di soldi disponibili e rimandano agli enti ospedalieri che a loro volta denunciano il mal funzionamento dei governi e degli enti ospedalieri. Insomma quando, il 29 agosto 1980, muore Franco Basaglia in Italia impera la confusione. Uno dei temi più ricorrenti in questo periodo è la situazione drammatica della psichiatria nel Sud Italia, dove la psichiatria è vittima dei feudi politici e dove fanno eccezione i reparti psichiatrici di diagnosi e cura, dove primari e partiti politici possono esercitare il loro potere e ottenere ritorni economici. Nel febbraio 1982, il Partito repubblicano italiano si muove contro la normativa 833 del 1978 che ha recepito la 180. È una proposta di legge centrata sulla modifica degli articoli sul trattamento sanitario obbligatorio. Si sostiene il ricovero anche in luoghi diversi dai reparti di diagnosi e cura degli ospedali civili e, cosa più importante, si chiede la possibilità di ricoveri prolungati. Negli stessi giorni anche la DC lancia la sua proposta di revisione in un documento che ha tra i firmatari Paolo Cirino Pomicino e che ricalca sostanzialmente quello repubblicano ma prevedendo un finanziamento di cento miliardi di lire per rafforzare le realtà manicomiali, soprattutto del Sud, messe in crisi dopo il 1978. Inizia ad aleggiare prepotentemente il sospetto della riapertura dei manicomi. Il 5 maggio 1982 una proposta arriva direttamente dal ministro della Sanità, Renato Altissimo. Nel suo disegno di legge si prevede che gli infermi possano scegliere dove curarsi in due tipologie di posti: nei reparti di diagnosi e cura ospedalieri per un massimo di trenta giorni, a scadenza dei quali si finisce nei manicomi con divisioni ospedaliere di almeno 180 posti letto per stanziarvi non meno di un mese. Renato Altissimo prevede anche un finanziamento cospicuo ma nulla sarà proposto per i servizi di igiene mentale e strutture sociosanitarie sul territorio. Il progetto resterà lettera morta.
Per voce del nuovo presidente del consiglio Bettino Craxi, il ministro della sanità Costante Degan il 2 marzo 1984 giunge a una nuova soluzione. Degan chiede che non vi siano limiti di tempo alla durata dei ricoveri coatti, estendendoli a più circostanze: a tutti coloro che presentino alterazioni psichiche e abbiano bisogno di un intervento terapeutico urgente. Propone 90 miliardi di lire di finanziamento triennale alle Regioni. La riforma non convince ancora.
Il clima si fa più teso per le pressioni di due associazioni di familiari di malati psichici: l’A.R.A.P. (Associazione per la Riforma dell’Assistenza Psichiatrica) e Di.A.Psi.Gra (Difesa Ammalati Psichici Gravi). La loro è la voce di chi ha provato sulla propria pelle la mancanza dell’applicazione della riforma.
La protesta dilaga e a nulla serve il riconoscimento del 17 febbraio 1985 dell’Organizzazione Mondiale della Sanità secondo cui la riforma in Italia è nata per volontà di un cambiamento che non è solo italiana, al Paese va in ogni modo il merito di essere stato il primo a trasformarla in legge.
Nel gennaio 1986 viene presentata una nuova proposta del PSI dello psichiatra Giovanni Battista Cassano di Pisa: anche in questo caso, secondo i difensori della 180, si finisce per legittimare l’esistenza dei manicomi. Nell’aprile 1988 ci prova il PCI con un provvedimento urgente in applicazione degli articoli di legge esistenti. Si chiede l’istituzione dei Dipartimenti di Salute Mentale in ogni USL e aperti 24 ore su 24, dove si faccia prevenzione, cura e riabilitazione. Nel novembre 1989, il ministro Donat Cattin presenta un progetto per la tutela della salute mentale insieme a un’indagine sulla psichiatria in Italia ma nessuna delle proposte di legge trova la via della definitiva approvazione. Il 6 agosto 1989 il neo ministro della Sanità Francesco De Lorenzo annuncia un progetto per la modifica della 180, e nell’ottobre 1990 presenta al consiglio dei ministri un nuovo disegno di legge; più potere ai medici nella decisione e gestione dei trattamenti sanitari obbligatori, maggiori spazi d’intervento alle università, più aperture alle cliniche private. Il governo presieduto da Giulio Andreotti approva il disegno di legge il 7 dicembre. De Lorenzo fa intendere che vuole arrivare al dunque: il finanziamento è di 800 miliardi di lire per le opere strutturali e 600 miliardi di lire per le spese di funzionamento. Sembra la volta buona, ma il progetto, come tutti gli altri, finisce in un cassetto. Da questo momento, per circa due anni, la corsa alla controriforma psichiatrica rallenta la corsa. C’è altro a cui pensare in Parlamento. Non ultima, Tangentopoli.
Il 7 aprile 1994, sedici anni dopo la 180, viene approvato il Progetto Obiettivo Tutela Salute Mentale 1994-1996. Per la prima volta vengono indicate quali debbano essere le strutture e i servizi psichiatrici territoriali, oltre a fissare gli standard di finanziamento. Il progetto affida al Dipartimento di Salute Mentale, a bacini di utenza non superiori a 150.00 abitanti, il compito di coordinare tutti i servizi, compresi i centri di diagnosi e cura ospedalieri. Prescrive anche il definitivo superamento degli ospedali psichiatrici e la diversificazione delle competenze professionali. Passano alcuni mesi e all’interno della legge 724 del 1994, che accompagna la finanziaria 1995, il governo di Silvio Berlusconi sancisce che entro il 31 dicembre 1996 devono chiudere gli ospedali psichiatrici. Il ministro uscente, Elio Guazzanti, chiude poi la trilogia di novità del 1994 con la firma per il decreto per la costituzione dell’Osservatorio sul superamento dei manicomi. Nel 1996 il nuovo ministro della Sanità, Rosy Bindi, conferma il programma di riconversione e non ammette deroghe, contro le Regioni inadempienti sono previste pesanti sanzioni.
Nel 1997, secondo il ministero della Sanità, soffre di disturbi psichici l’1% della popolazione italiana. Depressi gravi, schizofrenici, persone con forti disturbi affettivi, paranoidi. Tutti gli anni si ammalano gravemente circa 6.000 giovani e adulti, un fiume in piena che non conta più sulla risposta dei soli servizi territoriali pubblici, anche perché spesso insufficienti. Nel 1997, secondo la Federazione italiana volontariato, su oltre 9.300 strutture complessive che svolgono volontariato a livello nazionale 523 si dedicano alla malattia mentale. Non di rado il volontario diventa l’unico supporto nei momenti di crisi e lo stesso vale per i progetti residenziali di medio e lungo periodo. In molti casi si preparano anche progetti per l’integrazione occupazionale. Per la gran parte si tratta di privato sociale. Vale a dire, ancora associazioni di familiari il cui scopo principale è dare un’occupazione ai malati.
Esistono enormi difficoltà nel passaggio dalla situazione protetta al libero mercato del lavoro, e lavoro e guadagno sono punti di partenza e non di arrivo del processo riabilitativo. Ma le aziende non vogliono saperne di malati psichici, così come nei condomini, negli appartamenti è difficile trovare subito una buona accoglienza. I vicini hanno paura, gli episodi di rifiuto si ripetono.
 

Tutto un equilibrio sopra la follia…

di Alessandra Pederzoli

Un equilibrio è sempre qualcosa di faticoso da raggiungere, in qualsiasi condizione di vita ci si trovi. Se poi deve essere un equilibrio sopra la follia, la questione sembra farsi ancora più complicata. La follia… un mondo che a tanti mette paura e genera disagio, ma a tanti, invece, muove curiosità e interesse.
Quando sono entrata in contatto per la prima volta con questa realtà, sono rimasta personalmente colpita da come un qualcosa che conoscevo solo come nominato dai giornali con il nome di follia e pazzia o psichiatria ora mi si presentava come salute mentale.
Di colpo, un cambiamento che colpisce, perché la salute è un qualcosa a cui tutti teniamo e che tutti conosciamo. La salute, e anche la salute mentale, finisce per accomunare la collettività intera.
Ecco perché parlare di salute, e non di malattia, può voler dire anche parlare innanzitutto di persone non necessariamente (e non solo) da curare attraverso la medicina, gli ospedali e le cure mediche di bravi psichiatri (peraltro ruoli e spazi fondamentali), ma con le quali mettere in atto anche, e soprattutto, processi sociali, per il miglioramento delle condizioni di vita, per la ricerca del maggior benessere. Processi il cui valore terapeutico sta proprio nel valore sociale-collettivo e non in quello strettamente “curativo”. E anche questo, del resto, ritorna a essere qualcosa che accomuna.
La storia, anche non molto lontana ci insegna però quanto tutto il mondo che ruota intorno alla salute mentale sia in movimento; quanto siano differenti tra loro le tappe e i momenti attraversati nei secoli e nei decenni. Tappe che hanno conosciuto realtà terribili quali la reclusione coatta e i manicomi. Ecco perché non si può raccontare e vivere il presente senza attraversare quello che è stato, per poter oggi assaporare la qualità e il valore dei cambiamenti messi in atto.
Nella scelta se parlare di malattia mentale o di salute mentale, abbiamo preferito seguire la seconda scia, lasciando le malattie ai medici, indubbiamente più esperti. Le due esperienze oggetto di questo numero sono semplici, se vogliamo; ma sono due esempi di pratiche non strettamente mediche messe in atto con persone seguite dai Centri di Salute Mentale, e non solo. Pratiche che in misura diversa e con strumenti differenti operano per il benessere delle persone, riconoscendo competenze, abilità e attribuendo importanti ruoli alle persone, per farle così diventare protagoniste del loro fare e del loro essere.
 

Graffiate dalla guerra: la sfida delle ex bambine soldato

Di Nadia Luppi

Parlare di invalidità di guerra in Italia, come in altri paesi europei, significa sostanzialmente riferirsi ai reduci dell’ultimo conflitto mondiale o a quei militari rimasti feriti durante le “missioni di pace” all’estero. Ma, come sappiamo dalle superficiali cronache giornalistiche, ci sono molti paesi nel mondo in cui la guerra è uno stato permanente, che imperversa soprattutto sulle popolazioni civili, mietendo vittime tra donne e minori, spesso colpiti da attacchi illegittimi o arruolati negli eserciti nazionali e nei gruppi ribelli.
Non tutti sanno, però, che dei quasi 300.000 soldati con meno di 18 anni, poco meno della metà sono proprio bambine o ragazze. Queste giovani donne sono state rapite dalle loro case durante le scorrerie dei gruppi armati, spesso dopo essere state violentate e aver visto i propri cari feriti o uccisi. Sono state condotte nel campo militare dove, sotto l’effetto di stupefacenti e condizionamenti psicologici, sono state trasformate in guerriere e schiave sessuali al tempo stesso.
Le menomazioni fisiche che permangono sul corpo di una ex bambina soldato a cui è esplosa una mina vicino, o a cui è stato tagliato un arto, o le stesse conseguenze delle violenze sessuali ripetute, cosa sono se non disabilità fisiche e psichiche?
Ancora di più dei colleghi maschi, le ex bambine soldato portano in sé traumi tanto profondi da compromettere la loro capacità di intrecciare relazioni e si trovano spesso sole quando devono fare i conti con una società che, a causa di pregiudizi e stereotipi radicati, le rifiuta, le esclude, le esilia.
E l’isolamento, l’incapacità di rispondere alle richieste della società, l’estremo svantaggio in cui queste ragazze si ritrovano, come si potrebbero definire se non “handicap”?
Quel che rende ancor più drammatiche le storie di queste giovani è proprio l’impossibilità delle comunità, già devastate dalla guerra, di farsi carico di questi bisogni speciali, l’insufficiente impegno della comunità mondiale e la cronica mancanza di fondi per i progetti di recupero.
Sembra si parli di mondi lontani, difficilmente riconducibili alla nostra realtà, ma non è sempre inutile riflettere su qualcosa che può apparirci come lontano, ma che, quando smette di essere ignoto, rivela profonde affinità e interessanti parallelismi con il nostro quotidiano.

Ferite nel corpo, ferite nell’anima: le violenze subite e il biasimo collettivo
La guerra non ferisce solo i corpi di chi vi è immerso: i traumi psicologici che derivano dall’aver vissuto in prima persona un conflitto armato sono spesso molto più profondi e invalidanti delle stesse mutilazioni fisiche. Se poi a vivere certe esperienze sono bambini e ragazzi si intuisce come certi ricordi siano destinati a destabilizzare fortemente il già precario equilibrio psicologico adolescenziale. Leggendo certi racconti ci si rende ben conto della profondità di certe ferite: “Un ragazzo tentò di scappare, ma fu preso… Le sue mani furono legate, poi essi costrinsero noi, i nuovi prigionieri, a ucciderlo con un bastone. Io mi sentivo male. Conoscevo quel ragazzo da prima, eravamo dello stesso villaggio. Io mi rifiutavo di ucciderlo ma essi mi dissero che mi avrebbero sparato. Puntarono un fucile contro di me così io lo feci. Il ragazzo mi chiedeva: perché mi fai questo? Io rispondevo che non avevo scelta. […] Io sogno ancora il ragazzo del mio villaggio che ho ucciso. Lo vedo nei miei sogni, egli mi parla e mi dice che l’ho ucciso per niente, e io grido”. (Susan, 16 anni, rapita dal Lord’s Resistence Army in Uganda).
La prima ragione di quello che potremmo definire “l’handicap delle ex combattenti” consiste nella difficoltà di reinserirsi nelle dinamiche della vita civile a causa dell’impatto che ha la guerra sull’animo umano.
Per comprendere cosa accade a livello psicologico mentre siamo immersi nelle ostilità, può essere utile tener conto di alcune teorie psicologiche secondo le quali nei contesti di violenza sociale la mente funziona attraverso una modalità schizzoparanoide, che contempla solo dicotomie assolute, come buono/cattivo, vittoria/sconfitta, noi/contro-di-noi. Questi pensieri totalizzanti non lasciano spazio ad alcun giudizio morale o ad alcuna scelta autonoma dal punto di vista etico. In guerra non si pensa, non si riflette: si agisce. E in questa sovrapposizione di pensiero e azione si esprime tutta l’impossibilità di mantenere una certa autonomia morale e valutare obiettivamente la correttezza delle proprie azioni.
Ma, anche nelle situazioni di violenza sociale e di conflitto, una parte della nostra mente rimane intatta e continua a distinguere ciò che è giusto da ciò che non lo è. È proprio qui che nascono i traumi, le ferite inferte dalla violenza agita o subita. Quando si esce dal meccanismo totalizzante della violenza, ci si rende conto anche di essere stati parte di un contesto che risulta inumano e si finisce per sentirsi colpevoli del proprio esserne stati complici. L’abbandono di questo stato di colpa rappresenta per le ex bambine soldato un obiettivo particolarmente difficile, proprio perché spesso, nel loro vissuto, si intrecciano traumi derivanti sia dall’aver subito abusi, che dall’aver perpetrato violenza su altri.
Dall’altro lato, quando le ragazze tornano al loro villaggio dopo essere state parte di gruppi armati, non solo si trovano, come i colleghi maschi, a confrontarsi con una mentalità collettiva diffidente e aggressiva, ormai abituata a ragionare secondo “l’assetto di guerra”, ma devono anche fare i conti con il peso degli abusi subiti e, soprattutto, con la stigmatizzazione che spesso ne segue: “Dopo essere stata violentata la vita in famiglia diventò insopportabile. Appena rincasata raccontai quel che era successo, e loro mi chiesero come mai avessi potuto accettare tutto questo. Mi allontanarono, mi impedirono di tornare a scuola e mi cacciarono fuori a calci”. (Hobson M., Forgotten casualties of war, girls in armed conflicts, London, Save the children UK, 2005, p.14).
Da questo e altri racconti si comprende bene come una difficoltà individuale, unita a un atteggiamento ostile della comunità, arrivi inesorabilmente a creare uno scontro frontale tra la ex bambina soldato e la società con cui si rapporta; scontro in cui inevitabilmente è destinata a soccombere la giovane donna, che spesso si trova esiliata dal tessuto sociale, passando così dal ruolo di sposa dei soldati a quello di merce per i clienti della strada.

L’importanza dell’aiuto: sostegno e mediazione
Abbiamo tracciato finora una panoramica piuttosto oscura, per certi versi desolante. Si tratta effettivamente di contesti d’azione molto complessi, nei quali si richiede tatto e competenza nella progettazione e nell’azione. Ma questo non significa che tutto sia perduto, né tanto meno che il solo atteggiamento possibile nei confronti degli ex bambini soldato sia quello di compatirli, senza aiutarli effettivamente a costruirsi un futuro e a ritrovare se stessi.
Nel forum psico-sociale della coalizione Internazionale “Stop Using Child Soldiers” ricorrono spesso gli appelli degli esperti a un atteggiamento ottimista degli operatori. È vero che le ragazze arruolate in diversi gruppi armati devono imparare a uccidere e a negare la propria dignità per il piacere dei soldati, ma questo non significa che siano destinate per sempre a ragionare e comportarsi come assassine o prostitute. Chi si trova a lavorare con le ex guerriere deve sempre tenere in considerazione l’unicità di ogni storia e le particolarità che nasconde, nonché le potenzialità peculiari su cui sviluppare il percorso individuale di ogni singola ex combattente.
Solo partendo dal presupposto che queste ragazze possano restaurare un assetto mentale adatto alla vita civile e seguire con successo percorsi che le aiutino a ritrovare il valore di sé e delle relazioni umane, si può pensare a programmi di recupero ben pianificati ed efficaci.
Ciò che è certo è che serve tempo, sia per superare i traumi e, talvolta, fare i conti con qualche deficit acquisito, che per agire sul tessuto relazionale e sociale da cui viene esiliato chi ritorna dalla guerra.
Riprendendo e portando a compimento la metafora iniziale, possiamo dire che, per le ex bambine soldato, una parte importante del proprio percorso di “superamento dell’handicap” consiste nel sentirsi di nuovo capaci di intrecciare relazioni e nutrire fiducia negli altri, potendo contare – e questo dovrebbe essere prerogativa di ogni programma di reinserimento – su un tessuto sociale non più ostile, ma liberato da pregiudizi e atteggiamenti discriminatori.

Il segno è una metafora meravigliosa

A cura di Valeria Alpi

Il corpo è per l’artista un Teatro di Operazioni, l’ambito di una ricerca, un modello sempre a portata di mano e a buon mercato, un Robot, l’avvio d’una investigazione, la verifica del gesto, il veicolo dell’Arte e le arti altre. Perciò, io NON amo il mio corpo in quanto di serie A, ma per la tenerezza che mi fa quando mi saluta denutrito un mattino allo specchio che non mi guardavo da molto tempo. I muscoli, drappeggiati come veline sulle ossa.
Il giorno dopo l’espressione del mio corpo è cambiata, totemica, o vetro senza speranze, ma mai più giovane come una volta, a meno di non condurre una vita sostanziosa, che mi ingrassa psicologicamente e sottende salute, ma mi inurbana la faccia, questo sì.
Quando disegno un corpo, io disegno o il mio antenato Arcadio Paz, o un corpo degradato, o migliorato, o flamenchizzato, o insensualito, ma sempre il mio corpo.
Nelle occasioni sociali convinco il mio corpo a sembrare meno alto e se ci sono delle ragazze ballo e mi dimeno per attirare la loro attenzione. Ma i miei veri grandi ammiratori sono i miei amici maschi con i quali il gioco delle valutazioni sullo stato delle cose nel corpo è schermaglia molto amata nell’ovunque ritrovarsi.
Mi apprezzo di più vestitissimo ma tendo a finire in mutande al primo gioco della bottiglia, o al primo accenno di caldo.
Belle ho le mani, per le quali aborro lavori pesanti o pericolosi.
E le spalle. La carnagione invernale è colore dell’olio d’oliva, d’estate un india molto scuro. Nel complesso sono sempre un pelo sotto peso e anche sotto tono, c’è da dire che il corpo tutto è sotto sequestro.
(Brano tratto da Andrea Pazienza [a cura di Vincenzo Mollica], Paz, Torino, Einaudi, 1997, pp. 149-150)

Un giorno stavo riordinando la mia camera, e tra i mucchi di foglietti sparsi con vecchi appunti di cose da fare e già realizzate o forse mai veramente realizzate, ho trovato un foglio dove, in una data x, avevo ricopiato una frase di Andrea Pazienza: “Il segno è una metafora meravigliosa”. La memoria è subito corsa a quell’anno di Università in cui ebbi la fortuna di conoscere i fumetti del Paz, e fu empatia immediata. Con un po’ di nostalgia, ho ripreso in mano il catalogo di una mostra antologica che nel 1997 Bologna dedicò a uno dei suoi più celebri fumettisti (o forse bisognerebbe dire che uno dei più celebri fumettisti dedicò molti anni a Bologna pur non essendo un bolognese doc). C’era un Pazienza inedito in quella mostra, una persona che aveva fatto non tanto del fumetto quanto della capacità espressiva di usare forme e colori una sintesi di comunicazione sociale sugli anni ’70 e ’80.
Quel giorno, il giorno del ritrovamento del foglio con la frase, era il 16 giugno 2008 e appresi dai mass media di lì a poche ore che ricorreva l’anniversario della morte di Andrea Pazienza: 16 giugno 1988. Vent’anni, e come ogni cifra che termina con uno zero, è d’obbligo la commemorazione a opera dei più. Ammetto che mi ha un po’ sorpreso ritrovarmi a pensare al Paz proprio nel giorno esatto dell’anniversario della sua morte, ma ancora più sorprendente è stato scoprire che sul sito di Youtube esiste una quantità piuttosto consistente di filmati di Andrea Pazienza: alcuni in bianco e nero, molti a colori, stralci di interviste, riprese di lui che disegna o dipinge. Il Paz è on line, pur essendo scomparso quando Internet era lontanissimo dalle nostre case e dal nostro modo di vivere. E così mi è venuta voglia di inserire il Paz anche su “HP-Accaparlante”: lo so, lo so, sembra una forzatura, ma se si leggono con attenzione i suoi fumetti tanti discorsi sulla diversità potrebbero scaturirne. E se si legge con attenzione questo brano che propongo, si può trovare un parallelismo con la disabilità. Certo, il corpo di Andrea Pazienza era sotto sequestro non per motivi di disabilità, ma per una vita un po’ disordinata. Ma quella frase, io NON amo il mio corpo in quanto di serie A, ma per la tenerezza che mi fa quando mi saluta denutrito un mattino allo specchio che non mi guardavo da molto tempo, mi fa pensare alla disabilità.
Siamo prima di tutto un corpo, fatto in un certo modo, con dei confini fisici ben precisi con i quali esperiamo ciò che ci circonda. Molto di ciò che siamo come persone deriva anche dal corpo, è il corpo il nostro primo “strumento” di conoscenza della realtà. Essere estroversi, vivaci, allegri, tristi, depressi, rinchiusi in se stessi, avere fiducia in sé e negli altri, sono tutti modi di essere e di agire che ci derivano dall’avere un corpo fatto in un certo modo o dalla percezione che abbiamo del nostro corpo. Quando su un corpo intervengono dei limiti oggettivi come i deficit, la persona può per esempio avere meno fiducia in se stessa, o essere un po’ demotivata, o provare un senso di rifiuto per il proprio corpo percepito come non bello perché non simile ai corpi degli altri. La disabilità passa prima di tutto dal corpo, è un corpo diverso; e valorizzare ugualmente il proprio corpo, nel senso di dargli comunque un valore per quello che ci fa essere, può risultare un’operazione non molto semplice per una persona disabile. Lo stesso guardarsi allo specchio, e piacersi, sembra spesso impossibile. Che poi, quest’ansia da specchio o il non sentirsi a proprio agio nel proprio corpo o il desiderare un corpo diverso non è solo di chi è disabile; si tratta di percezioni che accomunano molte persone. Invece – à la Paz – bisogna amare il proprio corpo non in quanto di serie A, oggettivamente bello e perfetto e piacevole, ma in quanto è il nostro corpo, pur denutrito, ossuto, storto, grasso, manchevole… Dobbiamo provare tenerezza, che non significa compassione. E magari trovarvi alcune cose che ci piacciono molto, anche piccole cose: il sorriso, la forma delle labbra, il taglio degli occhi, le ciglia lunghe, la forma del naso, i capelli, le ginocchia, i piedi…
Belle ho le mani […] E le spalle.
Ciao Paz, grazie per il tuo segno

Nella comunicazione sociale cambiando i fattori cambia il risultato

Di Michela De Falco

La comunicazione sociale nasce attorno alla diffusione e allo scambio di informazione sociale ossia attorno a quella sfera comunicativa fatta di soggetti, temi e pratiche che riguardano lo stare insieme, la convivenza civile, l’interesse comune. Non appartiene quindi a un settore circoscritto della società né della comunicazione. Tanto meno si tratta della sola distribuzione di pacchetti di informazione predefiniti riguardanti temi sociali. Ha piuttosto a che fare con lo scambio di informazioni volto a costruire nuove relazioni sociali, ossia nuove prospettive e forme di coesione sociale.
Nella comunicazione sociale – ancor più che in tutti gli altri tipi di comunicazione – lo scambio di informazione è un evento sociale. Non si tratta, come negli altri casi, di una comunicazione che si muove in un dato ambito di società, è piuttosto una comunicazione che fa la società, la rafforza, la integra e, almeno nelle intenzioni, la cambia. La comunicazione sociale parla di pratiche sociali, è fatta da pratiche sociali e ha come obiettivo il cambiamento di pratiche sociali.
Questo significa che dare una definizione di comunicazione sociale al di fuori del contesto in cui si attiva è difficile e pressoché inutile quanto raccogliere il mare con un cucchiaino. La comunicazione sociale si distingue infatti da altri tipi di comunicazione proprio per il fatto di non essere uguale per tutti, di non funzionare allo stesso modo in situazioni diverse e di non servire a tutti per le stesse cose. In altre parole, nella comunicazione sociale cambiando i fattori il risultato cambia. Eccome.
In questo senso l’aspetto fondamentale di una comunicazione sociale è il fatto di essere una dinamica locale e contestuale, ossia di dipendere imprescindibilmente dalle pratiche sociali e relazionali che la attivano. Per definirla occorre conoscere le premesse culturali e le condizioni sociali in cui si realizza, conoscere quindi chi fa comunicazione sociale e come, quando, con chi, per chi o per cosa si fa comunicazione sociale. La cosa importante è condividere la consapevolezza di fare una comunicazione che deve essere sociale negli obiettivi e nei modi.
Una comunicazione si qualifica e distingue in base al tipo di fonte, codice/registro, canale, messaggio e destinatario. Così dovrebbe succedere anche nel nostro caso: la comunicazione sociale si dovrebbe riconoscere per il tipo di attore sociale che la fa, per il linguaggio che usa, per il messaggio che veicola, per i canali che privilegia e per il destinatario a cui è rivolta. Questo è vero nella teoria così come nella pratica? Spesso diversi tipi di comunicazione si servono degli stessi canali e quasi sempre dello stesso codice; o ancora, diversi soggetti e operatori della comunicazione, occasionalmente o strategicamente, fanno uso di informazione sociale; e soprattutto, i pubblici di qualsivoglia comunicazione sono spesso sovrapponibili ai pubblici di qualsiasi altra rendendo estremamente alta la concorrenza per ottenere attenzione sul proprio messaggio, sulle proprie intenzioni e sulla propria identità di fonte credibile e autorevole.
Come uscirne? Come riconoscere la comunicazione sociale in mezzo a tante comunicazioni simili l’una all’altra? In un sistema complesso e omologo come quello della comunicazione, per trovare definizioni, analogie e differenze occorre fare attenzione ai modi e agli obiettivi della comunicazione piuttosto che ai contenuti che veicola. In altre parole, dove c’è informazione sul sociale non sempre c’è comunicazione sociale. Facciamo qualche esempio: il Comune X promuove una campagna di informazione contro il degrado urbano che prevede spot radiofonici e manifesti; l’operatore di telefonia radiomobile Y attraverso il servizio di messaggistica promuove la raccolta fondi a favore del paese Z colpito da calamità naturali; la sezione di partito K distribuisce in tutta la città manifesti a favore del voto ai cittadini immigrati. Siamo in presenza di casi in cui la comunicazione sociale si confonde rispettivamente con la comunicazione istituzionale, con il marketing aziendale, con la comunicazione politica. Le tre forme di comunicazione condividono con la comunicazione sociale il codice, i canali e – almeno a livello superficiale ed esplicito – il messaggio e i rispettivi pubblici di riferimento. C’è scambio di informazione sul sociale ma secondo modi e obiettivi non sociali.
D’altra parte pensiamo a uno spot televisivo e radiofonico contro il razzismo promosso da una rete della società civile; uno stand di una associazione di volontariato alla fiera del non profit; un pieghevole di presentazione dei servizi di una cooperativa sociale; un sito di presentazione di una ONP (organizzazione non profit); una conferenza stampa di una APS (associazione di promozione sociale) per la presentazione del calendario degli eventi della stagione. In questo caso è la comunicazione sociale a utilizzare gli strumenti della comunicazione di massa, del marketing comunicativo, delle relazioni pubbliche. C’è scambio di informazione sociale secondo obiettivi e modi non sociali o almeno non in prima istanza sociali.
Per definire una comunicazione che sia sociale nei modi e negli obiettivi occorre dare delle priorità nella scelta e nell’uso delle possibili dinamiche comunicative attivabili. E, soprattutto, occorre che queste priorità siano consapevoli, condivise e integrate nel contesto in cui si realizzerà l’azione comunicativa.
È la prossimità che rende sociali i modi e gli obiettivi della comunicazione. È la prossimità che fa la differenza tra informazione sul sociale e comunicazione sociale. È la prossimità che rende la comunicazione il più simile e integrata alle esigenze di coesione e qualità di vita della società in cui si interviene. Il modello progettuale e operativo che facilita la realizzazione della comunicazione in prossimità è quello della rete.
Un esempio attuale e chiarificatore del concetto di rete sociale per una comunicazione di prossimità possono essere l’agenzia di stampa Redattore Sociale e la rivista on line di informazione sociale BandieraGialla.it (www.bandieragialla.it). Entrambe – la prima a livello nazionale e la seconda a livello locale – lavorano secondo il modello della redazione diffusa. Hanno costruito cioè una rete di soggetti che lavorano, da diversi punti di vista, nel sociale e nella comunicazione con i quali hanno stabilito collaborazioni formali e informali per la raccolta e la redazione delle notizie e delle inchieste.
Un’altra forma di prossimità creata dalla messa in rete di competenze sociali e di comunicazione sociale sono i laboratori dell’Unione di Comunicatori Creativi, che lavora a Bologna e Roma e costruisce prodotti di video-documentazione su tematiche sociali in collaborazione con i Servizi Sociali territoriali e con gli Enti locali, coinvolgendo nei processi di produzione soggetti da diversi punti di vista esclusi o a rischio di esclusione.
Queste diversi interventi di comunicazione sociale hanno in comune il fatto di mobilitare soggetti che sono, sotto diversi aspetti, competenti e rappresentativi della realtà a cui e di cui si va a parlare, in modo tale da coinvolgerli più o meno direttamente nella realizzazione del prodotto finale nella veste di fonte primaria o, in alcuni casi, di comunicatori veri e propri.

Cont-animazione: una nuova parola per un mondo diverso

A cura di Roberto Parmeggiani 

Dalla teoria…
Il Progetto Calamaio approfitta spesso dei giochi di parole per sovvertire i pregiudizi e rendere più comprensibile il suo messaggio. L’obiettivo? Quello di provocare una riflessione, un cambiamento grazie all’acquisizione della consapevolezza che la disabilità permette di scoprire e apprezzare la ricchezza della diversità.
Tenendo conto di questo presupposto, quindi, non dobbiamo stupirci se tra i nuovi arrivati al Calamaio c’è chi ha pensato di dare un nome alla modalità tutta speciale che caratterizza l’animazione che il gruppo dei Calamai porta nelle scuole, definendola “cont-animazione”. Quattordici lettere, con un suono familiare e nuovo al tempo stesso, che richiamano molti concetti e non ne esauriscono alcuno.
Il primo che viene in mente è contaminazione, termine col quale si definisce il diffondere in un ambiente elementi estranei che portano a un cambiamento della realtà stessa. Si tratta della mescolanza di elementi eterogenei che provoca la nascita di una nuova dimensione, di un nuovo contesto, frutto della loro fusione.
Il secondo invece è animazione, attività privilegiata del Gruppo Calamaio che usa tali tecniche per dare vita, forma e voce a fiabe che, ideate anche dagli stessi componenti del gruppo, divengono il filo conduttore di creativi percorsi di educazione alla diversità. Ma queste animazioni prendono vita e acquisiscono significato grazie al contributo, unico e irripetibile, che ogni animatore, disabile o normodotato, dà al fluire della storia. Così se i personaggi della fiaba sono una mediazione per rendere più facile avvicinarsi al mondo della disabilità, l’unicità e l’autenticità di ogni animatore diventano parte integrante dell’animazione permettendo un incontro reale e sincero.
Per questo l’idea del termine cont-animazione, neologismo per definire un’animazione che è anche relazione, che prevede l’indubbio contributo di ogni componente in maniera specifica, anzi speciale.
Essere animatori del Calamaio significa prima di tutto mettersi in gioco, con la propria storia e i propri limiti, rinunciando al ruolo di semplici comparse, ma scoprendosi protagonisti, e rendendosi disponibili a fare di sé uno strumento per parlare e ragionare di diversità, affrontando le domande e l’ironia spesso dissacratoria dei più piccoli.
Nel mettere in gioco se stessi, nel condividere le proprie esperienze oltre che il proprio modo di stare in relazione, l’animazione del Calamaio si inserisce nel gruppo classe, e i suoi messaggi penetrano all’interno delle attività quotidiane dei bambini e dei ragazzi. Le relazioni che si instaurano sono autentiche, frutto del vissuto personale di ognuno, e per questo danno luogo a una dinamica di contaminazione reciproca tra animatori e ragazzi, che possono così costruire insieme il percorso di educazione alla diversità. La fiaba da inscenare è un vettore di questa dinamica di cont-animazione, in cui ognuno mette qualcosa di sé, e macchia, segna, disegna l’altro, proprio come il Calamaio si propone di fare ogni volta che varca la porta di una scuola.
Infatti la cont-animazione è bi-direzionale: provoca un cambiamento e cambia lei stessa, porta elementi dirompenti e ne acquisisce a sua volta, fa divertire e si diverte. È questo che rende speciale l’inchiostro del Calamaio: la libertà di cambiare, di crescere un po’ ogni volta che una classe o un gruppo di bambini ci si accosta.
E in questo essere diverso, sempre mutevole, sempre nuovo, il Calamaio si rinnova, vive e rivive, grazie alle tracce che lascia e a quelle che lo arricchiscono.

… Alla pratica!
In questo suo rinnovarsi il Progetto Calamaio, nell’anno passato, ha accettato la sfida di farsi contaminare e, allo stesso tempo contaminare, altri progetti, altri modi di affrontare il tema della diversità.
Sono nate così due esperienze particolari: quella realizzata insieme alle operatrici del parco regionale di Monteveglio e quella attuata insieme al centro diurno per anziani di Crevalcore.
Due tipi di animazione che hanno portato all’interno della scuola l’integrazione tra il Progetto Calamaio e il mondo dell’ambiente da una parte e quello degli anziani dall’altra. Entrambi mondi che hanno parecchie cose da dire rispetto alla ricchezza e al valore della diversità, mondi che hanno accettato la sfida della cont-animazione.
Vediamo nel dettaglio.

Diversambiente: come l’ambiente naturale affronta il tema della diversità
Cos’avrà mai a che fare la disabilità con la natura? Provatelo a chiedere a quei bambini della scuola primaria che hanno partecipato al percorso chiamato Diversambiente svoltosi sia in classe che presso il Parco regionale di Monteveglio.
Probabilmente risponderebbero raccontando una delle storie che, come quella della pesca e della castagna, affrontano il tema della diversità dal punto di vista delle piante.
Un punto di vista assolutamente interessante.
Gli animatori che hanno interpretato la pesca e la castagna, infatti, hanno spiegato ai bambini che l’aspetto spesso è ingannevole e che solo andando oltre l’apparenza si scopre ciò che ci accomuna e che, in fondo, ci rende tutti uguali seppur nella diversità.
È inoltre molto stimolante scoprire che nell’ambiente naturale la diversità non è né buona né cattiva, ma semplicemente necessaria per il mantenimento dell’equilibrio di ogni ecosistema. Quindi diversità come ricchezza, come elemento essenziale per garantire la sopravvivenza di tutti.
Ecco allora il punto in cui ambiente e disabilità, nel considerare la diversità come qualcosa di positivo e di stimolante, si incontrano. L’essere umano che dalla natura ha preso vita e che per molto tempo ha chiamato “madre” dovrebbe tornare, come un bravo figlio, ad ascoltare e seguire gli insegnamenti che da lei, con semplicità e saggezza, provengono.

Le storie e i giochi dei nostri nonni, il fascino dell’età
Le emozioni ci uniscono, ci rendono simili, a qualsiasi età.
Questo ho imparato dal percorso Calamaio svolto in alcune classi elementari insieme agli anziani del centro diurno di Crevalcore. È stato bello percepire l’emozione che provavano i bambini mentre attendevano l’arrivo dei “nonni” in classe e quella che provavano i “nonni” prima di mettere piede dentro alla classe stessa… direi nessuna differenza, anzi, la stessa intensità, lo stesso colore, lo stesso coinvolgimento.
Oltre alle emozioni, però, abbiamo scoperto che non ci sono tante cose che accomunano i bambini di oggi con quelli di una volta. Giochi, orari, scuola, cibo, divertimenti… per ognuna di queste categorie potremmo definire una lista infinita di differenze tra adesso e 60 anni fa. Differenze che anche in questo caso non vengono vissute come difficoltà e come limite, bensì come ricchezza. Quella della condivisione, della conoscenza, della storia che ci appartiene in quanto tutti siamo figli (alcuni anche nipoti) di quel periodo. Conoscere le diversità per non ripetere gli stessi errori oppure per riconoscere i progressi fatti, per continuare un percorso che non finisce mai oppure per riscoprire tradizioni che, come salde radici, permetteranno all’albero della nostra società di crescere saldo nel passato e proteso verso il futuro.
Una sorpresa finale ci ha colpito. Abbiamo scoperto che in tante differenze qualcosa di uguale c’è: la voglia di giocare, di divertirsi e di sognare.
Un sogno condiviso? Un mondo nel quale ciò che è diverso non sia rifiutato bensì scelto e accolto affinché ognuno possa sentirsi valorizzato nella propria specificità.
Ecco, questi sono esempi di cont-animazione, di scambi assolutamente fruttuosi, che provocano non solo un cambiamento in tutti i partecipanti, ma anche una crescita integrata che porta alla nascita di un contesto nuovo.

Happy together? Le prospettive dei centri diurni in un Regno Unito che invecchia

Di Massimiliano Rubbi

Negli ultimi anni, e ancor più negli ultimi mesi, siti giornalistici e blog britannici hanno riportato riduzioni nei servizi sociali ad anziani e adulti con difficoltà di apprendimento da parte di diversi enti locali. Riportando l’attacco di un articolo pubblicato dal “Guardian” il 22 novembre 2007, “quasi i tre quarti delle autorità locali in Inghilterra stanno razionando i servizi sociali per escludere decine di migliaia di persone vulnerabili dall’aiuto rispetto a funzioni fondamentali della vita quotidiana”. Dal momento che, come vedremo, la tendenza è a ridurre i servizi rivolti agli utenti con bisogni meno marcati, le prime strutture a “saltare” sono spesso i centri diurni o comunque i servizi a carattere meno intensivo. Al di là delle proteste per il venir meno di possibilità locali di integrazione, i tagli si collocano all’interno di un dibattito articolato, e non ancora concluso ma comunque avviato dalle autorità britanniche, su come consentire una dignitosa coesione sociale a una popolazione in inesorabile invecchiamento e dunque di fronte a costi crescenti.

Una scala scivolosa
L’articolo del “Guardian” delinea a livello nazionale con quali modalità vengono effettuate le riduzioni di servizi. I bisogni dei singoli utenti anziani e disabili vengono classificati su una scala a quattro gradini: “bassi”, “moderati”, “sostanziali” e “critici”. Secondo il quotidiano, che cita la CSCI (Commission for Sociale Care Inspection – una commissione indipendente governativa di indagine sulle politiche sociali), il 73% degli enti locali stava considerando l’ipotesi di ridurre l’erogazione dei servizi ai soli utenti con bisogni almeno “sostanziali”, e almeno 3 autorità locali (che complessivamente coprono quasi mezzo milione di abitanti) erano intenzionate a limitare i servizi a chi ha bisogni “critici”, ossia persone in pericolo di vita o a serio rischio di abuso o abbandono. Il distretto londinese di Harrow ha addirittura difeso davanti alla Corte Suprema questa scelta, ma ha dovuto soccombere nel dicembre 2007; la pronuncia giudiziale evidenzia come eccessive restrizioni violino l’obbligo legislativo di eliminare la discriminazione contro le persone con disabilità, ma non mette in discussione (come alcune associazioni di tutela richiedono) il sistema complessivo dei “criteri di eleggibilità” che definiscono e limitano l’accesso ai servizi in base ai bisogni.
Quando in una famiglia non ci sono abbastanza soldi, si iniziano a tagliare le spese voluttuarie, piuttosto che provare a spendere meno su tutto. La scelta compiuta dai consigli locali a corto di fondi, che concentrano le proprie spese su chi ha le massime necessità sacrificando gli utenti in situazione meno grave, non risulta quindi a prima vista irragionevole. Tuttavia, l’abbandono dei servizi a minor intensità porta con sé un rilevante paradosso.
Mencap è un’associazione di rappresentanza delle persone con disabilità mentali, tra le più attive nel monitorare la questione dei tagli ai servizi; Sam Heath, responsabile del suo ufficio stampa, rileva come riducendo i servizi per gli utenti meno gravi “i consigli locali non si danno una mano, perché sembrano dimenticarsi di investire in servizi che ridurranno i costi successivi, come investire nel portare le persone con disabilità mentali all’impiego o a servizi di basso livello per impedire alle persone di avere bisogno di servizi di alto livello e alto costo”. Date le premesse, una delle tipologie di servizi più a rischio di chiusura sono i centri diurni: Heath afferma invece che questi “sono molto popolari e molto importanti. Sono spesso l’unico momento in cui questo gruppo di utenti lascia la propria casa […] Fornire semplicemente un centro diurno non è sufficiente; c’è anche bisogno che ci sia un’attività significativa. Per esempio, a Merton, dove le persone che prima stavano sedute a non fare nulla nei centri diurni hanno cominciato a prendere parte a un corso d’arte (artigianato, visite mensili a gallerie d’arte, ecc.) e/o a un caffè gestito da persone con disabilità mentali. Il risultato per coloro che partecipano è stato incredibile – migliore concentrazione, miglior comportamento. Un altro uomo che conosco fondamentalmente era abituato a stare seduto al suo computer senza fare nulla e senza lasciare mai la sua stanza. Un centro diurno con un programma piuttosto ambizioso ha portato un reale cambiamento nella sua vita – ora è sposato e ha un lavoro!”. Tagliare i servizi per le persone con bisogni minori rischia quindi di rendere tali bisogni insopprimibili nel tempo, e dunque i comuni, nel perseguire un risparmio immediato, potrebbero tagliare il ramo su cui stanno seduti.
Un altro elemento destabilizzante è costituito dal fatto che la gravità dei bisogni dell’utente non è un dato univoco, ma il frutto di una valutazione passibile di discrezionalità da parte degli operatori sociali. In effetti, l’attribuzione a una delle quattro categorie di cui si è detto è regolata a livello nazionale dalle FACS – Fair Access to Care Services, un insieme di linee guida stabilite dal sistema sanitario nazionale. A dispetto di questo, però, Denise Platt, presidentessa della citata CSCI, ammette che “chi ottiene o non ottiene aiuto varia non solo tra, ma anche entro lo stesso ambito locale. In pratica, i criteri possono essere interpretati in modi diversi dallo staff locale”. Heath conferma come a Mencap “non piace concentrarsi troppo sui criteri, perché il modo in cui i comuni interpretano e forniscono i servizi significa che molti dei ‘comuni sostanziali’ sono peggiori di quelli ‘non meno di critici’”.
La necessità di tagliare, per una prevedibile eterogeneità dei fini, ha comunque contribuito alla positiva tendenza dalla residenzialità/istituzionalizzazione dei servizi alla vita indipendente. Heath sintetizza la storia recente dell’assistenza affermando che in passato la maggior parte delle persone con una più profonda disabilità cognitiva viveva in ospedali segregati gestiti dal NHS (servizio sanitario nazionale inglese). Tutti tranne uno ora sono stati chiusi (e quell’uno sta chiudendo), benché rimangano alcuni ‘Campus NHS’ (e anch’essi stanno chiudendo). La maggior parte delle persone fu spostata in sistemazioni residenziali (alcune abbastanza grandi, ma per lo più con circa una dozzina di persone all’interno). Anche queste stanno chiudendo, in misura minore, e quante più persone possibile sono incoraggiate e/o aiutate a vivere indipendentemente – o almeno in sistemazioni “di rifugio” (il proprio appartamento in un edificio costruito per garantire assistenza). Resta comunque ambiguo quanto questo invito all’indipendenza sia di comodo: “I centri diurni stanno chiudendo in tutto il Paese. A volte questo è nascosto come ‘modernizzazione per consentire alle persone di scegliere i servizi’ – in realtà si tratta di risparmiare denaro”, conclude Heath.

Un futuro plumbeo?
Finora, per brevità, ho sempre descritto le restrizioni ai servizi come “tagli”; ciò che inquieta è che la definizione non è corretta. Infatti, le spese per il welfare in Gran Bretagna segnano nel tempo un incremento nemmeno trascurabile, ma i costi generali dello stesso crescono più velocemente (per le maggiori necessità di formazione, i salari più dignitosi degli operatori, l’aumento di costi vivi come la benzina…), e soprattutto cresce vertiginosamente il numero di utenti potenziali dei servizi, principalmente per l’invecchiamento demografico generale. Il rapporto 2006-07 della CSCI sulla cura sociale in Inghilterra (disponibile su www.csci.org.uk, sezione “About us” – “Publications”) fornisce preziose statistiche in merito, e ad esempio chiarisce che tra il 1997 e il 2006 le persone che hanno ricevuto assistenza domiciliare sono calate da 479.000 a 358.000, ma il numero totale di ore è cresciuto perché è lievitato il numero medio di ore ricevute – a causa della tendenza a servire solo gli utenti più gravi, ma anche per il loro autonomo incremento legato alla più alta aspettativa di vita (in generale e per le persone con disabilità). Come dimostra un sondaggio curato dall’associazione Age Concern nell’aprile 2008, il problema di un decoroso invecchiamento sembra del resto molto sentito dalla popolazione britannica, indipendentemente dal proprio livello di reddito (e dunque dalla presumibile possibilità di garantirselo da sé), ma senza grandi aspettative: 4 persone su 10 non sono fiduciose che nella propria vecchiaia saranno trattate in maniera rispettosa e dignitosa.
Il costo del mantenimento della qualità e dell’ampiezza degli attuali servizi riscontra una crescita non sostenibile nel tempo, e di qui gli sforzi di contenimento, che però, come abbiamo visto, non obbediscono a una razionalità complessiva. Per questo, nel maggio 2008 il Segretario di Stato alla Salute britannico Alan Johnson ha lanciato un’istruttoria pubblica della durata di sei mesi sul futuro dei servizi di cura e sostegno. Partendo dal presupposto che nel corso di 20 anni si prevede un aumento del 50% del costo per le provvidenze economiche alle persone disabili, e che la spesa per i servizi sociali agli adulti potrebbe triplicare in termini reali entro il 2041, il ministero ha allestito un sito web  in cui è possibile esprimere le proprie opinioni sul futuro dei servizi sociali, e ha avviato in alcune contee un progetto sperimentale da 39 milioni di euro per l’uso di tecnologie a distanza (telecontrollo, telesorveglianza sanitaria) nella cura di persone con bisogni sociosanitari complessi.
Anche se gli esiti sono tutti da definire, il dibattito sul futuro del welfare di fronte all’invecchiamento in Gran Bretagna sembra dunque avviato, e condivisa la necessità di una sua riforma in prospettiva (mentre in Italia le proposte di Fondo per la non autosufficienza stentano ad affermarsi, e non hanno comunque una significativa visione che abbracci il corso dei prossimi decenni). Intanto, però, i centri diurni chiudono, stretti nella tenaglia tra l’opportunità di mantenere i servizi a favore degli utenti più gravi o non sostenuti a livello familiare e la già discussa prospettiva della vita indipendente. L’elemento che sembra sfuggire all’ordine del discorso, i cui cardini sono la scelta individuale e la sostenibilità economica, è il bisogno di socialità: bisogno non misurabile, ma aspetto essenziale dell’umanità del servizio fornito (almeno se l’uomo è “animale sociale”…); bisogno le cui risposte, tra l’altro, sarebbe forse possibile reinventare in forme meno economicamente gravose di quelle che conosciamo, senza per questo lasciarle alla episodica buona volontà di singoli gruppi di auto-aiuto od organizzazioni volontarie. La caccia alle idee è aperta: quale sarà il centro diurno del XXI secolo?

Lettere al direttore

Risponde Claudio Imprudente

Gent.mo Claudio Imprudente, buongiorno!
Ho appena terminato di leggere il suo libro sulla “vita imprudente”. Volevo solo dirle grazie per le provocazioni che ha saputo lanciare che hanno “colpito e affondato” il disagio e il senso di impotenza che a volte mi attanagliano nel mio lavoro di insegnante e che mi hanno sorprendentemente rilanciata a orientare lo sguardo partendo proprio dai miei “prediletti” cercando una professionalità che mostri una positività in tutto quel che accade. Io, per il mondo normodotata, mi sono tanto sentita diversamente abile leggendo il suo libro e questa “imprudenza” mi ha molto stimolata!
Grazie ancora! Donata

Che bello tornare ai tempi in cui giocavo a battaglia navale!
Buongiorno, mia cara! Mi fai ricordare le strategie che usavo al liceo, quando giocavo con i miei compagni… li ho colpiti e affondati tutti.
A parte gli scherzi, per me un insegnante deve studiare delle strategie, delle modalità di azione, per colpire e affondare, nel senso buono del termine, ogni alunno. “Colpirlo” nella sua fantasia, nei suoi sentimenti, nel suo linguaggio e nella sua capacità comunicativa e “affondarne” il disagio e l’impotenza, proprio come è successo a te. Un insegnante deve saper giocare a battaglia navale: solo così può imparare diversi stratagemmi e percorsi per entrare meglio in relazione con ogni alunno. Ovviamente, ogni ragazzo ha le navi posizionate diversamente; sta proprio lì la bravura dell’insegnante. Se un docente spara troppi colpi a vuoto è bene che cambi un po’e riadatti ogni volta la sua strategia. Ma a me sembra che tu conosca molto bene le regole del gioco.
Chissà se tutti gli altri insegnanti le conoscono? Se no, sono disponibile a fare un corso di formazione in tecniche di guerriglia navale… intitolato “Stratagemmi Imprudenti”!
Che dire, oggi ci sei e domani… F8.

Carissimo Claudio,
siamo gli alunni della classe 2 D, della Scuola Secondaria di 1° grado “Galileo Galilei” di Pesaro e ti scriviamo con molta emozione.
Anche se non ci siamo ancora visti, grazie al tuo libro Il Principe del lago e alla lettura dei tuoi vari articoli e racconti, ci sembra di conoscerti da sempre.
Per ragazzi come noi, che in questo momento della loro crescita, vivono tante difficoltà e paure, tu sei stato un amico che ha ascoltato, una persona con cui non ci si vergogna del proprio aspetto esteriore e non si teme di sbagliare.
Ci piace il tuo grande ottimismo e la forza con cui affronti i problemi e quelle situazioni che a volte ti fanno soffrire.
A scuola si corre il rischio di parlare solo di integrazione o di “diversabilità”, ma con noi non succede questo…
Infatti è ormai il secondo anno che condividiamo con dei ragazzi “speciali” un laboratorio espressivo e creativo.
All’inizio la cosa ci lasciava perplessi, dubbiosi, imbarazzati…
Invece col tempo, ascoltandoci, osservandoci, divertendoci, siamo andati aldilà di ciò che vedevano i nostri occhi e, come Giangi, abbiamo visto “anche col cuore” e giocato con la fantasia e la creatività.
Oggi possiamo dire di aver scoperto che uno degli aspetti veri dell’amicizia è quello di non etichettare subito le persone, ma cercare in ognuna la parte migliore.
Tutti fanno i conti con le difficoltà e i limiti e non ci si deve vergognare per questo.
Grazie dell’ottimismo e del coraggio che finora ci hai trasmesso.
Siamo ansiosi di incontrarti e ti aspettiamo anche per condividere insieme un po’ dei dubbi e delle nostre insicurezze, fiduciosi nel tuo ottimismo.
Affettuosi saluti, gli alunni della 2D

Aloha ragazzi! Che piacere sentirvi! Stamattina ho aperto la mia e-mail e ho trovato la vostra lettera. Qui è Claudio Imprudente che, assieme a Volaquà e Giangi, vi risponde. Mi sembra che vi stia piacendo il mio libro… e bravi! Ma sapete cosa faccio nella vita? Il cantastorie! E chi è un cantastorie? È una persona affascinante che racconta, cantandole e recitandole, varie vicende. Aiuta le persone, ma soprattutto i bambini, a sognare. Cari bambini, sognare è un’arte che va appresa. E voi che sogni fate più spesso? Vi rivelo un segreto: voi piccoli dovete aiutare gli adulti a riprendere a sognare. Loro sono concentrati sui loro bisogni, non sui loro sogni. C’è una bella differenza tra bisogni e sogni, anche se i due termini si assomigliano… non vi pare? Giangi mi ha aiutato a sognare. Solo chi ha imparato a farlo può costruire un mondo accogliente e a colori. Spesso, infatti, il mondo viene colorato di grigio o, al massimo, di bianco sporco. E questo, come dice il termine stesso, è un colore non proprio candido! E forse puzza anche… come i vostri piedini se non li lavate. E poi il bianco sporco lo distinguete a malapena dal bianco, ma sempre bianco è… solo che è sporco e puzzolente. E in un mondo di tali colori come fareste a distinguere gli occhi di vostro padre da quelli di vostra madre? Come fareste a distinguere i capelli di vostro fratello da quelli del vostro migliore amico? E soprattutto… come fareste a distinguere i gusti del gelato? Il mare dal cielo? Vedete quanto sono necessari i colori? Senza i colori ogni cosa sarebbe uguale alle altre, irriconoscibile. Come i colori, così i cantastorie sono necessari. Infatti, ognuno di essi ha sempre in tasca una tavolozza di colori. Anch’io ne porto sempre una dietro. I miei sono le lettere dell’alfabeto con le quali dipingo il mondo. Per non imbrattare troppo il posto in cui vivo, però, costruisco i miei colori al CDH di Bologna. Lì scrivo i miei libri. Ne ho scritti otto. E a Natale uscirà un altro personaggio… lo sto dipingendo in questi giorni, si chiama Omino Macchìno. Ma di questo non posso anticiparvi niente. Se però volete sapere qualcosa in più sui libri che ho già scritto, e sul luogo in cui costruisco i miei colori, visitate il sito internet www.accaparlante.it. A proposito, sul sito c’è anche un blog. Sapete cos’è? Non è altro che uno spazio, in internet, dove ognuno può inserire le proprie idee e i propri pensieri. Insomma, se volete cominciare a dipingere un po’, quello potrebbe essere il posto giusto per iniziare a farlo. Senza pericolo di imbrattare… il blog è fatto apposta. Ora vi devo lasciare. Vado a pranzo con Giangi e Volaquà… ve li saluto. Ciao, alla prossima. Claudio Imprudente e compagni d’avventura.

Ciao Claudio,
sono Alessia, una ragazza di 16 anni che non comunica con la voce, ma con ausili come il computer, una tastiera di plastica che mi porto in giro. Anch’io, come te, ho bisogno di una persona che mi aiuti a comunicare tenendomi una mano sulla spalla. Insieme al mio facilitatore della comunicazione esprimo il mio pensiero. Conosco come te la lentezza della comunicazione, la limitazione di dover dipendere dagli altri mi fa sentire ingabbiata.
Sono contenta di leggere i tuoi articoli, mi piace il tuo pensiero, è ricco di positività.
Io non mi sento positiva, non voglio più umiliarmi perché le cose che ho dentro mi appartengono e non fa niente se non sono capita dagli altri.
Io posso comunicare soltanto se sento la fiducia e la disponibilità. In questo sono molto fragile soprattutto a scuola. Ciao Claudio.

Ciao bella Alessia,
rispondo con piacere alla tua lettera, perché credo che, scrivendo a te, potrò rispondere contemporaneamente a molte altre persone.
Proprio stasera vado a sentire il concerto di Jovanotti e una delle canzoni che amo di più dice: “Io penso positivo perché son vivo…”.
Ma cosa significa essere vivi? Per me, essere vivi vuol dire, innanzitutto, sfatare il mito dell’autonomia. Nessuno è completamente autonomo: vivendo in società, in pubblico, ognuno è condizionato dall’altro. Da una parte soddisfa alcune necessità altrui, dall’altra riceve beneficio dall’attività degli altri, in relazione a tutte quelle cose di cui ha bisogno e che non potrebbe procurarsi da solo. Ti faccio un esempio: la mattina fai colazione con latte, zucchero e biscotti. Di sicuro, la mucca non ce l’hai in casa; come tutti, vai a comperare il latte. Anche il lattaio non ha la mucca; si rivolge a un allevatore. Tu mi dirai: “Ecco, l’allevatore può fare da sé!”. Ma… non di solo latte vive l’uomo. L’allevatore, come ogni altra persona, deve guadagnare per comperare tutto quello di cui ha bisogno e che non riesce a procurarsi in autonomia. Allora deve vendere il latte delle sue mucche e, per trasportarlo, ha bisogno di un camion. Il camion è costruito in una fabbrica e, nella fabbrica, lavorano molte persone… Magari queste persone non sono su una carrozzina e parlano senza un computer, ma, come vedi, hanno avuto e hanno ognuna bisogno dell’altra.
Come vedi, cara Alessia, siamo tutti inseriti in una rete di relazioni quasi inestricabile, alla quale troppo spesso non pensiamo nemmeno. E, nel mio esempio, mi sono limitato a parlare di rapporti di bisogno e necessità: figuriamoci se volessimo affrontare l’argomento dal punto di vista emotivo e più strettamente relazionale.
Questo significa che si deve avere fiducia nell’altro e questo sarà tanto più semplice quanto prima ci liberiamo da un’idea di autonomia che in realtà è solo apparente.
A presto, Alessia, e ti prego, fidati delle mie parole: non procurarti una mucca… soprattutto se vivi in città.

Gestione e marketing del non profit

Il concetto di risorse umane può essere frainteso se mettiamo al primo posto nella scala dei valori l’azienda e i suoi obiettivi. In una concezione di lavoro sana c’è sì il prodotto ma anche una relazione armonica con la natura e con gli altri esseri umani. Invece viviamo come rovesciati: le aziende ormai controllano il pianeta, alcune sono più potenti degli stati, e gli esseri umani sono risorse, né più né meno che risorse come alberi, ferro o petrolio. Qualche politico parla di Azienda Italia, pensando di fare un figurone e riducendo la Qualità della vita alla Quantità del PIL. Luca Cordero di Montezemolo, che ha imparato a pensare come penserebbe un’azienda se fosse una res cogitans, sogna probabilmente un mondo dove ogni abitante possiede due Fiat. Il paradiso per Microsoft è sicuramente un mondo dove chiunque possieda 3 computer… Poco importa se per fare questo distruggiamo, inquiniamo, saccheggiamo la Terra, che non è più Madre: l’essere umano è in funzione delle Aziende, ovvero target – cliente e risorsa umana – forza lavoro. Il dipendente perfetto allora è quello che mette al primo posto l’azienda, che la pensa giorno e notte, che vive per lei, coercitivamente (i nuovi schiavi sfruttati delle fabbriche asiatiche) o in maniera volontaria dappertutto. Purtroppo anche nel no profit assistiamo a queste storture: qualche associazione vive esclusivamente per il superattivismo dei suoi membri, vive in competizione con le altre, sogna di proliferare in tutto il mondo. Attenzione quindi a non aziendalizzare troppo le persone, ad annientarle riducendole al loro ruolo. Non è l’uomo per l’azienda ma l’azienda per l’uomo… Anche nel no profit!

(Roberto Ghezzo)

 

Sul grande schermo

Grande il successo raccolto dal film “Il Grido” di Pippo Delbono presentato al Festival del Cinema di Roma: secondo lungometraggio dell’autore che esce dopo due anni di lavorazione, a tre di distanza da “Guerra”. Una sorta di documentario che prende le sembianze del film vero e proprio, nonostante lo stile fortemente documentaristico della narrazione. Così come ha del documentario la forma e il modo di esprimere questo viaggio in lambretta dei due protagonisti: il regista e Bobò, entrambi attori di loro stessi. È nel rapporto dei due personaggi che si risolve il senso ultimo del film e, per Delbono, anche dell’esistenza: è nell’aver incontrato Bobò, nell’averlo salvato dalle mura del manicomio che si concretizza l’opera di salvezza del regista. Un percorso autobiografico che racconta l’esperienza fondamentale di Delbono: “Una lavorazione di due anni – spiega l’autore – per estrarre l’essenza di una storia molto più lunga. Non volevo né potevo scrivere una sceneggiatura, né inventare personaggi. La storia era presente lì, come persone, vive. E insieme a questo c’è il mio desiderio di cercare nel linguaggio del cinema la libertà del volo, l’irreale, del sogno, della poesia. Senza perdere la coscienza della verità”. Non solo una dichiarazione poetica, ma un vero e proprio ritratto del suo percorso artistico che passa attraverso il teatro ma ritorna sempre alla realtà. Non ci sono attori: i personaggi mettono in scena loro stessi. Così fa lui e così fa Bobò. Questa coppia che viaggia su quella lambretta e che, nel silenzio di molti momenti, racconta la profondità di una relazione che porta alla salvezza: per Bobò è l’uscita dal manicomio, per Pippo, la riscoperta di una dimensione di vita autentica e vera che, dalla poesia e dalla libertà del volo, ritorna alle persone e alle relazioni che si creano, seppur nel silenzio e nel viaggio in due.
Il film è una coproduzione della Compagnia Pippo Delbono, della Provincia autonoma di Trento con Downtown Pictures, drodesera centrale fies e Teatri Uniti e distribuito dalla Mikado.
Per informazioni ulteriori www.pippodelbono.it.

(Alessandra Pederzoli)
 

Papango

Di Marcello Anastasio, animatore e formatore di eventi culturali, con esperienze anche in Sudafrica e Madagascar

Oggi il vento del mattino si è levato più forte a scuotere i tetti di lamiera delle case. I battenti rimasti aperti sbattono ora in un senso ora nell’altro. Abbiamo appuntamento con i due giovani ingegneri italiani per raccogliere il materiale progettuale che hanno elaborato. Prima però François mi ha chiesto di accompagnarlo alla fattoria per parlare con la gente del villaggio e mettere a posto la questione dei campi confinanti (uno dei quali è andato a fuoco).
In questo periodo le famiglie che hanno soldi organizzano le riesumazioni dei parenti defunti. Durante i riti della riesumazione tutta la gente del villaggio e molta gente di passaggio partecipa ai festeggiamenti, alcune volte per tre o quattro giorni consecutivi. L’occasione di onorare i morti (che sono i veri proprietari della terra) è anche l’occasione per rendere grazie per la possibilità di vivere e lavorare nella terra degli avi. Nelle notti scorse si è danzato e bevuto molto nel villaggio vicino alla fattoria in cui Tsinjo Lavitra (Sguardo Oltre), l’associazione di François Ratzimbazafy, sperimenta nuove forme di coltivazione. La tecnica introdotta da François consiste nell’arare e vangare bene i terreni in pendenza prima della stagione delle piogge e mantenerli umidi e areati tramite una spessa copertura di erba secca capace di assorbire le piogge o l’umidità della notte e di impedire il dilavamento e la perdita di suolo. Sono molti i terreni che sono stati coperti con i fasci di erba secca e i villaggi circostanti che coltivano la terra solo col sistema tradizionale a terrazze non riescono a comprendere certe novità per cui provano scetticismo misto a invidia.
Le colline di Amboitsarabe sono situate ad alta quota e si aprono su una vasta pianura alluvionale a oltre millequattrocento metri di altitudine. La pianura è una immensa risaia inaridita in cui si vedono solo alcuni quadratini coltivati, quelli in cui le abbondanti piogge dell’anno scorso sono restate. Il vento orientale ci accompagna mentre ci alziamo, ci laviamo e ci vestiamo; i miei abiti hanno cambiato di colore in soli tre giorni. Prendiamo la 4×4, per andare alla fattoria. Porto con me il necessario per la prima doccia che potrò fare al ritorno dai Fratelli Maristi, se c’è tempo. È stato un piccolo ricatto nei confronti di François, messo in atto da me come scherzosa partecipazione agli itinerari complicati di ogni giorno. La strada la conosco, sale e scende per le colline, è come una traccia tagliata col coltello in una torta al cacao. I chiaroscuri dall’argilla paiono dipendere dalla mano del pasticcere, dalla temperatura del forno. Il sole è caldo, l’inverno sta per finire; alte, sospinte da un vento imponente, si osservano grandi nuvole cariche d’acqua passare veloci per andare a scaricarsi lontano, forse in Kenya, chissà. A terra le brezze del mattino si smorzano, il polverone alzato dalle grandi ruote della vettura ricade come farina di frumento e zafferano.
Di fianco alla macchina, sull’incasso d’argilla che scorre a destra o a sinistra, molte scene si rappresentano. Una donna, fasciata da un pareo tradizionale viola e rosa, carica di secchi e bidoni, sta andando alla fontanella a prendere l’acqua. Un anziano signore sistema su diversi sassi castelletti di candide bacchette di eucalipto da vendere come esche per il braciere. Una bambina accompagna due oche al pantano, un’altra, davanti alla sua piccolissima casa di tre metri per quattro, guarda i fratelli mentre sventola il fornello a carbone con un pezzo di scatola di cartone. È un gran fervere di gesti semplici, di attività automatiche d’ogni giorno. Così un ragazzetto sistema i sacchi di carbone a tripode sul bordo della strada e una bambinetta, che vista di sfuggita dal finestrino sembrerebbe sua sorella, sposta un gruppo di gallinelle legate insieme per i piedi. La macchina incede lentamente a causa dei solchi scavati nell’argilla del fondo stradale dalle piogge dello scorso anno e questo mi permette una visione quasi da film. Una giovane occhialuta dalla camicia candida si avvicina per salutare: è una studentessa di quando François insegnava, ora ha messo su un ristorante e un’agenzia immobiliare. Mi domando come abbia fatto a mantenere la sua camicetta bianca a quel modo, senza nemmeno un velo di polvere rossa. La periferia diventa campagna piena e i bambini visti qua e là dal finestrino, pascolano zebù bianchi e neri. La vallata si apre e il campo bruciato risalta sul fianco della collina come un marchio sulla pelle consunta di un vecchio animale portato al macello. Una volta scesi ci viene incontro il guardiano, un ometto minuscolo col cappello in mano, implorante. Non s’è accorto, dice, dell’incendio se non quando era ormai impossibile da spegnere. Col guardiano percorrendo i bordi secchi delle risaie ci spostiamo al villaggetto di case di terra e mattoni ocra in cui si vede già una certa agitazione. Un signore con un cappello europeo e tre denti ci riceve gentilissimo. François mi indica e comincia a parlare stretto, scandendo e mostrando i denti e indicando il campo bruciato e poi ancora una volta me. Penso mi stia presentando come il finanziatore occidentale cui deve render conto dei danni provocati dal fuoco. Chiede rispetto François per quel che fa e considerazione. Subito intorno a noi c’è tutto il paese. Uomini, donne, bambine, bambini, ragazzi, vecchi, tutti. Gente che stava lavandosi ed è giunta insaponata o che dormiva ed è stata svegliata da quel discorso sul fuoco, sui danni, sulla denuncia alla gendarmeria, sul risarcimento in danaro o in lavoro. Non avevano dato nessuna importanza a quella paglia sul campo, è normale alla fine della stagione arida vedere bruciare l’erba secca nei campi. Le parole di François sono chiare: occorre rifondere, ripagare il danno. Tutto il villaggio sembra aver scoperto oggi l’esistenza di un altro pianeta, di un mondo sconosciuto e arcano in cui dell’altra gente fa cose nuove, inconsuete, a loro insaputa. Negli sguardi di quella gente paura e perplessità verso gli sconosciuti intrusi venuti a pretendere cambiamento.
Il giorno inizia presto ad Antsirabé, il vento ha già invertito la rotta, ora dobbiamo tornare al cantiere. Dallo specchietto retrovisore, come in quadretto naif, le persone alte quasi come le case stanno in piedi a guardarci proprio come le avevamo lasciate, immobili.
Lungo la strada di ritorno, verso la doccia, la polvere rossa si leva costringendoci a socchiudere i finestrini. “Andao!” dice François: “Avanti! Bisogna andare avanti”, mi traduce. La polvere, penso in un lampo, la polvere qui non esisteva! Qui doveva essere tutta foresta! La polvere è l’unico regalo dei colonizzatori al Madagascar. La polvere è ciò che resta delle foreste pluviali bruciate massicciamente dai francesi. L’unica cosa portata qui dall’Europa e che qui prima non c’era.
Sopra un terrapieno d’argilla color aragosta, avvolto da una folata di vento, un bimbo dai capelli rasati guarda in alto al filo sospinto dal vento.
“Come si dice?” domando.
Papango” – risponde François – “ricordati che la ‘o’ si legge ‘ou’.
“Allora papangou e andaou, è giusto?”.
Il ragazzino uscito dalla nuvola di argilla rossa tende ancora il filo del suo aquilone: “Andao! Andao!” – sembra dire.

La vita è gioco… e i giochi aiutano a vivere

Di Stefano Toschi

È recente la notizia della comparsa sul mercato di un bambolotto con lineamenti e caratteristiche fisiche che riproducono quelli di un neonato Down. Esso è stato messo in vendita da un’azienda che si ripropone di donare, per ogni bambola venduta, un contributo a un’associazione che si occupa delle problematiche legate a tale sindrome. Questa notizia ha dato seguito a una serie di reazioni contrastanti, alcune favorevoli, la maggior parte critiche. I detrattori sostengono che una simile iniziativa abbia il solo scopo di lucrare sulla situazione di deficit delle persone affette da sindrome di Down. In effetti, l’immissione di un nuovo giocattolo sul mercato fa sempre seguito a un’accurata valutazione economica e di marketing, quindi più che al suo valore educativo i produttori puntano a ben altro valore. Inoltre, la concorrenza oggi è spietata, dunque ci si inventa di tutto per aggiudicarsi una fetta di mercato.
Tuttavia, questa iniziativa non è del tutto una novità. Già una decina di anni fa la bambola più famosa al mondo, la Barbie, era stata prodotta nella versione in carrozzina. Non era questo però il primo passo della bambola in questione nel mondo della diversità: già da tempo esistevano Barbie multirazziali. Ciò è davvero particolare se si pensa a tutte le critiche che essa si è attirata nel corso degli anni, soprattutto da parte delle femministe, che riconoscevano in quei canoni estetici di irraggiungibile perfezione per una donna in carne e ossa un’istigazione all’omologazione, alla distorsione della realtà, ai disturbi alimentari delle giovanissime, al riferimento a modelli sbagliati, prettamente esteriori. In effetti, per una ragazzina afroamericana, per esempio, non doveva essere piacevole giocare tenendo fra le mani tale bellezza teutonica, in cui sicuramente non poteva rispecchiarsi, cosa che invece i bambini fanno normalmente quando giocano.
Il passo ulteriore si è compiuto, per l’appunto, quando è stata data la possibilità di riconoscersi nella loro bambola preferita anche alle bambine costrette in carrozzina. Giocare sempre con tali esemplari di bambole superdotate certamente non permetteva grande compartecipazione emotiva alle ragazzine con deficit: se già questo modello creava problemi alle giovanissime cosiddette normali, figurarsi a chi mai si sarebbe potuta permettere di indossare vestiti simili a quelli del guardaroba eccezionale della Barbie, o di fare lunghe cavalcate con Ken, o di compiere tutte quelle attività che, nei loro giochi, le bambine fanno svolgere alle loro bambole. Ecco invece che, con la comparsa della Barbie in carrozzina, che seguiva quelle di varie bambole impegnate nelle più diverse professioni, l’alter ego in pura plastica poteva davvero rispecchiare l’immagine esteriore di una particolare fetta di acquirenti. L’utilità di questa bambola ha scatenato diverse obiezioni, se non altro per il fatto che, di solito, si gioca con Barbie perfette proprio perché si vorrebbe essere così, si fanno vivere loro avventure che si sogna di poter davvero provare un giorno: non a caso, le bambine inventano sempre storie a lieto fine, fanno prendere alla loro bambola il the con le amiche come vedono fare alle mamme, fanno loro frequentare palestre, negozi di lusso, indossare abiti da favola, vivere appassionanti storie d’amore che immancabilmente si concludono con un bel matrimonio! Anche in tempi più moderni ciò avviene, sebbene sia mutato il modo di vivere queste avventure di fantasia. Ora i sogni delle ragazzine non vengono incarnati da una bambola di plastica, bensì da un sofisticato avatar virtuale che vive una Second Life ben più sofisticata di quella costruita dalla sola fantasia di una bambina di qualche anno fa. I doppi virtuali vivono avventure in un mondo digitale così complesso, da diventare quasi una seconda realtà, che lascia ben poco spazio all’immaginazione. Questa virtualità è frutto sì di fantasie dei protagonisti, ma tali immaginazioni vengono così ben rappresentate da questo mondo parallelo, in tutti gli aspetti, da creare vere doppie vite, in cui sfogare spesso istinti repressi nella vita reale, che possono sfociare nel patologico. Insomma, nulla a che vedere con le avventure fantastiche della Barbie, che non erano vissute come una seconda vita immaginaria, ma piuttosto auspicate dalle bambine, che si creavano non un presente alternativo, ma una speranza in un futuro da sogno.
Tutto questo per spiegare che, se anche la bambina in carrozzina poteva giocare con una bambola “normale” su cui riversare speranze e aspettative, che pure sarebbero il più delle volte andate deluse, tutt’altra cosa era far vivere avventure ugualmente da favola a una Barbie in carrozzina come lei! Sì, perché lo stesso shopping sfrenato e lo stesso matrimonio da favola, ma vissuto da una bambola nelle stesse condizioni, diventavano una speranza quasi palpabile. Molto particolare è la storia di una bambina costretta sulla carrozzina, la quale amava molto giocare con le bambole, vestirle, pettinarle, ma invidiava le amichette che potevano davvero vivere le avventure che ideavano per le loro beniamine, mentre lei, con la sua carrozzina, era molto limitata. Poi, sua mamma trovò e le regalò per un Natale la Barbie in carrozzina, appena uscita sul mercato in edizione limitata, con giunture snodabili perché potesse stare ben seduta, ma con tutte le altre caratteristiche comuni alle Barbie normali. La bambina allora si mise a giocare con la bambola, ma non facendole vivere chissà quali fantastiche avventure, bensì facendole imitare i gesti che infinite volte lei stessa aveva ripetuto nel fare le sue terapie riabilitative. Dopo alcune settimane di gioco così impostato, la bambina chiamò la mamma dicendole che era accaduto un miracolo, e le mostrò la Barbie, cui aveva raddrizzato le giunture mobili, tenuta in piedi diritta, che veniva da lei fatta camminare, correre, saltare. La bambina disse alla mamma che tutta la terapia che aveva fatto fare alla bambola era servita a farla camminare di nuovo, che le sue gambe si erano raddrizzate e stava ora ritta in piedi come tutte le altre Barbie. E davvero la bambina era felice, questo era un chiaro segnale che coltivava la speranza di riuscire un giorno, grazie alla terapia, a camminare, come era riuscita a fare con la sua Barbie.
Ecco, tutto ciò rischia di diventare una mera operazione di marketing, che banalizza l’handicap e lucra sulla disabilità. Un gioco non può certo bastare a educare alla diversità: si pensi che nelle più famose squadre di calcio buona parte dei giocatori sono di colore, ma gli ultrà sono quasi tutti razzisti convinti. Questo significa che, senza educazione, l’esempio a volte conta ben poco, ma significa anche che, come un personaggio molto famoso fa dimenticare le sue “diversità” (se è nero, cieco, malato, ecc.), perché diventa una figura familiare, così una cosa consueta per un bambino, come può essere un gioco, diminuisce se non annulla la sua percezione del diverso. Succede anche a chi ha amici disabili: se sono vere amicizie, dopo un po’, pur rimanendo presenti i bisogni fisici della persona e dunque le necessità assistenziali, l’amico non pensa più al deficit dell’altro, diventa una semplice caratteristica fisica.
Le parole “gioco” ed “educazione” hanno, nel greco, una radice comune: paidìa e paidèia. Il gioco, infatti, dovrebbe essere la principale attività dei bambini, proprio perché è l’approccio fondamentale per apprendere le cose, per capire i meccanismi complessi del mondo che li circonda. La simulazione della realtà attraverso il gioco è fondamentale per l’apprendimento, lo sviluppo delle capacità di problem solving, la comprensione del reale: giocare con i soldatini fa capire cosa significa il gioco di squadra, la fiducia nei compagni, ma anche le difficoltà della vita, la necessità di pensare strategie, espedienti, vie di fuga. Oggi al posto dei soldatini di piombo ci sono i videogiochi, sicuramente più violenti, con immagini e situazioni cruente molto realistiche, spesso inadatte a dei ragazzi (tralasciamo in questa sede l’annosa discussione sugli effetti sulla psiche dei giovani della violenza di alcuni videogiochi), ma che spesso simulano situazioni in cui è necessario adoperare tutte le proprie capacità di problem solving, di trovare strategie, di pensare velocemente alla risoluzione di problemi complessi. Queste simulazioni, del gioco virtuale come di quello reale, educano ad affrontare le situazioni più diverse della vita vera: non a caso, prima o poi, tutte le bambine giocano a fare la mamma o la sorella maggiore o la maestra delle bambole, i maschietti a fare i piloti, gli astronauti, i calciatori, ecc. Dunque, giocare a fare la mamma di una bambola con le caratteristiche proprie di chi è affetto da sindrome di Down farà sì che, da grandi, le diversità saranno un po’ più familiari e, si sa, quello che si impara da piccoli rimane nella personalità e non si dimentica più.