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Autore: admin

L’uragano The sessions, “Superabile”, Novembre 2012

A volte ritornano. Vi chiederete cosa e chi. Il sesso, l’amore e la disabilità. Ne avevamo sentito parlare per la prima volta negli anni Ottanta, grazie a libri e convegni che già allora avevano contribuito ad evidenziare una questione fondamentale nella vita delle persone con deficit, a lanciare una piccola rivoluzione. Anzi, già nella prima metà degli anni Settanta, con il libro “La speranza handicappata”, Cesare Padovani aveva infranto due tabù: un disabile grave che scrive un saggio e nello stesso tempo parla di sesso e disabilità. Anche noi del Centro Documentazione Handicap abbiamo dato più volte il nostro contributo alla causa.
Bene, ora sembra che il dibattito si sia finalmente riacceso e nonostante la delicatezza della questione il fatto che se ne torni a parlare è già di per sé positivo. Generalmente si affrontano gli argomenti quando se ne sente la mancanza, la necessità. Se ci pensate nominare la parola “sessualità” vale spesso lo stesso del nominare la parola “pace”, utilizzata e quasi abusata proprio quando non ce ne è abbastanza, quando siamo in periodi di guerra.
Proprio per queste necessità e bisogni, a volte celati ma pur sempre impellenti, ritengo che ora i tempi siano più maturi per affrontare consapevolmente questo tema, non solo a livello etico ma anche legislativo, come già succede in molti paesi del nord Europa.
Pochi giorni fa è stato presentato presso la Sala Borsa di Bologna, nell’ambito del festival Gender Bender, il documentario “Sesso, amore&disabilità” che ha riscosso un forte e meritato successo. “Sesso amore&disabilità” è progetto filmato, un video che ci parla di esperienze reali, vissute, con interviste realizzate da giornalisti con disabilità in tutto lo “stivale” per capire e comprendere le diverse situazioni e i diversi approcci alla vita sessuale delle persone con deficit. Il folto pubblico presente all’anteprima del film è la dimostrazione di quanto sia forte l’esigenza di affrontare certe tematiche.
Contemporaneamente dall’altra parte dell’oceano Atlantico, a parte l’uragano Sandy, è uscito da pochi giorni nelle sale americane un film destinato a far discutere. Un altro uragano. Già premiato al Sundance 2012, “The sessions” arriverà da noi solo nel 2013 per ritornare su questi stessi importanti temi.
Chiaramente non posso commentare la pellicola, ancora non vista, ma il solo fatto che questa contribuisca ad alimentare il dibattito è cosa positiva.
La mia percezione è che oggi sia cambiato l’obiettivo. Nei decenni scorsi la discussione era incentrata sulla rivendicazione della sessualità come elemento indispensabile, ma quasi fine a se stesso, ora mi sembra si parli di uno status più complesso e integrante, calato nella nostra quotidianità.
E voi, cosa ne pensate?
Scrivete a claudio@accaparlante.it o sulla mia pagina facebook.

Claudio Imprudente

 

Frida vista da Frida

L’arte e gli artisti sono entrati a far parte, in modo inaspettato e piacevole, del nostro contesto lavorativo, offrendoci la possibilità di indagare e osservare la realtà da un nuovo punto di vista, attraverso i loro occhi, le loro opere e la loro vita.
Un piccolo viaggio incontro all’arte, dove mèta e destinazione si confondono!

“Ma sebbene sapesse che stava per morire, non aveva smesso di lottare per la vita.
Perché altrimenti, la morte fu costretta a sorprenderla rubandole il respiro nel sonno?”.
(H. Herrera, Frida, vita di Frida Kahlo, Milano, La Tartaruga edizioni 2001, p. 292)

Mi chiamo Frida, “pace” in tedesco.
Un nome ma non un destino. Di pace, infatti, ne ho conosciuta poca.
Mio padre era di origine tedesca. Mia madre messicana.
Sono figlia, sorella, sposa e amante.
Sono una pittrice o almeno lo sono diventata, forse per necessità, forse per destino, forse per occasione.

“Non mi era mai capitato di pensare alla pittura fino a  quando, nel 1926, mi ritrovai a letto per via di un incidente automobilistico. Ero maledettamente annoiata, lì a letto dentro un busto di gesso, così decisi di fare qualcosa. Rubai degli olii a mio padre e, visto che non potevo stare seduta, mia madre mi fece confezionare una tavolozza speciale. Fu così che cominciai a dipingere.”
(H. Herrera, Frida, vita di Frida Kahlo, Milano, La Tartaruga edizioni, 2001, p. 49)

L’incidente, 17 settembre 1925.
“Fu una collisione strana, non violenta, ma piuttosto silenziosa, lenta, e provocò ferite a tutti. A me più che a tutti gli altri… è una bugia che ci si renda conto dello shock, è una bugia che si pianga. Io non ho pianto. Io non ho avuto lacrime. L’urto ci catapultò in avanti e uno corrimano mi trafisse nello stesso modo in cui una spada trafigge il toro.”
(H. Herrera, Frida, vita di Frida Kahlo, Milano, La Tartaruga edizioni, 2001, p. 40)

La colonna vertebrale mi si spezzò in tre punti, mi si spezzò anche l’osso del collo e la terza e quarta costola. Undici fratture alla gamba sinistra e il piede destro si schiacciò. Perfino la zona pelvica si ruppe in tre parti.
Quando ripenso a quei momenti, non penso a uno spartiacque che divide un prima e un dopo, penso, piuttosto, a un tunnel, certamente buio, che unisce, il prima con il dopo.
Una frattura che non divide ma che completa, che, come in un puzzle, ricompone i pezzi per consegnare anche a me stessa una nuova Frida.
Dolorosa. Piena.
Come uno squarcio che svela.
Che ha svelato anche a me stessa qualcosa a cui non avevo mai pensato. Una proposta.
“Ho iniziato a dipingere a dodici anni mentre ero convalescente da un incidente automobilistico che mi costrinse a letto per circa un anno. Ho sempre lavorato sotto l’impulso spontaneo dei miei sentimenti. Non ho frequentato nessuna scuola, non sono stata influenzata da nessuno; dal mio lavoro non mi sono mai aspettata altro che la soddisfazione che mi dava il fatto stesso di dipingere ed esprimere quello che non avrei potuto esprimere in un altro modo.
Ho dipinto ritratti, composizioni di figure e anche quadri il cui paesaggio e la natura morta avevano la parte più importante. Sono riuscita a trovare una modalità espressiva personale  senza che nessun pregiudizio mi forzasse a farlo. Per dieci anni il mio lavoro è consistito nell’eliminare tutto quello che non nasceva dalle motivazioni interne che mi spingevano a dipingere.
Dato che i miei soggetti sono sempre stati le mie sensazioni, i miei stati d’animo e le reazioni profonde che a mano a mano la vita suscitava in me, ho spesso oggettivato tutto questo in autoritratti, che erano quanto di più sincero e reale potessi fare per esprimere i miei sentimenti e le mie sensazioni.”
(M. Zamora, Frida kahlo – Lettere appassionate, Milano, Abscondita, 2002, p.100)

Autoritratto.
Anzi autoritratti.
Dipingo me stessa perché trascorro molto tempo da sola e perché sono il soggetto che conosco meglio.
Racconto me stessa , quindi, la mia sofferenza, racconto la sofferenza.
Non sono una persona infelice, ripiegata sul mio dolore, alla ricerca della pietà degli altri.
Sono una persona consapevole, imprigionata in busti di diversi materiali ma, allo stesso tempo, libera.
Aver guadagnato una fisicità tanto limitante mi ha offerto un punto di vista alquanto personale.
Sono libera perché, a dispetto dei tanti impedimenti che mi circondano, a dispetto della sofferenza, a dispetto dei tanti motivi che avrei avuto per vivere una vita al ribasso ho scelto la pienezza, forse, persino la felicità.
Non quella classica, probabilmente, quella a cui tutti pensano.
Ho amato e sono stata profondamente amata.
Sono stata tradita e ho tradito, per amore.
Ho viaggiato e ho vissuto in alcune delle città più belle del mondo.
Ho avuto passioni. Politiche, fisiche, culturali.
Ho desiderato, raccontato, lottato, sperato.
Ho avuto successo come artista.
Infine, sopra ogni cosa ho avuto ali per volare che hanno sostituito i miei piedi malandati.
Guardate bene, non lo dico con fare sdolcinato, lo dico perché lo sperimento, ogni giorno, nella mia carne.
Non vivo di nonostante… nonostante l’incidente, nonostante le continue operazioni, nonostante i tradimenti, nonostante la morte.
Preferisco vivere a partire da… a partire dall’incidente, a partire dalle continue operazioni, a partire dai tradimenti, a partire dalla morte. Non vittima ma vincitrice.
Cambio di prospettiva.
Con il passare del tempo ho trasformato anche il mio modo di adornarmi, arricchendo di particolari e colori il mio aspetto. Desideravo affermare il mio amore per la vita non come illusione ma basato sulla consapevolezza del dolore e della morte.
Consapevole, anche della mia tristezza, ho cercato sempre di pensare alle possibilità che mi circondavano e non alle mancanze. Le esperienze come punto di partenza, come ispirazione per raccontare, esprimere la complessità della vita.
“La mia pittura porta dentro di sé un messaggio di dolore… Pittura completata dalla vita. Ho perso tre bambini… I quadri hanno sostituito tutto questo. Credo che il lavoro sia la cosa migliore.”
(H. Herrera, Frida, vita di Frida Kahlo, Milano, La Tartaruga edizioni, 2001, p. 107)

Sia chiaro, non dipingo per provocare dolore nello spettatore ma, certamente, provo la necessità di rendere cosciente chi mi guarda della sofferenza che vivo. Che ognuno di noi vive. Della solitudine che si sperimenta di fronte alla sofferenza, indipendentemente da quante persone ti vivono accanto, da quanto amore ti viene riversato, di quanta cura ricevi. Il dolore e la sofferenza sono una battaglia che si affronta in prima persona, senza filtri. Il mio campo di battaglia sono state le tele, un luogo di incontro tra il dentro e il fuori di me stessa e del mondo.
Ne è un esempio palese il dipinto “Le due Frida”.
L’ho dipinto dopo il divorzio da Diego, una delle esperienze più difficili della mia vita.
Ci amavamo ancora, infatti poi ritorneremo insieme, ma in quel momento mi resi conto che per lui era molto meglio lasciarmi.
Il dipinto racconta molto più di un buon libro.
Due Frida, una accanto all’altra, il cuore esposto, uno spezzato e l’altro intero, due me stessa che dicono, da una parte, la mia grande solitudine e, dall’altra, la forza che mi ha sempre sostenuto, la capacità, innata, di trovare nutrimento in me stessa, nelle esperienze, nelle relazioni.
Fuori e dentro, pieno e vuoto, autonomia e dipendenza, dolce e amara, gentile come una carezza e dura come una caduta.
Amata e amante!
Ho visto persino realizzarsi il sogno di una mostra nel mio paese, ho rischiato di non restare qui abbastanza a lungo ma alla fine ce l’ho fatta. Arrivata con il mio letto ho potuto godere di tale soddisfazione e, mascherata come al solito, ho messo di nuovo al centro me stessa, il dentro e il fuori. 

Spero che l’uscita sia gioiosa e spero di non tornare mai indietro
Frida.

La marcia delle tartarughe ninja, Il messaggero di Sant’Antonio, Novembre 2012

Quando ho accennato ai miei colleghi l’idea di scrivere un articolo su Leonardo, Michelangelo, Donatello e Raffaello, sono stato un po’ deriso. «Claudio, sono anni che ti occupi di tantissimi argomenti, ma cosa c’entrano i grandi del Rinascimento italiano con i tuoi temi?». Vero. Amo l’arte, ma non posso improvvisarmi tuttologo. In realtà non mi avevano capito. Io volevo parlare delle tartarughe ninja, i personaggi di fantasia protagonisti di fumetti, serie tv e film.
Ammetto che fino a qualche giorno fa non conoscevo proprio nulla di queste quattro tartarughe mutanti, se non i loro nomi così affascinanti. Ma una sera, in pizzeria, seduto davanti a un bambino e a una «quattro stagioni», sono stato «costretto» ad ascoltare la storia delle tartarughe ninja e del loro maestro Splinter, un ratto. All’inizio non prestavo attenzione, poi lentamente (proprio come una tartaruga!), man mano che il bimbo raccontava le loro avventure ho iniziato a pensare, a collegare… La vita ai margini, le lotte per la giustizia, una corazza come protezione, la collaborazione.

Non è che anche questi personaggi fantastici possono darci un contributo culturale? Non sono forse una metafora delle conquiste ottenute negli ultimi cinquant’anni di battaglie per un mondo più accogliente e inclusivo? Io credo proprio di sì. Partiamo dal loro contesto, da dove provengono: le tartarughe ninja vivono nascoste, nelle fogne, nel sottosuolo della città, lontane dagli sguardi della gente. Ovviamente ho subito fatto il paragone col mondo dell’handicap. Un mondo che spaventava, dunque tenuto nascosto almeno fino alla legge sull’integrazione dei primi anni Settanta. La disabilità turbava così tanto da non dover essere nemmeno argomento di discussione. Poi è cambiata la mentalità, sia dei disabili che della collettività. L’innovazione dunque è stata legislativa, ma soprattutto culturale. Dopo tante battaglie così, la diversità non era più rintanata nel sottosuolo. Proprio come le tartarughe ninja, è uscita in superficie per mescolarsi nella società, e quest’ultima non poteva più fingere di non vedere.

Ma la metafora tartaruga ninja-disabilità offre un altro spunto interessante. La tartaruga ha una corazza con funzione protettiva che le è indispensabile per vivere, per difendersi dalle avversità. Anche un disabile «indossa» una corazza: è la sua carrozzina. Questa ha una grande funzione difensiva e di sostegno, «per resistere agli urti della vita» direbbe Luca Carboni. Un ausilio che dà sicurezza, quindi, sia dal punto di vista fisico che morale, sempre che venga interpretata non come una sfortuna o come un peso, ma come uno scudo. È quello che fanno le tartarughe ninja mentre combattono per la giustizia sotto la sapiente guida di un «coordinatore» ratto che crede nel lavoro di gruppo e che ha fiducia nei suoi collaboratori (chiaramente prendo le distanze dai loro metodi di lotta…). La squadra delle tartarughe agisce proprio come fanno le molte associazioni che in questi anni hanno contribuito ad aumentare la consapevolezza delle abilità diverse.
Metafore potremmo trovarne ancora… ma il mio spazio, per il momento, finisce qui. Salutando i miei colleghi Raffaello, Michelangelo, Donatello e Leonardo vi invito a scrivere sulla mia e-mail claudio@accaparlante.it o sulla mia pagina Facebook, alla ricerca di altre metafore.

 

Il sasso nell’acqua, Superabile, Ottobre 2012

La bella stagione è andata cari ragazzi. Lo vedo nei vari meteo, soprattutto lo sento nell’aria. Fuori dalla mia finestra vedo l’autunno prendere il sopravvento, le foglie già ingiallite cadere e mescolarsi alla terra. Finisce il tempo delle passeggiate, inizia quello delle buone letture con un té caldo in mano… Ma quale libro scegliere? La scelta è davvero difficile, dal nuovo Nobel per la letteratura Mo Yan al nuovo romanzo di Ken Follett fino ai soliti indispensabili classici…Quest’autunno voglio consigliarvi un libro "diverso".

A questo proposito, vorrei parlarvi di Luca Francioso, un talentuoso chitarrista quanto un originale scrittore. Quel che si dice un’artista a tutto tondo. Il suo ultimo lavoro, "Il sasso nell’acqua", è un bellissimo romanzo, che trovate a puntate direttamente nel suo blog. L’ho letto in anteprima e ne ho scritto la prefazione con entusiasmo, spiegando in poche righe come ci siamo incontrati e ciò che ci accomuna. Eccola, vi invito a leggerla, sperando di incuriosirvi ancora un po’…

Era autunno inoltrato la nebbia stava calando all’orizzonte, finalmente un bar dove sostare e bere qualcosa prima che la serata avesse inizio, in un piccolo paese nel Veneto.

Mi si avvicina l’organizzatore che mi dice: "Claudio ci sarà un bravo musicista che intervallerà la tua chiacchierata con il pubblico, con i suoi pezzi". E’ stato così che ho avuto modo di conoscere Luca Francioso.

Trascorrono dei mesi e qualche anno, lo rivedo per un’altra bella serata di musica, all’insegna della solidarietà.

Allora non è un caso, mi dico, anche a lui piace "sporcarsi le mani", anche a lui piace mettersi in gioco e così le nostre storie si sono incontrate più e più volte, grazie anche ad un elemento importante che ci unisce: la diversità.

Come le sette note, così diverse tra loro che insieme divengono armonia, altrettanto abbiamo cercato di fare noi due con le nostre abilità, intrecciandole nei nostri contesti.

Il sasso nell’acqua è un romanzo dove l’arte, l’amore e la diversità delle storie dei protagonisti, possono scuoterti ponendo degli interrogativi anche sul perché delle cose che accadono nella tua vita.

Un amore che ti svuota dentro, come un sasso che ripetutamente noi stessi lanciamo nell’acqua, perché come ci dice l’autore l’amore cerca l’amore anche dove sa di non trovarlo, perché a volte non ci resta nient’altro che consegnarci alla Vita come un vuoto a rendere.

Buon té caldo… E buona lettura! Scrivete a claudio@accaparlante.it o sulla mia pagina facebook. (Claudio Imprudente)

 

Il cerchio dell’identità, Superabile, Ottobre 2012

Chi di noi, da bambino e non solo, non ha mai giocato a Il gioco dell’oca? A me faceva arrabbiare da morire quando, dopo aver faticosamente raggiunto il novanta, i dadi e la sorte ti facevano beccare un numero troppo alto, che ti costringeva a ritornare indietro, di solito dritto dritto nella casella della prigione e le imprecazioni, ovviamente, si sprecavano… Qualche sera fa, navigando su internet, mi sono imbattuto in una bella frase del noto filosofo dell’educazione Duccio Demetrio, a proposito di un gioco da lui inventato chiamato, guarda caso, Il gioco della vita, che prende a pretesto le regole del gioco dell’oca per insegnarci a parlare più liberamente agli altri della nostra storia. Cito testualmente: "Raccontare di sé, della propria vita, dei propri ricordi, dei successi e delle sconfitte, dei sentimenti, delle paure, degli amici, degli amori, e dei luoghi che ci rappresentano…l’autobiografia è uno sforzo di attenzione/cura di sé che collega parti differenti della nostra vita fornendo un repertorio di modi di essere di sé nel tempo e nello spazio ed un senso del proprio posto nel mondo, secondo una prospettiva di continua costruzione e ri-costruzione della propria immagine identitaria".

La mia mente è volata subito al rituale mattutino che apre le giornate di lavoro del Centro Documentazione Handicap di Bologna che a noi piace scherzosamente chiamare "il cerchio della vita". Un momento di condivisione e di confronto prezioso, in cui ognuno "si racconta" all’equipe, proponendo lavori e suggestioni, spesso nati dalle esperienze del proprio vissuto personale. Questo momento tuttavia non si identifica solo con uno spazio di tempo deputato ma con un luogo fisico preciso, fatto di mura, di mattoni, finestre e colori, quelli cioè della sede del Cdh, da trent’anni punto di riferimento nazionale della cultura dell’inclusione e della diversità, recentemente dichiarata inagibile a seguito di un sopralluogo ritardato dei tecnici del Comune di Bologna. Una chiusura obbligata ma anche un’occasione per reintegrare il senso di appartenenza e di identità delle persone con il proprio luogo di lavoro, soprattutto quando, nella crisi e nella precarietà diffusa, l’impiego si è trasformato per tutti da necessità a conquista. Spazio e appartenenza sono concetti fondamentali per lo sviluppo dell’identità della persona disabile e non, su cui sicuramente torneremo a riflettere. E voi, mi raccontate quali sono stati i luoghi più significativi per la vostra identità? Scrivete a claudio@accaparlante.it o sulla mia pagina facebook. (Claudio Imprudente)

 

Il brutto, il povero e il cattivo, Superabile, Ottobre 2012

Un tipo di duemila anni fa diceva: i poveri e gli storpi ce li avete sempre con voi… E fin qui tutto bene. Vivere e stare in questa cricca, tuttavia, può generare qualche esilarante imprevisto… Tempo fa, mentre me ne andavo a zonzo con un amico per Via Indipendenza, ho deciso a un certo punto di fermarmi ad un bar per sorseggiare qualcosa di fresco… Non ricordo più il perché ma il mio accompagnatore aveva dovuto assentarsi un attimo, così io sono rimasto qualche minuto da solo all’entrata del locale. Nel giro di un istante si è presentata di fronte a me un’anziana signora in pelliccia, la quale mi ha rivolto un bonario sorriso e mi ha piazzato sulle gambe una banconota da dieci euro…Io, attonito, non potevo purtroppo fare un granché per fermarla, per cui mi son ritrovato a ricambiarle il sorriso e a fare spallucce… Morale? Ho pagato uno spritz al mio amico.

Un altro surreale aneddoto, che risale a un po’ di anni orsono, mi ha visto protagonista a un semaforo. In questo caso non mi trovavo fuori ma dentro a una macchina con i vetri oscurati. Ad un certo punto si è avvicinato un mendicante, che voleva chiaramente dell’elemosina… Ha bussato al vetro del finestrino e quando si è abbassato ha subito infilato la mano senza badare più di tanto a chi era seduto dentro la macchina, finché non si è accorto di me. A quel punto ha ribussato al vetro e mi ha restituito l’elemosina. Morale? C’è sempre qualcuno che sta peggio di te.

Giorni fa Franco Bomprezzi ha pubblicato un bell’articolo sul blog del Corriere della Sera Invisibili, che ci regala una nitida analisi del fenomeno e delle sue contraddizioni, evidenziandone i risvolti pietistici e al contempo "violenti". Un mendicante che è persino disabile è un gran fastidio per la suddetta morale… non possiamo accusarlo o temerlo ma nemmeno giustificarlo. Da una parte c’è l’inevitabile tristezza che di fronte a lui o a lei ogni volta ci assale, dall’altra resta il sospetto che la "disgrazia" in fondo sia pur sempre un fatto strumentale. L’invalido-accattone non è pericoloso ma di sicuro è una mancanza di decoro per un paese civile come il nostro, ed è meglio starci alla larga. Gli unici ad avvicinarsi sono i vigili urbani o addirittura la polizia, come se l’impossibilità ad accedere a determinati servizi, quelli dei disabili belli e ben vestiti, sia da attribuire a ragioni di sicurezza. La disabilità non è mai innocua, figuriamoci se brutalmente esposta per le strade. Viene spontaneo ritornare al tema dello scandalo, di cui ho già tanto parlato in diversi contesti. La povertà è uno scandalo così come lo è la disabilità. Lo scandalo in teoria in questo caso dovrebbe essere doppio.

Ricordate questa mia provocazione? Le ultime di cronaca "politica" ci raccontano di bassi politicanti che spendono le nostre tasse in ostriche, champagne e macchine di lusso. Quindi rimango confuso… Lo scandalo è nella povertà di strada o nell’avarizia di gente senza scrupoli? La mia idea è chiara. E la vostra? Scrivete a claudio@accaparlante.it o sulla mia pagina facebook! (Claudio Imprudente)

 

Caro Maurizio Crozza…, Superabile, Ottobre 2012

Non siamo mica qui a contare quanti giri fa la ruota della carrozzina di un disabile nella scuola italiana, direbbe Maurizio Crozza imitando un nostro noto leader politico. Contare i giri della ruota sarebbe effettivamente eccessivo, caro Maurizio. Buttare un occhio su numeri e dati provenienti dal mondo della scuola, tuttavia, è necessario, specialmente ora che siamo ai nastri di partenza di un nuovo anno scolastico. La crisi economica si è abbattuta inevitabilmente su tutti gli ambiti della nostra vita e la scuola, purtroppo, non fa eccezioni. I dati che sto leggendo sono tutt’altro che incoraggianti.

Il primo a balzare all’occhio è quello sulle barriere architettoniche, sull’accessibilità. Un problema antico come la disabilità. Una recente indagine Istat riporta come l’ambiente scolastico sia considerato "ancora oggi poco accessibile". L’analisi sul territorio, si legge nel rapporto, pur evidenziando differenze marcate tra le diverse regioni, "mostra come anche nelle regioni più virtuose il 30% delle scuole non abbia ancora terminato l’abbattimento delle barriere architettoniche". Ancora altri numeri. La scuola italiana registra oggi nelle sue classi la presenza record di duecentoquindici mila alunni con disabilità: una bella cifra, se non fosse che mancano all’appello circa settantamila insegnanti di sostegno. E’ sempre più difficile attribuire un numero adeguato di ore alle classi, così come accadeva alla fine degli anni Novanta, dove ogni bambino aveva un docente tutto per sé. Oggi invece, anche il rapporto uno a due sembra un miraggio e questo a svantaggio di tutti, alunni con disabilità o meno.

Dove stiamo andando a finire? L’Italia è sempre stata tra i paesi più all’avanguardia dal punto di vista dell’integrazione scolastica. Quando nel 2008 io e il Centro Documentazione Handicap di Bologna siamo stati invitati negli Stati Uniti, a Nashville per la precisione, eravamo i portabandiera del modello italiano di inclusione, stimato e studiato oltreoceano specie dopo la legge del settantasette. La mia percezione è, dati alla mano, che portare avanti questo modello (o farlo progredire, come auspicabile) sia quasi impossibile. Almeno se guardiamo la questione da un punto di vista meramente economico. Come ripeto spesso, la disabilità può essere una risorsa, quindi se non possiamo investirci soldi abbiamo almeno il dovere di "sfruttarla" per creare un modello educativo comune, basato sul rispetto della diversità. I soldi mancano ma la creatività, sarete d’accordo con me, non si basa sugli euro… Cosa ne pensate? Scrivete a claudio@accaparlante.it o sulla mia pagina facebook.

Claudio Imprudente

 

La quarta parete, Il messaggero di Sant’Antonio, Ottobre 2012

Ottobre è un mese che mi ha sempre affascinato. È il mese delle scuole appena ricominciate, delle castagnate, delle foglie che cadono e dei teatri che aprono nuovamente il sipario, presentando le stagioni di spettacolo che accompagneranno molte delle nostre serate invernali. A questo proposito ho recuperato nella mia libreria un testo che non leggevo da un po’: Le mie regie di Kostantin Stanislavskij, il celebre regista russo ottocentesco, autore del più noto Il lavoro dell’attore su se stesso, manuale in voga tra gli attori dell’Actor’s Studio e delle scuole di recitazione. C’è una sua definizione, in particolare, che mi ha colpito da sempre. Il nostro regista afferma che il teatro è come una scatola, con tre lati (o pareti) chiusi, il fondale e le quinte laterali. Eppure, aggiunge, c’è una quarta parete, invisibile e immaginaria, interposta tra l’attore sul palco e lo spettatore in platea. Il teatro del Novecento ha tentato più volte di «bucare» la quarta parete, con l’intento di ridurre la distanza tra attore e spettatore, rendendoci così parte di un unico atto creativo dove tutti siamo protagonisti sullo stesso piano.

Personalmente mi sono sempre chiesto se per caso ce ne fosse anche una quinta da sfondare. Di sicuro avrete già capito dove voglio andare a parare. Sono profondamente convinto che anche la disabilità sia una specie di scatola con quattro pareti chiuse. Pareti che, a partire dai disabili stessi, abbiamo tutti il compito di smantellare e di far «esplodere».
Mi riferisco a quelle scatole protettive che danno sicurezza, ma che, se non si sta attenti, possono diventare delle prigioni. Parlo del preconcetto che aleggia ancora nel pensiero di molti, anche di tante famiglie, che un disabile debba solo parlare del proprio deficit e di tutto quello che ne consegue, del fatto che una persona non possa avere una vita, amicizie e interessi propri al di là delle associazioni e delle cooperative in cui lavora o che frequenta. Ciò vale, ovviamente, anche per la vita affettiva, un problema che coinvolge prima di tutto la persona con deficit, che molte volte non può o non ha il coraggio di fare certi passaggi.

Per imparare ad affrontare il mondo bisogna uscire dalla scatola e fare in modo che siano le azioni concrete a permettere di inserirsi nello stesso. Azioni che devono partire da tutti, disabili compresi, per poter parlare effettivamente e consapevolmente di società integrata. Che cos’è allora la quinta parete? Nient’altro che tutto ciò che sta fuori dalla scatola, fuori dai pregiudizi e dalla sfiducia, l’incontro con le esperienze che la vita e la società quotidianamente ci offrono. È nell’esperienza, infatti, che può finalmente azzerarsi la distanza tra palco e realtà, proprio come canta Ligabue. Detto questo, adesso vado a farmi un bell’abbonamento a teatro, sperando che non abbia pareti troppo resistenti. E voi avete mai fatto esplodere la vostra scatola? Avete trovato una quinta parete? Raccontatelo a claudio@accaparlante.it o sulla mia pagina Facebook.

 

La legge del dono

Non avevo mai considerato in modo approfondito il tema dei trapianti, finché non ho letto le linee guida della Regione Veneto in materia. Uno dei problemi principali del trapianto d’organi è proprio la determinazione della priorità con cui assegnarli. La scelta rischia di risultare discriminatoria: per quanto esistano dei criteri stabiliti, spesso la valutazione deve essere fatta su casi singoli. Più che “casi”, preferisco parlare di “persone”: questo è proprio il punto cruciale della questione. Fra le controindicazioni al trapianto vengono comprese, fra le altre: i disturbi di personalità, disturbi psicotici in fase di remissione, disturbi affettivi in atto, passati tentativi di suicidio (magari verificatisi proprio in relazione alla patologia che il trapianto potrebbe risolvere), i gravi disturbi nevrotici, il ritardo mentale con quoziente di intelligenza inferiore al 70, ecc. Insomma, i disabili mentali non “meritano” il trapianto. Non solo, dal tono delle linee guida sembra quasi di intendere che il trapianto sul disabile sia una sorta di “spreco” dell’organo in questione. Questo perché, in alcuni casi, può essere inferiore la prospettiva di vita. Più in generale, i trapiantati devono poi seguire per tutta la vita terapie indispensabili che richiedono costanza e precisione, quindi si suppone che queste caratteristiche non possano essere proprie di un disabile. Forse che tutta la vita di un disabile non sia già di per sé costellata da cure e terapie, anche difficili da seguire? Il disabile non può essere un’“isola”, mai: è evidente che intorno a lui ci sono persone che lo amano e che se ne prendono cura. Questa interpretazione così rigida rischia di far ritornare alla visione filosofica dell’uomo macchina di La Mettrie che, nel suo materialismo estremo di fine Settecento, proponeva di considerare l’uomo solo in base all’insieme dei suoi organi, anche per determinare in modo empirico cosa, effettivamente, distinguesse la sua humanitas dalla natura animale. Di per sé, il concetto stesso sotteso all’opportunità del trapianto rende facile il pensiero del corpo umano come un aggregato di parti che possono essere rese disponibili ad altre persone. La gratuità dei trapianti e il fatto che non sia un diritto esigibile da un’altra persona mirano, appunto, a scongiurare la possibilità che si cada in questa visione meccanicista. Oggi, la medicina può intervenire sul corpo umano come mai prima d’ora. L’unità tradizionale tra corpo e persona è messa in discussione e ci spinge a rivedere la nostra concezione della personalità. L’idea del trapianto, inoltre, porta con sé quella della morte, pertanto non può che essere assai controversa.
Nel caso in questione, ovvero dei trapianti su persone con disabilità, al di là dei risvolti etici e pratici che questa paventata esclusione comporta, la posizione della Regione Veneto è in forte contrasto con la Convenzione ONU sui Diritti delle persone con disabilità, ratificata in Italia dalla Legge 3 marzo 2009, n. 18. L’articolo 25 recita che “le persone con disabilità hanno il diritto di godere del più alto standard conseguibile di salute, senza discriminazioni sulla base della disabilità”. Inoltre, essa impone di “fornire alle persone con disabilità la stessa gamma, qualità e standard di servizi e programmi sanitari, gratuiti o a costi sostenibili, forniti alle altre persone, compresi i servizi sanitari nell’area sessuale e di salute riproduttiva e i programmi di salute pubblica inerenti alla popolazione”.
Come i miei lettori sapranno, le parole, i termini utilizzati, per me, hanno un peso. Colui che fornisce l’organo, non a caso, si chiama “donatore”. Il dono, in sé, è qualcosa di gratuito. Per questo motivo al donatore potenziale, a noi tutti, insomma, viene chiesto esplicito consenso, nel caso se ne presentasse la circostanza, alla donazione degli organi. Senza la precisa volontà il dono non sarebbe tale, si tratterebbe piuttosto dell’esproprio di un bene. Pertanto, come può la legge stabilire che una persona con disabilità non ha il diritto di ricevere un dono così generoso da un’altra persona? Se ci fosse la sola mentalità efficientista sottesa al dono di un organo, non ci sarebbe neppure il dono. Esisterebbe solo una compravendita di beni, di pezzi di ricambio. Se la persona con deficit, fisico o mentale, non è stato escluso dal dono della vita, così la scienza non dovrebbe negargli la possibilità, al pari di ogni altra persona, di rinascere a nuova vita. Come ogni candidato al trapianto riceve un’attenta valutazione del caso individuale, così dovrebbe essere fatto per i disabili. In caso contrario, sarebbe la legge a ergersi a giudice del valore delle persone, discriminando individui che, per il diritto, appunto, dovrebbero essere uguali per natura. Se anche la scienza e la legge dimenticano la centralità della persona, la nostra società non potrà essere da meno. Se utilizzate in questo modo, le nuove frontiere della medicina diventano strumenti di selezione genetica e possono aprire strade pericolose, come quelle, ad esempio, delle analisi prenatali obbligatorie, volte a stabilire chi ha il diritto di nascere e di vivere.
Qualche giorno fa partecipavo al dibattito del tavolo disabilità dei Piani di zona di alcuni Comuni dell’hinterland bolognese. I Piani di zona dovrebbero essere uno strumento virtuoso di confronto e di arricchimento per le Istituzioni, che hanno modo di ascoltare i bisogni reali della comunità. Ebbene, nonostante partecipassero al dibattito, per conto delle Istituzioni, i professionisti e gli amministratori più sensibili alle problematiche del territorio, è stato sconcertante assistere alla disparità di vedute delle Associazioni e dei famigliari delle persone con disabilità rispetto a quelle dei Comuni, delle Asl, ecc. Questi ultimi sono apparsi quasi totalmente avulsi dalle reali problematiche di cui, quotidianamente, deve farsi carico la famiglia di una persona con deficit. Per giunta, gli argomenti oggetto del dibattito erano, se vogliamo, quasi banali, per lo meno routinari. Per questo motivo mi fa molto riflettere il fatto che la legge possa stabilire, a priori, una valutazione dell’individuo sulla base, ad esempio, del quoziente intellettivo. Quest’ultimo viene esplicitato da un numero, ricavato sulla base di una serie di prove standardizzate. Inutile dire che in esse non trova alcuno spazio, fra i criteri, l’intelligenza emotiva spesso dimostrata da chi non è in grado di risolvere quesiti di logica, o la capacità comunicativa alternativa propria di molti disabili. Eppure, anche queste persone sono una ricchezza, sono importanti: per qualcuno, per chi li ama, per chi si prende cura di loro, ma anche per la comunità intera. Comunità, sì, non collettività: ancora una volta, i termini non possono essere frutto di una scelta non meditata.

Cinquant’anni A.I.A.S…Tartarughe ninja in festa!, Superabile, Settembre 2012

“Eh già… sono ancora qua”, sussurrava Vasco Rossi nelle cuffie del mio i-pod mentre navigavo su facebook e leggevo con piacere l’invito all’evento A.I.A.S., la celebrazione dei loro primi cinquant’anni. Eh già, caro Vasco, anche quella realtà è ancora qua, speriamo ancora a lungo…
Dal 1962, A.I.A.S. Bologna Onlus offre un impegno concreto a favore delle persone con disabilità e alle loro famiglie. Chapeau.
Per me sarà un onore dunque, giovedì 27 settembre, poter dare il mio contributo a questa meritata celebrazione.
Dunque riflettevo sul mio intervento… cosa dire di nuovo ad educatori, operatori e genitori che da tanti anni si relazionano quotidianamente con la disabilità?
Cercavo uno spunto originale e comunicativo, semplice ma efficace.
Così ho pensato alle tartarughe ninja. Voi direte, cosa c’entrano adesso le tartarughe ninja? Viaggiando per metafore ho immaginato la loro storia e l’ho paragonata a quella della disabilità.
La loro vita, nascosti nelle fogne, per poi uscire allo scoperto a cercare giustizia. E tante altre intriganti affinità…
Paragoni forzati forse, ma incisivi.
Così ne ho parlato agli animatori con disabilità del Progetto Calamaio, chiedendo loro di trovare altri punti di contatto tra la fantasiosa storia delle Turtles e quella più reale che loro vivono nel quotidiano.
Un lavoro divertente e pieno di spunti: Tiziana ad esempio, si paragona ad una tartaruga per la sua lentezza, Stefania mette l’accento sulla loro forza d’animo e voglia di rimettersi in gioco. Nonostante le loro diversità le tartarughe ninja si sono ritagliate un ruolo attivo nella società, diventando risorsa per la collettività.
Mattias si rivede nelle Turtles quando scrive di una società che non vuole vederci e tenta, si spera inconsciamente, di ostacolarci e a volte di nasconderci.
Tatiana fa notare come le tartarughe sono uguali e diverse da noi. Sono tartarughe ma agiscono da persone e come noi, anche se con lentezza, cercano di riappropriarsi della propria identità.
Ecco quello che da cinquant’anni ci offre l’AIAS: la costruzione di una propria identità personale.
E che dire… Muovetevi tartarughe, ci vediamo il 27 settembre!
Scrivete a claudio@accaparlante.it o sulla mia pagina facebook.

Claudio Imprudente

 

Appunti su L’isola dei sordobimbi

Questo testo nasce da alcune riflessioni, in seguito alla proiezione de L’isola dei sordobimbi, al Cinema Lumière di Bologna. Quella proiezione è stata la prima accessibile a persone con deficit della vista e dell’udito, ed è frutto di una di una collaborazione, attiva dal 2010, tra la Cooperativa Accaparlante e la Cineteca di Bologna. Il primo evento accessibile a disabili sensoriali in ambito regionale prevedeva sottotitoli per non udenti e audiocommento per non vedenti, quest’ultimo prodotto da Accaparlante stessa col supporto tecnico di EVM Service. Anche il dibattito a margine della proiezione era accessibile grazie a un interprete di LIS. La serata ha registrato 200 presenze e oltre un terzo degli spettatori era costituito da disabili sensoriali.
L’Isola dei sordobimbi è un film molto bello dal punto di vista cinematografico, ci sono immagini e musiche che emozionano e colpiscono. Non è un caso che il lungometraggio sia stato selezionato tra i cinque film che hanno partecipato al Premio David di Donatello 2010 come “miglior documentario”. Mi hanno colpita inquadrature e accorgimenti visivi in particolare quando ho visto il film senza sonoro durante un viaggio in treno. Ho potuto godere poi il ritmo sia visivo che sonoro quando l’ho rivisto con un gruppo di colleghi e amici di Arcipelago Sordità, proiettato su uno schermo presso la Biblioteca Zara di Milano. La sinestesia, ossia la possibilità che la stessa arte cinematografica offre di percezione attraverso diversi canali sensoriali, è molto importante per me, che vivo fin da neonata (sono nata nel 1967) con una grave disabilità uditiva.
La mia sordità – preferisco definirla ipoacusia – che percepisco da adulta come una “realtà amica”, attualmente è ben compensata da tecnologie per udire molto avanzate. In realtà, nel mio percorso di crescita verso l’autonomia, sono stati molteplici i fattori, non solo quelli tecnologici, che mi hanno aiutata fin dai primi anni ’70 a superare gli ostacoli legati al mio deficit sensoriale. Primo fra tutti l’amore e il sostegno intelligente dei miei genitori e della famiglia tutta, nonché il supporto ricevuto da persone competenti e sensibili incontrate lungo il mio percorso di vita, di studio, di lavoro e di impegno civile.
L’“arcipelago della sordità” ho iniziato a scoprirlo relativamente tardi, dopo i trent’anni. Non immaginavo che fosse così vario e che presentasse al suo interno tante e tanto grandi differenze, che ho avuto modo di conoscere e approfondire nei miei percorsi di lavoro e di ricerca. Si incontrano persone con ipoacusia cosiddette oraliste e sordi segnanti; chi è protesizzato e chi invece impiantato… così come chi non utilizza alcun ausilio. Ma trovo che simili distinzioni e codificazioni non dicano fino in fondo la ricchezza e pluralità dei percorsi possibili. Ognuno ha il suo nome e una storia da raccontare. Arcipelagosordita.it è il nome di un sito, curato da Enrica Répaci, a cui ho contribuito fin dalla sua nascita, nel 2007, in cui tra le altre cose sono raccolte anche numerosi, diversi racconti di vita. Se questo film l’avessi visto senza aver intrapreso questo viaggio attraverso l’arcipelago della sordità, mi sarei sicuramente arrabbiata, da ex-alunna cresciuta nella scuola “normale”, “di tutti”, con l’esperienza molto forte, direi fondamentale per il mio sviluppo, dell’integrazione scolastica sancita dalla legge 517 del 1977 che, con la legge Basaglia, la famosa 180/78, ha reso l’Italia un modello a livello internazionale nel riconoscimento e nella tutela dei diritti delle persone “diverse”. Nel nostro Paese sono state ricercate e sviluppate forme innovative ma al contempo “normali” di risposta ai bisogni delle persone con disabilità e con malattia mentale, coinvolgendo i territori e le comunità, quindi la società tutta, superando le condizioni di isolamento in cui si trovavano costantemente rigettati, nel bene e nel male, gruppi sociali “diversi”. Ma è anche vero che, per alcune famiglie, scuole come quella filmata nel documentario L’isola dei sordobimbi rappresentano tutt’oggi una risposta ai bisogni dei loro figli sordi. Conobbi una madre di bambini che la frequentano che mi disse come fosse una scuola valida per i suoi figli, originari da una famiglia in cui entrambi i genitori erano “segnanti”.
Dopo aver volato sulle ali del gabbiano chiamato Emanuelle Laborit; conosciuto i “figli di un Dio minore”, famoso film degli anni ’80 con Marlee Matlin; visto voci a Martha’s Vineyard, isola del Massachusetts (anche quella un’isola!) accompagnata nel mondo dei sordi dal neurologo Oliver Sacks; partecipato all’avventura di Daniela Rossi, una madre che ha raccontato la sua esperienza con il figlio sordo nel “mondo delle cose senza nome” romanzo che è stato trasposto in opera di teatro e in film per la televisione; seguito le storie senza parole, fatte di sguardi profondi e discreti in cui tutto è immaginabile, raccontate da Miguel protagonista di un libro di Antonio Ferrara; amato Kimu che sente con gli occhi e attraverso la pelle il trillo delle cose in una storia d’Africa di Emanuela Nava; scoperto con senso di meraviglia la “terra di silenzi” narrata da Mirella Bolondi; ascoltato emozionata le musiche della percussionista Evelyn Glennie, del pianista Daniele Gambini e conosciuto altri protagonisti “sordi” del mondo artistico, ora l’“isola dei sordobimbi” rappresenta per me un’altra nuova interessante scoperta nel molteplice, variegato, direi complesso oltre che affascinante arcipelago della sordità, in cui si scoprono, mettendosi in viaggio con uno spirito di ricerca ed esplorazione, sempre nuove isole.
L’Isola dei sordobimbi mi ha ricordato un altro film che vidi un 3 dicembre, in occasione della Giornata internazionale delle Persone con Disabilità, in un’aula magna di un Liceo artistico a Milano gremita di studenti, che mi ha ugualmente commosso e fatto riflettere: Rosso come il cielo. Vi si narra la storia vera di uno dei grandi montatori del suono del cinema italiano, che è una persona che ha perso la vista da bambino. Per questo motivo Mirco Mencacci a 8 anni nel 1971 venne “sradicato” dalla sua terra e dalla sua famiglia per essere portato in un grande Istituto per ciechi. In questa “isola”, passando molte traversie, riceve vero sostegno: da un amico che gli offre fraternità, da un sacerdote lungimirante che lo sostiene nella sua ricerca di una nuova modalità comunicativa e da una bambina da cui riceve tenerezza, e così sboccia la sua enorme abilità a lavorare con quelli che io amo definire i “paesaggi sonori”. Oggi – cosa impensabile fino a qualche decennio fa – è possibile anche per le persone con sordità scoprire questi “paesaggi sonori” pure in età adulta, grazie all’avanzamento delle tecnologie, sostenuti da apparecchi avanzati come quelli che porto e, quando necessario, da impianti cocleari.
Ci sono sì analogie, ma anche differenze tra Rosso come il cielo e L’isola dei sordobimbi. Entrambi girati in cosiddette “scuole speciali”, trattano, oltre che mondi riguardanti disabilità differenti, periodi storici diversi; inoltre, in uno c’è il moto del cambiamento, nell’altro l’apparente immobilità di modi e gesti educativi che si perpetuano nel tempo, senza subire grandi scossoni.
Emerge il tema dell’educazione speciale. È un tema attuale, entro un dibattito politico aperto anche nel nostro Paese, con la crisi del welfare state. L’Italia rappresenta uno dei pochi Paesi al mondo in cui moltissimi alunni con diverse abilità oggi definiti “con disabilità” sono stati prima inseriti, poi integrati (oggi si direbbe “inclusi”) nella scuola di tutti. Ma oggi di questo sistema vengono denunciate molte crepe in un mondo profondamente cambiato in cui principi di solidarietà e senso di responsabilità sembra che si affievoliscano e soprattutto in presenza di violenti tagli economici, quindi intorno al tema si è aperta una riflessione culturale e politica.
Nel mio percorso di apprendimento della parola, un ruolo essenziale l’hanno giocato i miei genitori sapientemente guidati, oltre che da immenso amore, dalla logopedista. Da bambina facevo una grande fatica a far uscire la voce dal mio petto, ma il percorso è stato vissuto da me come un meraviglioso gioco. Attraverso i cosiddetti “cartoncini” preparati da mamma e papà, immagini belle – in molte delle quali si specchiava il mondo della mia infanzia e quindi le esperienze vissute – e parole scritte sono confluite nella formazione del mio linguaggio. Tutt’oggi la parola scritta per me ha un’importanza cardinale. Quando odo una parola per me nuova, per fissarla nella memoria, così come per ricercarne ogni possibile significato, consulto vocabolari di lingua ed etimologici, dizionari dei sinonimi e dei contrari. Consultando anche questa volta il vocabolario, nel tentativo di indovinare il motivo per cui chi ha realizzato questo film abbia scelto di usare la parola “isola”, sono andata a cercarmi il suo significato nel dizionario Sansoni dei sinonimi e contrari.
Primo significato di “isola”: oasi, rifugio, luogo sicuro. Tutto questo dal film emerge chiaramente, il regista Stefano Cattini ha saputo in modo sapiente far uscire la poesia racchiusa in questo “piccolo mondo antico” in cui i bambini si sostengono a vicenda. Un microcosmo in cui si respira e si vive ancora un clima di condivisione e di solidarietà reciproca.
Secondo significato di “isola”: territorio isolato, area staccata, quindi separata. In un luogo simile vengono meno, almeno in apparenza, gli scambi con il mondo esterno.
I “sordobimbi” appaiono abbandonati quasi fossero degli orfani… come qualcuno del gruppo di colleghi con i quali ho visto il film ha creduto fossero sul serio.
Il picnic organizzato dalla maestra a fine anno scolastico avviene dentro il “recinto” dell’istituto. Anche in occasione delle feste, delle esibizioni degli scolari dell’isola dei sordobimbi non si vedono genitori e i fratelli. È un “piccolo mondo antico” in cui il padre di tutti è quello nei cieli, mancano figure maschili! E le figure materne dominanti sono suore a cui i bambini devono l’ubbidienza da rivolgere a un “capo”. La relazione e la comunicazione con l’altro poggia le sue basi sulle esperienze di incontro e di relazione dell’infanzia… quindi le tipologie di relazione che vivono i piccoli protagonisti del film fanno proprio riflettere. Tra le scene che colpiscono maggiormente ce ne sono anche alcune che procurano tristezza, addirittura angoscia. Sono per esempio quelle in cui Ivan chiama sconsolato la mamma. È separato dalla mamma, meno male che ci sono i compagni più grandi che gli offrono con semplicità e naturalezza sostegno: “La mamma poi viene”…
I genitori e i familiari dove sono? Come mai il legame con il mondo esterno, il passaggio dei bambini dall’isola alle loro famiglie e agli ambienti di origine non è stato documentato?
In una “scuola speciale” mi aspetto che siano particolarmente curati i momenti di extrascuola, più volte è ripresa la camerata dei bambini, ci sono momenti ludici di spettacolo e di divertimento… ci sono i tempi del gioco mentre è del tutto assente il momento dei pasti. Compaiono in una scena solo delle uova, non recuperate insieme ai bambini, come mi sarei aspettata, in un vicino pollaio essendo la scuola in campagna (e alcuni bambini vengono da città), bensì usate in aula per imparare cosa siano il tuorlo e l’albume e per cuocerle strapazzate… su un fornelletto da campeggio, invece che nella grande cucina dell’istituto. Non solo vista e tatto, anche gusto e olfatto si sviluppano particolarmente in presenza di un deficit sensoriale uditivo.
Ne L’Isola dei sordobimbi, specialmente nella seconda parte del film, emerge la bellezza della comunicazione globale di voce e soprattutto segni ed espressione corporea. Non a caso ai bambini si fanno vivere esperienze in cui la percezione funziona principalmente attraverso la vista: circo, teatro delle ombre… È privilegiato il canale visivo oltre che tattile anche nel faticoso percorso di apprendimento del linguaggio orale di Noemi, Loriana, Ivan (e degli altri) con strumenti e metodi logopedici. Non emerge il lavoro di allenamento acustico che oggi è sempre più facilitato dall’utilizzo di strumenti per udire sofisticati e da strategie e metodiche anche molto diverse – alcune usano la voce modulata e cantata oltre che la musica – che favoriscono l’apprendimento del linguaggio. Per i bambini su cui si sofferma la telecamera (Ivan, Loriana e Noemi) gli esercizi a cui sono sottoposti, anche in aula con la maestra, appaiono molto pesanti. Soprattutto sembra che siano proposti esercizi meccanici, in particolare dalle suore che perpetuano gesti e parole “antichi”, come antiche sono le regole che governano la vita di un ordine religioso.
Mi ha commossa la scena in cui l’assistente alla comunicazione dal volto angelico – per un attimo scambiata per la madre – stabilisce una comunicazione intensa fatta di sguardo, voce e gestualità con Loriana che la incorona così principessa, e lei stessa finalmente si sente una principessa… molto diversa dalla Loriana che fa gli esercizi davanti allo specchio.
Credo che, a seconda del grado di conoscenza e partecipazione dello spettatore al mondo della sordità, il film provochi emozioni e pensieri differenti.
Il film smuove diverse parti di me. Come “sordobimba” non conobbi altri bambini in condizione simile alla mia, se non in età adulta. Sono cresciuta con l’idea che la mia ipoacusia fosse una delle tante diversità, particolarità possibili, a cavallo fra culture, ambienti, esperienze differenti… Sono stata educata alla consapevolezza che la fragilità e il limite siano costitutivi dell’esperienza umana. Mi sento cittadina del mondo, in una società sempre più multietnica e multiculturale. Un mondo che è fatto di diversità che ci arricchiscono.

L’isola dei sordobimbi
(Italia, 2010)
Durata: 80’
Regia: Stefano Cattini
Sceneggiatura: Stefano Cattini e Giusi Santoro
Montaggio: Giusi Santoro
Musiche Originali: Enrico Pasini e Like a Shadow?
Direttore della fotografia: Stefano Cattini
Assistente di produzione: Michela Maur
Produzione: Doruntina Film e Giusi Santoro
In collaborazione con Associazione Culturale Sequence

Emozioni e sensazioni di “giovane” integrazione, attraverso lo sport a scuola

Con il gruppo Calamaio RE-MO (Reggio Emilia e Modena) ho concluso nel 2011 un ciclo di tre percorsi con tema lo sport a Correggio (RE) presso le scuole medie “Andreoli. Marconi”. Ogni percorso è formato da cinque incontri: due con gli insegnanti (programmazione e verifica) e tre con tutto il gruppo classe. Sto scrivendo con una forte emozione nel cuore perché questi percorsi sono stati possibili grazie al contributo economico, donato alla scuola, dal “Trocia Beach”. Molti di voi si chiederanno cos’è il “Trocia Beach”. Per saperlo accendete il vostro computer e digitate sul vostro motore di ricerca “Trocia Beach” e vi si aprirà la home page, cliccate su “storia” e vi comparirà una foto. La foto di Trocia, ovvero Marco Ferrari, uno dei miei migliori amici, che a soli 32 anni, dopo aver giocato con il cancro è morto. Nulla di più azzeccato era quello di organizzare un torneo di beach volley per ricordare e raccontare chi era Marco. Strano associare il gioco e lo sport alla morte, ma Marco si è sempre divertito, sia in salute che in malattia, come c’è scritto da qualche parte. E anche nella sofferenza e nel dolore ci metteva quel pizzico di autoironia per far superare a chi gli era di fianco, in quei momenti, la difficoltà nel relazionarsi con lui. Una difficoltà, la paura di perdere un caro amico, ti poteva allontanare da lui, ma grazie al suo divertimento Marco ti includeva nella sua vita. Ora non voglio stare qua a descrivere la storia di Marco, perché l’obiettivo dei percorsi sullo sport non era questo, ma quello di far capire che un handicap, o chiamiamola difficoltà, se conosciuta può diventare anche divertente ed è più facile affrontarla e quindi superarla. Lo sport è pieno di difficoltà, difficoltà che a volte escludono. Ecco, noi del gruppo Calamaio di RE-MO abbiamo cercato di far capire, “macchiando” questi ragazzi, che le difficoltà sportive –cambiando alcune regole – possono diventare divertenti e quindi includere tutti. Invece di descrivere le tappe di questo percorso voglio dar voce ai veri protagonisti di questa esperienza per far sì che le loro emozioni e la loro esperienza di integrazione “macchino” un po’ anche voi lettori.
Buona lettura.

Una studentessa, dopo il primo incontro
“Sono venuti in palestra nella nostra scuola un trio di ragazzi (di cui una sulla sedia a rotelle) che si chiamano Denny, Stefania e Tristano. I professori ci avevano detto che avremmo svolto un progetto di nome Calamaio con tema lo sport, ma noi non avevamo idea di che cosa si trattasse e sono sicura che nessuno avrebbe mai pensato di fare ciò che in realtà abbiamo fatto. Appena arrivati ci siamo riuniti tutti insieme in una parte della palestra (anche i professori della nostra classe si sono seduti in cerchio in mezzo a noi!) e ci hanno distribuito un foglietto e una biro. Dovevamo scrivere il nostro nome, il tipo di sport praticato, il nostro idolo sportivo (se ne avevamo), il perché è importante svolgere sport e i lati positivi e negativi di quest’ultimo. Dopo pochi minuti abbiamo letto le nostre risposte e sono uscite delle cose molto interessanti. Questo gioco ce lo hanno fatto fare per farci conoscere meglio, facendoci notare che anche il più diverso da noi ha delle cose in comune con gli altri. Dopo questa attività di conoscenza, tutti pensavamo che ci avrebbero fatto giocare a basket, calcio o qualunque altro sport, ma ci sbagliavamo. Uno dei ragazzi si è alzato in piedi e si è avvicinato a una parete della palestra dove erano stato attaccati quattro fogli grandi e ci disse che avremmo giocato al gioco delle “Associazioni di Idee”. Su ogni foglio ha scritto, una alla volta quattro parole: Idolo Sportivo, Pallone, Atleta e Handicappato. Con ognuna di queste quattro parole dovevamo associare e dire tutto quello che ci veniva in mente pensando ad esse, senza aver paura di offendere e senza nessuna censura. Dopo un po’ avendo esaurito le idee, abbiamo riflettuto sulla positività o negatività e abbiamo notato che nella parola Handicappato c’erano più parole negative che positive rispetto alle altre tre parole proposte dal trio del Calamaio. Riflettendo siamo arrivati a parlare dell’uguaglianza o diversità delle persone e abbiamo scoperto che siamo tutti uguali e diversi e non uguali o diversi come sostenevano alcuni miei compagni. A quel punto è arrivata la parte più divertente. Per farci capire come una difficoltà può essere divertente ci hanno diviso in due squadre che si sarebbero sfidate nella velocità, ma con un piccolo dettaglio: dovevamo muoverci sulla carrozzina, come la ragazza del gruppo Calamaio appena conosciuta. È stato divertentissimo! Abbiamo capito, grazie a queste prove di velocità, che se uno si diverte la difficoltà può essere superata e così nessuno viene escluso! Eravamo così impacciati nel muoverci con la sedia a rotelle. Poco dopo è giunta l’ora di salutarci. Ci hanno detto che il loro compito era di lasciare una piccola “macchia” dentro di noi (da questo il nome Calamaio) e di farci divertire. Li abbiamo salutati calorosamente con la speranza che anche gli altri due incontri sarebbero stati così divertenti e significativi. Mi è piaciuta l’esperienza e mi ha fatto riflettere molto. Quel trio ci ha proprio stupito, per così dire. Come dicevo prima nessuno di noi si sarebbe mai immaginato di gareggiare su carrozzine e divertirsi!”.

Uno studente, dopo il secondo incontro
“Appena siamo arrivati, gli animatori del gruppo Calamaio ci hanno chiesto di leggere le consegne che ci avevano detto di fare. Che emozione leggere le proprie impressioni davanti a tutti!
Tra l’altro è stato molto interessante sapere cosa avevano scritto gli altri e ci siamo accorti che ognuno di noi aggiungeva un pezzo come se fosse un puzzle che si andava completando man mano che i miei compagni leggevano. Finito di leggere tutti ci hanno spiegato la differenza tra deficit (mancanza) e handicap. Abbiamo scoperto che handicap non vuole dire altro che difficoltà. Quindi abbiamo ripreso un po’ i concetti del primo incontro. Dopo ci hanno divisi in tre squadre e fatti mettere in cerchio e fatti giocare a Palla Cerchio. Il gioco consisteva nel portare la palla da un lato all’altro della palestra senza farla uscire del cerchio formato da noi. Facendo questo gioco ci siamo accorti che tra di noi non comunicavamo, che ognuno faceva quello che voleva senza condividerlo e che non sempre velocità è sinonimo di vittoria. Infatti la prima prova è stata vinta dal gruppo dove c’era Stefania, l’animatrice in carrozzina perché il pallone è uscito meno volte”.

Gli studenti, dopo il terzo incontro
Il terzo incontro si è aperto con una domanda: “Quando lo sport integra davvero?”. Ecco le impressioni degli studenti, dopo aver provato a mettersi in gioco.
“Abbiamo partecipato all’ultimo incontro del Progetto Calamaio, credo che in generale sia stato il più emozionante perché abbiamo giocato a Basket, cambiando molte regole e facendo in modo che tutti avessimo un ruolo ben preciso, e che nessuno venisse escluso. Questa serie di incontri mi sono molto piaciuti perché hanno un aspetto molto originale rispetto ad altri progetti”.
“Io mi sono sentita coinvolta nel gioco, a differenza delle altre volte, in cui spesso venivo isolata”.
“Questo Progetto mi è piaciuto molto, ed è stato divertente e utile per capire che anche se non sei molto brava in uno sport, non vuol dire che tu non possa giocarci. Molte volte quando si gioca, anche tra amici, se non sei brava vieni esclusa. Con questo Progetto ho capito che le regole di un gioco si possono anche adattare a te e alle tue esigenze”.
“Ho trovato difficoltà ma poi con l’aiuto dei miei compagni sono riuscita persino a giocare a palla. Infine abbiamo cambiato le regole al Basket, e per la prima volta mi sono divertita in una partita di Basket. Ognuno aveva il proprio compito già stabilito in precedenza, anche Stefania ha giocato e io sono riuscita persino a fare tre canestri! Quindi come ci hanno detto loro all’inizio: sono davvero riusciti a lasciarci una macchia dentro!”.
“L’ultima lezione del Progetto Calamaio mi è molto piaciuta, perché siamo stati noi i veri protagonisti della lezione, giocando nel vero senso della parola. Cambiando le regole ogni volta che ci stavamo annoiando. L’ho trovato molto bello e interessante”.
“Per me è stato molto eccitante e interessante, perché ci siamo messi in gioco e abbiamo esposto le nostre opinioni, su vari argomenti. Mi dispiace che questo Progetto lo abbiamo fatto solo quest’anno”.

Nuovi ingressi, nuove opportunità. Il Servizio di Giustizia Minorile entra al Calamaio

Il desiderio di ampliare i contenuti e le attuazioni della propria pratica educativa, all’interno del gruppo come al di fuori degli ormai usuali contesti scolastici, ha contraddistinto la ricerca del gruppo Calamaio degli ultimi anni. Portare il tema della diversità unicamente a confronto con situazioni già consolidate e aperte alla ricezione, benché per tutti rassicurante, ci si è presto resi conto risultare alla lunga controproducente, con il rischio effettivo di appiattire il valore dell’attività riducendola a mestiere di routine. Un rischio, questo, certamente da sventare, per gli educatori ma soprattutto per gli animatori disabili, che su queste attività hanno costruito nel tempo il proprio agire e la propria identità.
La parola “diversità” per chi la vive ogni giorno sulla pelle è infatti parola complessa che ha bisogno di scambi e continue alimentazioni per riconoscersi effettivamente in quel ruolo sociale attivo di cui, all’interno del gruppo Calamaio, continua a essere provocatoria e gioiosa portatrice.
Una volta aperti gli interrogativi il passaggio successivo è stata così la necessaria riapertura degli spazi, complice la recente ristrutturazione della sede, pensata per accogliere ulteriori interventi formativi e transitori passaggi, in collaborazione come sempre con l’Università di Bologna, Arci Servizio Civile, l’Asl e inaspettatamente, da questa primavera, anche con il Servizio di Giustizia Minorile Emilia-Romagna.
L’incontro è avvenuto con quattro ragazzi adolescenti, in parte seguiti dai servizi sociali e in parte affidati alla realtà comunitaria di Cesena, una delle tante comunità che in regione svolgono con rigore e con passione la funzione di un’alternativa al carcere, luoghi in cui, spesso, è più facile effettuare un percorso riabilitativo a favore di un libero quanto duraturo recupero personale e sociale dei ragazzi, anche in considerazione degli elevati rischi di recidiva una volta di ritorno nei contesti di appartenenza.
Confrontarsi con le fragilità dell’adolescenza, le ombre dell’errore, i pregiudizi e gli sforzi del cambiamento ha offerto al Calamaio la possibilità di una nuova messa in discussione di sé, di cominciare a far fronte a una sfida educativa ancora in via di definizione, in cui i punti di contatto proseguono di pari passo con la necessità, non sempre scontata, di imparare a venire nei fatti a contatto con l’altro, nella consapevolezza di un atteggiamento e di uno sguardo talvolta impreparato quando quello che ci viene chiesto non è un atto di rieducazione ma prima di tutto una semplice forma di onestà di rapporti, una dimensione di normalità.

Quando il pregiudizio parte dai margini
Qualcuno si potrebbe chiedere che senso ha mettere in relazione due posizioni cosiddette marginali, il ragazzo deviante da un lato e il disabile dall’altro. Per alcuni si tratterebbe senza dubbio di una forma di azzardo non immune da pericoli e fraintendimenti, per altri di un’espressione ingenua e retorica e nel complesso inutile.
Il problema, a nostro parere, sta nel carattere di eccezionalità e al contempo di generalità posto in questa panoramica, su cui noi stessi ci siamo trovati a inciampare. Fin dall’inizio, pur procedendo a tentoni, non sono mancati infatti gli scontri sui pregiudizi insiti da entrambe le parti ancor prima di cominciare e vederci in faccia. Il disabile noioso e “sfigato” e il ragazzo cattivo che è meglio tenere alla larga, sono state immagini di luoghi comuni latenti che ci siamo dovuti dichiarare senza falsi buonismi fin dal principio e che ci hanno ricondotti, più o meno consapevolmente, nelle salde postazioni di un Sistema in apparenza inscalfibile e dalle profonde radici. A ciò si è aggiunta la reciproca presunzione di essere il lato forte, quello che finalmente ha trovato in chi sta peggio la ragione di una rivalsa, sia essa umana o intellettuale, a dispetto delle difficoltà e frustrazioni personali vissute nel quotidiano a causa della propria diversità.
In questa prospettiva, è evidente, abbiamo attribuito un carattere eccezionale alle categorie disabile e ragazzo deviante, ne abbiamo cioè fatto un’etichetta delle più classiche nella più generale delle ipotesi. Margini e maggioranza, come spesso accade, si sono così trovati a coincidere.
Partire da questi nodi e dalla condivisione di un pregiudizio ancor prima perpetrato che vissuto è stato fondamentale per aprire la nostra riflessione sulle cause ma soprattutto per ritornare, più coscienti, alle origini dell’azione del gruppo Calamaio: lo sviluppo della relazione autentica basata sull’incontro e la responsabilità. I ruoli e le maschere che il mondo ci assegna infatti, direbbe Hannah Arendt, sono scambiabili.

Protagonisti, lavoratori o volontari?
La maggior parte dei minori che per diversi motivi si trovano oggi nella condizione di dover intraprendere un percorso riabilitativo possono scegliere, su consiglio degli educatori di riferimento e dei servizi sociali, di essere inseriti in strutture di utilità collettiva, ospedali, centri per anziani, case-famiglia, ecc., in cui adoperarsi come volontari, oppure intraprendere un cammino lavorativo di formazione professionale come il barman o ancora partecipare a percorsi artistici, in particolar modo teatrali o musicali. È chiaro che in questa formula non mancano rischi e contraddizioni come il fatto che non c’è lavoro, la manovalanza passiva, la spettacolarizzazione del disagio. Anche per questo in quasi tutti i casi il ragazzo non sa esattamente che cosa gli capiterà, chi incontrerà e che cosa gli sarà chiesto di fare. Conoscersi e passare dalla richiesta alla responsabilità di un’azione spontanea sarà, in queste circostanze, la conquista che l’impegno educativo dovrà perseguire.
All’interno del Calamaio, tuttavia, la prova non può essere lineare per vocazione, dal momento che non esistono ruoli così definiti. Il detenuto non è protagonista di uno spettacolo, non è mero assistente di un sofferente e non è neppure un lavoratore tout court che ha per fine la produzione immediata. Agevolare l’inserimento all’interno di un percorso educativo già in atto e non costruito ad hoc è stato così il vero scopo che il gruppo ha sentito il bisogno di prefissarsi, per confrontarsi sul contatto e sui temi della disabilità nel modo più naturale possibile, coinvolgendo i ragazzi nei tempi e nelle pratiche di un’attività formativa quotidiana, di cui, e qui sta la differenza, i disabili non sono protagonisti ma soggetti attivi.

Il ruolo del Calamaio
Conoscere un disabile grave senza averlo mai fatto prima può rivelarsi sul momento spiazzante, emotivamente come fisicamente. Il tuo corpo è diverso dal mio, non capisco come si muove, non capisco quello che dici, non posso interagire con te, insomma non posso risponderti. La risposta, ce lo dice l’etimo, è l’essenza del concetto di responsabilità, l’unica forma alla base di una relazione capace di costruirsi e di procedere in forma autonoma verso un orizzonte che si è scelto comune. La responsabilità però, ci insegna il Calamaio, passa prima per la fiducia e la fiducia passa prima per la conoscenza. Tra avvicinarsi e scoprirsi simili il passo è breve quando con il divertimento, il gioco e la riflessione ci poniamo davvero a contatto l’uno con l’altro. Ed è solo lì, nella corrispondenza paritaria della risposta, che si accende, e i ragazzi ce ne hanno date le prove, la scintilla del cambiamento, è solo lì, a partire dalla nostra riscoperta nell’altro, nella ricchezza dei suoi limiti e delle sue abilità che possono trovare ragione d’essere l’alternativa di una nuova libertà e il superamento dei pregiudizi.
Perché, come ci ricorda Marc Augé “ci rendiamo conto di vivere come individui quando ne abbiamo le prove: la malattia, il lutto, l’età. Apparizioni improvvise, intuizioni originali che il Sistema non prevede (o che tenta di prevenire) e che possono mettere in difficoltà la sua apparente coerenza. […] Solo da una prospettiva di libertà potremo servire le esigenze di libertà che il tutto saprà indicarci”.

Intervista doppia… ai mercatini

Da qualche tempo partecipo con un banchetto ai mercatini per hobbisti.
Vendo, insieme a un amico restauratore, oggetti vintage e piccolo mobilio restaurato.
Al di là del risultato economico, è davvero un’esperienza interessante, un’immersione profonda in un mondo parallelo, abitato da persone e personaggi di tutti i tipi.
In quei lunghi week end trascorsi ai bordi delle strade ho conosciuto molte persone, condiviso lunghe chiacchierate affrontando i temi più diversi, scambiato informazioni, mangiato ottimi cibi locali, goduto di bei centri città chiusi al traffico.
Insomma, ogni mercatino è un’immersione nella società, non quella dei numeri o della televisione, non quella dei libri o dei proclami politici. Ogni mercatino è un’immersione nella società reale, fatta di carne, ossa e desideri.
Anche il 18 settembre scorso mi sono alzato di buon’ora, ho caricato la macchina e sono partito per trascorrere un’ultima domenica d’estate un po’ speciale.
Sono arrivato in piazza alle 7:30.
Mi sono messo in fila con gli altri per farmi assegnare la mia piazzola.
Arrivato il mio turno, mi hanno mostrato il posto in cui avrei potuto montare il mio banchetto, ottima posizione all’angolo tra la piazza e la via principale.
Prendo la macchina e inizio a scaricare il mio materiale.
Alla destra del mio spazio si era già installato un ambulante tunisino con la sua merce: oggettistica varia, grandi tegami di rame, vecchie scarpe… insomma oggetti diversi, raccolti qua e là.
Poco dopo, arriva anche la vicina che si installa alla nostra sinistra.
Una bella ragazza dell’Est Europa, giovane e molto contenta di essere lì.
Il suo compagno l’aiuta a montare un appendi abiti sul quale attacca una serie di magliette firmate, su un tavolo mette in mostra una serie di collane di diverso tipo e valore e, per terra, appoggia alcune scarpe e un paio di scarponcini, anch’essi di marca.
La giornata è lunga, per cui tra un cliente e l’altro, scambio qualche domanda con i miei due vicini e ne nasce una specie di intervista doppia che mette in luce due diversi mondi, due diversi modi di vivere l’immigrazione nel nostro paese.

Come ti chiami?
Maria
Da dove vieni?
Dalla Moldavia
Da quanto tempo sei in Italia?
Da tre anni, anzi da tre anni e qualche mese.
Come mai sei venuta in Italia?
Avevo bisogno di un lavoro e sono venuta per fare la badante. Un’amica di famiglia era qui da un paio di anni e mi ha trovato una famiglia che aveva bisogno. È stata una bella esperienza ma per fortuna è finita.
Adesso di cosa ti occupi?
Faccio la mamma! Mi sono fidanzata con un uomo italiano e abbiamo un bambino di sei mesi. Per ora non faccio più la badante, vivo con il mio fidanzato.
Fai spesso mercatini?
No, no! Questo è il primo. Di solito le cose che non uso più le mando in Moldavia ma alcune le ho tenute e ho pensato di venderle qui. Non so come andrà, vediamo. Qualche euro in più non fa male. Speriamo che continui meglio di come è iniziato.
Perché, cos’è successo?
Quando ero in fila c’erano delle persone che parlavano e ho sentito che se la prendevano con me. Ci sono delle persone cattive, appena vedono che sei straniera pensano male. Poi ci sono le persone gentili come te.
Ti manca il tuo paese?
[Pausa] Un po’ mi manca. Mi mancano certe zone di montagna, la casa dei miei nonni, la musica moldava. Mi mancano le mie amiche. Però sono contenta di essere qui, anche l’Italia mi piace molto. Sono stata molto fortunata, non mi è mai successo nulla di grave, ho sempre incontrato delle persone gentili, ho sempre lavorato.
In cosa ti senti italiana e in cosa, invece, non ti identifichi con questo paese?
Sinceramente, non mi sento italiana. Mi sento una moldava che vive in Italia. Forse qualcosa è cambiato da quando è nato mio figlio. Lui è sicuramente italiano perché è nato qui e crescerà qui. L’Italia sarà il suo paese, chissà cosa penserà della Moldavia.
Secondo il tuo punto di vista, c’è un problema immigrazione in Italia?
Sì, secondo me c’è. Troppe persone che vengono qui senza sapere cosa fare. Persone non per bene, con intenzioni cattive. Molte donne che vengono imbrogliate e finiscono sulla strada. Bisognerebbe che potessero venire solo le persone che hanno un lavoro altrimenti è più facile che finiscano a fare cose sbagliate.
Come immagini la tua vita tra dieci anni?
Tra dieci anni avrò trentasei anni. Avrò un altro figlio e continuerò a fare la mamma. Magari lavorerò con mio marito.

Come ti chiami?
Samir.
Da dove vieni?
Dalla Tunisia, da Tunisi.
Da quanto tempo sei in Italia?
Da undici anni.
Come mai sei venuto in Italia?
Mio fratello mi aveva trovato un lavoro come muratore, per cui mi sono trasferito. Prima io poi, dopo tre anni, mia moglie.
Adesso di cosa ti occupi?
Adesso faccio questi mercatini, ogni giorno uno diverso, io e mia moglie. I miei figli vanno a scuola, oggi stanno con mio fratello. Ho comprato un furgone e raccolgo oggetti di tutti i tipi. Anche quando vado in Tunisia raccolgo qualcosa e la porto qua. Piacciono molto le cose del mio paese. Facciamo i mercati classici e questi nei fine settimana.
Quindi è il tuo lavoro. Riesci a guadagnare abbastanza per mantenere la tua famiglia?
Insomma. Un tempo andava meglio, adesso è più difficile, le persone prima di comprare pensano, anche se le cose costano poco. Però, per fortuna, alla mia famiglia non manca nulla.
Ti manca il tuo paese?
Molto. Ci sono cresciuto, ci ho vissuto tanti anni, ci sono le mie tradizioni. Ci torno almeno due volte all’anno. Mi manca tutto… Per fortuna mia moglie cucina cibi tipici ogni giorno e passo molto tempo con la famiglia di mio fratello e la comunità tunisina.
In cosa ti senti italiano e in cosa, invece, non ti identifichi con questo paese?
L’Italia mi ha dato la possibilità di vivere in modo abbastanza tranquillo, i miei figli vanno a scuola e stanno bene. Per questo mi sento italiano. Non mi piace la maleducazione e certi atteggiamenti delle donne.
Secondo il tuo punto di vista, c’è un problema immigrazione in Italia?
Il problema dell’immigrazione c’è. Non sono gli immigrati il problema. Certo ci sono persone che vengono in Italia per rubare o per continuare a fare quello che facevano nel loro paese. Però il vero problema è la difficoltà di integrarsi, la paura che la gente ha di noi, la sfiducia. Appena vedono mia moglie con il velo, subito le persone pensano male.
Come ti immagini tra dieci anni?
[Si fa una grassa risata] Sono così impegnato a pensare cosa farò domani… Comunque tra dieci anni avrò cinquanta anni, spero che i miei figli abbiano la possibilità di studiare e crearsi un futuro migliore del mio. Io spero di poter tornare a vivere in Tunisia, ho un terreno che mi piacerebbe coltivare.

L’intervista viene interrotta dall’arrivo degli organizzatori che vengono a riscuotere la tassa di riscossione, 10 euro. Samir scopre che era necessario iscriversi e che quindi ha occupato uno spazio “abusivamente”. Chiede scusa, si giustifica dicendo che pensava che ognuno potesse prendere un posto come succede in altri mercati, paga e torna a dedicarsi a suoi clienti.

Non esiste l’ingrediente segreto

“Non esiste l’ingrediente segreto”.
“Non importa la tua storia… L’importante è quello che tu scegli di essere ora”.
(Kung Fu Panda 1 e 2)

Gli affezionati lettori di “HP-Accaparlante” si aspettano da Il magico Alvermann una proposta di libro, un ripescaggio nei ricordi, uno stimolo a ritrovare delle pagine che si conoscevano o delle pagine nuove da esplorare. Questa volta, concedeteci, di partire da un’altra forma di racconto, quella cinematografica. Il racconto in questione riguarda il film d’animazione Kung Fu Panda, nella versione 1 e 2. Il panda Po è in qualche modo il prescelto per diventare il guerriero Dragone, per cui nonostante la sua diversità così prorompente (un “ciccione” che pratica uno sport notoriamente per magri e agili) riesce nell’impresa, è l’eroe voluto dal destino; della serie: anche se sono goffo ce la faccio comunque perché è il mio destino. Fin qui è l’eroe per eccellenza, come in tanti noti film dove esiste un prescelto. E la sua diversità fa ridere, fa simpatia, ma tutto qui. Invece c’è molto di più. Come guerriero Dragone il panda riceve una pergamena dove dovrebbe esserci scritto il segreto per essere un vero guerriero, invincibile. Bene, la pergamena è vuota, bianca, non c’è scritto niente. All’inizio sembra una presa in giro per un essere così buffo. Invece pian piano si capisce il “trucco”. Non esiste il segreto. La pergamena è vuota apposta. Non ci sono magie per essere invincibili, basta crederci. Basta credere in se stessi, nelle proprie capacità anche quando queste capacità si devono scontrare con limiti fisici evidenti.
La questione dell’ingrediente segreto ricorre anche nel capito 2 della saga. Il panda sta cucinando per i suoi colleghi e amici di kung fu, e sta cucinando una zuppa seguendo la ricetta di suo padre. Gli amici si complimentano per la bontà, ma il panda non è soddisfatto, dice che manca un ingrediente segreto che conosce e usa solo suo padre, e che solo suo padre è in grado di cucinare la zuppa perfetta. Si scoprirà che non esiste l’ingrediente segreto, che suo padre se l’era inventato, che la zuppa viene cucinata in maniera semplice senza aggiunte magiche e che la zuppa che cucina il panda è esattamente buona come quella del padre. Ma Po pensava che quella del padre come sapore fosse migliore. Torna quindi il tema della fiducia, di crederci. La zuppa di Po non era peggiore, era uguale. Eppure lui pensava di essere inferiore.
Devo ammettere che questo concetto mi ha colpito moltissimo, forse perché ero andata al cinema pensando semplicemente di divertirmi. Invece tutto il film mi sembrava un grande Centro Documentazione Handicap. In Kung Fu Panda ho ritrovato il nostro spirito di CDH. Il tema della fiducia per noi è fondamentale. Bisogna credere anche nelle piccole capacità residue che una persona possiede, bisogna accettarsi come si è e agire per come si è. Occorre, inoltre, un contesto di fiducia in cui crescere. E il panda cresce adottato da un’oca, ma un’oca che non lo fa sentire diverso dalla sua razza, un’oca che lo integra, lo accetta e gli vuole bene per come è, e crede in lui. Un genitore che mette il figlio nella condizione di autodeterminarsi, di scegliere chi e cosa essere, in base al suo fisico, a ciò che sa fare e a quello che non sa fare.
Anche gli altri personaggi di contorno mi fanno pensare alla diversità. Nella scuola di kung fu di Po ci sono animali di tutti i tipi che praticano quella disciplina: la tigre, il leopardo delle nevi, la mantide religiosa, la vipera, la gru, la tartaruga e il panda rosso. Ognuno di loro ha trovato un suo modo di praticare il kung fu. Ognuno di loro ha sviluppato la propria creatività per adattare le mosse del kung fu alla propria predisposizione genetica. E anche questo è uno dei nostri temi ricorrenti. La capacità di inventarsi delle soluzioni per superare le difficoltà, con un modo proprio, cucito addosso a se stessi, usando degli adattamenti oppure adattando quello che c’è. La questione non è superare i propri limiti a tutti costi, ma accettare questi limiti, conviverci e riuscire a sfruttarli con un po’ di creatività. Perché l’ingrediente segreto siamo noi stessi.