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Autore: admin

Il COI: un’esperienza inglese

Esiste da anni in Gran Bretagna il COI, (Central Office of Information)struttura governativa che funziona non tanto come un ministero dell’informazionequanto come una struttura di comunicazione pubblica a cui ogni dipartimentogovernativo può rivolgersi per promuovere le proprie politiche e le proprieiniziative.
Il COI fa opera di informazione principalmente sui diritti umani e sulleattività legislative socio-sanitarie; si occupa poi di promuovere iniziativecome le donazioni di sangue ed è impegnato in tutte le questioni di persuasionesociale (campagne anti-droga, prevenzione dei crimini, sicurezza stradale…).
Il COI, che utilizza diversi mezzi per raggiungere i suoi scopi (pubblicità,marketing diretto, ricerca, film, radio…) suddivide la pubblicità sociale incinque categorie principali:
1. Spiegazione della legislazione e dei diritti dell’individuo (stato sociale,cambiamenti nelle tasse…).
2. Promozione di iniziative (donatori di sangue…).
3. Reclutamento (forze armate, infermieri…).
4. Utenze (gas, elettricità…).
5. Persuasione sociale (anti-droga, prevenzione del crimine, sicurezzastradale…).
Per promuovere tutte le iniziative il Central Office of Information faaffidamento ad una rete molto complessa e articolata di media:
Stampa: 10 quotidiani nazionali, 2.000 quotidiani regionali e 2.500 riviste.
Televisione: 4 canali nazionali (2 commerciali) e 43 canali tra satellitari evia cavo tutti commerciali.
Radio: 9 emittenti nazionali di cui 4 commerciali e 135 stazioni locali tuttecommerciali.
Pubblicità all’aperto (cartellonistica): 107.000 siti.
Cinema: 2.000 locali.

Non solo horror

Il primo film su Frankenstein è del 1910, ma è solo nel 1930, dopo l’avvento del sonoro, che il personaggio riceve la sua consacrazione definitiva. Il film di James Whale, con Bela Lugosi come protagonista, è un horror d’azione dove i “sentimenti” del mostro non trovano posto. Da allora i remake si susseguono instancabilmente.

Il fatto è che Frankenstein non l’ha mica chiesto lui di nascere così. Lui è il risultato di un esperimento scientifico e, come capita spesso in quei casi, le valutazioni estetiche non vengono certo considerate prioritarie. Anche se poi questo è un trucco, sembra quasi un effetto secondario, un rimediabile inconveniente, mentre in realtà è una cosa essenziale. E la prova è che i tentativi di costruire l’uomo perfetto o la donna perfetta che rispondessero cioè a caratteristiche di armonia, proporzione e venustà, non hanno mai avuto un successo paragonabile alla storia che stiamo raccontando.
La storia che stiamo raccontando nasce in letteratura nel 1816, passa rapidamente al teatro e poi approda al cinema nel 1910 (Frankenstein con Charles Ogle, prodotto dalla Edison) per ricomparire dopo un lustro (Life Without Soul di Joseph W. Smiley) e dopo un altro ancora (Il mostro di Frankenstein di Eugenio Testa con Umberto Guarracino). Anche se bisogna aspettare l’arrivo del sonoro perché questa riceva la sua consacrazione ufficiale con il film di Whale. Le ragioni per cui questa storia è sopravvissuta agli anni e alle stagioni sono svariate.
Tra le tante considerate questa. Il dottor Frankenstein è un uomo di scienza, è l’uomo che vuole strappare il segreto essenziale alla natura, illuminista, laico, è lui a difendere la sua Creatura contro l’ignoranza terrorizzata della gente del luogo. Il barone Frankenstein è un pazzo, un aristocratico che si crede un superuomo, è l’uomo che vuole farsi Dio e sostituirsi a lui nel momento supremo della creazione della vita. Il mostro Frankenstein è un bruto, ha un corpo informe segnato da violente cicatrici, non conosce nulla della vita e, ad ogni nuova esperienza, reagisce con violenza tremenda. La creatura Frankestein è un corpo colpevolmente lanciato nel mondo senza paracadute, ha un animo di bambino, un fondo di tenerezza, una goffaggine essenziale che lo porta inconsapevolmente a sbagliare sempre i luoghi, i momenti e i comportamenti. Quattro personalità per due soli personaggi e per un unico nome (si chiamano tutti Frankenstein). Niente male come complessità per una banale storia d’orrore, per un testo letterario che comunque non viene annoverato tra i tesori dell’umanità. Una storia che resta in testa, che non smette di riaffacciarsi al cinema neanche adesso che è passato tanto tempo.

Hrmph! Roar!

La consacrazione dicevamo avviene nel 1931. Si parte con Robert Florey, immigrato francese, che comincia a scrivere una sceneggiatura per la Universal. L’attore che dovrà interpretare la Creatura si chiama Bela Lugosi, immigrato ungherese, il direttore della fotografia sarà Paul Ivano, immigrato russo, il make-up sarà a cura di Jack P. Pierce, immigrato greco, la produzione di Carl Laemmle, figlio d’un immigrato bavarese. Tutto questo non è un caso. Hollywood all’epoca pullulava di pezzi d’Europa schizzati via dal cuore nero del nazismo in progresso. Però ammetterete che si tratta di una bella coincidenza il fatto che proprio una rapsodia di nazionalità attaccate l’una all’altra venisse chiamata a raccolta attorno alla storia di un corpo rappezzato, composto da parti diverse, provenienti da cadaveri diversi.
Poi le cose vanno diversamente. Florey firma un contratto con la Universal nel quale gli viene assicurato che sarà lui a curare regia e sceneggiatura. Peccato che con incredibile naivété Florey non s’accorga che in nessuna parte del contratto viene specificato il titolo del film. L’altro problema è l’attore. Tenete conto che l’affermarsi del sonoro aveva prodotto una bella rivoluzione nel cinema. Dalla sera alla mattina il pubblico aveva scoperto che attori dallo sguardo appassionante e criminoso possedevano una voce chioccia e una dizione inaccettabile. Proprio nel 1930 Lon Chaney, il più grande di tutti, era riuscito a morire per un simbolico cancro alla gola. Gli attori che stavano emergendo in quel momento possedevano naturalmente una ragguardevole fotogenia, un portamento elegante, un volto espressivo e, ciò che più importava all’epoca, una bella voce. Ora era piuttosto difficile convincere uno di loro a recitare, sotto un trucco tanto pesante da rendere difficile la riconoscibilità, un ruolo in cui tutte le battute si riducevano a qualcosa come "Hrmph! Roar!".
Lugosi infatti non la prende bene e si lamenta di tutto, del ruolo, delle battute, del trucco e di Jack Pierce. Di tutto questo restano giusto un paio di rulli girati come prova. Anzi non restano neppure perché i rulli vanno perduti e di loro resta giusto il racconto. Florey intanto capisce d’essere stato un gonzo, Laemmle passa la regia a James Whale e questi sceglie come protagonista il semi-sconosciuto Boris Karloff, inglese come lui. E questo è ciò che è rimasto e che ancora oggi possiamo vedere. Il resto sono chiacchiere, anche se sono tante.
Una chiacchiera la riporta Lugosi che sostiene di avere personalmente segnalato alla produzione il nome di Karloff (circostanza smentita peraltro da tutti gli altri coinvolti). Del resto i rapporti Lugosi-Karloff sarebbero rimasti tesi per lungo tempo, al punto da far dire a Lugosi di aver creato lui il mostro Karloff, un mostro del tutto irriconoscente che gli si era rivoltato contro. In più, immaginate il rancore di Florey, quello che per primo aveva avuto l’idea, quello che aveva creato Frankenstein e che poi s’era visto soffiar via da Whale tutto il merito. E che dire di Jack Pierce, l’unico che poteva dire a buon diritto di aver creato con i suoi trucchi il mostro, quei trucchi che sarebbero poi stati ricopiati pedissequamente nei film successivi e su cui lui non avrebbe più preso una lira di diritti. Anche lui, anni più tardi, poteva ben lamentarsi di aver creato un mostro irriconoscente.
Non c’è nulla da fare. Non c’è nulla di più contagioso della storia di un tale che gioca a fare Dio. Dopo un po’ tutte le persone coinvolte cominciano a sentirsi nella stessa posizione, pronti a scacciare le proprie creature dall’Eden se queste non si mostrano docili e grate.

Hisss!!

Il primo Frankenstein incassa una barca di soldi, una marea di moniti moralistici e l’imperitura riconoscenza di tutti gli spettatori, anche futuri. Il secondo va più a fondo. La Universal capisce che con una storia del genere può vivere di rendita per anni (in America chiamano questa cosa una franchigia, per intenderci quella cosa che è capitata con Rocky, Rambo, Arma letale ecc…). Whale capisce che c’è ancora del materiale nel libro della Wollestonecraft che è possibile sfruttare. Karloff, che finalmente può pagare le rate della casa, capisce d’aver fatto la scelta giusta. Le sue battute di dialogo saranno pure dei banali suoni disarticolati, la lavorazione sarà pure estenuante (da quattro a sei ore ogni mattina per il trucco), ma intanto il suo nome è già una leggenda.
Far resuscitare Frankenstein, morto nell’incendio del mulino alla fine del primo episodio, era appena una formalità. Così come lo abbiamo creato una volta, pensavano gli Déi della Universal, possiamo crearlo di nuovo. Il problema vero a quel punto era dargli moglie. Ora, come potete capire, un conto è riuscire a convincere un attore a mascherarsi orribilmente e a bofonchiare soltanto "Hrmph! Roar!", un conto è trovare un’attrice disposta a mostrarsi all’occhio della camera con il volto disegnato dalle cicatrici, sapendo anche che la sua unica battuta di dialogo sarà "Hisss!!". Elsa Lanchester ci sta. Un po’ perché l’unica cicatrice che compare sul suo viso è appena sotto il mento e non si vede quasi mai. Un po’ perché in realtà quello non è il suo solo ruolo nel film (l’altro è quello di Mary Shelley che introduce la vicenda con un abito da mille e una notte confezionato a mano da diciassette sarte messicane). E un po’ perché non aveva niente da fare mentre suo marito Charles Laughton era impegnato in un altro film.
Il risultato è che la moglie di Frankenstein non ha nulla di fisicamente repellente (anzi ha una mèche bianca nei capelli, vagamente ispirata alla regina Nefertiti, che è ormai un’immagine classica del cinema). In ogni caso che gli Déi della Universal si preoccupassero di dare una compagna al mostro rivela comunque una qualche gentilezza d’animo. Ma la cosa più interessante di questo La moglie di Frankenstein (1935), l’episodio ancora da utilizzare che Whale ripesca dal libro di Mary Shelley è quello dell’incontro con l’eremita.
Già nel primo Frankenstein, una delle scene più controverse, quella della bambina gettata in acqua, era stata una spia importante. Frankenstein è sulla riva con una bambina che getta dei fiori nell’acqua. I fiori galleggiano. Per lui la bambina è come un fiore. La bambina però non galleggia. Come al solito lui si trova a dare le risposte sbagliate al momento sbagliato, ma nessuno potrà mai dubitare della sua purezza d’intenti, della sua gentilezza d’animo. Nel secondo Frankenstein tutti gli abitanti del paese sono alla caccia del mostro. Lui non sa neanche il perché, ma scappa. L’unico ad accoglierlo è un eremita che lo tratta in maniera umana, gli insegna un po’ a muoversi, gli insegna qualche parola (finalmente Karloff può pronunciare battute significative del tipo "buono", "cattivo", "amico"!). Per Frankenstein è una boccata d’aria fresca. Poi arrivano due cacciatori e la storia ricomincia uguale. Il fatto è che l’eremita è cieco e quindi non può vedere le fattezze del mostro. Ovvero vede meglio degli altri, senza farsi fuorviare dall’aspetto esteriore. E’ la stessa cosa che succede a Dolarhyde, il protagonista di "Drago rosso" di James Harris, le cui infermità morali sono decisamente superiori a quelle fisiche, quando incontra Reba McClane. Lei è l’unica a non discriminarlo, a non trattarlo come uno scherzo di natura proprio perché non può vedere la sua deformità esteriore (al cinema tutto questo è stato filmato da Michael Mann col titolo di Manhunter). E’ il caso in cui due mancanze si completano e invece di costituire un’impedimento alla comunicazione, ne sono anzi la causa.

Quel che resta del mostro

La moglie di Frankenstein esce nel 1935 e a quel punto tutta la mitologia frankesteiniana è legittimamente fondata. Da quel momento in poi assistiamo a variazioni sul tema, combinazioni diverse, ma sostanzialmente quel che c’era da dire è già lì. Da quel momento Frankenstein incontra Dracula, l’Uomo Lupo, si fa ridicolizzare da Gianni e Pinotto (e qui siamo ancora negli anni ’40, ancora in età classica, ancora alla Universal). Cambiano gli attori. Bela Lugosi in Frankenstein contro l’Uomo Lupo riesce a riprendersi il ruolo perduto dodici anni prima, poi il suo posto lo prende Charles Strange. Quindi arrivano gli inglesi della Hammer con Peter Cushing che fa il dottore e Christopher Lee che fa la creatura.
Ci sono state nel frattempo varie dispute sui diritti d’autore. Una tra la Universal e Balderston, l’autore dell’adattamento teatrale su cui Florey aveva basato la sua sceneggiatura. La cosa ècuriosa perché poi neppure il nome di Florey compare nei titoli di testa del primo Frankenstein (almeno nelle copie americane). Ma tutto questo conta poco. Frankenstein ormai è diventato un patrimonio di tutti, una figura riconoscibile (anzi indimenticabile). Nel ’58 rimedia anche una figlia (regia di Richard E. Cunha) e lo stesso anno si vendica (regia di Terence Fisher). Tre anni più tardi Benito Alazraki in Messico dirige Frankenstein el vampiro y Cia. Nel ’65 va in giro per lo spazio (Frankenstein Meets the Space Monster di Robert Gaffney) e l’anno dopo sbarca in Giappone per merito di Hinoshiro Honda (Frankenstein alla conquista della Terra). Quasi contemporaneamente l’uomo più fantasioso quantomeno nella scelta dei titoli, William Beaudine, gira Jesse James Meets Frankenstein’s Daughter. Nel 1967 è in Turchia per "Killing" contro Frankenstein di Nuri Akinci. Nel 1970 in Spagna per Jess Franco (Dracula contro Frankenstein, doppiato due anni dopo da La maldici¢n de Frankenstein), nel ’71 sua figlia Š in Messico con Santo contra la hija de Frankenstein. Nel ’74 esce Frankenstein junior di Mel Broooks che ripercorre con precisione ammirevole tutti i luoghi sacri della frankensteinologia riuscendo a produrre un film esilarante e intelligente. E’ Brooks, tra l’altro, il primo e l’unico a dare non solo una moglie a Frankenstein, ma pure una vita coniugale, cosa che poi lui (Peter Boyle) trova anche piuttosto deludente. Molto meglio ballare il tip tap sulla scena assieme a Gene Wilder.
Definitivamente oggi Frankenstein non è più di nessuno. E’ patrimonio di tutti come l’aria che respiriamo. Non passa lustro senza che qualcuno tenti di riportarlo ancora una volta in scena (ci ha provato recentemente Branagh con De Niro) pensando di trovare risvolti inediti, interpretazioni originali, ma lui resiste a ogni tentativo, refrattario, un po’ ottuso, con l’aria di chi non capisce o finge di non capire. Frankenstein rimane se stesso, come ogni storia millenaria che si racconta da sempre e che da sempre contiene qualcosa capace di spiegare la realtà. Cosa che capita alla piccola Anna nello Spirito dell’alveare di Victor Erice. Nel paesino di campagna in cui vive è arrivato il cinema ambulante. Nel più grande magazzino del paese si proietterà Frankenstein. Lei osserva ad occhi sbarrati la sequenza dell’incontro della bambina col mostro. Poi torna a casa, va in giro per i campi e in una casupola abbandonata incontra un fuggiasco, un disertore della guerra che infuria, un ricercato dalla Guardia Civil, un ribelle, un mostro. Poi l’uomo muore, ma intanto Anna crede d’aver capito qualcosa in più della realtà.

L’adorabile creatura

Perché parlare di Frankenstein? Cosa ha a che fare questo personaggio con l’emarginazione, con la diversità, con il lavoro educativo? Parecchio, dato che Frankenstein è diventato dal 1816 (anno della sua "creazione") ad oggi, attraverso le sue riduzioni cinematografiche, un mito moderno della sua diversità, quella rifiutata e perseguitata perché fa paura.
Ma la creatura a cui ci riferiamo è soprattutto quella inventata da Mary Shelley, un mostro sì, ma dotato di una notevole sensibilità e che soffre per i rifiuti continui a cui è sottoposto, per la mancanza di comprensione della sua vera natura.
Frankenstein soffre per una contraddizione che è comunque tra chi vive ai margini, tra chi vive una particolare diversità (fisica, psicologica, etnica, religiosa…), ma che, in definitiva, è comune a tutti e che si può enunciare con questa domanda: come ci sentiamo dentro, e come ci vedono gli altri dall’esterno?
Nel caso del nostro eroe la distanza tra le due percezioni è enorme, così come deve esserla per il nomade che chiede l’elemosina alla colonna di auto ferme di fronte al semaforo rosso o per un disabile sulla sua carrozzina che incrocia gli sguardi della gente.
Nelle seguenti pagine troverete soprattutto un discorso sul Frankenstein cinematografico, quello reso più semplice, semplicemente mostro, spettacolarizzato al punto giusto da renderlo lontano da noi, non confondibile con la normalità, insomma un mostro in realtà più rassicurante di quello descritto dal libro.
L’operazione compiuta dal cinema ricorda quella compiuta dai mass media quando parlano della diversità. La ricerca dell’effetto, la mancanza di approfondimento, la riproposizione dei pregiudizi, di ciò che la gente già pensa, sono un modo per allontanare dal lettore o dall’ascoltatore qualcosa che potrebbe infastidire, qualcosa di irrisolto, dando una visione del reale semplicemente non vera.

Lingua nomade

Lavorare come educatore con gli zingari vuol dire imparare a conoscere un modo diverso di pensare che si basa sulla parola orale e non su quella scritta. In questo caso la comunicazione deve partire da basi diverse ed è compito dell’operatore saper “tradurre”, mediare il loro linguaggio nel suo e viceversa.

Svolgere attività professionale di mediatore culturale tra istituzioniterritoriali e comunità di Rom o Sinti, significa soprattutto costruirequotidianamente relazioni tra due sistemi culturali diversi. L’interazione trazingari e non zingari presenta molti ostacoli. Uno dei problemi è ladifficoltà di comprensione, anche quando lo zingaro sia italiano o, comunque,parli bene la nostra lingua. Ciò fa sì che spesso ci si trovi nella necessitàdi "tradurre" il linguaggio e le modalità espressive dell’una edell’altra parte. La capacità di effettuare simili "traduzioni" ènata empiricamente e non analiticamente, dalla conoscenza – maturata nel tempo -di caratteristiche socio-culturali, dell’uso del linguaggio e dellastrutturazione del pensiero di alcune comunità zingare presenti a Bologna.Questo tipo di "traduzione" si basa, quindi, sull’abilità di capirel’esistenza di due diverse strutture di pensiero e linguaggio, piuttosto che sustudi o formazioni specifiche che peraltro, in questo settore in particolare,non esistono.

Un sistema di pensiero basato sull’oralità

Alcune difficoltà di comunicazione tra zingari e non sono da attribuire inbuona misura alle differenze tra un sistema di pensiero di tipo orale, quellozingaro, ed uno basato sulla scrittura, il nostro.
E’ difficile, per chi proviene da una cultura profondamente segnata dalla logicadella scrittura, l’approccio a sistemi di pensiero fondati sull’oralità: laciviltà occidentale tende a dare per scontato che il proprio sia l’unico modopossibile di pensare ed usare il linguaggio.
Il testo Oralità e scrittura di Walter Ong (Walter J. Ong, Oralità escrittura. Le tecnologie della parola, Ed. Il Mulino, Bologna, 1986) introducealla comprensione ed all’analisi delle specificità dei modelli comunicativi edei sistemi di pensiero delle culture di tradizione orale. Dato lo strettolegame tra processi cognitivi e strutturazione del linguaggio, conoscere lecaratteristiche e le differenze tra i due sistemi in oggetto può facilitare lareciproca comprensione.
Mentre il nostro è un tipo di pensiero analitico, i sistemi culturali deglizingari tendono ad esprimere un pensiero di tipo esperienziale e situazionale.La parola non è né una categoria astratta, né un oggetto autonomo (scritto),ma è legata all’evento, all’azione, è, insomma, fortemente contestualizzata.
La parola è quindi strettamente legata al contesto in cui si sviluppa lacomunicazione, e non può essere riesaminata, analizzata, scomposta come ildiscorso scritto. L’analisi, la deduzione logica, la scomposizione in categoriedipendono dalla scrittura.
Il linguaggio orale si basa sull’aggregazione di immagini, la ripetizione, leformule, gli epiteti, il ritmo, le frasi parallele e opposte. I diversi livellidi comunicazione vengono messi tutti sullo stesso piano, in quanto lasubordinazione analitica è tipica dell’espressione scritta. Si potrebbe direche la grammatica supplisce alla mancanza del contesto e della presenza di uno opiù ascoltatori e di eventuali interlocutori, che orientano la comunicazione,fornendo un contesto puramente testuale.
Il discorso orale favorisce l’esteriorizzazione e la comunitarietà, informandodi sé la vita sociale, a fronte dell’individualismo e dell’introspezione propridell’elaborazione scritta.
Anche il concetto di tempo, legato agli eventi e alla memoria, si sviluppa inregime di oralità in maniera assai diversa da quanto non accada presso leculture di tradizione scritta: il tempo nel momento in cui lo traduciamo insimboli grafici, cioè, lo trattiamo spazialmente, appare diviso in unità,mentre la parola, il suono è un evento che non si ferma o divide.

Parlano gli zingari

A titolo esemplificativo, riportiamo di seguito tre frammenti di discorsoraccolti da una mediatrice culturale durante alcune conversazione con donne Rome Sinte.
Il primo dei tre frammenti di discorso è stato ascoltato nel corso di uncolloquio sui riti nuziali e sul ruolo di alcuni strumenti musicali all’internodei riti in genere. Il colloquio si è svolto nell’abitazione di Suzana unaRomni slava. Alla domanda: "Il tamburello presso i Rom Khorakhané losuonano solo le donne o anche gli uomini?" ha risposto: "Lo suonanoanche gli uomini, [ride] se suonano il tamburello vuol dire che sono mezziuomini e mezze donne. E gli uomini, quando suonano il tamburello, sono piùbravi delle donne, molto bravi. E mio fratello anche suona il tamburello, ed èun uomo, non è in quel modo. Ha imparato da piccolo, gli piaceva, sempre loprendeva e suonava, e tanti sanno suonare, e non sono a metà".
In questo discorso, l’apparente contraddizione di frasi di opposto significato el’uso evidente della paratassi sono tipici esempi di modalità di costruzionedel pensiero proprie dell’oralità. Il sistema di pensiero delle culture oralinon è di tipo analitico, ma tende piuttosto a concentrare su un unico piano dicomunicazione elementi di tipo teorico ed esperienziali. Non c’è contraddizionetra il fatto che il tamburello lo suonino "solo le donne" ed il fattoche "lo suonano anche gli uomini", né tra il fatto che gli uomini chelo suonano siano "mezzi uomini e mezzi donne" e che il fratello diSuzana non sia "in quel modo". Il primo dei due termini diopposizione, in ambedue i casi, appartiene ai contesti rituali di uso dellostrumento e al suo ruolo simbolico (il tamburello, in Medio Oriente e nell’areadel Mediterraneo, è strumento legato alle divinità femminili, ai riti estaticifemminili, alle inversioni sessuali praticate in occasioni rituali); il secondotermine, invece, appartiene alla categoria dell’esperienza diretta. I duetermini, dunque, non sono in contraddizione, ma offrono un quadro completo deidiversi piani di conoscenza, parattatticamente presentati senza distinzione dilivello.
Lo stesso tipo di comunicazione si ritrova in un altro discorso fatto da Suzanain altra occasione: "Io non sono Romni, i miei figli non parlano romanes.Jufus è mio fratello".
Molto tempo dopo, sentendola parlare romanes, le venne detto: "Susanna,dopo tanti anni che ci conosciamo, finalmente ti sento parlare romanes. Perchémi hai sempre detto di non essere una Romni?". Risposta: "Sì io nonsono Romni, ti ho detto che Xevat è mio fratello".
Il dialogo offre un esempio di comunicazione tra due modi di pensare diversi traloro: uno – quello dell’interlocutrice italiana – di tipo analitico, l’altro -quello di Suzana – fondato invece sull’esposizione dei dati dell’esperienzaconcreta. Il discorso di Suzana, tradotto in termini analitici e"letterati", potrebbe diventare: "Presso la nostra cultura ledonne acquisiscono l’appartenenza al gruppo etnico del marito. Sia io che miofratello siamo nati Rom, ma lui, che è un uomo, ha conservato la propriaappartenenza all’etnia d’origine, mentre io, che sono una donna e ho sposato unalbanese, sono diventata albanese". Questo è il senso delle affermazionidi Suzana, le quali però non vengono offerte in termini di riflessioneanalitica e di categorizzazione dei rapporti di parentela e dell’appartenenza aidiversi gruppi etnici, Suzana, insomma, non spiega come funziona il sistema,astratto da una sua possibile applicazione concreta, ma mostra direttamente ilcaso specifico.
Da questo esempio emerge un’altra caratteristica delle culture di tradizioneorale, che è quella dell’apprendimento attraverso l’osservazione el’imitazione, piuttosto che attraverso la spiegazione astratta. Una trasmissionedel sapere che, come si è detto sopra, non spiega come funziona il sistema, mamostra il caso specifico, porta alla capacità di applicare elementi modulari diconoscenza, appresi per imitazione, alla realizzazione di nuovi oggetti, sitratti di prodotti materiali, di regole comportamentali o di discorsi. Come siapprende a costruire una pentola di rame avendo osservato e ripetuto i gesti dichi già ne costruisce; come si apprende quali siano i comportamenti sociali diuna donna nel ruolo di figlia, madre, moglie, ecc.; così, si impara a costruireuna narrazione, o anche a parlare una lingua.
E’ interessante, a questo proposito, descrivere il modo in cui i Rom tentano diinsegnare il romanes ai non zingari: non spiegando casi o declinazioni, eneanche insegnando i singoli vocaboli, ma offrendo l’esposizione di interefrasi, delle quali viene data solo la traduzione, peraltro non sempre letterale,senza scomporle in singole parole: così si impara ad usarle, prima che acapirle.

La nostra astrazione, la loro concretezza

Prendiamo ora un esempio di trasformazione di un discorso tipico dellacultura scritta, in una forma comprensibile a persone di cultura orale. La fraserivolta ad una giovane Sinta da un operatore sociale per spiegare cosa sono leborse lavoro: "Non sono un vero e proprio lavoro, ma percorsi di formazionefinalizzat ad apprendere un mestiere e a favorire un futuro inserimento nelmondo del lavoro" è risultata, naturalmente, incomprensibile e priva diinteresse: oltre alla terminologia astrusa/astratta ("percorsi diformazione finalizzati", "inserimento nel mondo del lavoro"), iconcetti stessi espressi in questa frase esigono un approccio di tipo analitico:si fa la borsa lavoro per apprendere un mestiere, la qual cosa consente dicercare un lavoro specializzato e dunque crea la possibilità concreta di essereassunti da un’azienda.
La traduzione effettuata da una mediatrice culturale dello stesso concetto inquesti termini: "Non è vero lavoro. Le ditte ti prendono per insegnarti unmestiere. Non ti pagano loro, ti paga il Comune. Così puoi dimostrare che saigià lavorare ed è più facile trovare un vero lavoro", lo ha reso piùcomprensibile e interessante per la giovane Sinta, in ragione della maggioreconcretezza dell’esposizione, che da un piano astratto e generale si spostaverso una maggiore concretezza, e in ragione della paratatticità degli elementiesposti.
Lo spostamento del piano del discorso nella versione tradotta, inoltre,focalizza l’attenzione sugli esiti concreti dell’apprendimento, piuttosto chesull’apprendimento stesso. Secondo Walter Ong la civiltà della scritturarichiede "una parziale demolizione del pensiero situazionale, ha bisogno diisolare l’io, intorno al quale ruota l’intero mondo delle esperienze vissutedall’individuo, e di spostare il centro di ogni situazione quel tanto che bastaper permettere di porvi l’io per esaminarlo e descriverlo". La mediazionetra pensiero fondato sulla scrittura e pensiero orale impone l’inversione diquesto spostamento: "la valutazione di sé si trasforma in valutazione delgruppo ("noi") e viene poi trattata in rapporto alle reazioni deglialtri", e, soprattutto, "il giudizio su un individuo vienedall’esterno, non dall’interno". L’individuo non fa le cose finalizzate ase stesse, ma proiettate verso l’esterno. Così la giovane Sinta può avereinteresse per le borse lavoro non per saper fare un mestiere, ma perché le puòessere utile nel rapporto con la comunità, perché il fatto che gli altrisappiano che lei sa lavorare può giovare a farla assumere. La formazionepersonale, l’attenzione per le proprie capacità e per il loro accrescimentoesistono, al pari del giudizio di sé, solo se riflessi dagli altri, seproiettati nella comunità e da essa restituiti. Il nome stesso del popolo deiRom del resto vuol dire semplicemente "gente", "umanità":è in realtà una non-definizione, che nelle sue articolazioni, si modella sulladefinizione dell’altro da sé, in opposizione o per concordanza con le propriecaratteristiche: Khorakhan‚, "alla maniera del Corano", è il nomedei Rom di religione musulmana; Dassikhan‚, "alla maniera deiSerbi", Š il nome delle stirpi di religione cristiano-ortodossa.

(in collaborazione con Nico Staiti, della cooperativa Andokampo)

Perché lo fai?

Si ha sempre l’idea che un operatore sociale faccia un lavoro che è"impagabile", che le ricompense vengano da "un’altra parte",un altrove non bene identificato, personale, per ciascuno diverso. La fede,"il paradiso", la stima di sé, lavorare per il bene comune, per lasocietà, per gli "emarginati"…
Gli operatori lavorano, ma per chi e per quali ricompense lo fanno? Molte sonole rivendicazioni degli educatori. Una delle più pressanti è certo quella delsalario che, specie per chi lavora nelle cooperative sociali, è assai basso. Maappiattire le rivendicazioni alla retribuzione è sicuramente un errore:chiudersi la bocca con uno stipendio più lauto non è certo l’aspirazione dellamaggioranza degli operatori. Il nostro è un lavoro, una professione.
Di fronte alle condizioni difficili in cui si opera a volte la scelta è quelladi cambiare lavoro, altre di lanciarsi in discorsi che si concludono con frasigià sentite o con un generico "ci vorrebbe". Pochi protestanoapertamente, scendono in piazza, fanno sentire la loro voce; gli scioperiindetti hanno riscosso scarse adesioni (con alcune lodevoli eccezioni) ed ilpiù delle volte più che proteste erano momenti di festa, anche se orientataverso la provocazione. Tutto molto lontano dalla rappresentazione"classica" della protesta per le condizioni di lavoro.
Evidentemente lo scontro o richiamare le attenzioni sulle proprie condizioni dilavoro attraverso i cortei e gli scioperi vengono ritenuti strumenti poco utili,poco adeguati. Oppure le condizioni di lavoro, precarie, difficili, vengonoconsiderate come inevitabili, dati di fatto legati al ruolo marginale che gli"utenti" hanno nella società.
Allora perché farlo, per chi? Si torna al punto di partenza.
Viene da pensare che nel lavoro di operatore sociale ci siano elementi che lorendono un lavoro "speciale" o comunque diverso da molti altri lavoriche vedono, ad esempio, la lotta sociale come momento costruttivo, di confronto.
Evidentemente nell’essere operatori le motivazioni giocano un ruolo nonsecondario: l’assunzione di un ruolo comporta delle responsabilità che fannoriferimento anche ad ambiti personali, della propria vita. Per questo èsignificativo proporre un’esperienza che è comune e particolare al tempostesso. Si tratta di una intervista ad un educatore che lavora all’interno diuna cooperativa sociale. Quest’ultima si è interrogata su quali requisitidovesse avere un buon educatore, affinché potesse lavorare con continuità inmodo adeguato. Una riflessione etica ed anche "economica"; o forse èmeglio definirla "ecologica".

Intervista a Giulio Vaccari (educatore della cooperativa "L’Ulivo")

All’interno della vostra cooperativa attraverso quali criteri scegliete glioperatori? Parole come "motivazione" e "professionalità"come vengono coniugate in un educatore?
La prima discussione all’interno della cooperativa è stata di tipo quantitativoe qualitativo: quante e quali risorse si possono utilizzare per la ricerca dieducatori? Era meglio privilegiare le persone con una forte motivazione, maanche con un bisogno di formazione, per lavorare nei servizi oppure erano daricercare figure che presentassero già una determinata esperienza,professionisti, senza entrare nel merito della motivazione?
Questo ci ha portato ad interrogarci sul nostro lavoro, sul nostro ruolo: se illavoro che noi facciamo è solo una professione in senso stretto e quindi se inrealtà la funzione educativa che noi interpretiamo si riduce ad una mansione,in un determinato tempo, in un determinato luogo. Oppure se l’aspettofondamentale è essere "motivati" ad assumere un certo ruolo in questasocietà.
Chi sostiene la tesi del "professionismo ad oltranza", chiamiamolocosì, è convinto della necessità di un distacco e della necessità di averedeterminati strumenti, utili anche per preservare gli operatori da un certo tipodi stress, dal "burn-out". E’ vero che maggiori capacitàprofessionali garantiscono una maggiore "resistenza" all’interno deiservizi ma non è detto che sia qualitativamente adeguata: la relazioneeducativa comporta dei rischi (che toccano anche altre professioni del sociale),come ad esempio perdere il senso del lavoro che si sta facendo, finendoall’interno di un "tecnicismo burocratico". D’altro canto spingendotroppo sulla motivazione si corre il rischio di dare tutto per scontato, cadendoin un certo tipo di spontaneismo che finisce con il dare per scontati glistrumenti.
Sono un sostenitore della motivazione, e quindi un po’ di parte. In cooperativanon è stata fatta una scelta chiara e precisa in un senso piuttosto che in unaltro, si preferisce però di solito correre il rischio sul versantemotivazionale. In questo modo si vede anche la differenza culturale dellepersone, una differenza che sta proprio nel concepire la base della professione,che nasce, secondo me, dalle diverse impostazioni della persona umana.

Quindi non è solo una questione di un "saper fare" o di averedeterminati strumenti, perché nel contesto ha un ruolo importante la personastessa che entra all’interno della relazione con la sua visione della vita, lasua storia e la sua esistenza.
La relazione educativa è soprattutto intenzione, per questo spingo soprattuttoper l’importanza della motivazione nella scelta degli educatori: laprofessionalità, gli strumenti e la definizione di un ruolo, sono elementiimportanti, però in realtà il contenuto della relazione derivadall’intenzionalità del soggetto che usa gli elementi a sua disposizione comemeglio crede.

Molti operatori sociali si lamentano delle proprie condizioni di lavoro.Però, rispetto al malessere che viene generalmente espresso, sono poche leoccasioni di sciopero o comunque di espressione pubblica di disagio. Perché?
L’errore che si fa adesso è quello di analizzare il nostro lavoro con lecategorie con cui sono state portate avanti altre battaglie per altri tipi dilavoro nel passato. Vedo che anche nella mia cooperativa si fa fatica a spiegareagli operatori che questo lavoro non lo si rende "nobile" attraversole stesse rivendicazioni che vengono fatte da altre categorie di lavoratori. Nelsettore industriale è facile definire il compito, la mansione, il tempo e diconseguenza il valore sociale, il salario, ecc…
Per questo tipo di lavoro secondo me la rivendicazione va fatta su altre cose.Sono convinto che "l’economia del dono" sia una parte importante dellanostra professionalità, perché effettivamente la relazione educativa non ètutta monetizzabile: una parte va sicuramente retribuita, altrimenti siperderebbero le caratteristiche del lavoro, ma il percepimento di un salarioadeguato, che è uno strumento tipico delle rivendicazioni salariali nel mondoindustriale a cui vengono legate istanze di "riconoscimento sociale"della professione, non è efficace perché non garantisce il riconoscimento dellavoro in sé, ma garantisce solo una piccola parte dell’effettiva portata deiproblemi.

Può spiegare meglio la definizione di "economia del dono"?
E’ sempre legata al discorso della motivazione. Quando uno si avvicina a questotipo di lavoro (ci si può avvicinare anche per caso, ma poi si decide dirimanerci) da qualsiasi tipo di approccio culturale egli provenga, secondo mealla fine fa questo tipo di lavoro perché pensa di poter fare qualcosa per glialtri, e vi riesce solo se entra in un legame in empatia con le persone con cuilavora, una relazione intima con "l’altro".

Quindi per l’operatore il ritorno non è solo nei termini economici dellaretribuzione, ma anche nel suo bisogno di essere utile per qualcuno che nellavoro trova un appagamento.
E’ un appagamento di tipo umano, legato alla propria visione della vita, allapropria specificità e questo fa parte della retribuzione, ma all’interno deicanoni usuali non è compreso. E’ un ritorno in termini di "economia deldono": non è quantificabile né identificabile con lo stipendio.

Se Superman è il simbolo del volontario, quale ritiene sia il personaggiocon cui si identificano gli educatori?
L’Uomo di gomma dei Fantastici Quattro: innanzitutto perché è uno scienziato,quindi sottolinea l’importanza degli strumenti, del metodo scientifico comestrumento per fare il nostro lavoro. Poi è un personaggio che non lavora dasolo, collabora con altri colleghi, un’equipe, appunto i Fantastici Quattro.C’è il discorso dell’elasticità, del sapersi adattare alle varie situazioni ebisogni che incontra, senza trascurare la possibilità che ha di cambiare formae identità pur restando sempre se stesso, a seconda dei diversi contesti. E’una capacità importante questa per un operatore.

Le Usl sono state trasformate in "aziende" gestite da manager.All’interno di questo nuovo modo di intendere i servizi come si modifica lafunzione dell’operatore. E’ un operaio, un impiegato, un artigiano o cosa?
In questo caso il discorso è un po’ complesso, nel senso che se l’operatorerimane solo, non vedo un grande avvenire per lui… Nel Welfare State deimanager una figura come la nostra ha poco futuro, poco peso sociale. Vedo meglioun ruolo come "associato", un operatore "imprenditore" di sestesso, insieme ad altri, in una forma che potrebbe essere quella cooperativa.
In questo modo può assumere un ruolo propositivo, di indirizzo verso lo Statovisto che questo ha perso la capacità di pensare ed elaborare delle risposteefficaci. Le persone che lavorano alla base hanno la responsabilità di farlo,visto anche che non ci sarà mai un riconoscimento di questo ruolo che partadall’esterno. Comunque va sottolineato che l’utilizzo della forma cooperativasottintende una ripresa dei concetti alla base della cooperazione: molti oralavorano in apparati che della cooperazione non hanno più nulla, mentre inveceoccorrono forme di lavoro collaborativo.

Considerazioni finali

Se l’intenzionalità caratterizza l’agire degli operatori ciò deve esserevero sia quando questi sono a contatto con gli "utenti" sia quando ilcontatto è con i committenti del nostro lavoro. Ma chi sono costoro? Ireferenti delle cooperative o associazioni, i responsabili AUsl o delleistituzioni per cui lavoriamo, i genitori, gli utenti stessi. Ma a questi èbene che se ne aggiungano altri, in primo luogo noi stessi. Non possiamoprestare lavoro in un servizio che non vede anche noi stessi come committentidel nostro lavoro, altrimenti diventiamo meri esecutori di mansioni che pocohanno a che vedere con l’agire degli operatori che è caratterizzatodall’intenzionalità.
Con questo non ci si riferisce alle fatiche che, più o meno grandi, sononaturali in qualunque lavoro, ma al versante più istituzionale del nostrolavoro, che spesso viene sottovalutato perché ritenuto impermeabile alleesigenze del servizio ("non lo sa nessuno cosa si prova"). In realtàil versante istituzionale è fondamentale nel determinare le condizioni dilavoro ed anche questo versante deve essere coinvolto e responsabilizzatorispetto alle conseguenze delle proprie scelte.
Un buon livello di soddisfazione del "committente interno" ovvero noistessi, è il segnale che agiamo con intenzionalità, da operatori. Soddisfareanche i nostri bisogni all’interno dell’ambito lavorativo non è egoismo, mapiuttosto fa parte dell’agire in modo professionale e responsabile,"ecologico". Le recriminazioni, che si levano da più parti, fannopensare che vi sia un numero molto grande di operatori non soddisfatti che simuovono solo per dare luogo ad una mansione anziché una professione: che siagiunta l’ora di farsi ascoltare? Se non ora, quando?

Per saperne di più

* P. Bertolini, M. Dallari (a cura di), "Pedagogia al limite", LaNuova Italia, Firenze, 1988
* G. Bertolini (a cura di), "Diventare medici", Guerini, Milano, 1994
* A. Calvani, "Iperscuola", Muzzio, Padova, 1994
* M. Groppo, "Professione educatore", Vita e Pensiero, Milano, 1994
* AIS/Ceccatelli Gurrieri (a cura di), "Qualificare per la formazione. Ilruolo della sociologia", Vita e Pensiero, Milano, 1995 (in particolareparte II: Morgagni (insegnanti), Malizia (operatore formazione professionale),Mongelli (educatore extrascolastico))
* ISFOL, "I formatori: caratteristiche, motivazioni, prospettive",Angeli, Milano, 1992
* D. Demetrio, "Educatori di professione", La Nuova Italia, Firenze,1990
* A. Canevaro (a cura di), "La formazione dell’educatore pedagogico",La Nuova Italia Scientifica, Roma, 1991
* A. Castellucci, G. Pierantonio, S. Simoni, "Formazione e lavorodell’educatore professionale: un percorso tra rigore e immaginazione",(E.R.) Maggioli, Rimini, 1992
* A. Mangelli, "Formazione e politica sociale. Indicazioni per un profiloprofessionale dell’educatore", Cacucci, Bari, 1994
* P. Bertolini, "L’esistere pedagogico", La Nuova Italia, Firenze,1988

“E’ il contesto che ci manca?”

Girare un cortometraggio con ragazzi down può essere un’esperienza capace di ridiscutere preconcetti ed instaurare relazioni, profonde e al tempo stesso “normali”. “La cosa più divertente è stato lo spirito che ha animato i nostri incontri: stare insieme divertendosi, nel vedere come ognuno metteva qualcosa di indispensabile”. Intervista a Teo Vignoli e Irene Faranda.Come è nata la vostra idea di girare il film “…”, e come si è sviluppata?

Tutto è nato nel settembre ’98. Davide, un ragazzo down con il quale esco da tempo, continuava a dirmi che io e lui avremmo dovuto fare un film insieme : lui sarebbe stato il regista e io il produttore, si trattava semplicemente di trovare gli attori, e il gioco era fatto. L’idea sembrava al di fuori della nostra portata, però ci abbiamo creduto lo stesso e si è formato un gruppo molto eterogeneo, composto da una quindicina di volontari e 7 ragazzi down. Le età, infatti, variano da un minimo di 14 anni a un massimo di 33, e anche le estrazioni sociali e culturali sono diversissime: c’è il comunista figlio di proletari e il cattolico praticante, l’intellettuale figlia di professori e la praticona di famiglia contadina. Insomma c’è un po’ di tutto. Gli incontri per “girare” il film sono stati quindicinali e poi c’è stato tutto il lavoro di preparazione della sceneggiatura (e della scenografia) a piccoli gruppi. Gli strumenti utilizzati sono stati poco più che amatoriali, recuperati da amici e conoscenti (oltre a un contributo importante per il montaggio da parte di un videoamatore). La risorsa principale comunque è stata il tempo e la voglia.

Ma perché un progetto cosí impegnativo e particolare?

Sono molti i fattori che ci hanno spinto a dar vita a questo progetto. Anzitutto la necessità di ricavarci uno spazio di aggregazione plasmato a misura delle individualità che compongono il gruppo. Ma anche l’insoddisfazione nata da divertimenti “organizzati” privi di significato e di spessore, che riducono spesso lo stare insieme con gli amici a una sorta di sfogo fine a se stesso o che inducono più alla disgregazione, all’individualismo, piuttosto che al ritrovamento di un’identità di gruppo nella quale maturare una propria crescita. E poi, la voglia di stare insieme valorizzando le differenze, sfruttandole tutte in un progetto vasto e sfaccettato come quello di realizzare un film. La differenza tra normodotati e ragazzi down è stata una delle differenze emerse nel corso di questa esperienza, che è stata trattata con cautela e considerata in modo particolare, ma che spesso, durante le domeniche passate insieme, si fondeva nel melting pot di differenze che ci caratterizza.

Come avete vissuto la collaborazione con i ragazzi down? qualcuno vi ha aiutato nell’entrare in rapporto con loro?

Non è stato tutto facile e, anche se i 7 ragazzi down hanno tutti caratteristiche personali adeguate al contesto film, a volte abbiamo avuto delle difficoltà a rapportarci con loro, problemi di comunicazione o dubbi sul come comportarsi in situazioni particolari.
La spinta e il collante che ha reso possibile quest’esperienza, è stato lo spirito che ha animato i nostri incontri. Stare insieme divertendosi, divertendosi nel vedere come ognuno metteva qualcosa di diverso e di indispensabile nella realizzazione del film.

Nel recitare in questo film, quali sensazioni avete provato? non avete mai pensato che vi eravate “imbarcati” in un’avventura troppo grande per voi?

Ognuno di noi, in effetti, possiede la propria dose di insicurezza. Questo va ad influenzare parecchi comportamenti ed in particolare i rapporti che abbiamo con le altre persone. Troviamo sicurezza nell’ottenere dei risultati, coinvolgendo noi stessi al 100% in qualcosa da cui ricaviamo una certa sensazione di potenza. Ma nell’aggregazione di gruppi giovanili, si avverte spesso la tendenza all’attrazione tra persone che riconoscono negli altri le proprie stesse debolezze, e in questo modo si ottiene un alibi perfetto dato dalla reciproca omertà per l’incapacità di affrontare la propria insicurezza. Credo che la causa di tutto ciò sia da ricercare nella superficialità. Nel gruppo che si è creato ho sentito invece percorrere una via alternativa. Nella dinamica del film, molto spesso, il personaggio e la persona si fondevano in un imprecisato ruolo di recita di se stesso, che esorcizzava la paura delle proprie debolezze favorendo la totale espressione della persona. La sicurezza la si trovava nel rispetto reciproco, nella soddisfazione di riuscire ad ottenere qualcosa di grande come il cortometraggio, attraverso e grazie alla moltitudine di differenze. Difficile, infatti, ottenere sicurezza dalla totale comprensione: mi sento molto diversa da un ragazzo down (anche se è sbagliato generalizzare) e in molti casi lui si sente molto diverso da me; ma è possibile ottenere sicurezza dalla sensazione che la differenza diventi virtù, le debolezze ilarità, nella realizzazione di un progetto comune.

Quanto ha contato per voi il fatto di essere “gruppo” nel girare?

L’identità del gruppo è stata molto importante. E anche se certe volte mi facevo prendere troppo dalla foga di riuscire a filmare tutte le scene che ci eravamo proposti di fare quella giornata, o dalla riuscita tecnica del film, arrivati a fine giornata ero felice solo se tutto il gruppo era felice, se ognuno aveva trovato il suo spazio per esprimersi, se tutti erano orgogliosi del proprio contributo. Abbiamo cercato di integrarci a vicenda, e spesso l’attenzione verso i ragazzi down e l’aiuto che si cercava di dare loro non veniva dalla spinta perbenista del tipo: “loro sono down e quindi è giusto aiutarli”, ma dal fatto che io stesso ero felice solo se tutto il gruppo era felice, perché siamo il gruppo del film, e se manca qualcuno è un grosso problema e non si riesce a girare. Siamo gli “Alieni Spaziali”, come ci siamo chiamati all’inizio di questa avventura sotto proposta di Claudio, uno dei ragazzi down; e il nome rende l’idea, perché è stata una cosa veramente strana, in quanto ci si doveva confrontare con tante persone, quindi con tanti modi di agire diversi, e anche enorme, spaziale, perché il progetto per noi è stato gigantesco.

Come avete impostato le relazioni dentro il gruppo, in particolare con i ragazzi down?

Il film è stato il filo conduttore attorno al quale si sono sviluppati i nostri rapporti, costruiti con momenti di intenso scambio nel quale il “volontario” e il ragazzo down si mettevano in gioco. Per non ricadere nel paternalismo, bisogna fare insieme qualcosa che sia stimolante per tutti (nessuno di noi è un attore, e quindi ognuno doveva cercare di dare il massimo); in questo modo ognuno è protagonista del tempo che passa con il ragazzo down. Quello che abbiamo sempre cercato di fare è stato realizzare qualcosa con il ragazzo down, e mai solo per il ragazzo down, perché se non ci si diverte in prima persona facendo una cosa, allora non ha più senso farla: ci si porrebbe su un piano di totale superiorità e questo non mi piace. Perché noi non crediamo a storie del tipo: “i ragazzi down non raggiungono livelli di ragionamento elevato però sono più sensibili”: sono cavolate! O forse non lo sono, ma comunque non mi importa, perché ciò che è importante è che io e lui ci stiamo divertendo insieme, ci siamo fatti una risata perché non riusciamo ad azzeccare una battuta che sia una, o perché qualcuno ha fatto un’espressione assurda che ci fermiamo a riguardare sul video 100 volte, o perché è mezz’ora che due si stanno baciando e non riusciamo a fermarli per girare! Questi sono i momenti che ci accomunano. Più che uno scambio è un fiorire insieme, e su questo abbiamo costruito il film.
Mi sono trovato a disagio quando sono stato costretto a coprire la parte dell’educatore: quando ad esempio dovevo intervenire perché Paolo allungava un po’ troppo le mani, o quando dovevo arrabbiarmi con Davide che voleva il film fatto solo a modo suo… molto a mio agio invece mi sono trovato nella parte del complice che tentava di organizzare “l’intorto” con Antonella. E, comunque, queste sensazioni sono più o meno le stesse che provo nei confronti di tutti i miei amici, con i quali ho una grossa complicità e con i quali invece mi pesa arrabbiarmi
Non siamo stati quindi educatori perché non ne siamo capaci, ma allo stesso tempo non si può dire che siamo stati semplicemente amici: sono stato semplicemente io, lì, e in quel momento, con un gruppo nel quale ci sono persone con un livello di autonomia minore al mio. Di conseguenza, è automatico che se vogliamo fare una cosa insieme (perché ci piace) io darò una mano in più, rispetto a quella che magari riceverò.

Che cosa vi è rimasto di questa esperienza? in particolare, le vostre idee sui ragazzi down sono cambiate?

Mi ha colpito vedere come i ragazzi fossero ansiosi di incontrarci, percepirne l’entusiasmo insieme al continuo sentirsi parte di qualcosa di grande e di importante. L’euforia di Chiara che si affretta a cacciar via la madre, le espressioni di Paolo che esplodono inaspettate, le barzellette sussurrate di Andrea e la continua scoperta di un mondo tutto suo, che affiora solo a piccoli tratti. Sono immagini che non cancellerò dalla memoria, ma che non ho ancora metabolizzato, per cui non so tirare le somme e nemmeno generalizzare. Ciò che ho imparato, forse, è che i ragazzi down non esistono, che ognuno di quelli che ho incontrato è un mondo a sé, un universo da svelare a poco a poco, a volte con costanza e fatica. Nessuno di loro mi ha mai buttato le braccia al collo, a dire il vero Antonella lo ha fatto un paio di volte, ma lo stereotipo del down sorridente, socievole e affettuoso a ogni costo non so proprio chi l’abbia inventato. L’incontro è spesso divenuto scontro, ma la novità stava nella capacità di ricominciare ogni giorno da capo, voltare pagina senza rimpianti o brutti ricordi. Claudio e Anto fanno pace, si amano e si respingono. Davide si sente escluso se non è al centro dell’attenzione e mette il broncio per un’ intera serata, ma poi basta, si torna a ridere, a sentirsi protagonisti di una storia ancora da scrivere.

Per avere altre informazioni o per ricevere la videocassetta rivolgersi a:
Ceps (Centro Emiliano Problemi Sociali per la Trisomia 21), via Colombarola 46, 40128 Bologna, tel. 051/32.20.41, fax 051/32.54.68
E-mail: assceps@iperbole.bologna.it

La telematica come strumento di liberazione?

Internet non è solo il Web: applicazioni come e-mail, mailing lists, newsgroups e chat possono garantire una comunicazione più diretta, e schiudere ai disabili prospettive di autonomia pratica e socialità fino ad oggi impensabili. Non senza contraddizioni.La duttilità del digitale

In questo articolo cercheremo di descrivere come le nuove tecnologie possono e potranno cambiare la vita dei disabili; dico anche “potranno”, perché molti dei discorsi che faremo sono da riferire più al futuro che al presente, ma con una certezza, che questo futuro non si farà attendere troppo e che la velocità del cambiamento è in continua accelerazione.
I cambiamenti che la tecnologia ci propone ogni giorno, in forme sempre variate, non sono a senso unico, ma come le medicine hanno le loro controindicazioni, potranno avere una valenza positiva e subito vicino averne un’altra negativa.
Le nuove tecnologie basate sul digitale portano con sé un elemento di estrema duttilità che permette di includere tutti; “permette”, ma il pericolo di esclusione rimane pur sempre presente. Facciamo un esempio: l’invenzione della locomotiva come mezzo di trasporto ha permesso a tutti di spostarsi più rapidamente ma ha creato (naturalmente con il passare del tempo e in un clima culturale attento ai diritti dei disabili) dei problemi nuovi di accessibilità per i disabili motori; se i gradini rimangono insormontabili, se gli scompartimenti sono stretti o mal congegnati, a cosa serve ad uno spastico un Eurostar che raggiunge i 200 chilometri all’ora? A nulla. Così vale anche per le applicazioni delle nuove tecnologie: se non sono pensate anche per i disabili il rischio di esclusione rimane.
A differenza della locomotiva e delle altre invenzioni basate sulla meccanica, le tecnologie basate sul digitale hanno una caratteristica adattabilità, che permette di personalizzare le varie applicazioni a seconda del loro utente e delle situazioni che incontra. Un modo “visivo” per spiegare questa duttilità ci è offerto dal cinema; secondo Stefano Penge, progettista multimediale della Linx, un’associazione che produce cd-rom didattici, “In un film come Terminator 2 possiamo vedere la differenza tra il meccanico e il digitale”. Mentre nel primo film della serie (Terminator 1) il robot, interpretato da Arnold Schwarzenegger, è metallico e quindi si può ammaccare, la seconda creatura è un essere di “metallo liquido” molto più potente del precedente modello, perché questa sua caratteristica, il poter passare da uno stato solido ad uno liquido, lo rende adattabile a tutte le situazioni che incontra.

Di cosa parleremo

Qui non parleremo di ausili (che fanno parte dell’hardware) che aiutano i disabili ad usare i computer, o dei software speciali che vengono incontro alle necessità di un disabile motorio o sensoriale; questo tipo di applicazioni sono peraltro molto importanti perché permettono al disabile di compiere azioni altrimenti impossibili per lui, relative, ad esempio, al controllo dell’ambiente circostante, al gioco o all’utilizzo stesso del proprio computer per comunicare. In un certo senso questi strumenti sono il presupposto di quello di cui ci occuperemo. Ma noi parleremo soprattutto della telematica, ovvero del luogo dove l’informatica e la comunicazione si incontrano dando nuove e sostanziose possibilità a tutti, non solo ai disabili naturalmente. Parlando di telematica ci riferiamo, anche se la cosa non è del tutto vera, ad internet. Lo facciamo perché internet è la sua espressione più eclatante e anche vincente. Per prima cosa vedremo cosa offre, in termini di risorse informative in lingua italiana, la rete telematica (da adesso la parola rete sarà usata come sinonimo di internet), poi illustreremo quegli strumenti che permettono all’utente di agire direttamente (è il caso delle mailing list, dei newsgroup, delle chat…). Infine, cercheremo di descrivere quali nuove possibilità offre la telematica ai disabili (e ai loro famigliari) nel campo del lavoro e della vita sociale.

L’handicap in rete

Che materiale informativo è disponibile su internet a proposito di disabilità?
Al di là dei sensazionalismi e delle mode, si può con certezza affermare che in rete si trovano un certo tipo di risorse.
Vi sono siti abbastanza ricchi di materiale e aggiornati sul tema della legislazione e l’handicap, sugli ausili, software e hardware per le persone con disabilita’, sulla didattica; sono molto rappresentati certi tipi di deficit rispetto ad altri, numerosi sono infatti i siti che parlano di non vedenti e di persone con disturbi nella comunicazione e nel linguaggio, nonché della minorazione fisica; più rari sono invece i “posti virtuali” dedicati all’handicap intellettivo e, cambiando di campo, alle esperienze dirette di genitori, disabili e operatori.
Mancano banche dati riguardanti le pubblicazioni di settore, mancano infine le news, notizie fresche, aggiornate in tempo reale, come è possibile fare con questo supporto elettronico.
Il grande assente è però un altro, è il cittadino italiano che, vuoi per una generale e scoraggiante mancanza di cultura tecnologica, vuoi per una mancanza di incentivi offerti dallo stato tesi a superare questa situazione, rimane lontano dalla telematica e dalle possibilità che essa offre.
A dire il vero da tre anni a questa parte, da quando cioè abbiamo iniziato a monitorare costantemente i siti web dedicati al sociale in lingua italiana, molte cose sono cambiate, molto associazioni hanno fatto il loro ingresso in rete, molti privati cittadini hanno cominciato ad usare la posta elettronica in un numero e con una frequenza che solo tre anni fa era impensabile. Ma la crescita rimane limitata se confrontata a quella degli altri paesi occidentali. Inoltre, la presenza di tante associazioni in rete è sì un fenomeno importante, ma che, in sé, non dice come questo mezzo viene poi da esse usato; in altre parole, se l’uso della telematica si riduce alla sola presenza in rete, all’esserci come vetrina colorata che non fornisce servizi all’infuori degli indirizzi reali, allora l’impatto delle nuove tecnologie sarà comunque poca cosa.

L’interattività che cerchiamo

Interattività è una parola che ritorna spesso quando si parla di telematica e indica la più importante qualità del mezzo, ovvero la possibilità di agire, di retroagire, la possibilità di essere informati e di informare a propria volta, di chiedere e di rispondere senza filtri, senza mediazioni di qualcuno (come avviene quando ci rivolgiamo ai mass media).
Per un disabile e per i suoi famigliari questo può significare tanto.
Ma in che modo si può essere interattivi su internet? In molti modi e con diverse applicazioni (software). Normalmente parlando di internet si pensa alle pagine web, a quelle pagine scritte secondo un particolare linguaggio (l’html) e che vediamo, anche chi non ha mai acceso un computer, oramai pubblicizzate dappertutto, in televisione e sui giornali. Da qui, noi possiamo partecipare al “grande gioco” scrivendo delle lettere, compilando negli spazi appositi (form) le nostre richieste, cercando e scaricando materiale informativo. Tramite l’uso intelligente dei motori di ricerca (search engines) è possibile informarsi da casa propria sugli orari dei mezzi di trasporto, o fare degli acquisti (vedremo meglio più avanti questi aspetti). Ma altre grandi opportunità sono date da mezzi diversi, prima di tutto la posta elettronica (l’e-mail) che permette di comunicare rapidamente con qualsiasi parte del mondo, i gruppi di discussione ( i newsgroup) e, con delle caratteristiche un po’ diverse, le chat (applicazioni che permettono la comunicazione in tempo reale tra due o più persone).
Queste opportunità vengono utilizzate tramite dei software diversi dai normali browser (ovvero le applicazioni – Internet Explorer e Netscape sono le più note – che “sfogliano”, “vedono” le pagine web), anche se, molte volte, fanno parte del browser stesso, ne sono parte integrante.
Questi programmi consentono la comunicazione diretta tra le persone, ed è perciò in questi luoghi, più che sul web, che il “popolo della rete” si incontra, e in mezzo a queste persone vi sono anche numerosi disabili.

Le mailing list

Le mailing list sono dei gruppi di discussione realizzati tramite la
posta elettronica. Per poter partecipare occorre iscriversi mandando un
messaggio ad un particolare indirizzo e scrivendo nel corpo del messaggio,
nella maggior parte dei casi, la parola subscribe.
Dal momento in cui uno si è iscritto, riceve tutti i messaggi che gli altri
iscritti mandano in lista e ogni suo messaggio (mandato ad un unico
indirizzo, quello della lista) viene ricevuto da tutte le persone che in
quel momento sono iscritte. Di solito a gestire automaticamente tutte
queste operazioni è un particolare computer che può adottare programmi
differenti (listserv, majordomo, listproc, smartlist…).
A volte le mailing-list sono in modalità digest, ovvero i messaggi non vengono inviati agli iscritti immediatamente, ma sono raggruppati in un unico messaggio inviato con cadenza regolare.
L’informazione, nel caso delle liste, arriva direttamente alla persona,
nella sua casella di posta elettronica, e questo è un elemento da non
sottovalutare, dato che l’utente non ricerca, ma riceve direttamente le
notizie senza nessuno sforzo (se non quello successivo di rispondere o
partecipare al dibattito). Come per i giornali e gli altri mass media
tradizionali, le mailing list sono lette da un numero di persone maggiore
rispetto a quelle che intervengono direttamente nella discussione, anche se
l’interattività, la possibilità cioè di partecipazione offerta dal mezzo
telematico, è nettamente superiore.
Di diversa natura sono i newsgroup, i gruppi di discussione i cui messaggi non arrivano privatamente nella propria casella postale (elettronica) ma sono pubblicati in spazi pubblici cui chiunque può connettersi per leggerli (oltreché per partecipare). Sulle tematiche a noi care, in lingua italiana ne esistono due, uno dedicato all’handicap generale e uno a quello intellettivo; in più vi sono newsgroup che ne parlano trasversalmente (quelli dedicati al volontariato, all’obiezione di coscienza, agli scout). E’ possibile partecipare ai newsgroup sia dal web (quindi usando un browser), sia con delle specifiche applicazioni. Qui il tono delle discussioni si fa più leggero, meno impegnato; i messaggi che passano ogni giorno possono essere anche decine, e alcune discussioni durano delle settimane.
Per finire le chat, programmi che permettono una comunicazione diretta come quella telefonica, sia scritta, che audio (con l’ausilio di un microfono) o anche video (con l’aiuto questa volta di una webcamera). Qui la comunicazione non è più definibile o classificabile, perché in questi luoghi comunicativi può succedere veramente di tutto (dallo scambio di opinioni alla relazione amorosa).

Ma ai disabili la telematica serve?

Dopo questa carrellata in cui abbiamo cercato di definire il tipo di strumenti che possono essere usati dal disabile e dalla sua famiglia, veniamo ad alcune considerazioni pratiche.
Per molti disabili la telematica significa innanzitutto diminuzione delle deleghe. Dice John Fischetti, del Movimento della Vita Indipendente (Enil) e da anni impegnato nel settore: “L’aspetto più importante è l’annullamento della necessità di deleghe. Un numero sempre maggiore di operazioni e attività potrà essere svolto con mezzi e strumenti telematici, liberando così le persone con disabilità dalla dipendenza e restituendo loro privacy e autosufficienza. Non esiste forma di disabilità, per quanto grave, che possa impedire del tutto l’uso dello strumento informatico e telematico”.
Comprare un biglietto d’aereo, un armadio o un computer, può essere fatto da casa semplicemente connettendosi alla rete e utilizzando la carta di credito. Le normali operazioni quotidiane, o almeno un gran numero di esse, così difficili per un disabile, diventano possibili.
Anche sul piano delle relazioni sociali la telematica può portare delle novità; la possibilità per un disabile di uscire (virtualmente) dalla propria stanza, e di comunicare con il mondo intero, può permettere una qualità di vita migliore, e può portare a dei cambiamenti anche nella vita reale. Esiste anche la possibilità che il disabile nel mondo virtuale decida di avere un’altra identità, non più quella della persona con deficit. Il cambio di identità è un fenomeno abbastanza diffuso in rete, che si esemplifica nei nickname (i nick, i soprannomi che una persona assume in rete quasi a voler denotare un altro sé).
Per quanto riguarda l’istruzione e il lavoro, la rete permette cose sicuramente impensabili fino a poco tempo fa; si stanno sviluppando strumenti telematici (videoconferenza, teledidattica…) per la formazione a distanza, utilissimi per chi ha difficoltà a muoversi o per coloro per i quali muoversi significa spendere risorse enormi. Il telelavoro (il lavoro a distanza, a casa propria davanti al terminale) è sicuramente un discorso a venire che in Italia non è regolamentato; una cosa di cui si parla molto ma si pratica poco, e quel poco in condizioni ( in termini di diritti dei lavoratori) non esaltanti.
Abbiamo elencato tutta una serie di possibilità, offerte dalla telematica, importanti per un disabile, ma che comportano un altro effetto da non sottovalutare: chi telelavora, chi studia tramite la formazione a distanza, chi comunica con il mondo tramite una chat, lo fa al chiuso della sua stanza, nel posto da cui molti disabili vogliono invece uscire. E’ una contraddizione non facilmente risolvibile ma di cui bisogna sempre avere coscienza. Riporto un’altra interessante considerazione di Fischetti: “È ovvio che ignoranza e solitudine non si possono debellare solo con lo strumento telematico. I rapporti fisici, l’essere insieme e il crescere insieme sicuramente continuano ad essere basilari per ciascuna persona. In questo senso la telematica non deve assolutamente costituire un alibi per costringere le persone a rinunciare alla mobilità; la telematica non deve mai essere descritta come un sostitutivo degli incontri fisici, dei viaggi, dell’esplorazione del mondo. Può però costituire una ottima integrazione, e per chi oggi si vede preclusi gli incontri fisici, i viaggi e l’esplorazione del mondo, la telematica può costituire comunque un enorme passo avanti”.
Per finire un ultima considerazione doverosa.
Stiamo parlando di possibilità, di potenzialità (che oramai sono molto più che promesse) da cui viene esclusa la maggior parte della popolazione mondiale. La telematica ed internet sono cose da mondo occidentale, da paesi ricchi; laddove le infrastrutture (linee telefoniche, energia elettrica…) non esistono o dove l’analfabetismo è endemico, queste conquiste dell’umanità non arriveranno mai. Quindi un’altra contraddizione, un altro paradosso: questi benefici ricadranno là dove le condizioni di vita dei disabili sono migliori, e rischiano di non riguardare la maggior parte delle persone disabili che, come è noto, sono nei paesi poveri del quarto mondo.

Moderno Prometeo

“Fortissimo, animalescamente passionale, ma defraudato di scintilla divina, il mostro, pur avendo un irrefrenabile bisogno di amore fisico, di simpatia, si scontra con la diffidenza, nel distacco, nel disgusto, insomma nell’ostilità altrui. La vendetta cui si abbandona allora con rinnovate energie non è, in fondo, troppo ingiustificata…”

Una serata della temporalesca estate 1816 a villa Diodati, a Ginevra. Sono presenti Byron, John William Polidori, Percy B. Shelley, e, tra gli altri, una ragazza diciannovenne, Mary Godwin prossima ad andare sposa a quest’ultimo. Dopo che è passato tra loro Lewis, l’autore del tenebroso Monaco, che, pur proclamando di non credere ai fantasmi, non sa fare a meno di parlarne, gli ospiti di villa Diodati hanno deciso di scrivere ognuno un racconto dell’orrore. Il primo a scriverlo, in chiave di sfrenata allucinazione autobiografica, è stato Shelley, Polidori lo ha presto emulato, abbozzando la storia di un personaggio con il teschio al posto della testa, terzo è venuto Byron con la vicenda di due viaggiatori uno dei quali si rivela vampiro. Mary Godwin deve constatare con stizza – una stizza che l’acerbità dei suoi anni acuisce quasi una indecorosa ammissione d’impotenza – di restare indietro nella gara con gli amici. Un’altra serata perduta, è tardi, è necessario andare a letto.
Ma ascoltiamo la testimonianza della stessa futura signora Shelley: "La serata trascorse in simili conversari e già la luna era alta prima che ci ritirassimo a riposare. Appoggiai la testa al cuscino, ma non mi addormentai né si può dire che indugiai a riflettere. Non più tenuta a freno, la mia fantasia prese il sopravvento su di me e mi mise di fronte a una serie di immagini che mi trascorsero davanti alla mente con una chiarezza di gran lunga superiore a quella di un sogno. Vidi con gli occhi chiusi, ma con una mente ben sveglia, il pallido studioso di un’arte profanatrice inginocchiarsi accanto al risultato della sua opera, vidi l’orribile fantasma di un uomo disteso dare qualche segno di vita, per via di un potente meccanismo: lo vidi agitarsi, ancora informe ma già quasi umano. Era qualcosa di spaventoso, poiché spaventosa deve essere la conseguenza di ogni tentativo dell’uomo di sostituirsi al Supremo Creatore…".
Da un incubo del dormiveglia – un incubo in cui alle favole di fantasmi si mescola l’eco inquietante degli esperimenti di Erasmo Darwin capace di ridar movimento a un frammento di vermiciattolo tenuto sotto vetro e speculante sulle affinità tra anima ed elettricità – nasce, dunque, Frankenstein, prototipo di tanti orrori letterari e soprattutto cinematografici. Frankenstein, veramente, si chiama lo scienziato padre del mostro, ma il nome passerà irresistibilmente all’orribile e vitale creatura, quando il volume dell’ormai signora Shelley apparirà nel 1818, ottenendo immediatamente grande successo.
Del resto, l’orribile e vitale creatura ha diritto a un nome valido avendo l’autrice dimenticato di dargliene uno qualsiasi. Fortissimo, animalescamente passionale, ma defraudato di scintilla divina, il mostro, pur avendo un irrefrenabile bisogno di amore fisico, di simpatia, si scontra nella diffidenza, nel distacco, nel disgusto, insomma nell’ostilità altrui. La vendetta a cui si abbandona allora con rinnovate energie non è, in fondo, troppo ingiustificata: il mostro cerca di ricambiare tutto il male possibile al giovane dottor Frankenstein che lo ha costruito, per una perenne infelicità, con parti di vari cadaveri trafugati da cimiteri e obitori. Così ammazza il fratello e la moglie del dottor Frankenstein. Il dottor Frankenstein, però, riesce a sfuggirgli, e anzi gli organizza la caccia contro. La lotta è accanita, e ancora una volta viene da chiedersi chi sia il peggiore tra i due, la creatura o il creatore. Tanto che, alla fine, il fatto che il dottore scompaia e il mostro sopravviva, impadronendosi del nome, se non del titolo accademico, non è che ci dispiaccia molto. La vitalità di Frankenstein, non del dottore Frankenstein, del mostro Frankenstein, è capace di accendere l’immaginazione. Non per nulla Richard Granett ha scritto che, solo magnetizzata dal futuro marito, l’autrice poté scrivere un libro del genere.
Vitalità e prolificità di Frankenstein. In una celebre antologia – Frankenstein & Company – la specialista in orrori Ornella Volta si è impegnata e compiaciuta a passare in rassegna la terribile famiglia, con i relativi consanguinei e affini, riscontrando con pignoleria a quanti film – oltre che a imitazioni più o meno letterarie – abbia dato origine la creatura di Mary Godwin Shelley. Riportiamo l’elenco di allora – che ormai sarà di sicuro più lungo, ma confessiamo di non possedere la competenza in materia di Ornella Volta, e comunque l’elenco ci pare già abbastanza significativo: Frankenstein: 18 film; Il Dr. Jeckyll di Stevenson: 21; L’uomo invisibile di Wells: 9; Dracula di Stoker: 14; Il fantasma dell’opera di Leroux: 4; Il Conte Zaroff di Connell: 3; La Mummia di Gautier: 19; Il Golem di Meyrink: 5; Lo Zombi di Seabrook: 17; Il Licantropo: 17 e King Kong: 4. Terribile famiglia alla quale siamo debitori di molte ore di passatempo felice, ovvero di brivido provato con la sicurezza di una smentita della realtà.
Tuttavia – e questo non è per inquietarvi, ma solo per informarvi un poco di più sull’argomento – non è che ai creatori di questi divertenti mostri e fantasmi sia sempre andata bene. Anzi. Si direbbe che esista un limite tra invenzione e realtà che non è stato spesso rispettato da uomini e da episodi. Ecco a esempio il lugubre consuntivo delle vicende degli ospiti di villa Diodati quella serata della temporalesca estate 1816. Finirono uno peggio dell’altro nel giro di pochi anni. Shelley e Lewis annegarono sia pure in due mari diversi, Byron morì a Missolungi, Polidori si uccise – ma Mary Godwin Shelley campò sino al 1851. La cosiddetta maledizione di Frankenstein parrebbe essersi estesa anche ai realizzatori del primo famoso film in cui nel 1931 si precisò definitivamente la maschera del mostro. Il regista James Whale morì misteriosamente nella propria piscina, lo sceneggiatore Garrett Fort si uccise, la controfigura dell’interprete principale Beniamino Torrealba si rivelò sadico pericoloso. Quanto all’interprete principale Boris Karloff – destinato anche lui a sopravvivere a lungo come la creatrice – è vero, conquistò fama e gloria, ma non gli piacque mai essere identificato con il personaggio. Persino ai tempi di maggior furore suo e di Frankenstein, appena si toglieva il trucco brevettato, si faceva fotografare vestito da Babbo Natale e circondato da bambini.

Prefazione a Frankenstein ovvero il Prometeo moderno di Mary Shelley, Club degli Editori, Milano, 1968

L’uomo e il mostro

Il Frankenstein di Mary Shelley è una creatura umana, fin troppo; ha molte caratteristiche dell’eroe romantico e vive un rapporto drammatico con il suo creatore che porta lo stesso nome. Nel cinema è ormai un modello da cui molti registi prendono continuamente spunto. Dai film di Tim Burton a tutta una serie di mostri tecnologici.

"Anch’io dunque posso creare
qualcosa; la desolazione"
Mary Shelley

Il mostro di Frankenstein o i mostri di Frankenstein? La storia della letteratura ci parla di una sola creatura, partorita dalla fantasia di una Mary Shelley ventenne che avrebbe trovato, nel corso di un paio di secoli, centinaia di reincarnazioni, attraverso le più svariate forme artistiche, i generi, autori e interpreti diversissimi fra loro e i più improbabili adattamenti. Ma se si esamina il colosso messo insieme con pezzi di fortuna e animato con una scarica elettrica (la stessa che serve a giustiziare i condannati a morte…) nella prospettiva globale dei miti contemporanei, ci si deve arrendere all’evidenza che, da molti anni ormai, esistono perlomeno due grandi famiglie di Frankenstein: i Frankenstein di (o, per meglio dire, da) Mary Shelley e quelli di James Whale, autore della prima grande versione cinematografica del romanzo nel 1931. Non è dunque né casuale, né tantomeno pleonastico il fatto che l’ultimo film che vede il Mostro protagonista si intitoli per esteso Mary Shelley’s Frankenstein.

Il Frankestein di Mary Shelley

Entrambi hanno forti debiti con una tradizione precedente. Nel romanzo della Shelley si registrano influssi faustiani, qualche eco del Golem, nonché un esplicito rimando al mito di Prometeo, mentre per il film un referente forte è ovviamente il romanzo, con tutti i suoi successori.
Per cominciare ad addentrarci nella vicenda, conviene ricordare che la giovane signora inglese diede vita letteraria alla sua creatura, nell’estate del 1816 (come ricorda Ken Russell nel suo ottimo Gothic), durante una scommessa creativa fra intellettuali inglesi affascinati dall’horror.
Il suo romanzo ha forma epistolare, un tipo di letteratura molto in voga per un intero secolo (tale è anche il Dracula di Stoker). Un tipo di letteratura comoda da gestire per un non professionista (quale la Shelley) per la sua frammentarietà. Un genere di letteratura che regala ampi brividi sia a chi la esegue, perché costringe ad una identificazione totale con i personaggi scriventi, sia a chi la legge, per l’illusione di un "di più" di realismo.
Ma questo è solo il terreno su cui la vicenda si innesta. Il concime è dato dal clima fortemente romantico che impregnava la formazione culturale e la visione del mondo della sua autrice.
Per dare alcuni dati fondamentali, Frankenstein nasce da un sogno, è moderno e, soprattutto, è un Prometeo. Il Frankenstein di Mary Shelley è ambientato in una desolata landa fra i ghiacci, prevede personaggi archetipici che tuttavia instaurano fra loro rapporti complessi. Questo Frankenstein è uno scienziato che, come il suo contemporaneo Erasmus Darwin (che, si diceva, era riuscito a resuscitare dei vermi) si è messo in testa di carpire concretamente il segreto divino della vita, il sistema per animare (letteralmente, dare un’anima) un corpo. La sfida è titanica e perciò romantica, l’assunto di partenza di un’esasperato razionalismo positivista: l’atteggiamento generale di hubris e, come tale, verrà severamente punito.
La creatura che ne viene fuori è, per quanto sembri strano, umana, forse troppo umana. E’ creatura drammatica e, dunque, mostruosa nelle sembianze. Ma non ha nulla di bestiale o primigenio, non più di quanto ne abbia ciascuno di noi; il suo destino Š perfettamente iscritto nella storia. Ha una discreta intelligenza, apprende con facilità tutte le nozioni necessarie e ben presto si forma una sua visione freudiana delle cose: entra in competizione col padre, ci si rispecchia e sente il bisogno di interiorizzarne la morte. Soprattutto vuole una donna, è profondamente ferito dalla disattenzione di colui che gli è insieme padre e Padre, il quale non ha pensato a creargli una compagna. Del resto è abbastanza sveglio da capire che non basterà togliersi una costola per mettere insieme una partner e non disdegnerebbe qualche relazione edipica, se solo avesse una madre. Dall’altro lato, il mostro suscita nel suo creatore sentimenti contrastanti: affetto profondo, spirito di sacrificio, accessi di sindrome di Saturno, semplice orrore da sdoppiamento. Per Frankenstein, la creatura è tanto un figlio quanto un gemello oscuro, una proiezione che, infatti, non ha un nome proprio ed è costretto ad assumere quello del creatore. Una proiezione-ombra che non gli lascia un attimo di respiro ed è destinata a scomparire con lui.

La diversità nell’eroe romantico

Entrambi, comunque, incarnano perfettamente due lati fondativi del carattere dell’eroe romantico: l’avventuriero e il diverso.
Al contrario del mostro, il romanzo si rivela invece dotato di una vita indipendente dalla sua autrice, la quale farà in tempo a vedere in scena i prodromi del futuro Frankenstein, quello, appunto, di James Whale.
Il successo clamoroso del libro, infatti, diede il via ad una serie di sfruttamenti della vicenda e dei suoi protagonisti da parte di tutte quelle arti popolari, in primis il teatro, che si rivolgevano ai numerosissimi (allora come ora) non lettori e non leggenti (analfabeti).
Dopo alcune versioni più o meno fedeli, ci si comincia ad affrancare dalla schiavitù del testo di partenza. E’ la stessa Shelley, dopo aver assistito ad una rappresentazione del proprio romanzo, a lamentarsi per il primato dell’orrorifico, la mancanza di temi decisivi quali l’apprendistato, la solitudine, la febbre della curiosità. In pratica per la trasformazione del suo eroe da drammatico a esclusivamente minaccioso.
In effetti, già in teatro si assiste a una riduzione e ad una perversione della creatura originale in zombie o robot, si registra la presenza di attori destinati a caratterizzarne l’iconografia (Cooke), a vere e proprie parodie, a spostamenti talora improbabili, ad aggiunte e riduzioni.
Esiste perfino un Mostro animato tramite magia nera, un vero e proprio nonsense rispetto alla morale della favola. Ed è proprio dalla versione teatrale di Miss Peggy Webling che proviene il Frankenstein di Whale.
Prima di questo, le filmografie registrano un Frankenstein del 1910, il solo che sia rimasto, e un altro paio di versioni (una delle quali italiana) di scarso rilievo.
Paradossalmente, il mostro, che non ha nome ed è (al cinema) privo di parola, doveva aspettare il sonoro per affermarsi definitivamente, e non si può escludere che le grida gutturali della creatura abbiano contribuito al suo successo in modo sostanziale.
Il mostro di Mister Whale non poteva che essere di dimensioni colossali. Il suo campo di battaglia è un paesino gotico/balcanico ricostruito in studio. La vicenda viene asciugata fino all’osso e proprio per questo si rivela di assoluta efficacia.
Frankenstein crea il mostro. Il mostro è una belva feroce dotata a malapena di riflessi umanoidi. Il mostro fugge e devasta. Quando esagera viene fatto fuori.
Fra le righe: 1) Il mostro è frutto di un errore, il cervello usato non è normale ma criminale: dunque la materia prima ha un suo peso. 2) Il mostro è oggetto di tortura e incomprensioni, ha insomma un’infanzia difficile. Anche di qui la sua aggressività. 3) Il mostro è una forza della natura. Una volta messa in moto la si può arrestare solo col fuoco. 4) Il mostro è vittima della totale incomprensione da parte di tutti (a partire dal padre); il suo è un destino di emarginazione e linciaggio. 5) Il mostro è innamorato della propria (futura) madre.

Il Frankenstein cinematografico

Tutto questo è desunto dalle azioni del film: di sicuro il Frankenstein di Whale di romantico ha ben poco, anche se la dimensione del patetico non gli è estranea. A essere del tutto banditi sono l’introspezione e il macerarsi degli animi: la sintesi impera. Il nuovo Frankenstein è un Frankenstein cinetico, dinamico, non piatto ma apparentemente tale, terribile. Se il romanzo della Shelley è fatto principalmente dei sentimenti che seguono una sfida contronatura, il Frankenstein di Whale è un horror d’azione dai ritmi sincopati e dallo sviluppo elementare.
La fortuna della pellicola è tale che, non solo si assiste ad un proliferare ininterrotto di sequel, remake e parodie, ma anche di vere e proprie serie letterarie di derivazione cinematografica, come quelle firmate da Benoit Becker e Michael Egremont.
Bene, abbiamo parlato prima della modernità del Frankenstein di Mary Shelley, al quale, secondo la critica contemporanea, si deve la nascita della science fiction contemporanea. Tale è anche il Frankenstein di Whale, per ciò che riguarda il cinema; addirittura postmoderna già nell’assunto iconografico. Se una filmografia frankensteiniana in senso stretto spetta ad altri, può però essere interessante sottolineare la forza propulsiva che le due creature congiunte riescono ad avere nel corso dei decenni. Chi si prendesse la briga di un’analisi sistematica della vicenda si troverebbe di fronte, infatti, ad un’applicazione quasi metodica di tutte le possibili linee tematiche del Frankenstein a tutti i possibili contesti e circostanze. Gli esempi di questo imbastardimento del Frankenstein (che è anche un germogliare, il risultato di una semina) sono davvero numerosissimi. Vi rientra, dal punto di vista anatomico/clinico già la storia delle Mains d’Orlac, nata in sede letteraria, dalla penna di Maurice Renard. La questione, in tempo di trapianti è attualissima, visto che si tratta di pezzi umani dotati di memoria biologica. Orlac è un semi-Frankenstein: la sua carriera di sublime pianista è stroncata da un incidente ferroviario che gli causa l’amputazione delle mani. Uno scienziato melomane decide di attaccare al posto di quelle andate perdute due mani strappate a un cadavere. Il pianista suonerà malissimo, ma in compenso maneggerà il coltello con grande maestria. Il chirurgo ha ridato vita, "frankensteinizzato" le mani di un morto, ma queste, tanto per non deluderlo, hanno deciso di tenersi ben stretta fra le dita la propria autonomia.
Fra le versioni celebri di questa storia vanno certo segnalate quella di Wiene del (1924), quella di Karl Freund, Mad Love, del 1935, e quelle più moderne di Oliver Stone (The Hand, 1989), Sam Raimi (La casa II) e David Cronenberg (Rabid, 1976), tutte più o meno liberamente "ispirate a".
Anche tutto il filone degli zombie, i resuscitati, ha un piede nella staffa di Dracula e uno in quella di Frankenstein. Nella loro iconografia più celebre, quella pensata da George A. Romero, gli zombie sono in fondo vittime e ricordano pesantemente, tanto nel look quanto nelle movenze rigide e goffe, il mostro a lungo interpretato da Boris Karloff. Sui rapporti fra Dracula e Frankenstein (il mostro) si potrebbe aprire un capitolo a parte. Il primo è un non-morto, il secondo un non-nato. Detto questo, appartengono entrambi alla grande famiglia dei freaks, i mostri, e il più commovente film del regista spagnolo Jesus Franco li vede impegnati in uno scontro fra vecchi gladiatori, fra vecchi lottatori di catch che vede coinvolto, ad un certo punto anche l’uomo lupo.

Gli eroi di Tim Burton

Il mostro di cui ci occupiamo, d’altra parte, lo ritroviamo pari pari anche nel maggiordomo della famiglia Addams (il mitico Learch), nel pericoloso malvivente che minaccia Cary Grant in Arsenico e vecchi merletti e, in modo decisamente originale, nell’Edward mani di forbice di Tim Burton. Il giovane regista di Batman ha, col mostro della Shelley (e di Whale), un rapporto intenso e conflittuale. Da un lato, come il suo amato Ed Wood, pare preferire nettamente Bela Lugosi a Karloff, dall’altro è senza dubbio l’autore contemporaneo che più ha lavorato sul personaggio che ci interessa. Con Frankenweenie, storia di un bimbo geniale che trova il modo di riportare in vita il proprio cane, il rimando è esplicito e diretto, e tale è anche quello della ragazza di Jack Skeleton in Tim Burton’s Nightmare before Christmas, una pupa niente male, costruita da un morboso mad doctor. Una ragazza dalle mille risorse che si può montare e smontare i pezzi da sola, e che ci ricorda come ogni essere cinematografico sia in fondo frankensteiniano in quanto tale, dal momento che il suo corpo risulta sempre dalla somma di una serie di frammenti (e spesso da frammenti di corpi diversi, come nel caso della Julia Roberts di Pretty Woman che indossava le gambe di un’altra ragazza), fotogrammi o inquadrature, montati, cioè incollati fra loro.
Il tema dello scienziato che crea o riporta in vita la propria donna è vecchio come e più di Frankenstein, e lo troviamo già nel citato Mad Love, in The Black Cat di Ulmer, in innumerevoli B-movies cormaniani e in pellicole recenti quali La donna bionica o Dr. Creator.
Tornando a Burton, è proprio col personaggio di Edward che si arriva alla più completa rivisitazione del tema di Frankenstein. Una rivisitazione, peraltro, sofisticata ed eretica: il ragazzo dalle mani di forbice è in realtà un mix tra il mostro e Pinocchio, anche se il sentire del giovane regista americano ha certo molte affinità con le malinconie nostalgiche della Shelley. Edward infrange molti taboo frankensteiniani: intanto non è un vero mostro, bens’ ha le fattezze eccentriche ma piuttosto bellocce di Johnny Depp, tanto è vero che non gli è difficile trovarsi una ragazza, per di più umana. Inoltre parla, non animato da sentimenti malevoli verso nessuno, anche se la sua pericolosità intrinseca e la sua purezza d’animo finiranno per farne facile preda di ignoranza, paura e razzismo. E’ dotato per l’apprendimento e sa come ritagliarsi uno spazio sia nel mondo del lavoro che nello show business.
Tim Burton è anche colui che ha saputo giocare in modo profondamente poetico con quelle che sono le ferite ombelicali di Frankenstein, le innumerevoli cicatrici che gli solcano il viso, il corpo e l’anima, e che nessun cosmetico può efficacemente occultare.

I mostri tecnologici

Ma Burton è, come si diceva, un nostalgico, uno molto interessato al passato, un cinefilo. Le moderne applicazioni della sostanza frankensteiniana interpretano incubi legati alla scienza ben più smaliziati, concreti e verosimili; tecnologicamente avanzati.
Da un lato incubi legati all’elettronica. Qui il mostro è una creazione involontaria, un errore di percorso, e lo si ottiene a forza di dotare le macchine di prerogative umane. Un modello inquietante è rappresentato dal computer Hal 9000, protagonista di 2001 Odissea nello spazio. Hal è un nuovo sofisticatissimo tipo di intelligenza artificiale che, a furia di dover somigliare ad un uomo, arriva a sentirsi uomo e ad avere aspirazioni, paure e reazioni conseguenti, fino a minacciare la sorte dei suoi padroni e creatori. La sua uccisione, una disattivazione per gradi che lo obbliga ad un lento regresso è una delle più strazianti rappresentazioni della morte che la storia del cinema registri. Alla stessa famiglia di Frankenstein inorganici appartengono poi anche figure quasi classiche di robot quali Robocop o Terminator.
Il primo è un agente meccanico super-potente sul quale è stato innestato il cervello di un poliziotto morto. Tutto va bene finché il cervello in questione comincia a riattivare la più umana delle proprie virtù: la memoria. Terminator, da parte sua, è un robot integrale, ma un robot talmente imperfetto e mimetico da poter essere definito di grado superiore rispetto al genere umano che lo ha creato. In questo caso il mostro supera Frankenstein e aspira a sostituirlo. L’altro grande settore della fantascienza in cui si sono sparse le ceneri di Frankenstein è quello che prende spunto dai progressi dell’ingegneria genetica. Ma in questo caso il muro è completamente caduto; per creare un nuovo Frankenstein non c’è più bisogno di quell’apparato ingombrante e macchinoso che è il corpo. Basta un naso, come in Woody Allen (Il dormiglione) o una sola cellula, o anche l’esatta conoscenza di un codice genetico e il gioco è fatto, come dimostrano tanto I ragazzi venuti dal Brasile quanto, su un altro piano, Jurassic Park. Ogni differenza è annullata. Creatore e creatura coincidono e convivono, perfettamente alternativi, tanto supplementari quanto complementari. A questo punto il mostro, con le sue imperfezioni, la sua pesante goffaggine, i suoi grugniti e tormenti è già completamente alle spalle, in quella galleria di creature passate definitivamente dal territorio dell’horror a quello, rassicurante, della tenerezza.

Il mercato e le relazioni educative

Lo “scollegamento” come meccanismo fondamentale della vita odierna: come l’ideologia del mercato influenza le relazioni educative e persino la pratica del volontariato e dell’impegno sociale, rendendola “hobby” senza alcuna relazione con il tempo di lavoro.
– Le cose, i fatti sociali, sono scollegati l’uno dagli altri, nella vita di ognuno i momenti di lavoro sono separati dai momenti di tempo libero, l’etica e la morale stanno da una parte, la pratica da un’altra;

– noi persone comuni non sappiamo niente di preciso sui rapporti di causa ed effetto, funzione e struttura, significante e significato, la Medicina, l’Università, la Scienza sanno tutto e hanno trovato o sono in procinto di trovare le soluzioni a tutti i problemi; Medicina, Università e Scienza rispondono legittimamente solo al mercato, che a sua volta le fa progredire nel migliore dei modi;

– la vita quotidiana nelle città è facilitata da supertecnologie che la rendono preferibile ai modelli di vita quotidiana non occidentali, grazie al progresso spinto dal mercato;

– l’attuale ordine sociale non è modificabile, ci renderà onnipotenti e immortali, il progresso è inarrestabile, va nella direzione giusta ed inevitabile perchè è quella indicata dal mercato;

– l’uomo è una macchina produttiva che deve funzionare al massimo delle sue possibilità, esattamente come le altre macchine;

Il mercato è il mercato è il mercato.

Abbiamo cercato di condensare in frasi alcuni degli assiomi fondamentali che ogni cosa rappresentata, ogni fatto comunicato ci dicono in continuazione. Mass media non sono solo i mezzi di comunicazione tradizionalmente intesi: Internet, la TV, i Giornali, la Radio, sono forse meno importanti degli ipermercati, dell’aspetto delle città, dei contratti di lavoro, dell’organizzazione della scuola, del rapporto quotidiano tra la persona comune e l’esperto (il Medico, il Vescovo, l’Avvocato, il Giornalista, l’Insegnante), del far coincidere il viaggiare e il conoscere il mondo con il turismo. Si tratta di assiomi che in qualche caso si presentano anche in forma verbale, ma molto più spesso sono organizzatori di altri messaggi, che si impongono come senso comune grazie alla potenza del medium, o addirittura sono la struttura del messaggio stesso, e in questo caso sono difficilmente criticabili.
A prima vista sono indipendenti tra loro, ma si tratta di capisaldi organici tra loro del Pensiero Unico, quello che con sempre maggiore efficacia si va imponendo con la globalizzazione.
E’ importante, secondo noi, che lavorando nel sociale ci si preoccupi di vedere quale impatto hanno questi messaggi sul proprio lavoro, dal momento che (come la pioggia nei giorni dopo Chernobyl) essi ricadono su tutto: sulle relazioni individuali e ancora di più su quelle collettive (l’educatore e l’utente, gli assistenti sociali e un’altra professionalità, per esempio).

Apologia delle ideologie

Prendiamo un po’ della prima frase: i fatti sociali sono tra loro scollegati, i tempi della vita di una persona sono scollegati. Chi lo dice? Come? Perchè, a quale scopo? Che effetto ha su di noi?

Per una decina d’anni (coincidenti con gli anni ottanta) gli editoriali e le pagine culturali dei principali quotidiani italiani hanno ripetuto che le ideologie erano morte e sepolte, che non avevano più niente da dire e nessuno ad ascoltarle.
L’ideologia è una visione del mondo organica (cioè con pochi principi esplicativi generali) che consente di inserire in un ordine e in un senso i fatti del mondo (cosa siamo, dove andiamo, come stiamo insieme agli altri, eccetera), e di conseguenza consente di articolare azioni sociali significative. L’ideologia appartiene e caratterizza un gruppo e si confronta con l’ideologia di altri gruppi. E’ una forma civile e culturalizzata di tensione al cambiamento e di speranza collettiva. La delegittimazione dell’ideologia è stata la delegittimazione della presunzione, delle persone o dei gruppi (partiti, sindacati, associazioni), di avere e praticare un’idea di cambiamento di tutta la società; la delegittimazione dell’ideologia ha reso demodé la presunzione di avere un’idea (e tentare una pratica) di giustizia.

Non è casuale che nei nostri anni le cose, i fatti sociali siano trattati e rappresentati come se fossero scollegati, e vengono inoltre presentati come se si presentassero da soli, come se fosse la realtà autonomamente a parlare per mostrarsi così com’è nella sua potenza di oggetto:
– la TV – tutti i programmi di vita reale (dalle telenovelas con riferimenti alla cronaca alle mille declinazioni del Big Brother), i TG che rendono contigue le reti di Inzaghi ai morti del Sabato sera, l’alta moda di Milano ai morti sotto i bombardamenti in Kossovo, gli uni cancellando apparentemente la mediazione di un autore o di un conduttore, gli altri inscatolando le notizie e giustapponendole in modo da sembrare avulse l’una dall’altra;
– le corsie degli Ipermercati dove le gomme della mia macchina stanno a fianco di canne da pesca in fibra di carbonio che stanno a fianco del prosciutto di parma a fianco di un libro di Camilleri sotto uno scanner vicino al Monopoli, creano un meraviglioso paese dei Balocchi per adulti, con illusione di poter soddisfare ogni mancanza, dimostrando che è tutto sotto controllo; anche qui, come in TV, non c’è solo la giustapposizione di cose presentate finite e quindi scollegate, ma c’è anche l’apparente annullamento del mediatore: tra me e la cosa da comprare non c’è nessuno, così come non c’è nessuno tra me e il gruppo di persone comuni che vive il suo quotidiano davanti a telecamere in diretta TV;
– è ormai banale dire che anche il corpo è scollegato: è scollegato in sè, perchè tra braccia e fegato pare non esserci relazione, tra vista e nostalgia nessuna relazione, niente neanche tra polmoni e pelle; ancora di più il mio corpo è scollegato da me, che se vado dal medico non devo vergognarmi, non devo aver paura del dolore, non devo lamentarmi, devo consegnarglielo almeno fino a quando non me lo ha guarito, in questo caso non vi è l’apparente annullamento del mediatore, ma per oggettivare il processo di scollegamento viene usato un’altro meccanismo: la reificazione scientifica: il mio braccio soprattutto quando è malato non è più il mio braccio, ma un braccio sul quale ha diritto di parola solo la Scienza Medica (che comunque va estendendo il suo dominio ben al di là della malattia: il parto, la gravidanza, il sesso, l’intelligenza, sono di sempre maggiore pertinenza della medicina).

Il mercato è nudo

Lo scollegamento tra le cose è interiorizzato perchè normalmente non siamo in grado nè di decodificare l’impaginazione di un telegiornale nè la corsia di un ipermercato, casi in cui lo scollegamento è la struttura della rappresentazione: il massimo della critica che siamo capaci di fare di norma si ferma al contenuto del messaggio (questa notizia è vera o falsa, data correttamente o in modo ambiguo), difficilmente arriva alla sua struttura, ma molto spesso è proprio la struttura del messaggio a contenere il messaggio principale.

Eppure a volte il mercato frana su se stesso (perchè nonostante quello che ci racconta non è onnipotente e non ci garantisce l’immortalità), e, quando ciò succede, è costretto a esplicitare le sue ragioni e allora si deve svelare, si denuda da solo: tre sono gli esempi periodici e sotto gli occhi di tutti: le catastrofi naturali, finanziarie, sociali.

Le catastrofi naturali

A seguito di qualunque catastrofe naturale si sviluppa sempre lo stesso dibattito: di chi è la colpa?. Se la catastrofe è avvenuta in un paese povero la colpa è sempre dell’uomo, che essendo là povero (o ignorante, o negligente) non si è premunito, se, invece capita in un paese ricco la colpa è di qualcuno che ha non ha rispettato qualche legge. Non viene mai presa in considerazione l’ipotesi di una Natura disarmonica al Mercato, al contrario si tenta di dimostrare che nell’applicazione delle Leggi del Mercato c’è stata qualche sbavatura, e solo per questo la catastrofe ha provocato vittime. La promessa dell’onnipotenza rischia così di essere svelata.
Vi è poi la questione più grossa, lo scollegamento: nell’analisi delle responsabilità e delle colpe viene sempre data la parola ad ambientalisti che non perdono occasione per far sapere a tutti che c’è un legame tra cemento, benzina, automobili, opulenza e catastrofi. Il mercato è costretto a difendersi, e come fa? Prima lascia parlare gli ambientalisti, fino a quando non diventano noiosi (anche questa è tecnica di comunicazione), poi fa partire un Gran Premio di Formula 1.
Quando a Soverato un’ondata di fango sommerge una dozzina di persone, si rimanda l’elezione di Miss Italia. Perchè? Qual’è il collegamento tra le splendide ragazze di Miss Italia a Salsomaggiore e i disabili di Soverato coperti di fango? I collegamenti sono due: il primo è il collegamento che non c’è: per non collegare a nessun nostro comportamento l’ondata di fango, anche se sospettiamo che centri qualcosa col buco dell’ozono o con l’effetto serra, paghiamo pegno limitandoci a scollegare per una volta due emozioni che stanno insieme in ogni telegiornale (l’eccitazione per la bellezza e la paura della morte, di cui ogni TG è saturo). Il secondo collegamento è quello vero: Soverato, come tutte le catastrofi, sollecita angosce individuali e collettive, e ai nostri giorni l’elaborazione del lutto collettivo può avvenire anche attraverso la televisione: un giorno di attesa per Miss Italia ed ecco che il lutto è elaborato. Il prossimo Gran Premio a Monza farà il resto e le parole degli ambientalisti saranno teorie che entreranno nella logica scollegante del “sarebbe bello se…, ma…”.

Le catastrofi sociali

Lo stesso schema si riproduce poi analogo nelle catastrofi sociali, quando un addetto alla sicurezza, per esempio, muore durante un Gran Premio: in questo caso i portavoce del Mercato sono costretti a spiegare, a dire, che la velocità, la passione per i motori (cioè la devozione al dio mercato) non è legata alla morte di quell’uomo, che è morto perché certamente una certa regola per la sicurezza non era stata rispettata, per poi confermare che al di là di tutto ci sono i soldi, e l’elaborazione del lutto è compiuta attraverso una megacolletta tra miliardari a favore della famiglia. (In realtà nel caso di Monza un giornalista in tv si è spinto a dire che l’addetto era stato ucciso dalla sua passione per i motori, ma se questa considerazione fosse detta e presa sul serio, forse si scoprirebbe che dietro la Formula 1 non c’è la passione per i motori, ma la passione per la morte, proprio lei, la grande rimossa nella religione del dio mercato).

Le catastrofi finanziarie

L’evidenza più grande è costituita dalle catastrofi finanziarie, che invece di essere logicamente considerate la prova definitiva della non onnipotenza del mercato (che non funziona neanche al suo interno, pur seguendo le sue stesse regole), sono presentate come il suo vero punto di forza: la loro ciclicità e prevedibilità infatti è usata per dimostrare la potenza della Scienza degli Economisti (vestali del dio mercato), la loro realizzazione è il più grande affare dei veri padroni delle economie: ad ogni crollo di borsa, per ogni paese che collassa, c’è sempre un ristretto gruppo che aumenta il suo potere in proporzione all’entità della catastrofe.
Nonostante questo, nei momenti di crisi finanziaria, il Mercato deve scoprirsi ed esplicitare le sue argomentazioni: il progresso è inarrestabile, la vita di uomo o di un popolo è meno importante del funzionamento del mercato, ha diritto di vivere chi è più bravo a stare sul mercato, si può crescere all’infinito (il racconto che il Gatto e la Volpe fanno a Pinocchio per fargli seppellire i suoi soldi nel Campo dei Miracoli è lo stesso che viene fatto ai pensionati per fargli seppellire i risparmi in Borsa), e infine: il fatto che una azienda viva di guerre e di mine antibambino o affami un intero continente (rubandogli il diritto di piantare i suoi semi) non è in relazione alla possibilità di guadagnare con la crescita del valore delle sue azioni. Il valore delle azioni finanziarie di una azienda è scollegato dalle sue azioni sociali. I soldi non hanno odore, il mercato è il mercato è il mercato.

Critica del volontariato

Crediamo ai Gatti e alle Volpi perchè lo scollegamento tra le cose è ormai interiorizzato, lo avevamo già interiorizzato quando il messaggio si presentava come oggetto, e nel momento in cui è esplicitato non abbiamo più la capacità di reagire, o almeno di balbettare che non può essere così.
Addirittura siamo pronti a riconoscere che anche la nostra personale esperienza quotidiana è parcellizzata, che l’orario di tempo libero 19:00-23:00 è scollegato dall’orario di lavoro 9:00-19:00: in questo modo, per esemplificare una conseguenza tra le tante, è stato possibile radicare in Italia una cultura del volontariato dove l’idea di solidarietà è talmente concreta e compartimentata da essere slegata sia da un idea generale di pratica di promozione sociale, sia dal resto della propria esperienza quotidiana.
Vediamo meglio questi due aspetti.
Molte delle forme di volontariato più diffuse si caratterizzano per specializzazione e utilità immediata: la protezione dell’ambiente, l’aiuto ai disabili, l’assistenza agli anziani, la cura dei tossicodipendenti, l’accoglienza agli stranieri. E’ raro incontrare organizzazioni di volontariato (con pochissime eccezioni, una è “Libera”) che elaborino e addirittura tentino di praticare idee orientate al cambiamento del contesto sociale, al contrario viene sempre più spesso esaltata e valorizzata la soluzione immediata: hai freddo ti do il cappotto, hai fame ti do da mangiare, sei solo ti faccio compagnia. E’ bellissimo, ma non si collega al fatto che il lusso di poter aiutare gli altri è dovuto allo squilibrio sempre più enorme e intollerabile nella distribuzione di risorse come la salute, l’affetto, la cultura: io volontario ho dentro di me tanto amore da poterne regalare a chi non ne ha, solo perché da qualche altra parte, e in modo molto più grande, io stesso, o qualcun altro per me, si è accaparrato anche quello degli altri.
Il volontariato, spesso, al posto di interrogarsi e agire su questo squilibrio, o lottare contro l’accaparramento, funziona da compensatore emotivo: con una mano prendiamo tutto, con l’altra restituiamo un’elemosina.

Al tempo stesso, la pratica sociale sembra essere uno dei tanti hobby che è possibile scegliere per il tempo libero: lavoro, magari in una banca, o in una finanziaria, e poi nel tempo libero partecipo alle manifestazioni per la pace. Il fatto che il mio datore di lavoro faccia i suoi affari migliori investendo in fabbriche d’armi è indifferente. L’impegno, la partecipazione sociale, il volontariato rischiano di centrarsi non sul presunto obiettivo di cambiamento o di promozione, ma sulla figura un po’ eroica e un po’ narcisistica del volontario stesso, e così la contraddizione risulta meno sensibile.

Torneremo nei prossimi interventi a prendere in considerazione la separazione tra tempo libero e tempo di lavoro, partendo anche dagli assiomi che abbiamo elencato all’inizio.

Pedagogia dei genitori

……..“Quando i miei figli erano molto piccoli facevo un gioco con loro…, gli davo in mano un bastoncino, uno ciascuno e gli chiedevo di spezzarlo. Non era certo un’impresa difficile, poi gli chiedevo di legarli in un mazzetto e di cercare di romperlo, ma non ci riuscivano, allora, gli dicevo: vedi quel mazzetto? Quella è la famiglia” ………Tratto dai dialoghi del film “ Una Storia Vera” di D. LynchL’importanza del contesto sociale nello sviluppo della personalità e nei processi di apprendimento (nella fase prescolare e scolare) viene messa in luce da recenti ricerche: gran parte delle abilità matematiche, di scrittura e lettura sono acquisite in età prescolare, in seno alla propria famiglia. L’azione dei genitori è fondamentale nell’assicurare uno sviluppo cognitivo ed armonico della persona, e ciò è ancora più vero nel caso della diversabilità.
Purtroppo questo non è ancora stato riconosciuto: spesso alla prima comunicazione i medici si lanciano in diagnosi pazzesche, rubando speranza ai genitori e futuro ai diversabili, solo perché non considerano le potenzialità dei figli ed il sapere dei genitori al ‘loro livello’. Analogamente si comportano i docenti che usano le diagnosi per non metterein campo competenze preziose, fermandosi all’apparenza e soprattutto senza dare fiducia ai genitori che su basi concrete affermano le capacità dei figli. Un luogo comune è: “Mio figlio a casa fa e sa, a scuola invece non gli fanno fare niente…”. Peggio ancora gli psicologi, che hanno preso l’abitudine di affibbiare diagnosi ai genitori che lottano per i figli, si scaldano ed a volte si arrabbiano giustamente. Inventano le sindromi più pazzesche e li prendono in cura. Moltissimi ci cascano!

UN SAPERE DA VALORIZZARE

Allora bisogna iniziare a dire basta. Ma come? Arrabbiandosi, o limitando il campo a chi ha il buon senso di capire che un genitore ha una competenza sul figlio superiore a quella degli altri, ed inferiore solo a quella dello stesso figlio nella sua soggettività? Non è sufficiente. Educatori, medici, psicologi ed insegnanti esistono, e devono esser costretti a capire, perché bene o male hanno il potere in quanto tecnici. Occorre parlare anche il loro linguaggio, far validare in ambito accademico e scientifico un sapere che è valido quanto il loro. E’ necessario formarli perché rispettino, ascoltando, quello che i genitori sanno sul figlio, le loro decisioni, non per metterli su di un piedistallo, ma per dar loro uguale dignità. Il detto “Ogni scarraffone è bello a mamma soa” ha una validità scientifica eccezionale, perché solo considerando il proprio figlio bellissimo è possibile un investimento affettivo che mobilita ogni forza funzionale alla crescita.
Altrettanto dicasi per la pedagogia della fiducia, della speranza, della responsabilità che caratterizza la pedagogia dei genitori; come si differenzia dalla triste scienza che ha partorito quozienti di intelligenza ed età mentali! E’uscito da poco un “bellissimo” libro con un brutto titolo, Il genio nel girello (Baldini e Castoldi), che traduce The genius in the crib (culla) che dimostra l’impossibilità di paragonare uno che ha difficoltà di pensiero con un genietto! Credo che occorrerà lavorare molto su queste concezioni apparentemente superate, ma che giocano ancora moltissimo a livello di base per confermare «scientificamente» l’esclusione.

FINALITÁ E OBIETTIVI DI UN PROGETTO

Occorre compiere una serie di azioni che valorizzino questa scienza. Assieme all’AIPD di Brindisi, il nostro gruppo di lavoro (che riunisce Mario Tortello, Marisa Pavone e la redazione di Handicap e Scuola) ha pensato ad un progetto le cui finalità sono:
– Valorizzazione la famiglia come protagonista nella formazione umana
– Coordinamento del contesto scolastico con quello extrascolastico, nella definizione di una rete permanente di formazione
– Raccolta, analisi e diffusione di testimonianze di genitori e di storie d’integrazione sociale e scolastica
– Attivazione di un centro di documentazione e studio della pedagogia dei genitori (sito e pagine WEB, archivio informatico, ecc.)
– Promozione e diffusione delle attività e delle esperienze raccolte tramite convegni e corsi di formazione e aggiornamento, rivolti dai genitori agli operatori del settore (ASL, scuole)
– Valorizzazione della famiglia e della disabilità come risorsa
– Superamento della concezione medicalizzante, assistenziale dell’handicap, per attribuirgli una dimensione sociale, educativa e pedagogica
– Valorizzazione della figura del genitore quale ricercatore in campo educativo e pedagogico
– Promozione dello sviluppo di studi e di ricerche sulla pedagogia dei genitori, per evidenziare l’efficacia e le potenzialità delle loro azioni educative
Gli obiettivi sono:
– Coinvolgimento dei genitori e loro valorizzazione nell’elaborazione dei progetti di vita ed educativi dei figli disabili
– Promozione del protagonismo dei genitori nella formazione del personale docente , non docente e sanitario
– Rapporto e collegamento fra generazioni
– Promozione della figura dei genitori quali ricercatori e esperti nel campo dell’integrazione e della formazione
– Costruzione di reti e attività d’integrazione fra scuola e famiglia

Bisogna dare dignità alla pedagogia dei genitori, il loro sapere non deve essere racchiuso. Occorre compiere tutte le azioni, di raccolta e consapevolizzazione, ma anche di dialogo con gli altri, gli esperti che continuamente hanno potere sui genitori e che determinano la loro vita senza ascoltarli o rispettarli. Vanno utilizzati tutti i canali: la raccolta delle testimonianze avviene in gruppi di auto-aiuto, dove il sapere dei genitori viene valorizzato ed organizzato in modo attivo. Si pensi a quelle cose orribili e coloniali che sono i corsi di formazione per genitori! Invece, ad esempio, ci sembra di un’importanza grandissima il concetto di Riabilitazione su Base Comunitaria, un progetto-filosofia dell’OMS nell’intervento in favore dei paesi del sud del mondo: costruire ospedali va bene, ma è più importante coinvolgere la comunità, e la famiglia, come prima risorsa di aiuto e integrazione di chi è svantaggiato.

Perché ho la sindrome down?

Questa è una pagina del diario di Nicol, una ragazza di 24 anni che vive e lavora a Reggio Emilia. Il testo fa parte di un racconto più lungo che sarà pubblicato prossimamente per intero, sotto forma di ipertesto, sulle pagine del nostro sito (http:://www.accaparlante.it).
Cara Rosanna,
quest’anno vorrei tanto affrontare un discorso molto difficile con te, e questa cosa riguarda me, ed è molto importante per la mia vita, e sarebbe la mia malattia, la “Sindrome Down”.
Devi sapere che per me non è stato facile capire quanto mi farebbe male di averla, ma credimi che non è stato facile quando mi hanno raccontato i miei genitori e la mia psicologa, io allora avevo 11 anni e non capivo perché ero ancora una bambina, ma adesso che sono cresciuta, e ho capito di cosa si trattava, sto male e ci soffro di questa cosa che ho in più, adesso ho capito perché sono stata scartata dagli altri, trattata male, e per questo scappavo, e mi rifugiavo dai miei genitori, ero spaventata e angosciata, e i miei compagni non mi volevano, mentre gli unici amici che avevo erano: la mia vera amica del cuore Caterina, Davide, Isabella, Gloria e Ilaria.
Loro mi aiutavano in qualsiasi cosa, e io li ringrazio tanto, mentre gli altri non facevano niente, mi guardavano da capo a piedi, e perciò io non avevo nessuna speranza di avvicinarmi a loro.
Ma devi sapere quanto mi sentivo imbarazzata da tutti, e quando mi vedo allo specchio penso: ma che cosa ho fatto di male? Che cosa mi stava succedendo? Perché non sono uguale agli altri? Io voglio stare bene, senza avere niente, perché ho questa cosa che mi spaventa?
Vorrei avere una vita serena, ho una famiglia, ho tanti amici che mi vogliono bene, ma io ho paura di rimanere da sola, i miei cugini e mia sorella hanno i propri ragazzi, io ho paura che nessuno mi voglia.
Sì, lo so quello che ho passato, ma adesso voglio continuare ad andare avanti, e non guardare mai indietro. Faccio molta fatica a pensare di accettarmi come sono perché volevo essere: alta, magra, con gli occhi azzurri, i capelli biondi, fidanzata, avere la patente e avere una macchina tutta per me; ma tutto questo rimane solo chiuso in un sogno che non si può realizzare.
Con il passare degli anni, ho superato tante cose ed è stato solo un miracolo, sono contenta, ma da una parte mi spaventa perché sono cambiata e sono diventata adulta, però ho altri problemi diversi.
E’ proprio vero che ho tanta difficoltà ma io non ci posso fare niente, io ho la mia vita da seguire come le altre persone che ci sono al mondo.
Ormai il passato è finito anche se mi ha ferito, ed ho continuato ad andare avanti, senza che nessuno mi fermasse; di quello che ho subito ne avevo abbastanza, il mondo non si è fermato ma continua ancora a girare, se si fermasse sarebbe un guaio per tutti, sono una borsa lo so, e sono sempre capace di complicare le cose che non ci sono, ma dentro di me sento di essere in ansia, e ti credo che ho sempre un cerchio alla testa perché tutti i miei pensieri sono sempre caduti lì dentro, mi piacerebbe tanto scioglierli ma come posso fare?
La cosa più importante, è quella di avere qualcuno vicino che mi aiuti, è sempre difficile la vita; Rosanna, io ho ancora bisogno di te, e di sentire che mi stai vicino, ne ho bisogno, avere una persona come te è sempre stato una gioia.
Mercoledì 6 Settembre ci vediamo e ti prometto di essere libera per raccontarti tante cose che avevo in mente, mi scuso tanto di quello che è successo mercoledì scorso, ma come avrai visto, ero assorta dai miei pensieri, e dubbi che avevo in testa, tra l’altro ero emozionata di vederti di persona, volevo fare una bella figura, ma credimi è stato più forte di me, ma vedi che l’emozione mi fa brutti scherzi?
Comunque è tutto passato, io sono più tranquilla, ma era solo una crisi, perché le vacanze che ho passato sono state lunghe, ed avevo voglia di ricominciare a lavorare insieme alle mie colleghe, avevo nostalgia di loro, e vedrai che sarò più rilassata. Ciao.

Il CDH incontra il presidente Ciampi

Lo scorso 18 settembre siamo stati ricevuti al Quirinale dal presidente Ciampi; eravamo una ventina di persone in rappresentanza del Centro di Documentazione Handicap di Bologna e, al di là dell’ufficialità, delle formalità è stato un momento molto sentito anche grazie al Presidente che ha avuto un approccio diretto e “caldo”. Per il nostro gruppo sono state giornate belle che hanno rafforzato la nostra identità, il nostro lavorare assieme (che è molto particolare – lavorate con noi per crederci). Queste emozioni però non ve le raccontiamo (sarà per un’altra volta), accontentatevi dei discorsi che riportiamo sotto.

Claudio Imprudente, presidente CDH

Sig. Presidente, finalmente ce l’abbiamo fatta ad arrivare da lei, ed è per noi una grande emozione.
Le spiego brevemente il percorso che abbiamo fatto. Il termine “disabile”, come lei sa, vuol dire non abile.
Invece noi crediamo che siamo diversamente abili; questo cambia la cultura della diversità da una cultura dove la persona disabile è ritenuta oggetto di assistenza ad una cultura in cui la persona del disabile è soggetto attivo di una nuova cultura della diversità, perchè la diversità è una ricchezza e non una disgrazia. Lei si chiederà come fa a comunicare, io semplicemente guardo le lettere e Luca le traduce. Questo è un modo per cambiare mentalità, anzi, ho parlato troppo: adesso lascio la parola a Luca che le dirà il mio discorso.

Luca Baldassarre, Progetto Calamaio

Egregio Sig. Presidente,
vent’anni fa il nostro Centro Documentazione Handicap nasceva a Bologna dalla speranza di contribuire a realizzare una piena integrazione delle persone disabili nella nostra società, ma nemmeno i più entusiasti fra noi si sarebbero aspettati che la nostra avventura arrivasse al 2000.
Oggi, qui al Quirinale, siamo un po’ emozionati ma anche contenti: vorremmo ringraziarLa perché percepiamo come non rituale questo Suo segno di attenzione nei nostri confronti e soprattutto perché questo incontro testimonia per noi la Sua fiducia. “Fiducia”, come Le avevo già scritto, è una specie di parola magica, di cui tutti, ma forse noi un po’ più degli altri, sentiamo il bisogno, e che aumenta di slancio la voglia di lavorare per non essere rinchiusi in una “riserva”.
In questi anni, sempre più ci siamo convinti che accanto ad un pur indispensabile lavoro di assistenza vada affiancato un lavoro culturale e sociale, proprio per promuovere un ruolo attivo della persona disabile, che è persona degna di fiducia, portatore di diritti e di doveri. Non basta nascere in un paese per diventarne pieni cittadini ma bisogna lavorare molto, lottare alcune volte, per poter partecipare alla vita democratica. In questo senso la nostra associazione, insieme a molte altre, continua a lavorare tenacemente e qualche volta anche allegramente per dare pieno compimento ai principi della Costituzione.
Il nostro lavoro ci ha portato a incontrare e a confrontarci con i bambini delle scuole, le nuove generazioni che sono il futuro del nostro Paese, ma anche con i genitori, con gli operatori sociali, con la gente comune, perché è forte il bisogno di formazione e di una corretta informazione sui temi della diversità e della disabilità, che a noi piace ridefinire come “diversabilità”.
L’ essere abili in modo diverso è una avventura che ci ha portato a scoprire molte volte un’Italia meravigliosa, fatta di persone creative e di solidarietà non solo emotiva. Il nostro Paese ha dato molto per la costruzione di una nuova cultura dell’handicap e ci auguriamo che possa fare molto anche a livello internazionale: moltissimi infatti sono i disabili nei paesi del sud del mondo, che soffrono gravi discriminazioni essendo fra i più poveri dei poveri. Ultimamente il nostro pensiero va sempre più a queste persone, gettate spesso in condizioni di vita inimmaginabili, private dei più elementari diritti umani. Contiamo su un’Italia sempre più protagonista nel combattere le cause che portano all’impoverimento di questi paesi e conseguentemente a rimuovere i fattori handicappanti, svantaggianti, che rendono così difficili la vita di queste persone.
Passare dalla dis-abilità alla divers-abilità non è facile, anche perché come Lei ha giustamente affermato nella Sua risposta alla mia lettera, “un malinteso senso di pietà” continua a bloccare una vera integrazione. L’immagine dell’handicappato come mero oggetto di assistenza e di aiuto continua purtroppo ancora oggi, nonostante molteplici segnali positivi, ad essere l’immagine culturale predominante. Noi siamo invece convinti che comprendere e superare un pregiudizio, magari sulle abilità di un disabile, è indice di una cultura fresca e ricettiva, pronta a mettersi in discussione.
Molto è il lavoro ancora da fare ma, Sig.Presidente, ci sentiamo rincuorati dall’averLa al nostro fianco, nella conquista di una piena cittadinanza. Abbiamo una grande fiducia in Lei e siamo sicuri che l’auspicio da Lei espresso nella Sua lettera circa il superamento di “ogni barriera materiale e culturale” trovi attuazione, in modo che alle persone handicappate non venga assegnato solo il ruolo del vinto, o all’opposto quello dell’eroe, che ben conosciamo, ma la dignità di una banale, ed eccezionale al tempo stesso, vita normale, fatta di luci ed ombre, coraggio e vigliaccherie, vittorie e sconfitte.
Infine, Sig. Presidente, vorrei, a nome di tutti i collaboratori della nostra associazione, donarLe una copia della nostra rivista HP – Accaparlante (nella quale abbiamo pubblicato la Sua risposta alla mia lettera) e anche una lavagnetta di quelle che utilizzo per parlare. Sono due oggetti a noi molto cari, simboli di una comunicazione fatta con pochi mezzi ma molto viva ed efficace.

Carlo Azeglio Ciampi, Presidente della Repubblica

Sono davvero contento di questa vostra presenza qui; incontro, il nostro, che intendo come conferma di una avanzata, e direi ormai in gran parte acquisita, nuova cultura che riguarda i cosiddetti “disabili”.
Nel corso della mia vita, ho vissuto questa evoluzione fortissima del rapporto della società nei confronti di coloro che hanno avuto la donazione delle forti limitazioni fisiche. Se ricordo la mia gioventù, allora questa realtà veniva ignorata, o se non era possibile ignorarla era tenuta nascosta.
Poi, col volgere degli anni, in particolare negli ultimi 40-50 anni, c’è stata una evoluzione, certamente, che ha portato a questa trasformazione del rapporto della società, in particolare della società italiana, verso coloro che sono chiamati disabili e che ripeto, come Claudio ha detto, avremmo invece considerati diversamente abili.
Il passaggio è stato forte, lo vediamo, io lo considero praticamente compiuto. E’ chiaro che, come tutte le conquiste nel rapporto della società, anche queste debbano quotidianamente essere nuovamente conquistate, cioè riaffermate con decisione e con la nostra vita nei rapporti quotidiani.
Non c’è dubbio che le condizioni di miglioramento fisico richiedano un’assistenza, e approfitto per ringraziare tutti coloro che si dedicano all’assistenza. Una cosa è assistenza per consentire a chi ha una menomazione fisica di poterla superare, altra cosa è vedere esaurito il rapporto dell’essere normale con le diversità della società in soli rapporti d’assistenza.
Questo è il grande passaggio, l’abbiamo, l’avete voi conquistato; bisogna quotidianamente riaffermarlo con i nostri comportamenti. É importante anche che vi sia la capacità di esprimersi, di presentarsi e di interessarsi alla discussione dei problemi principali della nostra società, cioè che la vostra sia una capacità di esprimersi, e non solo che possa essere considerata una pur legittima aspirazione a veder riconosciuti i vostri diritti. Una partecipazione vera e attiva alla vita della nostra società.
Ecco, questo centro documentazione deve dimostrare che non si tratta solamente di far sentire la voce, ma anche di usare la vostra voce, usare il vostro spirito per essere parte attiva della vita della nostra società, nel campo dello spirito in cui voi avete proprio una ricchezza particolare.
Il mio invito è quello a fare sentire la vostra voce, che è ben fondamentale nella società italiana, anche attraverso il vostro centro documentazione, e penso che questo possa portare ad una ulteriore fase di questa lunga evoluzione vissuta negli ultimi 50 anni. Ed è con questo augurio che vi ringrazio di essere qui e che rinnovo il mio impegno al vostro fianco, impegno mio personale ma che vuole appunto essere testimone di un’Italia migliore.

Il mandato sociale degli educatori

Tra le difficoltà del ruolo di educatore, spicca la tentazione di ricondurre la “diversità” a modelli paternalistici e non paritari con la “normalità”, sotto la spinta di una società che vuole un’integrazione parziale e fatica ad eliminare completamente le barriere, soprattutto mentali, tra sé ed i disabili.Una partecipazione reale degli svantaggiati

Malcolm X, in un discorso tenuto a Detroit una settimana prima di essere ucciso, affermava :
“Sapete, dieci persone possono sedersi intorno a una tavola per mangiare, per cenare. E io posso arrivare e sedermi dove loro stanno cenando. Loro stanno cenando; io ho davanti a me un piatto, ma dentro non c’è niente. Perché siamo tutti seduti alla stessa tavola, saremo allora tutti a cena? Io non sto cenando, non sono un commensale, finché non mi permettono di mangiare. Allora diventerò un commensale. Il solo stare a tavola con altre persone che stanno cenando, non rende anche me uno che sta cenando, è questo che dovete mettervi in testa in questo paese.”
Gli educatori che hanno operato negli ultimi 20 anni credo possano autodefinirsi gli “operatori dell’integrazione sociale”. Prima dell’avvio degli interventi di questi operatori sociali, le strutture che si “occupavano” delle persone svantaggiate operavano in modo da segregare questi individui in strutture tristemente famose : manicomi, istituti speciali ecc…
Il lavoro degli educatori, supportato da adeguati supporti legislativi (la legge 180, la legge sul collocamento obbligatorio, l’integrazione scolastica), ha reso possibili bellissime esperienze di contatto tra persone che fino ad allora si erano tenute a debita distanza: i “normali” e i “diversi”.
Dopo questi anni di esperienza, come possiamo valutare l’attuale situazione? Il leader nero Malcolm X, nella sua provocazione citata all’inizio dell’articolo, ci fa riflettere su un punto molto importante: la partecipazione di una persona ad un evento quale può essere, per esempio, la formazione scolastica, non può definirsi compiuto per il semplice fatto di condividere lo stesso spazio (la tavola), ma deve prevedere anche una serie di esperienze che fanno sì che la partecipazione del soggetto sia reale (la cena).
L’impegno degli educatori ha portato ad imbandire una tavola dove mangiano solo le persone “normali”? Oppure ha creato delle basi solide perché la cena sia servita anche a coloro che vengono definiti a seconda dei casi: svantaggiati, disabili, gli ultimi?

Chi valuta la “vita normale” del diverso?

Per valutare se il lavoro degli educatori ha portato ad una reale partecipazione delle persone svantaggiate, dobbiamo tenere in considerazione due fattori spesso dimenticati.
Il primo riguarda l’appartenenza degli educatori al gruppo dei “normali”. Questo li differenzia in maniera ineludibile dai loro utenti, che appartengono invece al gruppo sociale dei “diversi”. Si potrebbe obiettare che la “diversità” è un concetto soggettivo, e che non si può con certezza immettere un soggetto in una categoria di diversità. Questo può essere vero nei processi psicologici, ma nelle dinamiche sociali la diversità (soprattutto se ci riferiamo a soggetti disabili psichici o malati mentali) è ben codificata e riconosciuta, ed è una delle basi della coesione sociale e del senso di appartenenza.
Gli educatori, per quanto bravi nell’avviare una relazione empatica con i loro utenti, rimangono delle persone “normali” che conducono una vita normale nella quale possono accedere a tutte le opportunità che sono concesse alla stragrande maggioranza della popolazione.
Se mettiamo in relazione questo dato di fatto con la tendenza degli educatori a farsi portavoce e difensori dei bisogni, delle esigenze e delle rivendicazioni delle persone svantaggiate, ci troveremo di fronte ad una dinamica quantomeno pericolosa, quella che si crea quando un gruppo sociale privilegiato si erge a difensore di un gruppo svantaggiato. Al di là del rapporto paternalistico che inevitabilmente viene ad instaurarsi tra i due gruppi sociali, le soluzioni dei normali saranno sempre e comunque funzionali alla esigenze dei normali, che imporranno il loro “democratico realismo”.
Il secondo fattore nascosto, strettamente collegato al primo, è legato alla valutazione della qualità della vita di una persona “normale” e di una persona disabile.
I parametri con cui consideriamo la nostra esistenza accettabile non sono certamente gli stessi con cui valutiamo la vita di un disabile come degna di essere vissuta.
Per mettere alla prova questo doppio binario di valutazione, pensiamo ad una ragazza down. Possiamo immaginare che lei senta l’esigenza di andare a ballare e ipotizzare i vari modi in cui affrontare il problema:
Uscire col gruppo di tempo libero che le ha trovato la Ausl e, se non in una festa campestre, ritrovarsi in un locale alternativo perché più accettante e perché di solito gli educatori vanno in posti sinistrorsi;
Uscire con poche amiche (magari del gruppo parrocchiale) e ritrovarsi in posti similari a quelli citati in precedenza;
Uscire con le sue amiche (quelle con le quali non ha litigato) e, andando in auto fino a Rimini, entrare nella discoteca di grido
Presentarsi per tempo in un locale della zona ed esibirsi come cubista.
Quali di queste opzioni vi sembrano realistiche? Non rifugiatevi in false difese, quali quelle che neppure noi, con i nostri fisici goffi, potremmo fare i cubisti, perché nessuno di noi sa se la ragazza down abbia un fisico all’altezza; e non date la colpa al mondo delle discoteche che è edonistico e superficiale, perché credo non ci sia uno stigma più infamante che quello di costringere le persone in mondi intelligenti, buoni e sani.
Io credo che ognuno di noi abbia un limite all’interno del quale gli risulta insopportabile l’idea che una persona “diversa” possa entrare e disturbare, e, in ogni caso, ci sono territori ed esperienze di vita che noi “normali” neghiamo a coloro che non presentano alcune caratteristiche specifiche; è per questo che la qualità di vita di un disabile viene valutata al di là di questo confine, in un territorio mentale dove ai diversi sono negate alcune opportunità senza che questo rappresenti una eventualità così drammatica. In questo modo la valutazione della qualità di vita di un disabile, anche se priva di queste opzioni, risulterà in ogni caso soddisfacente.

Un mandato sociale di esclusione

Poste queste premesse, che senso ha parlare di integrazione sociale?
Io credo che la società richieda agli educatori un’integrazione ad uso e consumo delle persone normali; sta agli educatori valutare se accettare o rifiutare questo mandato sociale.
Franco Basaglia, il padre della nuova psichiatria in Italia, nel 1968 scriveva : “La depsichiatrizzazione è un po’ il nostro leitmotiv. E’ il tentativo di mettere tra parentesi ogni schema, per agire in un terreno non ancora codificato e definito. Per incominciare non si può che negare tutto quello che è intorno a noi : la malattia, il nostro mandato sociale, il ruolo. Neghiamo cioè tutto ciò che può dare una connotazione già definita al nostro operato. Nel momento in cui neghiamo il nostro mandato sociale, noi neghiamo il malato come malato irrecuperabile e quindi il nostro ruolo di semplici carcerieri, tutori della tranquillità della società; negando il malato come irrecuperabile, neghiamo la sua connotazione psichiatrica; negando la sua connotazione psichiatrica, neghiamo la sua malattia, depsichiatrizziamo il nostro lavoro e lo iniziamo su un terreno nuovo, tutto da arare.”
Basaglia ci invita a rifiutare il mandato sociale che voleva allora segregare i malati mentali nei manicomi. Da allora sono passati più di 30 anni, e la società è sicuramente cambiata. Oggi qual è il mandato sociale degli educatori? E gli educatori rifiutano o accettano questo mandato?
A mio avviso noi, società dei normali, abbiamo solo spostato il confine, ma esiste ancora una barriera che ci separa dai “diversi”. Noi normali abbiamo concesso alcuni spazi fisici a persone che prima erano completamente separate da noi, ma in ogni caso abbiamo bisogno che i “diversi” siano compresi all’interno di contenitori che possono essere fisici (centri diurni, gruppi appartamento) o mentali (pensare che ci sia qualcuno che si occupa della loro presenza tra noi).
Questi contenitori fisici e mentali sono gli educatori e le strutture nelle quali lavorano.

Le difficoltà di un “orgoglio disabile”

Dobbiamo allora pensare che l’impegno degli educatori sia completamente inutile? Penso proprio di no, semplicemente perché credo che sia molto peggio vivere per anni in un manicomio rispetto a passare la propria esistenza in un gruppo appartamento in compagnia di educatori, magari di sinistra.
Ma se vogliamo analizzare l’efficacia sociale degli interventi degli educatori, dobbiamo renderci conto che i gruppi sociali non si integrano in modo così meccanico, e che coloro che si trovano in una posizione di svantaggio e di stigmatizzazione, per poter accedere al maggior numero di opportunità sociali ed esistenziali, non devono seguire un percorso di integrazione, bensì di emancipazione. Questo percorso trova la sua genesi nel riconoscimento reciproco dei componenti di un gruppo sociale e nell’esaltazione delle caratteristiche del proprio gruppo come invidiabili. Il gay pride (l’orgoglio gay) o il “nero è bello” sono stati i primi passi fatti dagli omosessuali o dagli afroamericani, non per farsi accettare o integrare nella società dei bianchi eterosessuali, ma per imporre la loro presenza nella società dei “normali”, per inserire la propria variabile tra le variabili già riconosciute nella società.
La difficoltà dei disabili e dei malati mentali sta nel fatto che vengono definiti e riconosciuti attraverso una caratteristica che universalmente viene definita negativa: la malattia.
Un altro punto debole è che questo gruppo sociale viene codificato e definito dal gruppo sociale avverso: i “normali”, ed è come se i neri americani avessero fatto combattere le battaglie razziali solo dai bianchi democratici.

“Giocatori smarcati”

Quello che voglio affermare è brillantemente descritto da Malcolm X nel discorso già citato all’inizio dell’articolo:
“Quando giocate a pallone e vi hanno intrappolato, non tirate via la palla, la passate a quello dei vostri compagni di squadra che è libero. Questo fecero le potenze europee. Erano intrappolate nel continente africano, non potevano restare lì; erano visti come colonialisti e imperialisti. Quindi dovevano passare la palla a qualcuno la cui immagine fosse diversa, e passarono la palla allo Zio Sam. Lui la raccolse e da allora continua a correre. Era libero, non era visto come uno che avesse colonizzato il continente africano. A quell’epoca, gli africani non potevano capire che sebbene gli Stati Uniti non avessero colonizzato il continente africano, avevano colonizzato ventidue milioni di neri in questo continente. Perché noi siamo completamente colonizzati quanto qualsiasi altro popolo colonizzato (Applausi).
La palla fu passata agli Stati Uniti, nel periodo in cui John F. Kennedy arrivava al potere. Lui la raccolse e aiutò a prendere la fuga con lei. Era il più brillante giocatore smarcato che la storia ricordi”.
Lui parlava degli afro-americani a degli afro-americani, ma questo meccanismo può essere trasposto nei rapporti tra normali e diversi.
Possiamo affermare che gli educatori sono i giocatori smarcati dei nostri tempi.