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Autore: admin

Lettere al direttore

Caro Claudio,
la disabilità è un argomento complesso e vasto. I bambini che nascono con patologie genetiche, metaboliche, traumi da parto, sono in forte aumento, senza dimenticare quelli che diventano disabili a causa di incidenti stradali o domestici.
La famiglia si trova da un momento all’altro a dover cambiare vita, viene travolta dai sentimenti, dai timori, dalla disperazione, dalla incredulità.
Le madri con figli disabili non hanno le stesse Pari Opportunità della altre madri.
Le donne che si trovano a vivere la realtà di un figlio disabile non vengono informate adeguatamente del sostegno previsto dalle nostre leggi che spesso sono inapplicate proprio da chi dovrebbe invece metterle in opera.
Il primo ostacolo a cui si trova di fronte una madre è la mancata e adeguata assistenza per permetterle di continuare a lavorare, sia per mantenere inalterato il livello economico del nucleo famigliare, sia per mantenere un minimo di vita di relazione, che può aiutare nel tempo a vivere un contesto sociale e non rischiare di cadere nella depressione più totale. Abbiamo esempi strazianti di madri che uccidono il figlio disabile e a volte si uccidono esse stesse…
Le patologie genetiche, gravissime in molti casi, possono coinvolgere l’apparato motorio, respiratorio, sensoriale: ci troviamo così di fronte a un bambino che per vivere ha bisogno di un respiratore, dell’inserimento della PEG (sondino per l’alimentazione inserito nello stomaco) e con la vista o l’udito compromessi. In questi casi per permettere alla mamma di tornare al lavoro dopo il periodo previsto per il congedo di maternità sarebbe necessaria un’assistenza con personale sanitario di almeno 10 ore al giorno (8 di lavoro e 2 per gli spostamenti). Così non è se non in rarissimi casi: nella maggior parte delle situazioni in tutte le Regioni italiane le madri sono costrette a scegliere se occuparsi del loro bambino, rinunciando al lavoro o scegliere il lavoro, rinunciando a vivere con il proprio figlio.
Il delitto peggiore che si possa commettere è separare un figlio dalla propria madre, e questo avviene quando questi ragazzi vengono inseriti nei centri residenziali, non inferiore come gravità a mettere di fronte a scelte sofferte, solo per motivi economici, queste stesse madri che hanno la sola colpa di appartenere a un ceto medio, o medio basso.
A quali madri di figli normodotati viene chiesto di fare questa scelta? Per loro ci sono le babysitter, i nidi, i nonni, per i figli in condizione di handicap invece le babysitter non hanno la preparazione necessaria, gli asilo-nido spesso non si attivano, visto che fanno capo al Comune le spese di gestione, i nonni, quando ci sono, sono spaventati dall’impegno “straordinario nel vigilare un bambino con disabilità grave”.
“Mancano i fondi necessari”: sono le parole che sia le ASL che i comuni tramite gli assistenti sociali ripetono fino alla nausea alle famiglie, ma allora che devono fare queste donne e madri? Quali sono le priorità di un Paese civile?
Non vedo perché non dedicare a queste madri un piccolo tributo, un piccolissimo pensiero: la celebrazione del mio 8 marzo.
Daniela Mignogna

Cara Daniela,
la tua lettera precisa e intensa, “rispolverata” dopo quasi dieci mesi dagli archivi delle missive a me indirizzate (tempi tecnici, questa è pur sempre una rubrica trimestrale…), richiama a un argomento ineludibile, soprattutto perché davvero annoso, ma mai inseritosi tra quelli considerati prioritari e degni di una discussione approfondita. Peraltro in una nazione che non perde occasione per riempirsi la bocca della parola “famiglia”, più per delimitarne i confini di legittimità (“è famiglia solo quella che…”) che per immaginare e impostare politiche attente alle istanze che emergono dall’esperienza concreta dei nuclei famigliari attuali. Dicevo che quello da te sollevato è un argomento ineludibile e annoso che mi fa pensare, ad esempio, al tragico sovraffollamento delle carceri nostrane (da quanti anni ne sentiamo parlare senza che si siano trovate politiche efficaci e non solo azioni dal respiro breve ed effettivamente inadeguate a una risoluzione definitiva e resistente nel tempo, non perennemente temporanea?). Un tema, quello che mi sottoponi, che, soprattutto in Italia, è tutto declinato al femminile, dal momento che vige, per quanto silenziosamente (nel migliore dei casi), una legge, una dinamica per la quale il “peso” di un figlio, della sua quotidianità e della gestione della stessa (passami il termine “gestione”…) debba ricadere interamente sulla figura femminile della coppia (eterosessuale, s’intende, ma non esistono solo quelle, anzi). E questo rende le cose ancor più difficili, perché, in questo più che in altri Paesi, nascere donne implica già nascere con un handicap (si veda, a questo riguardo, anche se non è il suo tema principale ed esplicito, un breve e interessante documentario di Chiara Malta, J’attends une femme, del 2010): un handicap al quale, dato che spesso il corso, la natura delle cose lo prevede, non possono che aggiungersene altri (come la disabilità di un figlio) rendendo il peso totale ingestibile senza l’intervento di attori, reti di sostegno alla persona e… alle persone: una politica efficace in favore dei soggetti disabili è, per sua stessa natura, un politica efficace anche per tutto il mondo che più o meno immediatamente ruota attorno a essi. Come tu scrivi bene, la delega ad altre figure famigliari non solo non è sempre auspicabile, ma spesso si rivela inapplicabile dal momento che, in effetti, un bambino con deficit implica una presenza (a volte un’assistenza) maggiore e comunque di diverso tipo. Il punto, quindi, è, da un lato, mettere le figure parentali di maggiore prossimità (padri e/o madri) nelle condizioni di poter vivere nel migliore dei modi e con i giusti tempi il loro “desiderio di essere genitori”; dall’altro, garantire attorno a loro quel sostegno che non deve essere previsto, quando va bene, solo alla luce della loro assenza. Andrebbe cercata un’integrazione felice tra le parti in causa, non un’esclusione reciproca e non funzionale né alla famiglia né al soggetto con disabilità, né, in definitiva, alla società nel suo complesso. Occorre un sostegno che non si attivi solo per “recuperare un danno”, ma che lavori per favorire una soluzione in positivo dei casi che si trova a gestire, un loro miglioramento.
Siamo sicuri che, anche a un livello strettamente economico, questo non si riveli più sostenibile?
Per intenderci, costa di più ricostruire un intero paese distrutto dall’esondazione di un fiume o impostare politiche di tutela del paesaggio che possano intervenire in modo puntuale e costante?
Ecco, uscire dalla logica emergenziale e abbracciarne una di tipo opposto consente, a mio avviso, una maggiore garanzia del rispetto dei diritti di tutti e di ogni tipo e la certezza che a cavarsela non saranno, come sempre più spesso accade, solo quelli che godono di un reddito maggiore. Una questione di democrazia e di uguaglianza.
Buon 8 marzo a tutte. E a tutti. Col “dovuto” anticipo…
Claudio Imprudente

Se lo spot è un pugno nello stomaco

Pubblicità Progresso ha compiuto quarant’anni, festeggiati con una mostra a Milano con tutte le campagne realizzate in queste quattro decadi. Quattro decadi che raccontano di una creatività “a volte impertinente, spesso ironica, sempre profondamente onesta”, come ha sottolineato Alberto Contri, dal 1998 presidente della Fondazione Pubblicità Progresso. Secondo Contri, Pubblicità Progresso non ha perso la sua spinta propulsiva, anche se la comunicazione sociale è diventata una cacofonia incontrollabile, troppo spesso povera di idee e infarcita di testimonial, piagnucolii e sms per donare 2 euro. Contri ha anche ricordato la specificità di Pubblicità Progresso, “caso unico al mondo perché ha al suo interno tutti i componenti della filiera della comunicazione commerciale”, e l’esordio con una campagna per la donazione del sangue che era un pugno nello stomaco ai tempi di Carosello.
Un certo giorno del 1971, l’Italia di Calimero il pulcino nero e di Susanna tutta Panna si ritrovò sul giornale la faccia impietrita di un medico che chiedeva sangue. L’inizio dell’avventura tutta italiana di Pubblicità Progresso fu un piccolo choc nazionale. Quarant’anni dopo, la pioniera della comunicazione sociale nel nostro Paese ha celebrato un compleanno importante con una mostra all’Università Cattolica di Milano: e via che sfilano pezzi del nostro costume nazionale e frasi entrate nel lessico quotidiano oltre che nei titoli dei giornali, come “chi fuma avvelena anche te, digli di smettere” oppure “adotta un nonno”.
Dalla difesa del verde in anni pleistocenici, quando “ecologia” era ancora una parola misteriosa, fino all’invito alla lettura e all’ascolto, da Superman simbolo del volontariato alle immagini coraggiose con la bambina Down (e queste sì che mettono un brivido, pensando a chi la bambina Down ora la vuole cancellare dalle foto di classe), si delinea anche una meravigliosa utopia: la voglia di fare del nostro un Paese migliore.
Se la Pubblicità Progresso arrivò a inizio anni Settanta, non fu certo casuale, ricorda il professor Edoardo T. Brioschi, ordinario alla facoltà di Economia della Cattolica e presidente onorario Italy Chapter dell’International Advertising Association: “Fu il ruolo di svolta del ’68 nel campo della comunicazione. Le certezze erano state poste in discussione e la pubblicità, messa in croce dagli studenti che l’accusavano di essere il diavolo, capì di avere responsabilità sociali”.
L’idea forte fu quella della cooperazione fra tutti quelli che lavoravano nel campo: concessionarie, agenzie, creativi, committenti, media. L’intera filiera: un caso unico al mondo. Funziona così: le associazioni che fanno parte di Pubblicità Progresso (oggi organizzata nella Fondazione) individuano il tema, che dev’essere condiviso, di interesse nazionale e senza carattere commerciale, politico e confessionale. Poi indicano le agenzie, i centri media, le case di produzione che lavoreranno al progetto in modo assolutamente gratuito. In modo analogo, i giornali, le radio e le tv pubblicano o trasmettono i messaggi senza guadagnarci un centesimo.
Le campagne sono cambiate insieme all’Italia, ma il loro compito è stato quello di essere sempre un passo più avanti del Paese. Ci hanno fatto digerire temi sgradevoli come la prevenzione del tumore al colon e i pregiudizi nei confronti dei disabili. Non hanno avuto paura di darci un pugno nello stomaco, mettendo in pagina topi, rifiuti maleodoranti, amorevoli mani femminili che porgono profilattici al partner; e soprattutto volti non omologati ai canoni estetici correnti. Una versione nazionale del “think different”, ironica al punto giusto, immune dalle melensaggini del politicamente (troppo) corretto.

Per saperne di più:
www.pubblicitaprogresso.org

Uniti per la diversità. Le attività dell’Intergruppo della Disabilità al Parlamento Europeo

Nell’uscita di marzo 2005 di “HP-Accaparlante”, avevamo tentato di accendere i riflettori su un’istituzione comunitaria poco nota: l’Intergruppo della Disabilità presso il Parlamento Europeo, nel quale europarlamentari di diverse nazionalità e appartenenze politiche lavorano fianco a fianco per la promozione dei diritti e il miglioramento delle condizioni di vita delle persone con disabilità. L’Intergruppo, istituito nel 1980 (tra i primi in assoluto del Parlamento Europeo), ha la segreteria presso l’European Disability Forum, l’organizzazione indipendente rappresentativa delle persone con disabilità e delle loro associazioni a livello europeo, allo scopo di garantire una stretta interfaccia tra rappresentanti e rappresentati.
Sei anni fa, anche grazie alle interviste concesse dai due membri italiani Marta Vincenzi (oggi Sindaco di Genova) e Antonio De Poli, erano emerse alcune caratteristiche dell’Intergruppo: lo spirito di collaborazione tra membri di diverse nazioni e gruppi parlamentari (a differenza di quanto avviene nelle commissioni), l’esempio della battaglia vinta nel 2001 dal presidente Richard Howitt in materia di accessibilità degli autobus urbani, l’impegno allora in corso per una direttiva “orizzontale” contro la discriminazione.
In questi anni, molto è cambiato, e non solo perché le nuove elezioni dell’Europarlamento hanno imposto di rinnovare la composizione dell’Intergruppo: le bocciature sulla Costituzione Europea da parte dei cittadini di Francia e Paesi Bassi nel maggio/giugno 2005 hanno imposto uno stop alle politiche di integrazione continentale e avviato un loro ripensamento, che non può dirsi concluso dal Trattato di Lisbona del 2007; la crisi economica iniziata nel 2008 sta mettendo a repentaglio la stabilità finanziaria di diversi Paesi membri, e in discussione la tenuta dell’Euro; con le elezioni del 2009 si è rafforzata nel Parlamento Europeo la componente euroscettica o apertamente nazionalista, talora con venature di estrema destra (si pensi al British National Party). Recentemente, la Commissione Europea ha approvato la Strategia Europea sulla Disabilità 2010-2020, che definisce il quadro per le azioni in materia in questo decennio. Come si sta muovendo il nuovo Intergruppo della Disabilità in questo contesto non semplice? Abbiamo cercato di fare il punto con l’aiuto, anche questa volta, di due membri italiani dell’Intergruppo di differente appartenenza politica: Debora Serracchiani (PD – Gruppo Socialisti & Democratici) e Claudio Morganti (Lega Nord – Gruppo Europa della Libertà e della Democrazia), che è anche uno dei vicepresidenti dell’Intergruppo.

Un presidente non comune, un’azione condivisa
Il nuovo Intergruppo della Disabilità si compone di 98 europarlamentari – in calo, va segnalato, rispetto ai 111 della precedente legislatura, ma sempre l’intergruppo europeo più popoloso. Dal momento che l’adesione è volontaria e legata a un particolare interesse per la tematica, ci si potrebbe attendere che i gruppi più numerosi siano quelli dei Paesi più avanzati in materia di integrazione sociale delle persone con disabilità, ma il quadro risulta più complesso: la nazione con il gruppo più nutrito è l’Ungheria con ben 14 europarlamentari (oltre la metà di tutta la rappresentanza a Strasburgo!), seguita dal Regno Unito con 13, dalla Grecia con 12 e dall’Italia con 10 – si segnalano anche i soli 2 rappresentanti per la Francia e la totale assenza di un rilevante “nuovo Stato membro” come la Polonia.
Alla presidenza dell’Intergruppo è stato eletto per acclamazione Adam Kosa, giovane europarlamentare ungherese che, insieme al collega francese Philippe Juvin, è il primo membro sordomuto nella storia del Parlamento Europeo. Kosa, avvocato 36enne e Presidente del FESZT, il Consiglio Nazionale ungherese delle organizzazioni di persone disabili, ha tenuto il 15 luglio 2009 il primo intervento in linguaggio dei segni che l’Europarlamento abbia mai ospitato, e continua a battersi per un più esteso riconoscimento delle lingue dei segni in Europa.
I parlamentari europei che fanno parte dell’Intergruppo sembrano più uniti dalla propria sensibilità per il tema della disabilità che divisi dalle differenti appartenenze politiche e nazionali: Morganti rileva che “i membri che lo compongono hanno tutti uno spiccato interesse per la materia, e cercano di agire al meglio, indipendentemente da condizionamenti vari, per cercare di essere il più possibile utili alla causa che hanno a cuore”. Al contempo, l’attività dell’Intergruppo dipende molto dall’impegno (e dagli impegni) dei suoi membri, e dall’altro dalle capacità di stimolo degli altri organi comunitari – è sempre Morganti ad affermare che “siamo soggetti anche a un maggiore o minore coinvolgimento a seconda della Presidenza UE di turno, e questo non ci agevola molto, poiché ci sono presidenze molto attive e altre un po’ più lassiste (come purtroppo quella ungherese del primo semestre 2011)”.

Le vie all’integrazione
Su quali linee si sta muovendo la legislazione dell’Unione Europea cui l’Intergruppo sta fornendo importanti contributi? Da un lato, rimangono al centro i concetti tradizionali di “accessibilità” e “non-discriminazione”: la Strategia Europea sulla Disabilità 2010-2020 si dichiara “incentrata sull’eliminazione delle barriere” in 8 ambiti. Ad esempio, parlando di diritto alla mobilità (tema al centro delle campagne dell’European Disability Forum nel 2011), Serracchiani segnala che “ci sarà prima uno studio che identificherà le barriere che limitano le persone a mobilità ridotta nell’uso di mezzi di trasporto o nell’accesso ai servizi pubblici. Lo studio fornirà le basi per lo sviluppo di una nuova legge europea sugli standard di accessibilità”. L’obiettivo finale in questo senso può essere lo “statuto dell’Unione sulla disabilità” che secondo Serracchiani è stato concordato tra Presidente dell’Intergruppo e Presidente del Parlamento Europeo, e che porterà a incontri biennali tra gli organismi dell’Unione per analizzare le sfide che rimangono da raggiungere per le persone disabili, o in altro senso una “Legge Europea sulla Disabilità” che stabilisca in tutti i campi gli standard minimi di accessibilità.
In altre attività degli organismi europei emerge tuttavia una linea guida sottilmente differente, implicitamente descritta da Morganti quando afferma: “vado molto fiero del fatto che oramai, in ogni discussione e provvedimento relativo al Bilancio dell’Unione europea, si faccia riferimento e si tenga conto delle necessità e peculiarità delle persone con disabilità: era un
impegno che mi ero assunto in qualità di vice-presidente dell’Intergruppo e Membro
effettivo della Commissione Bilancio del Parlamento europeo, e devo dire che ciò sta
funzionando”. Le esigenze delle persone con disabilità non sono quindi, almeno in alcuni casi, oggetto di norme e indicazioni specifiche, quanto integrate nella legislazione relativa a tutti gli ambiti che possono incidere su di esse – a partire, appunto, dalla destinazione delle risorse economiche comunitarie.
La differenza tra questi due approcci può apparire molto sottile, e probabilmente spesso lo è; un esempio può tuttavia essere significativo. In un’interrogazione alla Commissione Europea del 4 febbraio 2011 sul tema del diritto al lavoro, Morganti rileva “un drastico calo dell’occupazione delle persone con disabilità, nonché una scarsissima attività ispettiva e di controllo per valutare il rispetto delle regole in materia”, e chiede alla Commissione interventi più incisivi e dati sull’inserimento lavorativo nei diversi Stati europei. La risposta del Commissario Viviane Reding del 6 aprile conferma che “per le persone disabili la situazione del mercato del lavoro è sfavorevole in molti Stati membri e non è migliorata negli ultimi anni”, e rinvia a una serie di azioni proposte nelll’allegato alla Strategia 2010-2020. È però possibile chiedersi (e su questa rivista la domanda è già stata posta) se sia più efficace proporre iniziative specifiche sull’occupazione delle persone con disabilità, o piuttosto tentare di incidere sull’intero mercato del lavoro, per renderlo più accogliente (anche) per chi, essendo in situazione di handicap nel contesto di partenza, cerca di inserirvisi o di rimanervi.

Il piano nazionale e quello culturale
Un vincolo inevitabile all’efficacia delle attività dell’Intergruppo è legato al suo innestarsi in un processo decisionale europeo che, anche a causa delle battute di arresto all’integrazione prima citate, si rivela poco incisivo. Morganti non esita ad asserire che “l’Europa è per antonomasia il luogo del compromesso estremo, e quindi quasi tutte le decisioni si cerca di prenderle col massimo consenso possibile, magari a volte a scapito di una maggiore incidenza”. Forse ancor più rilevante è il fatto che le scelte adottate a livello europeo si traducono in provvedimenti concreti solo una volta recepite da leggi nazionali: è sempre Morganti a ricordare, a proposito della Strategia 2010-2020, che “in numerosi ambiti si dovrà agire seguendo il cosiddetto ‘metodo di coordinamento aperto’, ovvero che all’Unione europea spetta solamente la gestione e appunto il coordinamento delle politiche, e quindi sta ai diversi Stati membri implementarle nel migliore dei modi”. È pur vero che “il legiferare europeo ed italiano vengono necessariamente a contatto nell’implementazione delle norme comunitarie, e quindi i due processi diciamo che si fondono e si completano”, ma i meccanismi istituzionali attualmente in vigore rischiano di annullare o rallentare molto quel “traino virtuoso” con cui l’Europa potrebbe promuovere le migliori prassi nei vari Paesi, in materia di condizioni di vita delle persone con disabilità, elevandole a standard da rispettare in tutto il territorio dell’Unione – invece, secondo Serracchiani, “anche in questo, come in quasi tutti gli altri ambiti, la molteplicità degli ordinamenti e delle tradizioni dei vari Stati si riflette in una pletora di diversità”.
Anche per queste ragioni, l’esito dell’azione politica a livello europeo (e dello stimolo a essa portato dall’Intergruppo) va rilevato non solo nella definizione di regole giuridiche a favore delle persone disabili, quanto nella promozione di una cultura realmente e diffusamente inclusiva. Le differenze a livello europeo sono ancora marcate: se Morganti nota che a Bruxelles “molto è stato fatto per agevolare al meglio la vita delle persone disabili” in materia di mezzi di trasporto pubblici o di rispetto degli scivoli per carrozzine, Serracchiani avverte che “è sufficiente fare caso al numero di carrozzine che si vedono in strada per dedurne la maggiore o minore accessibilità di una società ai disabili: in Italia ne vediamo pochissime”. La concentrazione su un orizzonte culturale di lungo periodo non costituisce uno scarico di responsabilità per gli europarlamentari, ed anzi impone loro un impegno ancor maggiore perché mirato a cambiamenti profondi e duraturi, in un intreccio complesso con le diverse realtà sociali così espresso da Serracchiani: “la scuola è la madre dei grandi cambiamenti di lungo termine. Le campagne di sensibilizzazione sono certo utili, ma solo una radicata cultura dell’integrazione e del rispetto può modificare la vita dei disabili. In questo la politica ha una grandissima responsabilità, perché ci deve credere e investire, anche se forse non c’è consenso immediato”.

Disability Intergroup
Secretariat: Janina Arsenjeva
c/o European Disability Forum
Rue du Commerce 39-41, B-1000 Bruxelles, Belgio
Tel. +32.2.2824602
Cell. +32.473.983489
Fax +32.2.2824609
E-mail: janina.arsenjeva@edf-feph.org
www.edf-feph.org/Page_Generale.asp?DocID=18390

On. Debora Serracchiani
Parlamento Europeo – Bât. Altiero Spinelli 15G269
Rue Wiertz 60, B-1047 Bruxelles, Belgio
Tel. +32.2.2845531
Fax +32.2.2849531
E-mail: debora.serracchiani@europarl.europa.eu

On. Claudio Morganti
Parlamento Europeo – Bât. Altiero Spinelli 07H255
Rue Wiertz 60, B-1047 Bruxelles, Belgio
Tel. +32.2.2845121
Fax +32.2.2849121
E-mail: claudio.morganti@europarl.europa.eu

On the road: odissee dei nostri giorni

Io sono uno che viaggia tanto. Per partecipare ai convegni, più che per vacanza. Ogni volta la partenza mi mette agitazione, ma allo stesso tempo la attendo con ansia. Quella del viaggio è una metafora usata e abusata in letteratura e in filosofia. Però dal punto di vista di un disabile, sia che ci si riferisca al viaggio in quanto tale, sia che lo si usi come immagine, la prospettiva, in parte, cambia. Prima di tutto, negli anni è cambiato il modo di concepire l’offerta turistica per le persone disabili. Dall’idea di una vacanza di gruppo stile “colonia”, di tipo “curativo”, in strutture dedicate, si è passati a un’offerta abbastanza ampia di luoghi accessibili, in condizioni non più riservate e in mete aperte al turismo di massa. Oggi è possibile anche un accesso facilitato alle informazioni che permette di trovare sistemazioni ad hoc e informazioni aggiornate dallo schermo di un pc o con qualche telefonata.
Se pensiamo invece alla valenza metaforica del viaggio, per una persona con deficit più che mai esso impone di affrontare i propri limiti. Le difficoltà organizzative, l’abbandono delle comodità e delle certezze casalinghe: difficile per tutti, impegnativa prova materiale e psicologica per chi ha limiti più evidenti. Il viaggio, dunque, porta con sé il rischio della perdita, dell’abbandono all’ignoto, ma è anche promessa di conquista del nuovo, di arricchimento della persona. Posti nuovi e lontani, culture diverse, persone sconosciute: tutto questo arricchisce il viaggiatore e, spesso, impone di valicare anche i confini personali. Il viaggio è definito come lo spostamento da un luogo a un altro, ma il luogo non è solo quello dello spazio fisico, è anche un luogo interiore. Ogni viaggio ci arricchisce soprattutto per le persone che incontriamo sul nostro cammino. Come diceva Thoreau, chi cammina solo può partire oggi, ma chi viaggia in compagnia deve attendere finché l’altro non è pronto. Ecco, di solito, nella compagnia, sono io quello che si fa attendere. Quello che non è pronto e non lo sarà mai senza l’aiuto altrui. A volte penso, quando parto con qualche gruppo organizzato, magari di ragazzi delle parrocchie, che qualcuno ha detto loro che, se accompagnano in vacanza e assistono persone con deficit, diventeranno persone migliori. Forse ne parleranno agli amici come di un’esperienza edificante, alcuni addirittura come un’opera di misericordia. Io mi chiedo quante persone ritengono di “fare del bene”, magari anche a se stessi, attraverso di me. Certo, non che non sia così: mettersi al servizio degli altri è sempre un comportamento meritevole. Ma anche la persona con deficit deve mettersi a disposizione degli altri. In viaggio in compagnia, fatica a dire la propria su orari, ritmi, spostamenti. Sta alle esigenze degli altri, non può fare ciò che vuole quando vuole, spesso non può fare proprio nulla da solo, senza dipendere da altri. Naturalmente questo vale nella vita di tutti i giorni, ma nella quotidianità, di solito, i ritmi sono scanditi in base alle esigenze della persona con deficit, perché ci sono familiari o operatori retribuiti che si prendono cura di lui. Questa è la grande ricchezza del viaggio fatto con amici: nessuno ha obblighi nei confronti di nessuno, proprio per questo la vacanza diventa uno scambio sincero e costruttivo di esperienze, di vite, di ritmi, di tempi, di abitudini. Anche il disabile deve dare prova di grande adattabilità, di pazienza, di tolleranza. Spesso, se si ha un deficit, si è meno flessibili, meno propensi alla condivisione e allo scambio. Si tende a diventare un po’ egocentrici, vagamente egoriferiti. Il clima più sereno della vacanza rende tutti i partecipanti, che abbiano o meno un deficit, più propensi all’apertura verso l’altro. La convivenza quotidiana con persone con cui, durante l’anno, si condivide poco più di un caffè, può diventare insopportabile, oppure portare a una comunione di vita bellissima. Dipende prima di tutto dalla capacità di adattarsi di ognuno di noi, dall’abilità nell’andare incontro ai ritmi e alle esigenze altrui. Se si impara ad andare d’accordo in vacanza, si tornerà a casa ben più tolleranti e aperti nei confronti del prossimo. I Greci, che pur estremizzando i paradigmi umani la sapevano lunga, usavano quella del viaggio come metafora principale della vita e dei cambiamenti cui una persona va incontro nell’arco della propria esistenza. Famosi sono i nostoi, i viaggi di ritorno degli eroi greci da Troia. L’Odissea è sicuramente il più celebre. Forse meno noti, ma altrettanto significativi, i viaggi di ritorno condotti da Nestore, da Menelao e da Agamennone. Tutti questi viaggi sono metafore sagge della nostra esistenza. Nestore rientra in Patria con facilità e, lì, riprende la sua vita serena, fra gli affetti familiari. Menelao deve penare di più per fare ritorno: impiega ben dieci anni, con vicende più vicine alle peripezie di Odisseo, ma, infine, giunto a Sparta è di nuovo riunito alla sua Elena e, con lei, conduce fino alla morte un’esistenza tranquilla. Questi paradigmi del lieto fine, sebbene diversi fra loro per la modalità di conquista dello stesso, sono quelli più vicini alla nostra sensibilità. Oggi sono talmente tante le brutture della vita, che tutti fantastichiamo sul lieto fine delle peripezie cui siamo sottoposti. C’è poi il paradigma di Ulisse, quello più celebre, dunque quello su cui più si è scatenata la fantasia di scrittori e poeti. Egli soffre molto durante il viaggio, deve affrontare ogni sorta di prova, eppure, al ritorno, la sua sofferenza non è terminata. Deve operare la propria vendetta nei confronti dei Proci, che occupano la sua dimora e insidiano la sua sposa Penelope. Questo incarna le paure dell’uomo moderno, la mancanza di certezze, la fatica della conquista che non trova quiete nemmeno al ritorno nella propria dimora, il desiderio di riscatto e di vendetta. Odisseo è un eroe moderno, tanto che alcuni autori hanno immaginato che egli non abbia trovato pace al suo ritorno, ma sia partito di nuovo dopo poco tempo, incapace di sottostare ai ritmi dei giorni tutti uguali della sua dimora. Poi, c’è il “non-ritorno” di Agamennone che, appena messo piede nella sua casa, viene ucciso per vendetta dalla moglie Clitemnestra e dall’amante di lei, Egisto. Queste sono le metafore della vita di tutti noi, finché il cristianesimo non introduce la prospettiva di un “ultimo viaggio”, quello definitivo, che nell’avvicinamento a Dio rende giustizia di tutte le peripezie affrontate nel nostro viaggio terreno. Questa “scoperta” del cristianesimo attribuisce un senso a tutto ciò che accade nel viaggio della vita, perché l’uomo è animale razionale, ma anche spirituale: sotto entrambi i punti di vista, necessita di un senso per tutto ciò che gli accade, di un determinismo nella propria esistenza, soprattutto per giustificare il male. Anche nell’Antico Testamento, la libertà degli Ebrei dall’Egitto comincia con un lungo viaggio verso la Terra Promessa, un viaggio lungo e difficile, intrapreso sulla fiducia nelle parole di Dio. Nel Nuovo Testamento, questo sarà il viaggio della nostra anima verso la redenzione, percorso irto di ostacoli, ma che termina con il premio più alto. Senza il cammino, il viaggio, arduo e pericoloso, non c’è salvezza, non c’è crescita personale, non c’è arricchimento e consapevolezza. Lo sapevano bene i pellegrini del Medioevo, che percorrevano strade ancora oggi così frequentate. Questo cammino, però, deve essere anche interiore, lo sapevano bene, ancora una volta, i Greci: è questo il senso del “conosci te stesso” dell’oracolo di Delfi, ripreso poi da Socrate. Lo sapeva ancora meglio Agostino, che, ne La vera religione, ha affinato il concetto: “noli foras ire, in te ipsum redi, in interiore homine habitat veritas”. Ovvero: non uscire da te stesso, rientra in te, nell’intimo dell’uomo risiede la verità. Per trovarla dentro di sé, la verità, il cammino è irto e difficile proprio come quello materiale. Voglio concludere lasciando spazio alle parole della poesia Itaca di Costantino Kavafis, perché egli è, forse, quello che ha saputo cogliere con maggiore profondità la metafora del viaggio. Perché il viaggio, per essere tale, deve avere ben presente una meta: sia essa un punto di arrivo, noto o ignoto, o anche, semplicemente, il ritorno. Senza meta, ci si perde, ci si smarrisce. Si rischia di scegliere la via più facile, quella in discesa. Sono troppe le deviazioni fra cui perdersi, se non si ha un obiettivo fisso nella mente, se non si trova una direzione.
Quando ti metterai in viaggio per Itaca
devi augurarti che la strada sia lunga,
fertile in avventure e in esperienze.
I Lestrigoni e i Ciclopi
o la furia di Nettuno non temere,
non sarà questo il genere di incontri
se il pensiero resta alto e un sentimento
fermo guida il tuo spirito e il tuo corpo.
In Ciclopi e Lestrigoni, no certo,
né nell’irato Nettuno incapperai
se non li porti dentro
se l’anima non te li mette contro.
Devi augurarti che la strada sia lunga.
Che i mattini d’estate siano tanti
quando nei porti – finalmente e con che gioia –
toccherai terra tu per la prima volta:
negli empori fenici indugia e acquista
madreperle coralli ebano e ambre
tutta merce fina, anche profumi
penetranti d’ogni sorta; più profumi inebrianti che puoi,
va in molte città egizie
impara una quantità di cose dai dotti.
Sempre devi avere in mente Itaca –
raggiungerla sia il pensiero costante.
Soprattutto, non affrettare il viaggio;
fa che duri a lungo, per anni, e che da vecchio
metta piede sull’isola, tu, ricco
dei tesori accumulati per strada
senza aspettarti ricchezze da Itaca.
Itaca ti ha dato il bel viaggio,
senza di lei mai ti saresti messo
sulla strada: che cos’altro ti aspetti?
E se la trovi povera, non per questo Itaca ti avrà deluso.
Fatto ormai savio, con tutta la tua esperienza addosso
già tu avrai capito ciò che Itaca vuole significare.

“Io speriamo che me la cavo”: storia dei primi due anni di vita di un cineclub particolare

Premessa
Quando mi è stato chiesto dalla redazione di “Hp-Accaparlante” di scrivere un articolo sul cineclub che il Gruppo Asperger onlus sta organizzando a Roma ormai da qualche stagione, mi sono detta che se si fosse trattato di raccontare il nostro percorso da un punto di vista cinematografico e quindi critico, non sarebbe stata assolutamente cosa per me.
Infatti il Cineclub, così come lo abbiamo ideato, realizzato e fatto evolvere nel corso di questi tre anni è stato innanzitutto altro e il cinema è stato soprattutto il mezzo di partenza attraverso il quale si è riusciti a costruire a poco a poco una rete di rapporti sociali, in alcuni casi amicali, e a favorire una progressiva maggiore autonomia nei ragazzi con Sindrome di Asperger e Autismo ad Alto Funzionamento. Ma di cosa parliamo quando parliamo di Sindrome di Asperger, un argomento di questi tempi alquanto di moda, grazie anche ad alcuni film come Mary and Max, Adam, Ben X, Temple Grandin, e a serie televisive quali E poi c’è Filippo, Grey’s Anatomy e soprattutto The Big Bang Theory (il protagonista, anche se non è esplicitato, ha tutti i tratti di un Asperger)? La Sindrome di Asperger è un disturbo dello spettro autistico che dura tutta la vita e che interferisce su come una persona percepisce il mondo, processa le informazioni e si relaziona con gli altri. Le aree di maggiore difficoltà sono tre: la comunicazione sociale, l’interazione sociale e l’immaginazione.
Rispetto alle forme di autismo più gravi, le persone con S.A. hanno minori problemi nell’uso del linguaggio e hanno in genere un’intelligenza nella media (e talvolta superiore). Possono presentare difficoltà di apprendimento in aree specifiche, ad esempio dislessia e disprassia, deficit dell’attenzione, iperattività ed epilessia.

L’inizio
“Io speriamo che me la cavo” è nato quasi casualmente nel novembre 2008 durante un pranzo al quale partecipavano alcuni ragazzi dell’Associazione. Il discorso, a un certo punto, era virato sul cinema e sull’interesse che suscita nei giovani: curiosità, citazioni e commenti di un certo livello che avevano suscitato alquanto stupore… Qualche tempo prima avevo conosciuto Giuseppe Cacace, uno dei responsabili di Detour, un cineclub romano molto noto situato nel Rione Monti (una zona centrale di Roma) e aperto a esperienze con persone con disabilità .
È stato un lampo: gli ho telefonato, ne abbiamo discusso con alcuni amici e psicologi e nel giro di tre settimane e quattro riunioni era nato il nostro cineclub “Io speriamo che me la cavo” – nomen omen…
Lo scopo principale era di offrire un’esperienza di inclusione sociale e di aggregazione ad adolescenti e giovani adulti con S.A. e Autismo ad Alto Funzionamento, aprendo nel contempo la partecipazione anche ad amici, insegnanti, operatori e sostenitori del Gruppo Asperger.
Abbiamo organizzato un piccolo gruppo di lavoro composto da ragazzi con S.A., giovani psicologi che avrebbero svolto il ruolo di facilitatori, un esperto di cinema, due genitori.
Gli incontri avrebbero dovuto offrire varie possibilità di interesse ed essere molto strutturati: un’accoglienza personalizzata, un’happy hour ricca e variata, presentazione e proiezione di film accessibili seguiti da un dibattito guidato. Due film al mese che puntassero sugli interessi propri del mondo giovanile, nessuna presenza di genitori in sala. Una volta con programmazione pomeridiana e una volta serale. Con l’aiuto degli psicologi, i ragazzi che frequentavano con maggior assiduità sono stati coinvolti nell’accoglienza dei partecipanti e nella gestione dell’happy hour, e ciascuno di loro a turno, ha scelto un film, ne ha preparato la scheda di presentazione e lo ha introdotto al pubblico. L’elenco dei titoli selezionati è significativo su quanto diversi si siano rivelati i loro interessi e di conseguenza su quanto siano stati vari gli argomenti dei dibattiti.
Giuseppe Cacace ha poi coinvolto un gruppo di sette ragazzi/e in RoamingRoma, un progetto ideato dal Cineclub Detour finalizzato all’alfabetizzazione cinematografica e alla realizzazione di un video documentario: le lezioni di teoria si sono svolte nei locali del cineclub, le riprese nel rione Monti. Il prodotto finale del laboratorio è stato DOCaMONTI, Appunti per un documentario sul primo rione di Roma, che è stato proiettato nel corso di un grande evento conclusivo e in seguito presentato a Cinemautismo 2010 di Torino. La prima stagione (dicembre 2008-giugno 2009), forse perché tutto era nuovo e tutto era entusiasmante, è rimasta “perfetta” nel ricordo di tutti noi. E questo non solo per i giovani, ma anche per gli adulti. Per molti genitori il cineclub era diventato un appuntamento da non mancare, un luogo dove ritrovarsi e stare insieme. Perché l’happy hour era aperta a tutti: avevamo pensato inizialmente di non parteciparvi per lasciare i figli più liberi, ma poi ci siamo resi conto che la cosa aveva poca importanza, ciascuno stava comunque con chi voleva e in certi casi risultava ancora utile essere comunque in circolazione.
Per dare un’idea del successo di pubblico, abbiamo avuto un totale di 450 presenze nel corso di 16 incontri. I risultati più rilevanti, e consolidatisi poi nel tempo, sono stati la nascita spontanea di iniziative culturali e sociali: cene, feste, aperitivi, incontri vari, dibattiti, blog; la nascita di nuovi rapporti interpersonali; un’aumentata consapevolezza da parte dei ragazzi delle loro difficoltà sociali e nel contempo delle loro capacità; la creazione di una mailing list, moderata da uno degli psicologi, per condividere idee e organizzare incontri; il miglioramento e il rafforzamento delle relazioni personali e sociali fra le famiglie dei giovani S.A. che partecipano al cineclub.

La seconda stagione
Nell’ottobre 2009, dopo dodici anni di attività, il cineclub Detour è stato sfrattato per far posto all’ennesimo ristorante. Gli unici a muoversi concretamente in soccorso del cineclub sono stati i soci della cooperativa sociale Oasi Urbana, una bottega equo-solidale a due passi dalla sede storica del Detour. Nel giro di un paio di mesi le due realtà hanno unito le forze e dato vita a un nuovo spazio multifunzionale.
Inevitabilmente il nuovo setting è risultato di lettura più complessa per i ragazzi che avevano fatto propria la vecchia sede e la sentivano come il loro cinema. Bisogna però dire che, mentre il “foyer” non lo avevano immediatamente riconosciuto come spazio dedicato, la sala sin dall’inizio era piaciuta molto perché più elegante e tecnicamente più funzionale. Si è deciso di mantenere nell’insieme la stessa formula organizzativa, anche se con qualche modifica, in particolare riguardo il criterio da seguire per la programmazione.
Nel corso della prima stagione ci eravamo infatti resi conto che alcuni dei film, pur gratificando il loro “selezionatore”, non solo non erano piaciuti, ma soprattutto non avevano offerto spunti al dibattito – uno dei momenti clou della serata che comportava spesso nuove occasioni di (piccoli) scambi successivi, anche a carattere personale.
Si è quindi tentata un’altra strada: i ragazzi hanno scelto tutti insieme dei temi di interesse condivisi quali l’amicizia, l’amore, il lavoro, la famiglia, e sulla base di questi alcuni di loro hanno poi selezionato i film. Il dibattito su un certo argomento si è quindi prolungato per più di una serata.
Durante il secondo anno (novembre 2009-giugno 2010) alcuni dei ragazzi, quelli forse più partecipativi o comunque più interessati al mondo del cinema, hanno sviluppato nuovi interessi e nuove competenze: Vittorio, con un supporto ad hoc, si è lanciato in piccole rassegne cinematografiche gestite direttamente da lui; Marco, che studia cinema all’Università, sta acquisendo una maggior autonomia a parlare in pubblico, non solo quando presenta i film al cineclub; Elena si è autoproposta di fare le riprese video e di occuparsi della comunicazione nell’ambito di un progetto teatrale al quale partecipa; Giulio ha maturato la decisione di frequentare un corso di montatore cinematografico. Accanto a questi piccoli grandi successi individuali, anche la vita sociale del gruppo è migliorata grazie al Cineclub. Da una parte si è consolidato il rapporto tra i vecchi membri, dall’altro il cineclub sembra essere diventato il veicolo facilitatore per l’integrazione di nuovi soci. Un aspetto che ritengo molto importante è che in diversi ragazzi è scattato in questo periodo un interesse a partecipare a iniziative, informative e culturali, che riguardano la Sindrome di Asperger: come se si stessero avviando a un percorso di maggior consapevolezza e senso di appartenenza anche al Gruppo – pur nella specificità della storia personale di ciascuno di loro.
In entrambi gli anni la frequentazione è rimasta costante sia da parte dei ragazzi, sia da parte del pubblico altro che abbiamo coinvolto. Bisogna però dire che di giovani amici neurotipici se ne sono sempre visti pochi, pur se invitati a più riprese… Perché, mediamente, i nostri ragazzi hanno pochi amici tra i pari. Questo è un dato di fatto che non si può negare e che rappresenta sempre il problema di fondo verso l’acquisizione di una normalità nei loro rapporti interpersonali. Di converso, quanto “vissuto”, e quindi “appreso”, nel contesto del Cineclub sta servendo ai ragazzi per aiutarli a fare altre cose – ciascuno nella sua realtà quotidiana, scolastica, lavorativa, sociale.
Si tratta insomma di un’esperienza, di vita, possiamo ormai dire, che pur nella sua positività non vuole nascondere che il vissuto sociale delle persone con Sindrome di Asperger è, e continuerà a essere, difficile per la maggior parte di loro. Paradossalmente per quelli che stanno acquisendo una maggior consapevolezza della loro condizione, e quindi delle loro difficoltà, il vivere in mezzo agli altri è spesso più complicato e frustrante. Certo sono in grado di conquistare nuovi strumenti, di migliorare capacità e competenze, ma il quotidiano rimane difficile e gli sforzi per affrontarlo e non farsene schiacciare spesso sono enormi.

Infine…
Durante lo scorso inverno Giuseppe Cacace ha promosso un’ulteriore evoluzione del Cineclub e assieme a quattro ragazzi dell’Associazione ha ottenuto il sostegno per il progetto “Lo sguardo degli Aspie”, nell’ambito dello “Youth in Action Programme” della Comunità Europea. La nuova stagione è partita nel novembre 2010. Di questo parleremo in un successivo articolo, che verrà ospitato sempre in questa rubrica.
Questo articolo è stato scritto da un genitore e quindi con un’ottica che non è, e non potrebbe essere altrimenti, quella che avrebbe una persona con S.A. che volesse raccontare la storia del nostro Cineclub. Ma dal momento che il prosieguo della nostra esperienza verrà raccontato, il video che in questi mesi è in corso di realizzazione nell’ambito del nuovo progetto, grazie al contributo determinante dei ragazzi, offrirà il loro punto di vista in modo più spontaneo e meno mediato, quindi più interessante e certamente più realistico.

Dal Calamaio al Computer

Da ottobre a gennaio, il gruppo Calamaio è stato impegnato in un nuovo percorso formativo, non più a scuola ma in un centro diurno che accoglie ragazzi con disabilità medio-grave.
Si è trattato del percorso di formazione Dal Calamaio al Computer, 12 laboratori nei quali abbiamo tentato di trovare il modo più facile per esprimere, attraverso le parole e il corpo, le emozioni senza preoccuparsi più di tanto di apparire banali, perché l’obiettivo era quello di considerare i partecipanti, noi compresi, quali soggetti attivi che collaboravano alla ricerca di linguaggi e strategie alternative al fine di far provare, almeno una volta, l’ebbrezza d’essere protagonisti nel creare qualcosa di concreto.
Nelle scuole il fattore dirompente e, per molti versi, spiazzante è dato dall’ingresso di un elemento del tutto estraneo, com’è la persona con disabilità, col quale la classe deve cercare d’interagire. La persona con disabilità deve essere in grado di porgere l’aspetto di sé più amichevole e giocoso, proprio come farebbe una qualsiasi persona interessata a instaurare relazioni positive, per ottenere un ricambio altrettanto aperto al confronto.
In un centro diurno, invece, le dinamiche suddette finiscono col ribaltarsi per poi intrecciarsi. Il fattore dirompente, infatti, è rappresentato non solo dalla presenza dell’educatore disabile ma anche da quella di disabili già presenti nella struttura con i quali il primo deve cercare un canale di relazione adeguato a tutte le forme di disabilità in campo. Diventa necessario stabilire nuove regole del gioco che permettano a tutti di trovare il proprio spazio di espressione e relazione.
I punti di forza di questo progetto sono riassumibili innanzitutto nell’esperienza reciproca di un incontro costruttivo, creativo, educativo ed espressivo.
L’incontro di due realtà distinte, quali il centro diurno e il gruppo Calamaio, ma somiglianti per caratteristiche, permette di mettere in comune i propri vissuti e modi di essere al fine di trovare maggiori punti di contatto che, a loro volta, finiscono con l’arricchire ciascun singolo di esperienze nuove e uniche, trasferibili poi al mondo esterno. Infatti, il confronto tra diversi soggetti permette sempre di scoprire abilità da parte di ciascun singolo prima nascoste.
Il percorso di formazione si è sviluppato in 12 incontri, progettati dall’équipe del Progetto Calamaio e aveva come obiettivo principe il tema della relazione da sviluppare utilizzando strumenti multimediali. In sintesi alcune tappe del percorso.
La presentazione ha seguito i classici canoni adoperati dal Gruppo Calamaio, chiedendo a ciascun partecipante il proprio nome e cosa gli piacesse fare, nonché le aspettative sulle attività che sarebbero state proposte. Per una più compiuta conoscenza reciproca, utile a sua volta per creare uno spirito di gruppo, si è proposta un’attività che ha visto ogni singolo partecipante ritagliare, da varie riviste, immagini che rispecchiassero il proprio modo di proporsi al mondo. Queste immagini sono state poi incollate su alcuni cartelloni, realizzando, quindi, splendidi collage. Nell’incontro successivo è stato chiesto a ciascuno di spiegare il perché delle immagini scelte e questa condivisione ha permesso di mettere maggiormente a nudo le sensibilità di ognuno. Ciò ha rappresentato un tassello in più nel processo di condivisione, collimando le diversità di tutti.
Poi ci siamo divisi in quattro sottogruppi, ognuno dei quali, in modo creativo, ha dovuto rappresentare la propria visione del gruppo, con brevi scenette. È emerso che ogni membro dei sottogruppi possedeva un sentimento diverso rispetto all’idea di grande gruppo ma che tutti erano d’accordo su alcuni punti: la fiducia e il rispetto dell’altro, la disponibilità a valorizzare le abilità, la creatività nel superamento delle difficoltà.
Nucleo del percorso è stato la scrittura di brevi storie con l’aiuto delle carte di Propp (carte disegnate che rappresentano i personaggi presenti in ogni favola). Divisi in gruppi, dando libero sfogo alla nostra creatività, abbiamo scritto quattro storie, delle quali abbiamo realizzato un breve filmato con il programma Windows Movie Maker, aggregando le immagini delle carte di Propp e il testo. Passi successivi sono stati la scelta di immagini che fungessero da scenografia, di una colonna sonora adatta ad accompagnare la storia e di un titolo.
Le storie, a questo punto, erano pronte per prendere vita, per trasformarsi in veri e propri fotoromanzi. Ogni gruppo avrebbe dovuto realizzare delle foto, con loro stessi come protagonisti, che avrebbero poi sostituito le immagini delle carte di Propp: dalla finzione alla realtà.
Per prepararsi alla sessione fotografica e sentirci veramente protagonisti della nostra storia, ci siamo allenati in un incontro che prevedeva l’uso del corpo e della musica. Quando si fermava la musica dovevamo, in successione, guardarci negli occhi, abbracciarci, toccarci e, come ultima esperienza scegliere un tema e modellarci. Questo incontro è servito per imparare a utilizzare meglio il nostro corpo nello spazio e nel tempo e a entrare, in modo più profondo, in relazione con l’altro.
Come avrete capito, alla base di tutto questo lavoro c’è il gruppo, luogo di relazione e risorsa essenziale per il benessere personale. Per questo, a metà percorso, abbiamo “giocato” con lo strumento del paracadute per simboleggiare il valore del nostro gruppo. Nella prima attività abbiamo immaginato che il grande telo si gonfiasse come le onde del mare in tempesta. Dovevamo calibrare la nostra forza per mantenere in equilibrio, a ritmo di musica, una palla di stoffa bianca e nera.
La seconda attività ci ha permesso di mettere in gioco le nostre abilità nel resistere, a turno, a una situazione di paura che vedeva ogni partecipante coinvolto emotivamente nel superare una situazione di difficoltà creata dai membri del gruppo che stavano al di fuori del paracadute e lo muovevano, mentre il ragazzo o la ragazza sotto il telo sentiva arrivare il vento sul volto. Tutti ci hanno provato, mentre la telecamera li riprendeva.
Alla fine abbiamo riutilizzato la musica, abbiamo danzato con il nostro partner e abbiamo chiuso gli occhi per immaginare la scena che la musica ci evocava. Ci siamo raccontati quello che avevamo immaginato in varie tonalità di voce. Come conclusione abbiamo immaginato di essere dei giocatori e ci siamo lanciati la palla in modo più o meno veloce pronunciando il nome della persona alla quale la lanciavamo. Ci siamo divertiti un sacco a scoprire i vari modi di comunicare e di legarsi agli altri in modo più o meno spontaneo.
I risultati finali sono stati molteplici:
– quattro brevi fotoromanzi, realizzati su storie di nostra invenzione e corredate con foto che ci vedevano protagonisti;
– un’esperienza divertente, che ha permesso di sondare le nostre abilità come singoli e come gruppo. – un’esperienza che ha mostrato come nulla è scontato e che, quando si creano le condizioni favorevoli, ognuno ha la possibilità di mettersi in gioco personalmente, libero da pregiudizi e preconcetti;
– una grande esperienza formativa per gli animatori disabili del Progetto Calamaio che, ancora una volta, hanno esplorato un terreno nuovo scoprendo come i temi cari al progetto, la valorizzazione delle abilità, la ricchezza di ciò che è diverso, la necessità di inventarsi nuovi canali comunicativi, siano temi comuni, dai quali partire per creare reti e sinergie.
Come si poteva concludere un percorso come questo se non con una festa?
Anzi con una proiezione al pubblico dei quattro fotoromanzi e con una condivisione dell’esperienza, tutto ovviamente accompagnato da un ottimo aperitivo.

Verso una pedagogia dei fratelli? Spunti per una ricerca “all’europea” sui siblings

La prima cosa che colpisce nella ricerca sui siblings (fratelli/sorelle) delle persone con disabilità è la sua esiguità temporale e quantitativa. Se sappiamo molto dell’impatto che una prima informazione di disabilità o una patologia degenerativa in un bambino hanno sui suoi genitori, ben più in ombra rimane la reazione dei suoi fratelli o sorelle, e ancor meno conosciamo il rapporto che si sviluppa tra gli stessi bambini divenuti adulti – per non parlare degli effetti che sortisce nella persona con disabilità l’avere siblings e la relazione con loro. Tuttavia, una diagnosi di disabilità modifica (non necessariamente “sconvolge”) la situazione familiare nel suo complesso, e mentre i genitori hanno generalmente a disposizione una rete di supporto preesistente o attivata all’insorgere della patologia, che va a innestarsi sulle risorse di resilienza psicologica di un adulto, i fratelli e sorelle rischiano di restare soli con i loro contrastanti sentimenti. Solo gli ultimi anni hanno visto sorgere un certo fermento di attenzione e di ricerca sulle condizioni dei siblings di persone con disabilità: la ragione dominante va forse individuata nel fatto che l’allungamento delle speranze di vita e la deistituzionalizzazione prospettano a fratelli e sorelle (laddove esistono) un ruolo futuro di fornitori primari di cura nel “dopo di noi genitori”. Tuttavia, un interesse alle relazioni tra fratelli solo come “prossimi nella lista d’attesa” per la cura, nel contesto di quella che è stata chiamata “la servitù debitoria delle famiglie”, non è accettabile se non come stimolo iniziale a un’attenzione comunque da approfondire.

La solitudine dei numeri
La ricerca sui siblings di persone con disabilità ha preso il via circa 30 anni fa, prevalentemente in ambito nordamericano e australiano, concentrandosi sulle fratrie in età evolutiva, e basandosi fino a pochissimi anni fa sull’assunto implicito che la presenza di un bambino disabile avesse un effetto negativo sullo sviluppo degli altri membri della fratria – si può dire che in discussione fosse il “quanto” e il “come”, non il “se”. Sul finire del XX secolo, a questo filone “psicopatologico” di ricerca si è affiancata una diversa concezione: la disabilità come “fattore di stress”, e l’avere un fratello/sorella con disabilità come “problema” rispetto a cui il bambino e la famiglia possono attivare diverse strategie di soluzione – risorse di un “fare fronte” la cui analisi diventa il centro della ricerca, portando spesso a concludere che, almeno nei contesti familiari che la diagnosi di disabilità non distrugge, la presenza di un sibling con disabilità non incide sullo sviluppo psicologico di fratelli o sorelle normodotati. Solo negli ultimissimi anni si sono affermati studi che considerano la persona con disabilità come “persona” (e membro di una famiglia) prima e più che come “fattore”, e su questa base propongono un’analisi bidirezionale – non solo cosa significa l’ingresso della disabilità in famiglia per gli altri membri, ma come la persona con disabilità risente del rapporto con fratelli e sorelle.
Queste variazioni del paradigma di ricerca si connettono da un lato alla transizione dal modello medico a quello sociale della disabilità, e dall’altro all’affermarsi di approcci come la “psicologia positiva”, a loro volta difficilmente scindibili da una mutata percezione sociale (nelle società occidentali) del deficit, sempre meno associato allo stigma; è questo processo che consente a diversi studi dal 2000 in poi di affermare che per una famiglia “avere un bambino [o un fratello] con ritardo mentale non è necessariamente facile, ma conduce a una vita più piena e ricca”.
Un excursus così rapido non rende naturalmente giustizia alla complessità dei presupposti e degli esiti delle ricerche; tuttavia, sono spesso le ricerche stesse a pervenire a risultati così semplificati, circoscrivendo in partenza il proprio oggetto al punto da sottovalutare le molteplici dinamiche che incidono sulla relazione tra siblings. Anche senza spingersi ad affermare che “i problemi dei siblings delle persone con disabilità intellettive e dello sviluppo sono da concepire come una regolazione tra un individuo e il suo contesto socio-culturale”, è evidente che sulle relazioni entro la fratria influiscono fattori esterni, come la comunità di vita e un sistema istituzionale di welfare che possono fornire o meno sostegno alla famiglia, e a un livello più ampio le caratteristiche della cultura sociale di riferimento (dal grado di discriminazione e segregazione dell’handicap alle aspettative sul ruolo di cura tra fratelli alle differenti età). Numerosi però anche gli elementi interni alla fratria o alla famiglia che possono determinare la relazione: tra i più rilevanti, il genere, le differenze di età tra fratelli, il loro ordine di nascita, la condizione socio-economica della famiglia, o il grado stesso di “genitorialità differenziale” (la maggiore cura che i genitori tendono a dedicare al figlio con disabilità a danno di quelli normodotati), spesso rilevata dagli studi come “problema” inerente alle fratrie con membri disabili ma che può esistere, per differenti motivi, in qualunque famiglia.
La maggioranza delle ricerche si propone di governare questa complessità individuando, in parallelo al gruppo di fratrie analizzate in cui uno dei componenti sia disabile, un gruppo di controllo composto da siblings normodotati, omogeneo per quanto possibile al primo. Ciò che viene messo in dubbio da alcuni contributi più recenti è proprio la validità di tale metodologia: all’atto pratico, vengono individuate entro una comunità alcune famiglie in cui è presente una persona con una determinata disabilità, quelle che tra esse accettano di aderire alla ricerca costituiscono il gruppo di analisi, e viene costruito un gruppo di controllo che ricalchi il gruppo di analisi secondo una variabile, in genere legata all’età e al genere (e a volte anche all’ordine di nascita tra i siblings). In questo modo, oltre a costituire necessariamente campioni numericamente piccoli che limitano in partenza la generalizzabilità delle conclusioni, diventa molto difficile capire se le differenze (o, come si è visto per la ricerca più recente, le identità) tra i due gruppi siano legate alla disabilità, individuata sin dalle premesse di ricerca come fattore decisivo, oppure ad altri aspetti che incidono sulle dinamiche relazionali. Zelinda Stoneman osserva che “è possibile che alcuni degli effetti negativi attribuiti alla cura tra siblings in studi passati in realtà fossero causati da tensioni pervasive nell’infanzia associate alla povertà”, e più in generale che “le differenze tra gruppi di siblings non possono essere attribuite alla presenza di un bambino con disabilità se i siblings o le loro famiglie differiscono in altre direzioni che potrebbero essere plausibilmente responsabili delle differenze tra gruppi”.
Un metodo che sacrifica il riconoscimento della complessità sull’altare di un’obiettività da laboratorio sembra dunque responsabile di esiti che si riducono a definire la presenza di un sibling con disabilità come “è peggio”, “no, è uguale”, “anzi, in realtà è meglio”, quando in realtà “i siblings ‘medi’ sono una creazione statistica e probabilmente esistono solo sui tabulati dei computer”; come sostengono Hodapp, Glidden e Kaiser, “finora, la maggior parte dei ricercatori si sono chiesti se i siblings di bambini con disabilità differiscano dai siblings di bambini che si sviluppano tipicamente, ma anche altre domande sono pertinenti”. Pochi studiano come si evolvono le relazioni tra siblings nel corso della vita, dall’infanzia all’età adulta, con i relativi mutamenti delle necessità di cura, oppure quali differenze si riscontrano in base al tipo di disabilità: dall’incrocio di queste due dimensioni, ad esempio, uno studio di Seltzer, Greenberg, Orsmond e Lounds rileva che la diagnosi precoce del ritardo mentale induce una relazione “calda” tra siblings che costituirà in età adulta un fattore di reciproco benessere e faciliterà l’assunzione della cura da parte del fratello o sorella normodotato, mentre il disagio mentale, diagnosticato in genere in età adolescenziale o adulta, impone all’inverso – per indurre uno stesso esito di benessere – la capacità di distacco tra i siblings. Nella prospettiva di un maggior rispetto della complessità, ancor più cruciale potrebbe essere la strada delle analisi comparative tra nazioni, o anche tra gruppi socio-culturali dello stesso Paese, in modo da individuare l’impatto dei fattori culturali sulle relazioni tra siblings e superare l’attuale prevalenza di studi su famiglie occidentali della classe media. La ricerca sembra invece catturata in una “inerzia scientifica” per cui, nelle parole di Stoneman, “continuare a porsi le stesse domande nello stesso modo promette poco per l’avanzamento della nostra conoscenza futura”.

Da oggetti a soggetti
La ricerca sui siblings si trova dunque di fronte alla necessità di adottare una serie di correttivi metodologici, in gran parte già individuati dai ricercatori stessi: una più accurata definizione del tipo e del grado di disabilità oggetto di studio (in modo da “districare quali caratteristiche della relazione siano comuni tra tutti i siblings di persone con disabilità dello sviluppo e quali siano specifiche di certe condizioni o diagnosi”), l’avvio di indagini comparative tra differenti contesti sociali, lo studio dell’evoluzione delle relazioni tra i siblings dalla nascita alla vecchiaia. In una prospettiva di analisi quantitativa, questi correttivi sono così riassunti da Stoneman: “le risposte a importanti domande relative alle caratteristiche dei bambini e alle traiettorie di sviluppo dei siblings saranno possibili solo quando ampi studi multi-sito di siblings forniranno sufficiente potenza statistica per iniziare ad affrontare queste complesse, ma importanti domande”.
Questo progresso metodologico, pur necessario, lascia tuttavia inevasa una diversa esigenza, che pure emerge, di coinvolgere le famiglie (e quindi le fratrie) non più come “oggetti” di ricerca, ma come “soggetti” attivi della stessa – un coinvolgimento che comporterebbe non soltanto il miglioramento di metodi e obiettivi di ricerca, bensì una loro ridiscussione generale, orientando l’attenzione da un lato alle peculiarità dei singoli casi, e dall’altro alle potenziali ricadute operative degli esiti raggiunti. Come scrive Sue Swenson, “gli scienziati e i filosofi (e chi elargisce sussidi) hanno, come ha evidenziato John Dewey, una preferenza per la sicurezza e la certezza teorica; per unità, permanenza e universali, piuttosto che pluralità, cambiamento e particolari. Le famiglie – genitori, nonni, siblings – hanno bisogno che ricercatori e finanziatori riesaminino queste preferenze; pensino in modi nuovi alle agende di ricerca che ci aiuteranno a scoprire cosa funziona, e quando, e per chi, dal nostro punto di vista come famiglie […] Per dare forma alla politica, abbiamo bisogno di ricerca che sia progettata per misurare l’impatto di vari interventi nella vita delle famiglie, cosicché sostegni dignitosi ma non prodighi possano essere autorizzati, finanziati e amministrati”.
In questa riprogettazione della ricerca, l’approccio teorico più utile cui fare riferimento sembra quello della “pedagogia dei genitori” proposto da Riziero Zucchi. La valorizzazione delle specificità di ogni situazione familiare e di ogni scelta educativa, il forte orientamento pragmatico che predilige problemi e soluzioni concrete rispetto a una conoscenza astratta e generale, l’inversione dei ruoli (di potere) usuali che pone gli specialisti in ascolto dei familiari in una collaborazione di esperienze, la centralità di narrazione e formazione sono tutti aspetti fondativi della pedagogia dei genitori che possono ben inserirsi nel tentativo di dare basi diverse alla ricerca sui siblings. Ne potrebbe dunque nascere una “pedagogia dei fratelli”, particolarmente adatta a studiare le relazioni tra siblings adulti ma pensabile anche per le fratrie di bambini, in cui l’elemento pedagogico dominante nel rapporto genitori-figli possa “stemperarsi” in considerazione del carattere più paritario e al contempo (o forse proprio in virtù di questo) più complesso della relazione tra fratelli. Un approccio centrato su ascolto della narrazione e valorizzazione delle competenze, per inciso, contribuirebbe a ridurre uno dei rischi più spesso paventati dalle famiglie e dai siblings di persone con disabilità: la medicalizzazione forzata della loro condizione, fondata sulla concezione della “famiglia con disabilità” come “entità sociale disfunzionale”, da sottoporre a controllo nel momento stesso in cui le si fornisce aiuto e supporto.
La contrapposizione tra “pedagogia dei fratelli” e “ricerca tradizionale” ha valore più analitico che sostanziale: una ricerca fondata sull’attenzione alle narrazioni particolari mantiene comunque l’obiettivo di indurre generalizzazioni applicabili anche in altri casi, così come gli studi più rigorosamente quantitativi si fondano sulla raccolta e l’analisi di dati presso le famiglie, ciò che implica una negoziazione con loro e spesso la trasposizione in schemi di descrizioni discorsive. Con ancor maggiore cautela va proposto un parallelo tra questa dicotomia e le tradizioni di ricerca rispettivamente anglosassone ed europea, con la prima più orientata a esiti misurabili e generali e la seconda più aperta a risultati qualitativi (e disponibile a evidenziare i limiti della sua validità scientifica). Ciononostante, difficile non notare che una dimensione europea sarebbe molto indicata per lo sviluppo di questa linea di ricerca, soprattutto perché consentirebbe di avviare l’analisi comparativa tra nazioni, di cui si diceva, in un ambito che combina un’affinità che rende meglio confrontabili le nazioni e una diversità di sistemi di welfare e contesti socio-culturali che rende più proficuo questo confronto. Colpisce quindi ancor di più che a oggi non risultino conclusi né avviati progetti di ricerca finanziati dalla UE o da altri soggetti che si propongano di indagare la condizione dei siblings di persone con disabilità a livello continentale, nemmeno come elemento di ricerche più generali sulle famiglie di persone con disabilità – a maggior ragione nell’area del mondo più soggetta all’invecchiamento della popolazione e dunque alla centralità futura di queste relazioni (va invece notato a margine che sembra affermarsi a livello comunitario, sia pure lentamente, la sensibilità per il coinvolgimento di famiglie e associazioni rappresentative nella definizione della ricerca sulla disabilità lato sensu).
Nella strada ancora da tracciare verso una possibile “pedagogia dei fratelli”, un punto di passaggio può essere la crescente attenzione della ricerca su tema della “qualità della vita” delle famiglie che includono un membro con disabilità. Su tale tema si concentra l’unica ricerca transnazionale nell’ambito di cui siamo a conoscenza, la Family Quality of Life Project Survey (FQoLS), guidata da due centri e due università del Canada e che coinvolge famiglie in 20 Paesi, tra cui l’Italia e altre 8 nazioni europee, in un progetto avviato nel 1997 e tuttora in corso, e del quale sono in via di pubblicazione alcuni risultati, seppure non specifiamente sul tema dei siblings. Ai principali fornitori di cura nelle famiglie che accettano di essere intervistate viene sottoposta una serie di domande su diversi ambiti della vita familiare, dalla salute al benessere finanziario, dall’uso del tempo libero al supporto dai servizi e dalla comunità. Quel che conta da un punto di vista metodologico è che la “qualità della vita” è un elemento percepito più che oggettivo, e ogni membro della famiglia, siblings inclusi, può percepirlo in modo assai diverso dagli altri familiari. Di conseguenza, analizzare la qualità della vita riportata dai siblings di persone con disabilità, tanto nelle loro famiglie di origine e convivenza quanto nelle diverse configurazioni possibili durante la vita adulta, può essere considerato un importante approccio di transizione per arrivare a una vera e propria attenzione sulla “narrazione della relazione” tra i siblings stessi.
Una ricerca che coinvolga attivamente le fratrie secondo questo approccio impone comunque almeno due avvertenze. In primo luogo, viene regolarmente evidenziato che, in forme diverse in base ai contesti familiari e alle età, il fratello o sorella normodotato assume spesso un “ruolo dominante” di cura e insegnamento nei confronti del sibling con disabilità, una responsabilità più forte di quella vissuta dai coetanei e che può quindi diventare un fattore di stress o isolamento: “fratelli e sorelle affermano di frequente che le responsabilità di accudimento dovrebbero essere limitate. A punti diversi nella loro vita, fratelli e sorelle possono sentire troppa pressione, a volte autoimposta – particolarmente in situazioni come la scuola in cui il genitore non è disponibile – e altre volte in base alle attese dei loro genitori. I genitori dovrebbero essere incoraggiati a ricordare che i fratelli e le sorelle sono in primo luogo bambini e non sostituti dei genitori nella famiglia”. Se la pedagogia dei genitori è in primo luogo “pedagogia della responsabilità”, questa concezione del sibling come “genitore in seconda” può risultarne rinforzata, specie se, come detto, la competenza pedagogica deve essere valorizzata nei confronti di specialisti esterni; diventa quindi molto importante l’adattamento degli strumenti proposti dalla pedagogia dei genitori in una forma che dia voce ai siblings, e alla loro espressione di un punto di vista in genere alquanto diverso da quello dei loro genitori, senza costringerli in un ruolo che non possono avere da bambini, non vogliono avere da adolescenti, non hanno in ogni caso da adulti.
Più sottile e insidiosa appare una seconda problematica, insita in una ricerca che non intenda limitarsi a osservare neutralmente il “fenomeno siblings”, ma a incidere in modo attivo e pragmatico sul benessere delle fratrie nelle loro differenti età di sviluppo: come definire appunto il loro benessere? O, a essere più precisi, come definirlo in modo univoco e non viziato dai contrastanti interessi in gioco? Stoneman osserva che “non possiamo condurre ricerca che aiuti le famiglie a socializzare relazioni positive fra siblings se, come ricercatori, non sappiamo quali siano queste relazioni ottimali fra siblings. Le relazioni familiari sono pesantemente gravide di valori. Possiamo essere d’accordo sul fatto che la depressione dei siblings o l’aggressione aperta tra loro sia indesiderabile. Altri esiti per i siblings sono meno chiari. Come società, abbiamo un interesse finanziario acquisito nel socializzare i bambini a svilupparsi in adulti che siano disposti a fornire cura per tutta la vita ai loro siblings con disabilità dopo che i loro genitori abbiano abbandonato questo ruolo. I genitori spesso condividono questo obiettivo. Molti adulti con disabilità, tuttavia, vogliono vite autodeterminate che non siano controllate da genitori o siblings come surrogati dei genitori. Sembra plausibile che i processi che sostengono esiti autodeterminati desiderati dalle persone che si autorappresentano siano diversi dai processi che socializzano i siblings ad assumere ruoli genitoriali e a impegnarsi nell’accudimento permanente. Di chi è la visione giusta sugli esiti desiderati per i siblings?”. Le stesse ragioni che rendono socialmente rilevante la ricerca sui siblings, e lo stesso orientamento pragmatico che rende socialmente opportuno porre i familiari come soggetti attivi e integrare il loro sapere con quello degli specialisti, portano in evidenza l’alternativa assiologica tra la promozione della vita indipendente e quella della cura su base familiare – alternativa il cui scioglimento è probabilmente impossibile in via generale, e che anche riferita ai singoli casi viene fortemente determinata proprio dalle stesse variabili di contesto personale, familiare e socio-culturale che la ricerca intende indagare nella loro specificità. Questo nodo irrisolto non va comunque interpretato come un cortocircuito metodologico, quanto come un avvertimento a considerare con attenzione e prudenza la complessità delle relazioni tra siblings e della loro evoluzione: un avvertimento che, a ben vedere, si estende dalla ricerca a tutti gli ambiti non accademici del discorso sull’handicap (famiglie, gruppi di auto-mutuo aiuto, associazioni di rappresentanza, servizi assistenziali…) con cui tale ricerca deve sempre più entrare in dialogo.

Si ringraziano Giulio Iraci, Flavia Luchino e Marco Bertelli (CREA) per i preziosi suggerimenti.

Con i guanti bianchi la musica passa per la disabilità

Il programma di Educazione del Sistema Nazionale di Orchestra Giovanile e Infantile del Venezuela è un progetto nazionale creato dal maestro Josè Antonio Abreu, venezuelano che ha meritato il riconoscimento mondiale per lo sviluppo dell’azione sociale attraverso la musica.
Il progetto è sostenuto dalla convinzione che la musica orientata verso l’educazione speciale è una sfida dalle molteplici possibilità di successo per arrivare a una elevata idea di eccellenza musicale, in cui l’educazione impartita include differenti tecniche strumentali per realizzare lo sviluppo delle potenzialità. Questo permette l’integrazione di bambini, bambine, giovani con difficoltà auditive, visive, cognitive, motorie, difficoltà di apprendimento e autismo, come pure per tutte le persone senza disabilità, fornendo un esempio per il diritto che tutti noi abbiamo di partecipare alla società.
L’idea riguardo il programma di educazione speciale nacque 32 anni fa. Jhonny Gomez ricorda che durante il primo incontro orchestrale nell’anno 1978, il Maestro Josè Antonio Abreu riunì circa 200 bambini e giovani da tutto il paese; con l’idea di eseguire un grande concerto. “Noi ci incontrammo durante una prova”, commenta Gomez e quando il maestro Francisco Di Polo primo violino dell’orchestra propose un video del concerto per violino e orchestra di Tchaikovsky, la mia sorpresa è che il musicista che stava interpretando questo concerto si trovava in sedia a rotelle. Era il Maestro Itzhak Perlman, stimato violinista a livello mondiale il quale soffriva di poliomelite da bambino. Allora mi sorse una domanda: ‘Per quale motivo attorno a me non c’erano bambini e giovani in sedia a rotelle a fare musica?’”.
Da questa impressione cominciò a svilupparsi l’idea di includere bambini e giovani con disabilità nell’orchestra che in quel momento dirigevo nello stesso momento in cui mi preparavo per l’educazione specializzata. Nell’orchestra sopra menzionata integrai sette bambini con difficoltà di apprendimento e sei con difficoltà visive. Mentre si andava consolidando il sistema dell’orchestra nel Estado Lara, vennero introdotte ulteriori aree dell’educazione speciale come l’autismo, deficit cognitivo e difficoltà motorie.
Nell’anno 1999 aggiungemmo il deficit uditivo, cosa che suscitò numerosi interrogativi tra i musicisti, in quanto è sempre esistito il paradigma “per studiare musica bisogna avere udito”. Di fatto per studiare musica in qualsiasi conservatorio del mondo si tengono esami di ammissione per stabilire se la persona ha orecchio musicale. Questa fu l’area più difficile da integrare.
Nel 2009 ci fece visita il virtuoso violinista Itzhak Perlman, il quale descrisse il concerto che gli venne offerto dal Coro delle Mani Bianche tra altri gruppi, come la più grande e meravigliosa esperienza vissuta, ammirando la precisa e magistrale interpretazione dei bambini e giovani musicisti. “Per noi del Programma di Educazione Speciale, fu molto significativo conoscere questo grande musicista, che ci ispirò, senza saperlo, attraverso un video verso l’integrazione di persone con disabilità motorie nel movimento dell’orchestra venezuelana”, conclude Gomez.
Nel suo percorso il Coro delle Mani Bianche ha realizzato registrazioni per le televisioni Svizzera, Francese, Spagnola, Tedesca e televisioni venezuelane, le quali le hanno permesso di diffondere la sua eccellente capacità interpretativa nell’ambito nazionale e internazionale. Allo stesso modo, le è stata data la Orden Ciudad di Barquisimeto, 2° Classe, anno 2001, Orden Antonio Carillo, anno 2007; Orden “General Juan Jacinto Lara” 1° Classe, anno 2009 e il premio internazionale Nonino 2010, in Friuli, Italia e l’Oscar della Lirica 2010 a Verona sempre in Italia, evento, questo, che premia i principali protagonisti dell’opera mondiale.

I campi di applicazione senza limite
Sono mille e ottocento bambini, bambine e giovani con difficoltà uditive, visive, difficoltà di apprendimento, cognitivo e difficoltà motorie, che hanno trovato nella musica il cammino più piacevole per arricchire la loro vita. Jhonny Gomez, fondatore e direttore generale del programma a livello nazionale, dice che è stato un lavoro duro ma gratificante, in quanto questo esempio si è moltiplicato in 27 gruppi. “Il nostro obiettivo è che in ogni angolo del Venezuela le persone con handicap si integrino a questo grande movimento orchestrale”, si augura questo clarinettista che appartiene al circuito Fesnojiv, dall’anno 1977.
Tanto Gomez così come sua moglie, Naybeth García, direttrice del Coro delle Mani Bianche, assicurano che la vita di molti piccoli e giovani speciali ha avuto un capovolgimento meraviglioso per immergersi nelle note dei grandi compositori. Attualmente studiano in questo circuito fino a che hanno ottenuto risultati accademici ma anche per trovare la forza spirituale per vedere la propria condizione come possibilità di crescita.
Gli studenti imparano a essere costanti e perseveranti raggiungendo una grande capacità interpretativa. Secondo i professori questa arte gli permette di integrarsi nella società, ottenendo il giusto rispetto. “Gli applausi sono il regalo più bello per andare avanti nella lotta per conquistare l’arte, loro hanno un talento innato per la musica che a molti di noi manca, senza paura di sbagliare”, commenta Gomez.
I guanti bianchi sono una delle caratteristiche dei cori di questo programma, il quale si divide tra coloro che eseguono la performance attraverso il linguaggio dei segni e quelli che lo fanno attraverso il linguaggio di espressione orale. I coristi vanno in giro con l’orchestra del Sistema in ognuna delle regioni. “Stiamo esportando più che musica, si sta mostrando al mondo anche la spiritualità, la forza interna, nuovi atteggiamenti nei confronti delle sfide della vita”, dice Gomez. Veder suonare gli strumenti e interpretare il loro repertorio è un gran privilegio che ha commosso una lunga lista di grandi della musica.
In precedenza, ad esempio, non si capiva come una persona sorda potesse far parte di un’istituzione musicale. Oggi è una realtà che sta arrivando in diversi punti del mondo come Italia e Inghilterra. La vocazione a credere nell’essere umano e insegnare la musica come strumento per raggiungere la pace, sono le premesse di questo programma che porta felicità a molti esclusi dalla maggior parte della società.

“Barquisimeto è la capitale musicale del mondo”
Michael Landenburger, rappresentante del Museo Casa Natale di Beethoven (Bonn, Germania), apprezzando la rappresentazione del Coro delle Mani Bianche non esitò ad affermare che Barquisimeto non è la capitale musicale del Venezuela ma del mondo, per la qualità della formazione dei suoi musicisti.
Affermò che allo stesso modo se l’incompreso Ludwig Van Beethoven fosse vivo, forse scriverebbe la più brillante composizione per i componenti del Coro delle Mani Bianche di Barquisimeto e gli altri gruppi che fanno parte del programma di educazione speciale. Questo bel complimento venne espresso dal musicista dopo un concerto emozionante che utilizzò come motivo del suo viaggio in Venezuela nel 2004 per osservare più da vicino l’esperienza del Sistema.
In questa occasione i membri del Coro consegnarono un paio di guanti bianchi in una scatola di vetro e legno che attualmente si trova, con orgoglio di tutti, nella cassaforte dove stanno gli averi di Beethoven.
La scatola trasparente con i delicati guanti è in un luogo in cui tutta l’umanità lo vedrà per sempre, “Mi sento molto unito a voi, la musica non è tutto, però aiuta la gente a vivere una vita piena, io vedo in voi ciò che non vedo nel resto del mondo, per questo sono molto grato per avermi fatto sentire parte della vostra famiglia”, disse questo musicista tedesco ai bambini del programma di educazione speciale del sistema orchestra.

Trascrizione raccolta da una conversazione con Jhonny Gomez.

“Mi piace un gioco quando mi diverto”

Come ho scritto in un articolo precedente su “HP-Accaparlante”, lavoro per una società sportiva “Anni Magici” di Cavriago (RE). “Anni Magici” si rivolge soprattutto ai bambini da 1 a 10 anni perché questo periodo rappresenta un’occasione unica per acquisire un’ampia base motoria. Gli obiettivi che propone questa società sportiva sono tanti ma quello che condivido maggiormente è quello di operare in modo privilegiato con i bambini, per fare in modo che il loro approccio con l’attività motoria sia un momento prevalentemente ludico, che miri al consolidamento degli schemi motori di base e allo sviluppo di un’immagine di sé positiva. Ecco le parole magiche: dare un’immagine positiva di sé. A proposito di questo vi voglio rendere partecipi di cosa significa per me lavorare coi bambini sull’identità positiva del sé attraverso l’attività motoria. Recentemente ho proposto un percorso di dieci lezioni con due terze della scuola primaria “Bruno Munari” di S. Ilario d’Enza (RE). Tutte le lezioni iniziavano con una presentazione. I bambini disposti in cerchio si presentavano e rispondevano a una domanda del tipo: “Cosa hai mangiato stamattina? Cosa ti piacerebbe fare da grande? Qual è la tua materia preferita? Cosa farai nel pomeriggio?”. Questi quesiti avevano l’intento di creare un’atmosfera piacevole, amicale ma soprattutto accogliente. Ma la domanda chiave cui tenevo particolarmente, che ho posto per una conoscenza approfondita dei miei piccoli atleti, era: “Quando ti piace giocare?”. Le risposte che ho ricevuto sono state molto varie: “Mi piacciono i giochi di movimento, preferisco giocare in gruppo”… Una risposta mi è sembrata interessante: “Mi piace un gioco quando mi diverto”. Di rimbalzo ho subito domandato ai bambini quando si divertivano a giocare. Alcuni hanno sottolineato che un gioco è divertente se tutti partecipano, senza nessuna esclusione. È bello anche se gioca il bambino lento, poco coordinato e anche quello che fa fatica a rispettare la regola del gioco. Solitamente questi bambini hanno un’immagine negativa su di sé, ne soffrono, faticano a trovare uno spunto al cambiamento. Riflettendo su questa realtà dei fatti ho proposto ai bambini di S. Ilario di inventare e/o modificare dei giochi per permettere a tutti di divertirsi, sperimentarsi, esultare. Desideravo che tutti i bambini avessero un ruolo attivo e si sentissero protagonisti senza il timore di essere giudicati. Volevo che anche gli alunni meno abili, più timidi, più scalmanati, i meno e più rispettosi delle regole, proponessero liberamente le loro idee e potessero avere la possibilità di sperimentarle modificando le regole del gioco. Unica condizione: tutti dovevano giocare senza nessuna esclusione. In questo modo si sarebbero sentiti anche responsabili della buona riuscita del gioco. Tutti i bambini hanno accettato con entusiasmo questa proposta. Le idee emerse sono state sorprendenti. Tutti, seppure con modalità diverse, hanno cercato di partecipare alla realizzazione di un gioco adatto a tutti. Ne sono stati inventati sette, che adesso vi elenco: “Le renne di Babbo Natale”, “Mi guardo allo specchio”, “Palla aria”, “Il leone e la tigre”, “Prendili tutti”, “Palla treno”, “Canestro riga”. I giochi sono stati poi sperimentati dai bambini stessi. Ovviamente è stato un sucessone e ancora una volta ho avuto la conferma che il gioco è per sua natura educante; è infatti attraverso di esso che il soggetto impara a conoscere il mondo, a sperimentare il valore delle regole, a stare con gli altri, a gestire le proprie emozioni, a scoprire nuovi percorsi di autonomia e a sperimentare per tentativi e errori le convinzioni sulle cose e sugli altri. Ma se il bambino sta sempre fermo perché viene eliminato per primo e sta 30 minuti senza giocare o si rifiuta di farlo perché non riesce a eseguire l’esercizio, cosa succede? Succede che il bambino verrà sempre scartato dagli altri e verrà visto come un perdente. I suoi compagni percepiranno solo un’immagine negativa e probabilmente verrà percepito così anche dagli adulti. Ringrazio quindi di cuore gli alunni della terza A e terza B della scuola elementare “Bruno Munari” di S. Ilario che hanno provato, divertendosi, a modificare i giochi per coinvolgere tutti in modo attivo. In questo modo si sono autotrasformati, senza esserne consapevoli, da alunni a “istruttori di cambio di immagine”. Grazie ancora, esteso ovviamente anche alla maestra Laura.

Le renne di Babbo Natale
Regole: in base al numero di giocatori si formano diverse squadre da almeno 4 bambini e si dispongono in fila indiana, separate ciascuna da alcuni metri. Quando la maestra dà il via, parte il primo bimbo di ogni fila, cioè la prima renna, che deve correre in avanti e girare intorno a un cono posizionato in precedenza ad almeno 5 metri di distanza. La renna, terminato il percorso, torna indietro dalla squadra e prende per mano la seconda renna e, sempre per mano, ripercorrono il percorso e così via. La squadra che per prima termina il percorso vince. Si possono cambiare le squadre e il percorso.
Scopo: riuscire a finire il percorso prima della squadra avversaria. Modifiche: i bambini si attaccano in fila indiana. Si prende un cerchio e i bambini devono fare il percorso dentro al cerchio.

Mi guardo allo specchio
Ambiente: qualsiasi.
Numero di giocatori: da 2 bambini in su.
Regole: si dividono i bambini in coppia.
In ogni coppia i bambini si posizionano uno di fronte all’altro per circa 30 secondi, il bambino B deve modificare qualcosa del suo aspetto; ad esempio cambierà la posizione del braccio, si slaccerà la scarpa. Dopo 30 secondi il bambino dovrà guardare di nuovo il bimbo B e indovinare tutto ciò che ha modificato del suo aspetto.
In seguito la coppia si scambierà i ruoli e, chi tra i 2 avrà indovinato più cose nell’aspetto dell’altro, vincerà la gara.
Per rendere la gara più appassionante è possibile fare un vero e proprio torneo con un vincitore finale.
Modifiche: 1 o più bambini escono dalla classe e gli altri dovranno spostare gli oggetti posizionati all’interno della palestra. Dopo un tempo stabilito chi è fuori rientra in palestra e dovrà indovinare che cosa è stato cambiato.
Questo gioco si può fare anche in classe.

Palla aria
Materiale: palla
Ambiente: palestra o spazio all’aperto.
Ci sono due squadre (A-B), l’arbitro lancia la palla e dice: A (o B). La squadra nominata deve passarsi la palla e l’altra squadra che difende deve cercare di prenderla.
Vince chi riesce a fare più passaggi possibili in un tempo prestabilito.
Modifiche: per difendere, le mani si mettono dietro la schiena. Tutti devono toccare la palla.
Chi ha già ricevuto e passato la palla si deve fermare con le braccia in alto per far capire che l’ha già ricevuta ( in questo caso vince la squadra che in minor tempo possibile riesce a far toccare a tutti la palla).

Il leone e la tigre
Ambiente: palestra.
Si scelgono 4 bambini, 2 faranno i cacciatori, uno la tigre e l’altro il leone.
I cacciatori devono prendere le gazzelle e portarle in gabbia.
Il leone e la tigre hanno il compito di liberare quelli in gabbia (materassone). Il gioco dura 15 minuti: se alla fine del tempo, la tigre e il leone sono ancora liberi vincono loro. Se invece vengono catturati tutti e due vincono i cacciatori.
Modifiche: se qualcuno viene toccato deve decidere se dire gabbia o foresta, se dice gabbia viene portato sul materassone, se invece dice foresta deve stare fermo con le gambe aperte finché non arrivano due persone che hanno il compito di liberarlo. Quando arrivano davanti deve dire alto o basso e se dice alto deve passare sotto le braccia dei due e poi è libero; invece se dice basso, deve passare sopra. Le due persone che liberano non possono essere catturate dai cacciatori.

Prendili tutti
Ambiente: palestra.
Ci sono due squadre (A-B), la squadra A è in fila dietro la linea gialla e l’altra squadra è sparsa per la palestra oltre la linea gialla. Quelli della squadra A devono prendere quelli della squadra B, se uno viene preso è eliminato e se uno esce dal campo delimitato viene eliminato.
Modifiche: se uno viene preso da un avversario, non viene eliminato ma resta fermo con le gambe aperte e con le braccia fuori e viene liberato da un amico che gli passa sotto le gambe o che gli batte le mani.

Palla treno
Ambiente: palestra.
Materiale: 1 pallone.
Regole: ci sono due squadre, si mettono a fondo campo disposte su due file. I giocatori, uno dietro l’altro, si mettono a gambe divaricate.
L’ultimo deve passare la palla sotto le gambe dei compagni e farla arrivare al primo della fila.
Il primo della fila la prende e la lancia in alto una volta, poi la fa rotolare fino a metà campo, la prende, si gira, lancia la palla in alto e torna in fila dietro a tutti i compagni.
Vince chi rispetta tutte le regole e finisce prima la fila. Fare lo stesso percorso bendati.
Modifiche: l’ultimo della fila passa la palla sotto le gambe e anche chi ha lanciato la palla passa sotto le gambe, preleva la palla del primo della fila e fa il percorso stabilito. Fare lo stesso percorso bendati. Chi è bendato viene guidato dal compagno.

Canestro riga
Ambiente: palestra.
Materiale: palloni.
Si dividono i bambini in 2 squadre e si posizionano in fila davanti al canestro. Il primo lancia la palla e deve fare canestro. Chi ha tirato a canestro deve recuperare la palla e poi consegnarla al secondo della fila e così via.
Vince la squadra che fa più punti.
Modifiche: si tracciano tre righe, una a 2 metri, una a 3 e una a 4 metri dal canestro. Ogni bambino decide da dove tirare. I punti vengono dati in base ai metri dai quali si fa canestro: se si fa canestro da due metri vale 2, da tre vale 3 e da quattro vale 4 punti.
Si mette un cerchio sotto al canestro legato da una funicella. Chi centra il cerchio porta un punto alla propria squadra.
Si possono cambiare palloni: non solo quelli da basket ma anche da pallavolo, morbidi, palline da tennis…
Non c’è nessun vincitore ma i punti delle due squadre vengono sommati. Il punteggio totale sarà il record della classe che dovrà essere migliorato.

Si è sempre meridionali di qualcuno

Ci sono sud e sud.
Ci sono sud molto lontani e sud molto vicini.
Ci sono sud che per alcuni sono nord e nord che per alcuni sono sud.
Gli eventi degli ultimi mesi che hanno sconvolto il nord Africa, stanno mettendo l’Italia al centro del mondo, nel bene e nel male.
La nostra politica, così impegnata a risolvere problemi personali oppure a trovare il nemico di turno, capro espiatorio di tutte le difficoltà o demagogico baluardo pro-elezioni, forse non si è resa conto di quello che sta succedendo. O forse lo sa, ma fa finta di nulla.
La nostra classe dirigente è riuscita anche a perdere quel po’ di prestigio e quel ruolo internazionale che ci era rimasto e che ci apparteneva, se non altro, per posizione geografica.
Restando legati al tema “geografia”, in Italia sta succedendo qualcosa di davvero singolare, che sta cambiando gli equilibri interni, politici e sociali.
Ormai non abbiamo più solo un sud, ne abbiamo due.
Mi spiego.
Fino a ora parlando di sud ci riferivamo ad alcune regioni che, nel bene e nel male, rispondevano a caratteristiche particolari, con peculiarità gastronomiche, ambientali e sociali tutte loro. Luoghi desiderabili e invidiabili, situazioni difficili e faticose. Confini specifici che, negli ultimi anni, sono stati il limite che i migranti hanno incontrato una volta deciso di cambiare vita.
Fino ad ora questo era il sud, l’unico.
Ora invece abbiamo scoperto di averne un altro.
Alcuni paesi dell’Europa stanno facendo sentire “sud” anche una parte del nord, nel momento in cui respingono i migranti che tentano di entrare nel loro paese.
L’Italia si riscopre violentemente al sud di qualcuno. Come se si svegliasse da un bel sogno non può far altro che fare i conti con la realtà e con una politica di governo incapace di instaurare relazioni forti con l’Europa, vittima di quei punti di forza che da sempre sono il baluardo della loro politica: il blocco all’immigrazione, la chiusura dei confini, il rifiuto di investire su politiche d’inclusione; punti di forza che ci si ritorcono contro in quanto strumenti dei governi dei paesi a noi più vicini.
Ormai è tardi, abbiamo perso tanti treni, ci siamo fatti scappare molte occasioni, da destra a sinistra lamentandoci degli errori del passato senza riuscire a realizzare azioni concrete.
Detto questo, però, non possiamo più ragionare secondo criteri di esclusione o di chiusura.
Ciò non vuol dire, allo stesso tempo, aprire le porte in maniera indiscriminata, creando una situazione che potrebbe portare svantaggi, oltre a chi vive nel paese che accoglie, anche ai migranti stessi.
Come fare allora?
L’esperienza di Lampedusa lasciata sola dal governo nell’accoglienza dei primi migranti, ma anche quella di Ventimiglia impegnata a gestire il flusso di migranti respinti dalla Francia, ci può aiutare a definire alcuni punti rispetto al tema dell’accoglienza e dell’integrazione.
Scriveva il poeta John Donne: “Nessun uomo è un’isola, intero in se stesso”.
Reinterpretando questo concetto alla luce della globalizzazione, dobbiamo accettare l’idea che nessun essere umano è un elemento scollegato dal resto dell’umanità e, soprattutto, dal resto dell’economia.
Cioè non possiamo ricordarci dei rumeni quando delocalizziamo, oppure dei libici finché ci permettono di usare il loro petrolio, per poi dimenticarcene quando mutano gli equilibri e quando anche loro, proprio come noi, desiderano avere qualche euro in più in tasca e una vita meno difficile e, quindi, decidono di arrivare a casa nostra.
Alcuni movimenti politici propongono uno slogan pro elezione che dice: “Meno immigrazione, più integrazione”. Non cito tali movimenti perché il problema è generale, di chi si riempie la bocca delle parole e di chi parla di respingimenti. In troppi ormai crediamo che il problema dell’integrazione delle diversità sia il numero troppo alto di persone straniere.
Beh, finché sarà questo il pensiero comune il problema non verrà mai risolto.
Per favorire una reale integrazione, infatti, non è necessario diminuire il numero di migranti bensì attuare politiche che agendo sui vari contesti (scuola, lavoro, cultura…) favoriscano la creazione di qualcosa di nuovo, di un nuovo modo di pensarci italiani, anzi europei. L’integrazione non è fare posto a qualcuno, accogliere con benevolenza lo sfortunato; integrazione è creare qualcosa di nuovo, un nuovo contesto frutto dell’apporto di entrambi, nel quale le diversità diventano ricchezza l’una per l’altra. Integrazione è non fare differenze tra “quelli là” e “questi qua”, definendo in questo modo esseri umani di serie A e di serie B.
Le parole hanno un senso e un peso. Dire che un atto di guerra è fatto per difendere i civili e poi trattare quelli che arrivano sulle nostre coste come clandestini, forse è segno di interessi altri rispetto a quelli dichiarati. Allora dobbiamo aprire gli occhi, per non farci ingannare da parole false che vendono una guerra come una missione umanitaria.
“Si è sempre meridionali di qualcuno”. Le parole di Luciano De Crescenzo si adattano perfettamente alla situazione vissuta dai cittadini di Ventimiglia, che scoprono improvvisamente di essere al sud di qualcuno. Scoprono, inoltre, cosa significa dover fronteggiare l’arrivo di tanti migranti, respinti da un paese confinante. Questo è un ennesimo esempio di come non possiamo più ragionare al singolare ma, soprattutto in Europa, è necessario pensare al plurale e lavorare, politicamente e culturalmente, per far sì che i privilegi e i problemi di ogni stato membro siano i privilegi e i problemi di tutta l’unione.
Concludendo, un’ultima riflessione.
Il nome di questa rubrica è davvero azzeccato, non si può infatti parlare di “sguardo dal sud” o “al sud”, ma è giusto dire “lo sguardo del sud”, quello che tutti dovremmo imparare a usare per guardare il mondo che ci circonda.
Lo sguardo del sud, di chi, cioè, vede il mondo dal punto di vista degli sfruttati e non degli sfruttatori, di chi prova a parlare di persone e non di categorie, di chi considera i punti cardinali non come misuratori di valore quanto come mezzo per riconoscersi dentro un contesto di diversità, di chi, infine, non fa del profitto economico l’unico parametro ma che prova a immaginare, forse sognare, una società, una politica e un’economia più giusta.
Perché in fondo di giustizia si tratta!

Da scrocconi a portasfortuna: il ritratto mass mediatico dei disabili

Vi dirò: dopo oltre 10 anni da quando mi occupo di informazione sociale, a volte fatico a trovare gli argomenti, più che altro perché non mi piace essere ripetitiva. Ma mentre questo numero di “HP-Accaparlante” veniva chiuso in redazione, si sono succeduti tre eventi “golosi” che riguardano mass media e disabilità. L’imbarazzo della scelta, il paese di Bengodi.
Il primo episodio riguarda la copertina del noto settimanale “Panorama”: ebbene sì, “Panorama” l’ha fatto di nuovo (cfr. “La diversità è glamour…o no?”, in “HP-Accaparlante”, n. 3/2003). Una copertina sulla disabilità che ha fatto discutere per settimane il mondo dell’associazionismo e non solo. Il numero, uscito in edicola il 24 marzo 2011, centrava l’attenzione sui falsi invalidi, tema tutto sommato giusto, da affrontarsi in questo periodo. Peccato che la copertina fosse decisamente poco elegante, con un pinocchio stilizzato e seduto su una carrozzina a rotelle, col naso lungo e la scritta “Scrocconi”. Incompleto e con dei dati scorretti il servizio all’interno. Le associazioni di categoria, offese per questa copertina, hanno inviato svariate lettere al settimanale, adducendo soprattutto il fatto che in un periodo di crisi economica, con la guerra in Libia e altri problemi mondiali, il settimanale poteva anche parlare d’altro e non aveva bisogno dei falsi invalidi. La mia opinione, invece, è che ci sarebbe bisogno di parlare di falsi invalidi proprio perché non si può fare un passo indietro sulle tante lotte che riguardano i diritti delle persone disabili. Di disabili veri ce ne sono tanti e devono poter continuare a godere di alcuni diritti (diritti, non privilegi) senza vedere intaccata la loro ragione dai tanti furbi che circolano nel paese. Un servizio serio e corretto per spiegare ai non adetti ai lavori cosa significa invalidi e falsi invalidi occorrerebbe. Occasione sprecata, dunque, ma soprattutto un episodio che ha rigettato uno stigma negativo sulla disabilità. Il disabile è lo scroccone di turno che ne approfitta.
Il secondo episodio, verificatosi dopo pochi giorni, è la pubblica offesa che l’onorevole Ileana Argentin ha subito in Parlamento durante una seduta. A quanto pare qualcuno le ha urlato “handicappata del c…” (non è difficile immaginare il contenuto). L’episodio si è verificato perché la Argentin, non potendo applaudire a causa del suo deficit motorio, ha fatto applaudire l’assistente personale in sua vece, il quale non avrebbe questo privilegio in Parlamento. Da lì un po’ di litigi, un po’ di animi scaldati e poi l’offesa. Ancora oggi se ci cerca su internet con Google News “Ileana Argentin” emergono decine e decine di risultati col resoconto dettagliato di quell’episodio e dei giorni successivi. Come era immaginabile, si è susseguito un tam tam di solidarietà verso la parlamentare offesa, sia da chi si occupa di disabilità, sia da chi non se n’è mai occupato. Soprattutto su Facebook molte persone hanno scritto “Sono anch’io un handicappato del c…”. Ileana Argentin, dal canto suo, ha cavalcato l’onda del vittimismo, dichiarando ai mass media di essersi sentita “violentata”. Ora, se dobbiamo rimanere nel politically correct, i termini dovrebbero rimanere al posto giusto e che compete loro, quindi usare il termine “violentata” non mi pare corretto verso tutte quelle donne che hanno subito davvero una violenza fisica. Forse esagero, forse sono troppo dura. Il punto è che nessuno si è preoccupato di dire che le offese in Parlamento non ci dovrebbero essere, punto e basta. Neri, disabili, non importa. Un microcosmo come il Parlamento dovrebbe dare il buon esempio al macrocosmo. Negli stessi giorni l’onorevole Fini si è preso un giornale in faccia lanciato da qualcuno durante una seduta, e Fini non è disabile. La regola del non offendersi vale per tutti quanti. L’occasione però avrebbe potuto permettere al mondo di categoria e alla stessa Ileana Argentin di fare un discorso più ampio sulla cultura della disabilità, spiegando le necessità di assistenza, e la possibilità di accesso alle stesse funzioni che hanno i “normodotati”. Ovvio che chi lavora nel settore ha diritto di arrabbiarsi per le offese volate in Parlamento, ma alla fine si è fatta solo polemica, e in molti sono quelli che hanno pensato “Che rottura questa Argentin”, perché poi alla fine il disabile vittima passa sempre da rompiscatole. Tra l’altro mi fa sorridere che tanta gente che su Facebook ha espresso solidarietà verso l’Argentin, è gente che quando vede Claudio Imprudente, proprio lui, quello che parla con la lavagnetta e ha sempre la lingua a penzoloni, non riesce a relazionarsi, ha timore, ribrezzo o quant’altro. Questo per ribadire che siamo lontani dalla cultura della disabilità, che l’episodio della Argentin, per come è stato gestito, non ha prodotto niente.
L’ultimo episodio riguarda una campagna pubblicitaria, promossa dalla Fondazione “I Care”, che è comparsa un giorno di fine aprile sui cartelloni di Fucecchio, un paese in provincia di Firenze. I manifesti sono quattro, messi a formare un quadrato. Su ogni lato c’è una Barbie: seduta mentre si fa pettinare i capelli, nelle vesti di ballerina, in quelle di tennista. In tutti i tre casi è accompagnata dalla scritta “Un giorno della mia vita. Yes I Care”. Nell’ultimo cartello Barbie è su una sedia a rotelle e lo slogan cambia: “Tutti i giorni della mia vita”. E poi “Tutti possiamo diventare disabili. Ma ognuno di noi può aiutare”. “Disabili, non diversi. Yes I Care”.
Ora… l’idea della Barbie in carrozzina non è nuova, già anni fa la Mattel produsse Becky, l’amica paraplegica di Barbie. L’idea di una Barbie disabile, icona per eccellenza della bellezza e della salute, non è malvagia. Ma il cartellone con quegli slogan è decisamente inquietante. I mass media e le polemiche per la campagna definita “choc” si sono incentrati sul fatto dell’immagine di una Barbie disabile. Ma è la scritta che accompagna il tutto, pur fatta a fin di bene e pur volendo fare riflettere sulla condizione della disabilità, richiama anche il concetto di – permettetemelo – sfiga. “Tutti possiamo diventare disabili”: certo, è vero, ma leggerlo a caratteri cubitali sui manifesti con tanto di bella bionda sotto in carrozzina, sinceramente fa fare tutti i riti degli scongiuri. La prima cosa che ho pensato quando ho visto il manifesto è stata: “ora il disabile verrà visto come il gatto nero che attraversa la strada”.
Quindi, ricapitolando, l’informazione sociale di un solo mese (tra fine marzo e fine aprile 2011) ha mostrato le persone disabili come scroccone, handicappate del c….., rompiscatole e portasfortuna. C’è di che stare allegri.

La politica della differenza: il Semenzaio come cassa di risonanza

Commissione Mosaico nasce nel 1993 dalla volontà di alcuni Comuni dell’area Valle del Samoggia di gestire concordemente le politiche di Pari Opportunità. A questi se ne uniscono progressivamente altri, fino a raggruppare, in un progetto e un programma condiviso, tutti i Comuni del Distretto di Casalecchio di Reno (Bazzano, Casalecchio di Reno, Castello di Serravalle, Crespellano, Monte San Pietro, Monteveglio, Sasso Marconi, Savigno, Zola Predosa).
L’intenzione che guida fin dall’inizio questo progetto è quella di dare rilievo e sostanza alle politiche di Pari Opportunità, intese come “osservatorio permanente sulle differenze” per il contrasto delle disparità e la valorizzazione di quegli “anelli virtuosi”, in grado di far fruttare al massimo, nella catena della convivenza, gli obiettivi di ben-essere di tutti questi Comuni.
La filosofia è quella della politica della differenza e in particolare il principio per il quale nessuna politica dovrebbe essere in-differente, cioè neutra, incapace di distinguere i casi dai processi. In altre parole: siamo diverse, diversi, e questa diversità produce una molteplicità di domande rispetto alle quali solo una diversificazione di risposte può consentire una convivenza paritetica.
Fin dal suo avvio, Commissione Mosaico pratica questo principio a partire dalla differenza/relazione originaria che è quella tra gli uomini e le donne, intesa come “chiave di accesso” a tutte le altre differenze/relazioni. A livello metodologico significa che, come non è indifferente che per ogni azione di governo ci si ponga il problema di quali sono i bisogni degli uomini e quali quelli delle donne, così non dovrebbe essere indifferente considerare sempre quali sono i bisogni delle persone straniere rispetto alle italiane, dei giovani rispetto agli adulti, dei figli rispetto ai genitori, ecc.
Una politica della differenza che Commissione Mosaico ha agito attraverso la valorizzazione del potenziale relazionale delle donne: per la loro specificità innanzitutto, in un mondo che tende ancora troppo a generalizzare senza accorgersi in realtà di maschilizzare, e per la loro capacità mediatrice, che è la “disposizione culturale” a essere, molto più degli uomini, circuiti virtuosi della comunicazione informale e dell’innovazione relazionale.
Oggi Commissione Mosaico è parte integrante di InSieme, l’Azienda Speciale Consortile attraverso la quale vengono gestiti concordemente, all’interno del Distretto di Casalecchio di Reno, tutti gli interventi sociali dei nove Comuni che lo compongono. La scommessa è quella di una contaminazione di tutto l’operato di InSieme: una diffusione a tutto tondo dell’ottica di Pari Opportunità, sia attraverso l’introduzione e la pratica di concetti e metodi, sia attraverso la cura, a carattere pilota, di specifici progetti e servizi. Quindi non più un assessorato, per quanto unificato, dei singoli Comuni, ma un modo di guardare a tutte le politiche e le azioni di un territorio.
Progetto Semenzaio è una delle azioni di Pari Opportunità di ASC InSieme.
È un luogo di incontro per donne italiane e straniere organizzato attorno alle attività della sartoria, della cucina, della parrucchiera e del coro. È uno spazio libero e gratuito pensato per dare impulso alla convivenza attraverso lo scambio delle esperienze e il confronto delle conoscenze. E per stimolare contatti in grado di accendere curiosità, di suscitare simpatie, di favorire alleanze e mutuo aiuto.
Il senso è quello di incentivare, in Comuni periferici e ad alto tasso di residenti migranti, la creazione di reti di donne, a sostegno dei processi di accoglienza e di interazione, a partire dalla constatazione che proprio le donne, molto più degli uomini, agiscono come anello virtuoso nella catena dell’integrazione. Un’opportunità per uscire dall’isolamento per alcune, per fare più concreti e forse meno allarmanti conti con la diversità per altre.
Chi frequenta i Semenzai sono, per lo più, donne mature italiane e giovani donne straniere, il cui trait-d’union è rappresentato principalmente dalla disponibilità di tempo. Quello liberato dal lavoro fuori di casa, da un lato, e quello della disoccupazione dall’altro. Un tempo evidentemente diverso e animato da diverse aspirazioni ma, di fatto, un tempo per incontrarsi e per raccontarsi, per sostenersi a vicenda e per aiutarsi. Avviene così che storie apparentemente diverse rivelino punti di contatto più forti della loro distanza, come, per esempio, quando accade che l’accettazione del progetto migratorio dell’uomo appaia del tutto simile alla condiscendenza di una moglie italiana nei confronti delle pretese di superiorità del marito, o che la volontà di uscire di casa per partecipare al Semenzaio non sia molto diversa da quella che molti anni prima ha portato un’altra donna a pretendere di mantenere il proprio lavoro anche dopo la nascita dei figli.
Progetto Semenzaio è anche il luogo di raccolta di queste storie e una cassa di risonanza pensata per integrarle nel vissuto evolutivo di un luogo e per comprenderle in quel senso di prossimità che contribuisce a fare della casualità del ritrovarsi in un luogo il sentimento di appartenenza a un luogo.
Garantito dall’apporto logistico e strutturale di tutti i Comuni del Distretto, Progetto Semenzaio si è ampliato dai laboratori di sartoria e di cucina aperti nel 1998 fino a raggiungere la differenziazione di offerta e la capillarità attuali. Sono 10 i punti attuali di incontro: 3 Semenzai Sartoria a Castello di Serravalle, Zola Predosa e Sasso Marconi, 2 Semenzai Cucina a Savigno e a Monteveglio, 3 Semenzai Parrucchiera a Crespellano, Monte San Pietro e Sasso Marconi, 1 Semenzaio Coro a Bazzano.
Le prime due esperienze, quella della sartoria e quella della cucina, partivano dal presupposto di offrire, soprattutto alle donne più emarginate e spesso letteralmente segregate, una giustificazione per uscire di casa e cioè, concretamente, l’opportunità di riportare il risultato di una tunica nuova o di un pantalone accorciato, oppure il pane per la giornata o qualche porzione di tajin. Le due esperienze più recenti, il Semenzaio Parrucchiera e il Coro Mosaico, sono state pensate per promuovere l’integrazione attraverso la contaminazione degli stili estetici e la condivisione di canzoni del mondo.
Al Semenzaio Parrucchiera con la possibilità di avvalersi di styling e taglio di una parrucchiera professionista le partecipanti si assistono a vicenda in lavaggio, colore e messa in piega che i luoghi di provenienza rendono realmente interculturali (si veda per esempio il filmato su www.youtube.com/watch?v=0dy5mT-Yftg). Insomma tutto come da una vera parrucchiera, affacciata però sulla piazza del mondo oltre che sulla piazza del paese.
Il Coro Mosaico con il suo repertorio internazionale è il luogo simbolico del raccontarsi. Ognuna può portare il proprio canto del cuore che un maestro di coro armonizzerà perché tutto il gruppo possa impararlo e cantarlo anche nelle lingue più impensate. Nelle esibizioni pubbliche il racconto di ciascuna diventa il racconto di tutte e un tramite di adesione emotiva alla fatica e alla soddisfazione di tante piccole e grandi storie di migrazione.
Il bilancio negli anni di Progetto Semenzaio è positivo: circa 500 le donne toccate dall’esperienza, con una media di 150 donne all’anno che lo frequentano, e molte anche le storie di condivisione che si potrebbero raccontare, i casi di progressiva emancipazione che Progetto Semenzaio ha contributo a sostenere, il rapporto con le comunità locali che è stato in grado di costruire.
Tanti anni fa una giovane marocchina alla quale il marito aveva negato il permesso di frequentare il Semenzaio, si alzò di notte a rovesciare tutta la sua riserva di sale nel gabinetto per svegliarsi al mattino fingendo di scoprire di non avere più di che impastare il pane. Quel mattino, nonostante i rimproveri, Mina ebbe l’accordo del marito per andare da sola a comprare il sale in paese e fu l’occasione per visitare il Semenzaio e inventarsi, con l’aiuto delle altre donne, una strategia per poterlo frequentare. Oggi queste storie, alle quali ancora il Semenzaio dà occasioni per uscire dalla reclusione delle mura domestiche, sono anche modi di tingere i capelli che stanno sotto il velo, di tagliare le trecce dei vincoli familiari, di trasformarsi finalmente, a più di sessant’anni, nella versione locale di Marilin Monroe, ma anche di cantare “sebben che siamo donne, paura non abbiamo…” e di farlo anche per chi non può ancora permettersi di dirlo.

Per saperne di più:
Commissione Mosaico Pari Opportunità d’InSieme
Piazza Libertà 2, 40050 Monteveglio (BO)
Tel. 051/670.27.20
Fax 051/670.23.67
E-mail: pariopportunita@comune.monteveglio.bo.it

Le Olimpiadi dei giornalisti, Superabile, Settembre 2012

In questi mesi ho scritto spesso, anche su questa rubrica, di piccoli e grandi eroi del mondo dello sport. L’ho fatto perché affascinato dalle spettacolari e coinvolgenti manifestazioni sportive di quest’estate.
Dopo aver visto l’inaugurazione dei giochi paralimpici di Londra, ho riflettuto di nuovo (come capita ogni quattro anni…) su come questo sia indubbiamente l’evento mediatico più importante a livello mondiale, una vetrina enorme, non mi stancherò mai di ripeterlo, di spunti e riflessioni. Proprio come i giochi Olimpici dei normodotati. Due momenti in cui un pubblico veramente ampio può partecipare delle risorse e dei limiti che ogni individuo possiede, normodotato, disabile, con delle gambe o con degli arti di carbonio…Le telecronache dell’accoppiata Lorenzo RoataClaudio Arrigoni, piene di passione, competenza e professionalità, hanno contribuito a rendere ancora più emozionanti la cerimonia di apertura e le competizioni agonistiche.
Certo qualche piccolo neo che l’articolo del mio amico Franco Bomprezzi ha anticipato…. Perché la nostra cara tv di Stato, si chiede, “mamma” Rai, non ha avuto il coraggio di trasmettere in diretta un evento planetario così raro e originale su una delle tre reti ammiraglie?
Tra le tante risposte possibili, ne è arrivata una che ha scatenato un vero e proprio putiferio…Mi riferisco ovviamente alle dichiarazioni di Paolo Villaggio, che ha puntato il dito contro le ipocrisie sottese alla grande “messa in mostra” delle Paralimpiadi, denunciandone i rischi del pietismo, della spettacolarizzazione e via dicendo…Al di là di certe frasi veramente infelici come: “Fa tristezza vedere gente che si trascina sulla sedia con arti artificiali”, l’ex Ragioner Ugo centra un nodo fondamentale. Il confine tra sport e rivalsa è molto sottile e, a mio parere, Villaggio va a inciampare proprio lì, dando voce, del resto, a un pregiudizio diffuso: un disabile deve combattere, con sofferenza, per superare la propria sfiga, il suo è un atto glorioso di cui rendere partecipe l’intera comunità. Benissimo, ma andiamo oltre. Uno come Alvise De Vidi o Alex Zanardi, secondo voi, è uno sventurato che ce la può ancora fare o un atleta a tutti gli effetti?
Concordo con Lorenzo Roata, quando afferma nella manifestazione di chiusura che per noi giornalisti queste Olimpiadi sono state una palestra di formazione, dalla quale non potremo più tornare indietro. Così, mentre anche le Paralimpiadi giungono al termine, il dibattito sui linguaggi rimane aperto…
Ecco perché io mi sto già allenando per Rio e non vedo l’ora di partire…Secondo voi in che disciplina andrò a gareggiare?
Scrivete a claudio@accaparlante.it o sulla mia pagina facebook.

Claudio Imprudente

 

 

 

 

Una calamita per sorella, Superabile, Settembre 2012

“Appeso al frigorifero in cucina c’è una calamita con su scritto: sorelle per caso, amiche per scelta. È proprio quello che penso, alcune volte ci riusciamo, altre un po’ meno…”. Così mi ha raccontato un giorno la mia giovane collega disabile Francesca, da poco “arruolata” nel Gruppo Calamaio del Centro Documentazione Handicap di Bologna, a proposito di sua sorella gemella Federica.
A parte il fatto che io vado matto per le calamite e che ne ho il frigo letteralmente tappezzato, tante quante i miei avventurosi viaggi in giro per il mondo, questa frase mi ha colpito perché sintesi perfetta delle contraddizioni e dei contenuti più delicati di un tema così affascinante e importante come il rapporto tra fratelli e sorelle.
Il rapporto simbiotico infatti che quasi sempre si viene a creare, nonostante ci si trovi, come sottolinea la nostra Francesca, ad essere uniti un po’ per caso, spesso rischia di degenerare in gelosia da entrambe le parti. Amore e odio, iperprotezione e indifferenza in questi casi sono spesso faccia della stessa medaglia proprio come il nord e il sud dei magneti. Come poli magnetici cioè, ci si attrae e ci si respinge costantemente.
“La sensazione che ricevo da lei- continua Francesca- è di continuo controllo, difficilmente mi lascia fare le cose da sola e invece credo che per alcune ne sarei capace. È ovvio e certo che io abbia più bisogno di aiuto, ma ciò non significa che anch’io non possa migliorare”. E allo stesso tempo aggiunge: “A volte creiamo insieme delle alleanze per combattere i nostri genitori, in due otteniamo risultati migliori, oppure ci diamo una mano a vicenda nella scelta dei regali per i rispettivi fidanzati. Ci capita anche di andare a passeggiare e chiacchierare”.
Il limite tra complicità e conflitto è talmente labile e sottile che, come ci insegna la calamita di queste gemelle, diventa una questione di scelta, con cui imparare a misurarsi insieme giorno per giorno.
Come diceva Riccardo Cocciante è una questione di feeling…
E voi, sul vostro frigo, che calamita avete?

Scrivete a claudio@accaparlante.it o sulla mia pagina facebook.

Claudio Imprudente

 

La banalità della bellezza

Scena prima.
Ufficio Postale, interno giorno.
Ore 11:45
Sono in fila alla posta, devo pagare una bolletta.
La fila è lunga, aspetterò un po’, ci sono solo due sportelli aperti e una delle operatrici deve gestire anche quello per la spedizione lettere.
Tocca a un ragazzo evidentemente straniero che chiede di poter aprire un conto corrente.
L’operatrice gli dice di aspettare, senza spiegare il perché e per quanto tempo.
Il ragazzo non capisce bene, ma aspetta. Intanto l’operatrice si sposta nell’altro sportello per inviare un pacco. Passano dieci minuti, un altro signore viene atteso. Altri cinque minuti.
Il ragazzo straniero chiede delucidazioni, sottolineando il fatto che due persone gli erano passate davanti. L’operatrice, indossata la maschera dell’italiana offesa dallo straniero che non rispetta le regole, risponde piccata che deve aspettare l’altra operatrice. Il ragazzo straniero (com’è insistente!) vorrebbe capire come funziona e insiste per avere una risposta chiara. A quel punto, alzando anche un po’ la voce, l’operatrice, poverina, adempie alle sue mansioni spiegando che per aprire un conto postale deve aspettare la collega che si occupa di ciò, che gli spiegherà le caratteristiche del conto e esplicherà tutte le formalità. Il ragazzo ringrazia e chiede più o meno quanto dovrà aspettare, così, intanto, può andare a fare la spesa. Un quarto d’ora, risponde l’operatrice esterrefatta.
L’uscita del ragazzo straniero, però, non coincide con la fine della discussione. L’operatrice, alquanto contrariata, inizia a sproloquiare a voce alta circa la maleducazione del ragazzo, la sua arroganza e domanda alle persone presenti: “Una persona come questa vorrebbe diventare un nostro cliente. Secondo voi quanta voglia ho io di mettermi in relazione con lui?”, chiosando con un: “Sono vecchia ormai e non ho più pazienza!”.

Scena seconda.
Parco pubblico, esterno giorno.
Ore 14:30
Sono con un gruppo di bambini di quinta elementare, stiamo aspettando di salire sul pulmino per andare a casa. Siamo al parco, giocano.
Da lontano li guardo, dopo una giornata di scuola hanno bisogno di muoversi, correre, hanno bisogno di fisicità, di contatto.
Forse un po’ troppo. Mi avvicino per controllare meglio e capire se la cosa sta degenerando.
Inizio a sentire cosa si dicono, a capire a che “gioco” stanno giocando, quali parole usano.
“Tu sei un rom”, “Tu sei un marocchino”, “Tu sei immigrato”, “Contro il muro, andate in prigione”.
Erano in cinque, due facevano i poliziotti mentre gli altri gli immigrati, poi, però, si cambiavano di ruolo perché nessuno voleva fare l’immigrato, fa schifo.
Storie, purtroppo, banali, avvenimenti quotidiani.
Banali come certe esternazioni ascoltate nelle settimane passate: il professore di musica che propone lo “sterminio” dei disabili, l’assessore di Chieri che vorrebbe le classi speciali, la scuola pubblica (pubblica?) di Adro con i simboli leghisti, un ministro della Repubblica italiana (Bossi) che chiama porci i romani, un senatore, sempre della Repubblica italiana (Ciarrapico), che paragona gli ebrei al traditore per eccellenza Giuda, il presidente del Consiglio italiano (Berlusconi) che racconta una barzelletta sugli ebrei.
Banali.
Banali e, purtroppo, non occasionali.
Banali e, a parere di chi le ha dette, fraintese, scherzi non compresi.
Come i bambini che si scusano dicendo che è solo un gioco o come l’operatrice delle poste che giustifica il suo comportamento con la poca pazienza.
Ormai, però, la quotidianità è fatta di scene come quelle raccontate, non fraintendimenti bensì idee, vere e propri modelli di pensiero.
Secondo noi c’è qualcosa che non va, stiamo raccogliendo il frutto di troppi anni persi a dire più che a fare.
A dire che il diverso è pericoloso, che lo straniero è un invasore, che una difficoltà è un limite, a dire che l’integrazione è buona solo per chi si integra.
Avremmo dovuto fare invece, incontrare i diversi, accogliere lo straniero, affrontare la difficoltà come un’occasione, costruire un’integrazione reale ed effettiva fatta di contesti, leggi e conoscenza.
Purtroppo non lo abbiamo fatto e ora ne paghiamo le conseguenze.
Vi starete chiedendo: “Ma sto leggendo la rubrica giusta? Questa non dovrebbe parlare di disabilità e bellezza?”.
Tranquilli, voi non avete sbagliato.
E nemmeno noi!
La nostra è una scelta consapevole, dettata dalla necessità di esprimere un parere e offrire una riflessione importante in un momento sociale e culturale che tende alla regressione.
Ci spieghiamo.
La bellezza, in quanto tale, è fatta di diversità.
Se tutto fosse uguale, non si potrebbe dire che una cosa è bella o una è brutta.
Purtroppo la globalizzazione, oltre che un sacco di vantaggi, si porta dietro l’omologazione del gusto e il tentativo di definire in modo univoco la bellezza.
È bello (e quindi ci piace, lo riconosciamo come amichevole, non ci fa paura, ci appare più comodo…) ciò che più ci assomiglia.
Non ciò che conosciamo ma ciò che ci assomiglia.
Al contrario, ciò che appare diverso, diventa brutto (e quindi non ci piace, lo riconosciamo come pericoloso, ci fa paura, ci appare scomodo…), sia che si parli di diversità legata alla cultura o al colore della pelle sia che si parli di disabilità, sia che si tratti di differenze di genere che di modi diversi di vivere la sessualità.
Per questo crediamo che lavorare per l’integrazione sia lavorare per la bellezza e viceversa, perché una realtà che si arricchisce di contaminazioni artistiche o culinarie, di esperienze politiche o musicali altre, è una realtà destinata a diventare più bella, oltre che più comoda per tutti.
Non un’integrazione basata sulle somiglianze ma un’integrazione che stabilisce le sue fondamenta sulla conoscenza, sulla scoperta di ciò che la diversità porta come ricchezza nella mia vita e, allo stesso tempo, di ciò che il mio mondo può offrire come ricchezza a un mondo differente.
Le analisi che non portano a proposte concrete, però, diventano inevitabilmente sterili.
Un ideale deve poi diventare un’idea, altrimenti rimane un sogno.
Se è vero quindi che in questa Italia sta prendendo piede un’idea culturale che propone e crede di poter realizzare una vera integrazione con l’esclusione di chi è diverso e, allo stesso tempo, promuove una sempre maggior chiusura con l’innalzamento di barricate dietro le quale difendere il proprio orticello da attacchi di non si sa bene quale nemico, è anche vero che l’integrazione va costruita.
Non con le belle parole o il richiamo a un buonismo pseudo-cattolico.
L’integrazione e, quindi, la bellezza, vanno costruite con investimenti culturali ed economici.
Culturali: offrendo spazi e momenti di incontro e conoscenza, idee forti, regole di convivenza…
Economici: investendo! Mettendo risorse economiche al servizio di tali obiettivi culturali, per i giovani come per gli anziani, per i bambini e le loro famiglie.
È necessario riconoscersi dentro un mondo reale che non è più fatto di limiti geografici o doganali ma che, nel momento in cui esporta lavoro (a basso costo) importa speranze e desideri, passioni e sogni.
Questo mo(n)do di vivere che esporta un nuovo colonialismo scambiando materie prime con guerra e povertà, importa, inevitabilmente, il desiderio delle persone di sperare in una vita più dignitosa. Speranza della quale dobbiamo iniziare a farci carico.
All’operatrice dell’ufficio postale, ci verrebbe da dire che purtroppo la fatica dell’integrazione e, quindi, della costruzione di una società più bella, non è solo dello straniero che arriva ma anche dell’italiano che accoglie. Ci rendiamo conto che, in una società che ripudia la fatica e l’impegno molto più che la guerra, questo sia un discorso impopolare.
Ma è l’unico che può davvero permetterci di costruire una realtà migliore della presente.
E comunque si può anche perdere la pazienza, semplicemente, prima di farlo, consideriamo chi abbiamo di fronte come uomo e non per il colore della sua pelle o l’accento delle sue parole.
Come si sarebbe comportata, infatti, con un italiano?