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Autore: admin

Davanti allo specchio

L’immagine più ricorrente riferita dalle persone handicappate è quella della frattura. La ferita fisica rimane un dato inevitabile; è in ogni caso un’immagine specifica che porta in sé l’idea di un corpo spezzato, rotto, oggetto di rifiuto e rivendicazione. Il corpo è percepito come luogo di sentimenti ambivalenti perché luogo della propria diversità, rappresentazione di una parte di sé che non risponde ai propri desideri, sia di ordine funzionale che relazionale."Mi risulta difficile fare un discorso sul rapporto tra me e il mio corpo, anche perché non è un rapporto fisso ma in continuo cambiamento.Posso dire che ho raggiunto un discreto grado di convivenza".
"Non è tanto il rapporto con il proprio corpo, ma piuttosto la diversità che è intrinseca al corpo, quella che può crearmi problemi".
"Il corpo è espressione di ciò che noi siamo per cui, se il corpo non rispetta ciò che c’è nella persona, si crea una sorta di schizofrenia".
"Facendo riferimento ad un mio vissuto, il discorso della divisione tra corpo e mente si può sintetizzare in questo modo: una svalutazione del corpo e forse una eccessiva valutazione delle capacità intellettive".
"Le persone con handicap possono avere possibilità intellettive e di sensibilità forse maggiori, ma bisogna stare attenti perché si rischia di fare un discorso di sopravalutazione: com’è bravo e sensibile, com’è umano, com’è dotato".
"Si rischia di fare la figura del sano tra gli handicappati: molto spesso noi handicappati privilegiamo la mente rispetto al corpo, oppure neghiamo il nostro corpo".
"In una persona con handicap strettamente fisico può aggiungersi un handicap psicologico; ad esempio un giorno una signora mi ha detto che sarei stato un bel ragazzo se non avessi avuto quei movimenti bruschi. Allora qual è il mio corpo? Quello teso o quello rilassato?"
"Prima di dire "gli altri" bisogna pensare a se stessi, a come noi handicappati ci percepiamo"
"Una cosa possibile, che non era ancora venuta fuori, è una fuga reciproca, una reazione di paura; tutti e due si vedono come diversi".

La lesione reale e quella fantasmatica

Tener conto di questi passaggi può permettere il capovolgimento dialettico di molte rappresentazioni e quindi rendere più consapevole il corpo che deve essere riparato. Occorre riconoscere la necessità di un sentimento di lutto nei confronti di ciò che è stato perso, permettendo il riconoscimento e l’accettazione, da parte del bambino, delle proprie difficoltà, riaffrontando in un certo senso gli effetti della lesione sulla propria immagine, anche in chiave simbolica: riconoscimento e accettazione del corpo leso, ferito. In definitiva permette di affrontare la contraddizione tra lesione reale e lesione fantasmatica, collegata strettamente all’immaginario di chi vive a contatto con l’handicap, indipendentemente dal ruolo che riveste.
Le esperienze percettive, motorie e affettive, così strettamente connesse, possono essere proposte attraverso il corpo piuttosto che nonostante il corpo.
Il cerchio si può allora chiudere proprio tenendo conto dello strumento di relazione che il corpo, l’immagine di sé, il movimento, rappresentano, contrapposti alla "reazione a catena" che parte dall’assimilazione di corpo e handicap in un’unica dimensione, passa attraverso il diniego dell’handicap e può arrivare alla negazione della corporeità.
Credo che l’immagine corporea, la rappresentazione di sé possa essere descritta come un mosaico che via via si completa di tasselli sempre nuovi e diversi, nell’arco di un’intera esistenza. Come spesso accade, esiste uno sfondo nel progetto che guida la scelta e l’accostamento di ogni singola tessera di quel mosaico, così come nelle aspettative di un genitore che attenda la nascita del figlio si confondono e contemporaneamente si delineano immagini ideali e fantasmi che trovano poi una collocazione nell’incontro che madre, padre e bambino hanno al momento della nascita.
Il termine "incontro" volutamente sottolinea come la nascita sia in effetti il momento in cui, per la prima volta dall’inizio della gravidanza, madre e bambino si trovano uno di fronte all’altra e la loro relazione si arricchisce di rappresentazioni che rendono reale alla madre l’immagine del proprio bambino atteso. Comprendere la violenza della delusione e il senso di fallimento ed impotenza che la donna sperimenta alla nascita di un bambino con handicap diventa punto determinante per lo sviluppo, da parte della madre, della capacità di accettare il nuovo bambino che è totalmente dipendente da lei.

Il lavoro riabilitativo

Si comprende come il sostegno di questa parte del vissuto personale possa essere fortemente amplificato in ambito riabilitativo: il contatto e lo scambio corporeo sono al tempo stesso luogo del non corrispondente, ma anche paradossalmente luogo del possibile riscatto.
In fondo penso che il lavoro riabilitativo comporta la progressiva reciproca scoperta dei possibili successi e dei possibili limiti senza che uno dei due aspetti implichi inevitabilmente l’esclusione dell’altro. Questo richiede il riconoscimento di una forte carica ambivalente che tale comunicazione porta con sé, per la famiglia, per il bambino, per l’operatore.
Credo che tener conto di questo favorisca la possibilità di un processo di autostima e di identificazione costruttiva come basi fondanti di un lavoro che comunque muove i fili di una "storia" personale, di un’identità possibile anche se spesso difficilmente immaginabile e prevedibile per la persona handicappata perché priva di consueti modelli positivi e codificati da prendere come riferimento. Costruire, da parte del bambino, la propria immagine, la propria storia, in questi termini è un po’ come dipingere il proprio autoritratto senza potersi guardare allo specchio.
La storia di molte persone handicappate, ora adulte, è fatta di tanti _stai dritto, stai su, solleva i piedi, manda giù, appoggia bene la mano.." di tante cinghie per stare in piedi legati ai tavoli di statica, di scarponi come ferri da stiro, di tutori, di docce, di busti, di cuciture sulla pelle per trovare un modo per camminare, o comunque per qualcosa che più da vicino assomigli allo stare in piedi, o almeno seduti. E’ fatto di tanti anni passati in letti di ospedali, di centri di riabilitazione in cui il sabato e la domenica si riconoscevano perché non si faceva ginnastica, non si mettevano le docce; di angoli propri veramente pochi, di nascondigli, di giochi lo stesso, ma i giochi erano anche far fare ginnastica alla bambola, fare la terapista o il dottore (si gioca lo stesso al dottore!). Difficile invece capire come gioco la paura del vuoto, del cadere e dello stare in piedi, del non tenersi stretto, dello stare sdraiati su un tavolino imbottito, del male per stare con le ginocchia distese o le braccia giù.
Questa la vita di tante persone per anni, decenni, l’unica vita vissuta e da vivere; fuori, la vita del mondo, la vita degli altri. Forse una specie di imprinting che poi rende comprensibile, anche se inutile, il rifiuto di occuparsi del proprio corpo, del suo modo di muoversi e di essere, della sua capacità di calamitare gli sguardi e di allontanarli con la stessa velocissima alternanza.

Lavorare stanca

Un’organizzazione del servizio non ottimale e un’inadeguato trattamento economico; sono questi i due motivi che spiegano lo stato di esaurimento psichico e fisico in cui si vengono a trovare gli operatori sociali dopo alcuni anni di lavoro. E’ quanto emerge da una ricerca fatta dal Labos (Laboratorio per le politiche sociali).
Una formazione di base, poi continuata nel tempo, può essere molto utile a prevenire e a reagire alle situazioni di stress a cui chi opera nel sociale può andare incontro.

L’indagine è stata realizzata l’anno passato ed è stata commissionata al Labos dal ministero del Lavoro. "Avevamo già fatto delle ricerche nel comparto sociale e avevamo subito rilevato l’alto grado di turn over fra gli operatori – afferma Pasquale Gigante, sociologo e coordinatore della ricerca. In questo caso si è trattato di una ricerca di sfondo per capire un fenomeno di cui si conosce ben poco e rispetto al quale si ha uno scarso controllo delle variabili che intervengono nel processo; siamo andati a "grattare" il fenomeno stesso per vedere ciò che c’era".
La ricerca ha coinvolto 290 operatori sociali distribuiti nei servizi pubblici e privati (comunità, cooperative…) equamente ripartiti fra tre settori particolarmente esposti; quello delle tossicodipendenze, della salute mentale e dell’Aids.

Un operatore su tre mostra segni di disagio

"Abbiamo utilizzato il Maslachburnout inventory, una scala per la rilevazione del burnout lavorativo; il soggetto, di fronte a sette affermazioni graduate, deve esprimere il grado in cui si trova nella scala. Questo dà luogo a tre dimensioni che spiegano l’esaurimento energetico di un operatore: la mancata realizzazione lavorativa, con la caduta dell’autostima e un senso forte di inadeguatezza al lavoro; l’esaurimento emotivo, ovvero la sensazione di non avere più riserve psicologiche da offrire; la depersonalizzazione, che si esplica con atteggiamenti di presa di distanza od ostili nei confronti delle persone per le quali si lavora. Un apposito questionario – conclude Pasquale Gigante – ha messo in luce che per tre operatori su dieci si manifestano segni di malessere o di grave disagio".
Questo dato emerge anche se, come rilevano gli stessi ricercatori, gli operatori tendono a minimizzare il problema.
La ricerca individua le fonti di stress degli operatori sociali in: il carico eccessivo di lavoro (65% degli intervistati), la remunerazione economica (64%), l’attuale organizzazione del servizio (62,8%), l’assenza di adeguati momenti di recupero (59,9%). Di rimando i fattori protettivi contro lo stress secondo gli stessi operatori risultano essere invece: un buon clima all’interno dell’equipe (85,5%), un’organizzazione più adeguata del servizio (85,5%), corresponsabilità terapeutica interna equipe (81,2%), aggiornamento permanente (80,9%), remunerazione economica più adeguata (73,9%).
"Considerando però le ragioni possibili di affaticamento proposte dal questionario – spiega Pasquale Gigante – si possono riformulare i dati in gruppi fattoriali maggiori da cui risulta che l’inadeguatezza della remunerazione economica, il sovraccarico di lavoro, il rischio di morte degli utenti, l’assenza di un buon clima all’interno dell’equipe sono i motivi principali".

L’importanza della formazione

Se l’organizzazione del servizio e il trattamento economico sono questioni ineludibili, uno strumento importante che può fornire agli operatori sociali dei mezzi per fronteggiare lo stress lavorativo è la formazione professionale.
"Se interpretiamo il burnout come l’incapacità di fare i conti con la propria esperienza lavorativa – spiega Emanuela Cocever, pedagogista – allora il modo in cui tu fai un monitoraggio costante del tuo lavoro è fondamentale; soprattutto i lavori di relazione si reggono solo se si riesce ad impostare una dimensione di ricerca sul proprio lavoro, ovvero di non spesa di se stessi totalmente nell’azione o nella relazione ma con frequenti momenti di osservazione e di riflessione. Questi momenti sono l’esito di una formazione in tutti i sensi, sia iniziale che quella che segue; una formazione che oltre a fornire le competenze, fornisce anche la capacità di una supervisione costante del percorso. Una formazione a tempo pieno con un periodo di tirocinio allora diventa un buon trampolino per superare questi ostacoli, mentre una formazione sono universitaria lascia più sguarniti in questo senso".
Secondo Raymond Ceccotto, responsabile dell’ARFIE (Association de Recherche et de Formation sur l’Insertion en Europe) "Il bournout può essere fronteggiato meglio in quei paesi che offrono diverse possibilità d’impiego per gli operatori sociali; in questo modo si può cambiare settore passando a un’utenza diversa. Ma là dove questa possibilità manca o è limitata (come è il caso dell’Italia), allora bisogna ricorrere agli strumenti offerti dalla formazione. La formazione e la supervisione devono preparare l’operatore sociale a sapersi mettere continuamente in discussione per non farlo adagiare in ruoli troppo rigidi che portano inevitabilmente a fenomeni di stress lavorativo".

Il corpo “recintato”

La “sregolatezza” che permette alla specie umana di essere svincolata da rigide oscillazioni biologiche (estro) e sposta su piani molto più complessi il desiderio e la disponibilità alla sessualità, ha infranto un ordine naturale; ordine che in quanto tale definiva limiti e gerarchie.
La sessualità è diventata così dis-ordine, tutt’ora lo rappresenta, soprattutto per quei suoi aspetti che la svincolano da quel primario bisogno di perpetuare la specie.

Varie ipotesi si sono succedute sui significati di questa evoluzione, proprio nel tentativo di trovare motivi che rendessero ragione di questo cambiamento. Al disordine si sono sovrapposti di volta in volta conflitti più o meno mascherati, vere e proprie lotte, per ripristinare un nuovo controllo sulla sessualità.
Svincolata da leggi fisiologiche, via via superate nei loro confini non immutabili, è diventata territorio di conquiste e censure. Il dato che la sessualità simbolizza e che più di altri è terreno di poteri che si affrontano, è quello che esprime comportamenti e creatività di rapporti e relazioni, non scanditi da orologi stagionali e ormonali.
Collocata in questo sfondo, la sessualità collegata al tema della disabilità, delle differenze e della malattia, sembra ripercorrere lo stesso scenario. A riprova di quanto spesso il bisogno di ulteriori informazioni e nozioni sulla sessualità delle persone handicappate nasconda l’implicito bisogno di controllo, la genitalità si propone come l’elemento discriminante e censurante.
Controllo non solo inteso come censura, più o meno velata, ma anche come inconsapevole necessità di ordinare qualcosa di inquietante, destabilizzante, portatore di antichi fantasmi risvegliati. Si può così ripensare al percorso del mondo femminile imbrigliato da quello maschile, impegnato a regolamentare le diversità, in una sorta di parallelo col mondo delle disabilità.

La sessualità in condizioni di cattività

Silvia Vegetti Finzi spiega con grande interesse molti passaggi e ipotesi che trattano dell’evoluzione della sessualità e riporta una prima traccia di riflessioni partendo proprio dalle osservazioni di un ricercatore su alcune specie di animali in cattività, disponibili a rapporti sessuali infecondi, al di fuori dei cicli di estro, proprio sembra a causa della loro condizione di segregazione.
Le analogie con il mondo della disabilità sono forti ma immediate se si considera che molte delle richieste di intervento e di consulenza fatte dagli operatori nel campo della sessualità, partono proprio dai comportamenti "non accettabili", di carattere sessuale, messi in atto da utenti handicappati in strutture e istituzioni, in contrapposizione alle attività e alle programmazioni dei progetti educativi in corso.
Probabilmente un raffronto così esplicito tra segregazione, cattività e disabilità è ancora troppo carente di approfondimenti specifici legati alla sessualità. Troppo si contrappone agli ideali di integrazione che tanti progetti educativi perseguono e che la sessualità d’improvviso scompagina. La sessualità diventa un "sintomo" da curare, scollegato dalla storia, dai tempi e dagli spazi in cui viene messa in atto.

La genitalità come elemento di comunicazione

Le occasioni di impegno e i tempi morti, le possibili incomunicabilità, non solo causate dalla presenza di un deficit, possono provocare "l’allarme sessualità", l’emergenza inaspettata che trascina con sé operatori, utenti e spesso le famiglie.
A volte tali aspetti sono un’occasione in più per tutto l’ambiente, di evoluzione anche in questo ambito, altre volte si evidenziano per il loro carico di isolamento, di protesta, di aggressioni o autoaggressioni nei confronti di un mondo relazionale carente o comunque in difficoltà, impossibilitato ad accogliere i bisogni profondi dell’altro.
Lo scambio sessuale, la genitalità come fase evolutiva avanzata, è un formidabile elemento di comunicazione e rappresentazione simbolica.
Il piacere, lo scambio, la creatività, il gioco sono aspetti ricorrenti nelle rappresentazioni della sessualità che gli operatori esprimono durante le esercitazioni proposte nell’ambito formativo. Attraverso le immagini, le parole e le spiegazioni dei propri argomenti emergono una miriade di contenuti legati alla sessualità e provenienti dal piacere della conoscenza reciproca, ma anche da sentimento di espansione e forza connessi ad una dimensione più soggettiva.
La genitalità definisce la propria individualità, partendo anche dalla consapevolezza della differenza e complementarietà delle capacità genitali e sessuali in genere, in fondo riconoscendo il limite che tale differenza esprime. Piacere, scambio, creatività, gioco sono tutti elementi potenziali di libertà, autonomia, di evoluzione.

Il controllo della sessualità dei disabili

Ma se già nel contrapporsi dei mondi femminile e maschile questi elementi sono più spesso stati occasione di prevaricazione e di chiusure, si rischia di scorgere la medesima, negata possibilità nel bisogno di controllo della sessualità "handicappata" delle persone disabili.
Si è disposto un ordine per dare una regola ad una sessualità che si è evoluta svincolandosi dalle "regole", cioè dal ciclo estrale; tale ordine ad esempio prevede un accordo sociale che fa rientrare la procreazione dentro l’istituzione famiglia. Se anche questo percorso è impedito dalla presenza di un handicap e l’evento riproduttivo è interdetto o inopportuno, la sessualità delle persone disabili ripropone paradossalmente il primo, più primitivo dei suoi significati, quello che esprime l’arbitrio del piacere e della minacciosa e potenziale promiscuità non legalizzata.
Ciò che riemerge con forza è così quell’aspetto della sessualità che esprime, attraverso la genitalità, desiderio, comunicazione e piacere della conoscenza e che, affiancato a handicap assume improvvisamente lo stigma di immaturità, svuotata di qualsiasi apporto positivo.
Due fantasmi si combinano in un’unione troppo scottante:
– quello dell’alterità che la diversità legata all’handicap impedisce di insabbiare e che richiama il senso di morte e di finitezza dell’essere umano;
– quello dell’indeterminatezza, quale spazio privilegiato che la sessualità lascia aperto all’invenzione, all’imprevedibilità.
La sessualità invece destabilizza ciò che è istituito e l’istituzione di ogni struttura sociale ha le proprie origini nella regolamentazione della sessualità.

Un corpo "guardato a vista"

Anche la storia delle persone handicappate, così come la storia di molte soggettività simbolo di differenza (la storia delle donne, di etnie diverse…), è quella di un corpo recintato, rinchiuso e "guardato a vista", invalidato di valori e significati condivisibili, oltre che invalido, inabile, dipendente…
Faticosa evoluzione quella che possa vedere convivere il piacere, il valore e il significato di ogni singola identità, nonostante la dipendenza, il bisogno di cure, la necessità di mediazioni. L’esistenza di una dimensione della sessualità che si concede al piacere del desiderio e del corpo, risulta indecente e inopportuna. La disabilità la ripropone invece come reale in tutti.
In questo senso diventa paradossale la necessità di una distinzione e differenziazione dei termini "sessualità" e "genitalità". Dall’intento lodevole di poter riconoscere in ogni persona per quanto disabile, ammalata, dipendente, la dimensione e l’identità sessuale, si può più nascostamente cadere in una rappresentazione scadente, svuotata di valore e a sua volta sintomo di ulteriore infermità.

Super normali

Prima arrivò Superman, l’uomo d’acciaio, mito contemporaneo della società di massa. Eroe su cui si proiettavano le aspirazioni e i desideri inconsci di un’intera comunità. Poi venne l’Uomo Ragno e tutti i supereroi con superproblemi, immagini di una società in forte trasformazione dove l’essere e l’apparire rimetteva in gioco il concetto stesso di identità individuale e collettiva. Infine, grazie alla spinta creativa dello scrittore Chris Claremont, una nuova genia di eroi conquistò la scena dell’universo Marvel: i Mutanti. Non più supereroi mutati a causa di un evento catastrofico esterno, ma individui corredati geneticamente con un “fattore X”, in grado di dotarli si poteri meravigliosi. Facoltà paranormali, telecinesi, capacità di trasformare e simulare ogni tipo di materia, fattori rigeneranti, un insieme di poteri che poneva i Mutanti al vertice di un nuovo gradino evolutivo, l’Homo Superior. Eroi in eterno conflitto con un’umanità che li vive come una minaccia. Metafora di un mondo “normale” incapace di accettare la diversità e di convivere con essa.

Molti ricorderanno il finale del film "L’invasione degli ultracorpi" quando Kevin Mc Carthy, nella parte del medico Miles Bennel, dopo essere fuggito anche dalla propria fidanzata, orinai trasformatasi nel suo doppio alieno, giunge sull’autostrada in tempo per accorgersi con orrore che l’invasione ha superato i confini della piccola Santa Mira e sta dilagando in tutta la California. Nella versione definitiva, la produzione impose un prologo e un epilogo che forniva un rassicurante happy end, mentre nelle intenzioni di Don Siegel il film doveva terminare con Mc Carthy che puntava il dito verso lo spettatore pronunciando l’agghiacciante, quanto disperata, frase "You’re next" ("Tu sei il prossimo"), emblema di una fobia che negli anni Cinquanta fornì molti spunti di fiction: il timore per l’alieno invasore, per l’altro diverso da sé comunque vissuto come un’entità esterna (spesso simbolicamente ricondotta al pericolo comunista) che minaccia la "comunità" e l’ordine costituito e, per estensione, la "civiltà". E’ il caso di pellicole come "Il giorno dei trifidi", "Ultimatum alla terra", "La guerra dei mondi".
Invasioni, queste, in cui l’alieno/nemico mantiene comunque una riconoscibilità assai elevata. Basti pensare all’altro capostipite di questa fantascienza postbellica, "La cosa da un altro mondo" di Niby e Hawks, in cui la minaccia è costituita da un’entità vegetale che si nutre di sangue ma che mantiene un aspetto umanoide. E’ in questo rapporto tra minaccia esterna e identificazione della medesima, e quindi dell’invasore, che il film di Siegel riveste un ruolo di grande anticipazione. Gli extraterrestri che invadono Santa Mira si sostituiscono, duplicandoli letteralmente, agli abitanti della cittadina californiana. Sono mostri che hanno perso ogni connotazione di diversità dagli umani e quindi ogni palese riconoscibilità morfologica. I mostri sono tra noi ma non siamo in grado di definirli e quindi di nominarli: questa la reale minaccia: l’invasione procede silenziosa dalle cantine di casa nostra!
Ma se "L’invasione degli ultracorpi" rappresenta il frutto di una fobia collettiva, espressione di una cultura permeata dalla Guerra Fredda, il suo valore emblematico può risultare utile a capire il vero tema di questa analisi, ovvero l’esplosione, nel panorama fumettistico americano, del fenomeno mutante. Una vera e propria "invasione" che ha costituito, negli anni Ottanta, una delle ridefinizioni più interessanti e nuove del fumetto supereroistico. (1) E’ in questo decennio che si assiste al proliferare di supereroi mutanti che non solo affiancano i più tradizionali Uomo Ragno, Capitan America, Devil ecc., ma che progressivamente riscuotono i favori del pubblico (2) e determinano una vera rivoluzione tematica e narrativa. Tutto ha inizio con la creazione del primo gruppo degli X-Men da parte del telepate professor Charles Xavier, conosciuto anche come professor X, che insegnò loro a sviluppare e controllare i poteri mutanti di cui erano in possesso finalizzandone l’uso a una convivenza pacifica con il genere umano. Di questo primo team facevano parte Ciclope, Marvel Girl, Angelo, la Bestia e l’Uomo Ghiaccio, ma ben presto si aggiunsero nuovi arrivi, per esempio Havok, mentre personaggi come la Bestia intrapresero un’attività solitaria. Ma la "saga mutante" era solo agli albori, e ciò che era iniziato come l’ennesima piccola variante dell’universo Marvel si trasformò in un fenomeno narrativo di notevoli dimensioni. Infatti, la misteriosa scomparsa degli X-Men, da cui si salvarono solamente Ciclope e Marvel Girl, divenne il pretesto per creare un nuovo gruppo. Nacquero così i nuovi X-Men: Wolverine, Colosso, Nightcrawler, Tempesta, Thunderbird e Banshee, più naturalmente Ciclope e Marvel Girl. Sono gli anni segnati dalla prolifica inventiva di Chris Claremont, gli anni della vera svolta mutante, a cui farà seguito una sempre maggiore crescita dei personaggi dall’inconfondibile Fattore X. Nasceranno così I Nuovi Mutanti, giovanissimi pupilli di Xavier addestrati per sostituire gli X-Men creduti morti; faranno la loro comparsa Kitty Pryde, Longshot, Dazzler, Rogue, Psylocke, si costituirà il britannico gruppo mutante di Excalibur, fino alla ricomposizione degli X-Men originari che con il nome di X-Factor aggiungeranno un nuovo capitolo a questa monumentale soap opera che ha avuto, tra l’altro, con DP7 (un gruppo di fuggiaschi paranormali), un prolungamento anche nel Nuovo Universo Marvel.
Ma procediamo con ordine, cercando di definire le caratteristiche del supereroe mutante. L’elemento fondamentale che lo contraddistingue è possedere nel patrimonio genetico il Fattore X, che costituisce la fonte primaria dei suoi superpoteri. Un potere che è totalmente interno al personaggio, già presente nella sua struttura e che inizia a manifestarsi con il passare del tempo. Ecco la prima distinzione che rende i mutanti sostanzialmente diversi dagli altri supereroi che potremmo definire "mutati" da qualche accadimento o fattore esterno: un esperimento di laboratorio (L’Uomo Ragno e Capitan America), l’assorbimento di radiazioni nucleari (I Fantastici Quattro e Hulk) oppure l’appartenenza a un universo mitologico o alieno, e quindi "esterno" per definizione alla sfera umana (Thor, Namor the Sub-Mariner, Capitan Marvel e Silver Surfer). Così il Fattore X diventa l’indicatore di una metamorfosi, di una trasformazione che è in atto, non più quindi il superpotere come testimonianza di un incidente accaduto, ma percepito come marca di un mutamento verso qualcosa che non è più umano e che sarà superumano (non a caso in alcuni episodi i mutanti vengono definiti "Homo Superior", un nuovo gradino nell’evoluzione della specie).
Ma il fattore mutageno non risulta l’unica caratteristica di questi supereroi. Alcuni di essi affiancano alle tradizionali doti atletiche e all’ormai "normale" capacità di volare (attitudine questa che non necessita più di giustificazioni), la conoscenza di arti magiche, facoltà divinatorie, poteri telepatici e telecinetici. E’ il caso di Scarlet Witch e Magik: la prima, come suggerisce lo stesso nome, è una strega, mentre la seconda è la regina del Limbo e possiede la capacità di controllare le creature delle tenebre; di Capitan Bretagna, leader di Excalibur che deve la manifestazione dei suoi poteri all’intervento del Mago Merlino e di sua figlia, la Dea dei Cieli del Nord (chiaro riferimento alla mitologia di Artù e dei Cavalieri della Tavola Rotonda); o di Nightcrawler che non solo ha grandi capacità funamboliche, ma può "teleportarsi" da un luogo all’altro.
Le facoltà telepatiche sono variamente distribuite, ma con equità, in modo che un telepate possa sempre far parte dei vari gruppi, quasi a voler sottolineare una necessità di comunicazione extrasensoriale. Così abbiamo il Professor Xavier, fondatore degli X-Men oltre che tutore de I Nuovi Mutanti, Marvel Girl, e poi Fenice del gruppo Excalibur.
Un’altra particolarità che serve a definire l’universo mutante è la dimensione di gruppo che contraddistingue questi supereroi. Ovviamente possiamo ritrovare i vari personaggi protagonisti di avventure individuali, ma la loro esistenza è fondamentalmente collettiva, a differenza di altri famosi superteam, come I Vendicatori o I Difensori, i cui aderenti preesistono alla formazione occasionale del gruppo. E ciò non è casuale, poiché la figura del Professor Xavier e della sua Scuola per Giovani Dotati è centrale all’epopea di questi eroi: un rifugio e una palestra di vita per questi singolari handicappati che scoprono la loro diversità congenita e cercano di controllare, con fini naturalmente etici, i loro straordinari poteri. (3) Poteri "mutanti" la cui peculiarità è di rilevante importanza. Un elemento li definisce e li accomuna: la proprietà di trasformazione. Riferita sia al mutamento di stato dei personaggi che trasformano la loro condizione di normalità in quella di eroi "mutati" – Colosso muta letteralmente la pelle in acciaio, Wolfsbane subisce una metamorfosi da umano in licantropo, Iceman trasforma la propria struttura molecolare in ghiaccio, Magma si infiamma acquistando le caratteristiche della lava – sia alla capacità che questi poteri hanno di intervenire sulla struttura della stessa materia. E’ il caso di Kitty Pryde, in grado di alterare la densità del suo corpo fino a rendersi intangibile come l’aria oppure dura come il diamante, nonché di Meggan che camaleonticamente può acquisire le caratteristiche di chi la circonda.
Siamo così arrivati al punto centrale che ci riporta alla metafora degli "ultracorpi" di Don Siegel. I mutanti dell’universo Marvel rappresentano l’emblema di una diversità che non trova una facile integrazione in un mondo di "normali" che spesso li rifiuta o li vive come una minaccia, nonostante il loro dichiarato schierarsi dalla parte del Bene. Sono supereroi che soffrono a causa dei propri poteri, spesso devastanti, e che vivono in modo conflittuale il loro essere in apparenza normali ma in realtà mutanti, tappe di un’evoluzione verso qualcosa di ignoto. Da qui l’esigenza di mimetizzarsi, di rendersi indefiniti e irriconoscibili alla società. Non è un caso che gli X-Men preferiscano farsi credere morti o che X-Factor, Ciclope, la Bestia, Iceman, Marvel Girl e Angelo si spaccino per un’agenzia dedita alla caccia e al recupero dei mutanti. In un episodio di Excalibur, (4) un dialogo tra Nightcrawler e Meggan risulta a questo proposito illuminante:

Nightcrawler – …il tuo corpo reagisce al pericolo come un camaleonte… cercando salvezza mimetizzandosi nell’ambiente.
Meggan – Ma sono un essere umano! Non dovrei saper dire di no?
Nightcrawler – Come in ogni cosa, il controllo viene con la pratica.
Meggan – Spero. Lo fai sembrare così semplice. E’ facile per te essere sicuri. Tu sai chi sei, dentro e fuori. Io no!
Cambiare è così naturale… talvolta mi chiedo qual è la vera Meggan! C’è una Meggan davvero… o solo un piccolo camaleonte deluso…

Questa è la grande ridefinizione operata da Chris Claremont nel classico universo dei supereroi. Non più l’eroe come modello di riferimento, produttore di mitologie contemporanee (è il caso di Superman nell’età d’oro del fumetto americano), nemmeno l’eroe problematico e umanizzato che rimane pur sempre il simbolo della lotta tra il Bene e il Male (ricordiamo tra tutti L’Uomo Ragno di Stan Lee, prototipo del supereroe anni Sessanta in continuo conflitto tra il suo ruolo di paladino della giustizia e la propria dimensione psicologica e umana), ma la creazione di un insieme di personaggi che nonostante lo status eroico vengono accolti dall’umanità come una minaccia da combattere. E questa volta non più esterna e ben identificabile ma interna e di difficile definizione. Gli umani arrivano addirittura a contrapporre a questa presunta minaccia le Sentinelle, vere macchine da guerra ipertecnologiche, robot ipersofisticati che simboleggiano il livello massimo della ricerca umana: il progresso tecnico contro l’aberrazione genetica.
A questo punto diventa chiaro come i mutanti nel fumetto americano degli anni Ottanta acquistino una valenza mitologica: si configurano come veri e propri mostri contemporanei, incubi viventi che incarnano le paure del genere umano.
Se ripensiamo alla definizione che Leslie Fiedler diede dei freak (quei "bizzarri scherzi della natura" mirabilmente ritratti nell’omonimo film di Todd Browning) veniamo confortati in questa ipotesi:

L’autentico freak suscita… sia un terrore sovrannaturale sia una naturale simpatia, perché, a differenza dei mostri mitologici, è uno di noi, un figlio umano di genitori umani, trasformato però da forze che noi non comprendiamo bene in qualcosa di mitico e di misterioso come non lo è mai un semplice storpio. Incrociando l’uno o l’altro per la strada, possiamo essere contemporaneamente tentati a distogliere gli occhi e a guardare; ma nel caso dello storpio non percepiamo alcuna minaccia a quei limiti disperatamente difesi dai quali dipende qualunque definizione di equilibrio mentale. Solo il vero freak contesta i confini tradizionali tra maschio e femmina, sessuato e asessuato, animale e umano, grande e piccolo, io e altro, e quindi tra realtà e illusione, esperienza e fantasia, dato di fatto e mito. (5)
Ecco spiegato il senso profondo del grande successo di questo fenomeno, solo in apparenza relegato a una mera operazione editoriale. La rivoluzione dello scenario supereroistico condotta da Claremont risulta vincente, e di estremo interesse narrativo, perché interviene sulle strutture profonde del mito, riproponendo nella finzione a fumetti forme archetipiche e sedimenti dell’immaginario collettivo.
Ma i mostri, e i mutanti, a questo punto, non attengono solamente alla sfera teratologica: affondano le proprie radici nella tradizione, nel rito, riguardano anche il sovrannaturale, la dimensione sacra e quindi la teologia:

I livelli più arcaici della nostra mente fanno pensare che queste creature non soltanto non siano dei brutti scherzi, né tanto meno dei prodotti di casuali alterazioni chimiche dei nostri geni, come ci hanno recentemente convinti a credere, ma dei segni premonitori – come suggerisce la più antica parola usata in inglese per definirli. Monster (mostro) è antico quanto la lingua stessa, ed è il nome con il quale si sono più spesso indicati i freak dai tempi di Chaucer a quelli di Shakespeare e oltre. L’etimologia della parola è oscura: ma derivi essa da moneo, ammonisco, o da monstro, esibisco, il significato non cambia: le anormalità umane non derivano da un capriccio della natura, ma dal disegno della Provvidenza. (6)

Non sembri eccessivo ricorrere a simili paralleli, poiché gli stessi testi forniscono indizi assai illuminanti a riprova di quanto detto, quasi esistesse un’implicita consapevolezza da parte degli autori di queste storie. In due episodi dei Nuovi Mutanti (7) attraverso le parole di Rahne Sinclair (Wolfsbane) Claremont rende manifesto il senso di colpa di questi giovani mutanti consapevoli di un’umanità perduta a causa di una diversità "mostruosa" vissuta come una dannazione:

Rahne – …non sono che una ragazzina insignificante. E con tutto quello che ho fatto per esserlo sono destinata a finire all’inferno.
Oh, Signore. Sono davvero dannata?!
Non è colpa mia se sono così, perché devo essere punita? Perché sono un essere spregevole che fa del male a chi non l’ha mai danneggiata?
Rahne – Zitto, Sam. Lei può sentirti!
Sam – Chi, Illyana? E che mi farà?
Rahne – Sam, è una strega!
Sam – E tu un licantropo!
Rahne – Credi che non sappia ciò che sono? Io e lei siamo uguali… strega e licantropo… creature demoniache!
Sam – Calma piccola, non dire a me queste cose! Il primo libro che ho imparato a leggere è stato La Bibbia… andavo a catechismo molto prima che tu nascessi… e scommetto che la mia fede è forte quanto la tua. Se mi dici che sei cattiva solo per ciò che sei, questa è una balla!
Rahne – Il mio pastore disapproverebbe!
Sam – Lui che ne sa?
Rahne – Sam, non essere blasfemo!
Sam- E’ un essere umano, Rahne, come te e me! Non possiamo capire le azioni o i disegni divini. E’ impossibile. …Dio ci giudica con il suo metro… fino ad allora cerca di dare il meglio di te. Mutante è un marchio come una volta lo era "negro", ma ciò che importa è come vivi la tua vita.

Mostri quindi, oltre che supereroi votati a una nobile causa. Ma come abbiamo visto in precedenza sostanzialmente dissimili, nella loro caratterizzazione, sia dal classico eroe in calzamaglia con superpoteri, nonché dal classico mostro di fiction. La capacità mimetica e le facoltà di trasformazione che contraddistinguono i mutanti li inseriscono virtualmente in quella galleria di mostruosità che hanno popolato le pellicole cinematografiche dell’ultimo decennio. Una nuova generazione di mostri caratterizzati da una totale instabilità morfologica, forme informi in continua metamorfosi, non riconoscibili e quindi innominabili ("La Cosa" di John Carpenter è l’emblema del non-definito per eccellenza). Una contemporanea teratosfera la cui tipologia fornisce, guarda caso, il paradigma perfetto dell’universo mutante:

I nuovi mostri, lungi dall’adattarsi a qualsiasi omologazione delle categorie di valore, le sospendono, le annullano, le neutralizzano. Si presentano come forme che non si bloccano in nessun punto preciso dello schema, non si stabilizzano. Sono pertanto forme che propriamente non hanno forma, ma ne sono piuttosto alla ricerca. Il che fa riflettere sulla necessità di un nuovo capitolo da aggiungere alla storia della teratologia. Un capitolo sulla "naturale" instabilità e informità del mostro contemporaneo. (8)

Come Zelig, il camaleontico personaggio alleniano, i mutanti cercano di possedere una personalità che li faccia integrare nell’ambiente in cui vivono, ma il Fattore X, ingombrante fardello mutageno, rende manifesta la loro dimensione sovrumana e la loro mostruosità latente, ricordando all’umanità la potenziale minaccia che essi rappresentano.
E in questo conflitto, tra stabilità e trasformazione, tra desiderio di omologazione sociale e sostanziale rifiuto e discriminazione, risiede la chiave per un’ermeneutica del fenomeno mutante.
L’invasione sta dilagando, i mutanti sono proprio tra noi.

Note

(1) In particolar modo faremo riferimento all’universo della Marvel poiché è qui che i personaggi mutanti hanno acquistato sempre maggiore importanza, divenendo in breve tempo un vero fenomeno editoriale. Questo sicuramente grazie a un autore come Chris Claremont che iniziò nel 1975 con la creazione dei nuovi X-Men per poi proseguire introducendo sempre nuove formazioni di supereroi in possesso del mutageno Fattore X.
(2) Basti ricordare che i comic book degli X-Men sono tuttora al vertice delle classifiche statunitensi.
(3) E’ interessante osservare come strutturalmente alla Scuola di Xavier si contrapponga, in opposizione dicotomica, un analogo istituto per mutanti "cattivi", il Club Infernale, guidato dalla telepate Regina Bianca che vanta un temibile gruppo mutante: gli Hellions.
(4) Gobling Night in Wolverine n. 8, Ed. Play Press, giugno 1990, pag. 41.
(5) Leslie Fiedler, Freaks, Milano, Garzanti, 1981.
(6) ibidem, pag. 16.
(7) Sun Stroke, in I Nuovi Mutanti n. 12, Ed. Play Press, maggio 1990; Scaredy Cat, in I Nuovi Mutanti n. 14, Ed. Play Press, maggio 1990, pagg. 20-21.
(8) Omar Calabrese, L’età neobarocca, Bari, Laterza, 1987, pagg. 99-100. E più in generale il cap. 5: "Instabilità e metamorfosi".

Educatori, santi e levrieri

Essere educatori è un lavoro difficile, faticoso. Certo non è l’unico ma rispetto ad altri presenta una particolarità che a prima vista può sembrare un vantaggio: chi conosce poco e nulla degli educatori ama rappresentarsi questa attività come un lavoro di pura dedizione e sacrificio, di sofferenza, silenzio e comprensione. “Bisogna proprio esserci portati” alzi la mano chi non se lo è mai sentito dire, assieme al corollario “Io non ce la farei”. Si è scambiati per missionari o idealisti, si ottiene all’istante una patente di “bontà e purezza” spendibile anche in altri settori.

Questo ha certo qualche lato utile, ma alla fine ci si ritrova racchiusi in uno stereotipo, santificati e quindi considerati "pronti al sacrificio".
Non sono solo gli educatori ad essere scambiati per santi. Jean Claude Schmitt ha ricostruito la storia di San Guinefort. La storia è quasi incredibile. Siamo nel dodicesimo secolo, all’interno di un "castrum" signorile. Un cane salva un bambino ancora in fasce che mentre dorme nella culla viene assalito da un serpente. All’arrivo del padrone, un nobile cavaliere, il cane viene scambiato per l’assalitore e ucciso all’istante a colpi di spada. Più tardi viene scoperto il corpo del serpente ed il padrone, colto da rimorso, seppellisce il cane con grandi onori.
Il luogo della sepoltura diviene in seguito luogo di guarigione per i bambini "scambiati", ammalati di malattie sconosciute, diversi dalla nascita. Questi venivano sottoposti ad alcune prove, quali l’immersione nell’acqua gelida del fiume o il "lancio" attraverso gli alberi. Si pensava infatti che quei bambini fossero stati "scambiati" da demoni maligni: se sopravvivevano venivano riconosciuti come i bambini reali, se morivano invece significava che i demoni se li erano ripresi. Alla leggenda, con il passare degli anni, si sostituì mano a mano il culto di San Guinefort, santo, martire, guaritore di bambini. Sette secoli dopo troviamo il cane rappresentato sotto sembianze umane e venerato come santo.
Il tema dei bambini scambiati, "changelins" è interessante. E’ facile riconoscere nei bambini scambiati dei bambini handicappati. E’ una figura che si presenta spesso anche nelle fiabe e che ci fa supporre che, durante il medioevo, il trattamento riservato ai bambini handicappati non fosse molto "tenero".
San Guinefort potremmo allora con un po’ di fantasia pensarlo come un educatore del medioevo: a lui ci si rivolgeva, un po’ come accade oggi, per la "diagnosi" del bambino e al tempo stesso per la "cura" che poteva solo avere esiti fausti o infausti, senza mediazioni.
Il mio parere è che le cose da allora siano cambiate di molto. Certamente ci si prende cura dei bambini handicappati in modo assai diverso, molto più civile e rispettoso. Ma allora come oggi c’è l’idea che solo santi-educatori possano e debbano pensare al problema. Uno dei modi per affrontarlo è "girare il mondo" alla ricerca di una magia miracolosa. Ai santi-educatori si chiede di far guarire…
Non è solo agli educatori che ci si rivolge, anzi di solito questo avviene solo dopo diversi tentativi. Si parte dai medici, ricercatori, psicologi, psichiatri, istituti, guaritori, persone che assicurano di avere trovato il metodo rivoluzionario che va bene per tutti. Gli educatori arrivano dopo e sono più spesso legati alle funzioni di custodia, di vita quotidiana, di apprendimento, magari scolastico. Vengono chiesti risultati valutabili, visibili, tangibili, per arrivare poi a dire di lui: "E’ così bravo… ha una gran pazienza… non so come faccia… si vede che c’è portato!".

Quando l’educatore si trasforma in assistente di base

Questo modello funziona bene con i bambini, quando la crescita e le aspettative di cambiamento che gli sono connesse vengono soddisfatte. Le competenze così sono riconoscibili, si riesce a capire quale è il lavoro che l’educatore svolge: aiuta il cambiamento. Ma poi, quando l’età adulta o la gravità nascondono i cambiamenti – che comunque ci sono – oppure con il sopraggiungere della vecchiaia l’educatore perde di significato. Si trasforma e nell’immaginario diventa "l’assistente" che pulisce a dà da mangiare. Il legame con la quotidianità resta, ma le mansioni riconosciute si riducono.
Da santi martiri che combattono per strappare un individuo a quell’oscura malattia a cui corrisponde il deficit si diventa addetti alla sussistenza fisica, annoiati esecutori di un lavoro che è pura manualità. Credo che anche dal tono delle mie parole si capisca che io non condivido – so di non essere il solo – questa lettura del problema che però non è propria solo dei "non addetti ai lavori". Mi sembra invece con profonde radici nella nostra cultura, quindi anche in quella degli stessi educatori.
La divisione delle competenze, ad esempio educatore-assistente di base; insegnante di classe-insegnante di sostegno-educatore ecc. è per molti un elemento indiscutibile, tanto da essere riconosciuto a livello legislativo. La persona diventa utente ed è sottoposto ad una serie di "trattamenti" da diverse persone: le competenze si separano. L’importante è il "trattamento", poca invece l’attenzione al progetto e alla sintonia tra i vari interventi. Quando poi l’utente è anziano o con un deficit grave l’attenzione è ancora più mirata sui "trattamenti", come ad esempio può accadere in alcune case di riposo, dove la persona vive perfettamente servita, pulita e riverita, avendo però attorno il deserto di relazioni umane. Si finisce cioè con lo spostare l’attenzione tutta sul fare, perdendo di vista la responsabilità verso l’individuo.

Responsabili per il contingente e per il progetto

Il lavoro in questo tipo di servizi è molto faticoso e difficile da sostenere per molto tempo. C’è il problema del ricambio frequente del personale, dei turni, del passaggio delle consegne, della fatica e "restare sensibili" in situazioni così difficili. La mia ipotesi è che la lettura del lavoro sociale "alla Guinefort" origini poi sia organizzazioni di questo tipo che i conseguenti problemi a viverle ed a lavorarci all’interno.
"Con ogni bambino che viene partorito, l’umanità ricomincia il suo cammino sotto il segno della mortalità; e in tal senso è in gioco qui anche la responsabilità per la sopravvivenza dell’umanità (…). All’insegna di quella responsabilità (di chi lo ha generato, nda) (…) sussisteva sì (supponiamo) il dovere di generare un bambino, ma non il è proprio a questo, nella sua unicità assolutamente contingente che si rivolge adesso la responsabilità" (Hans Jonas, 1994, p. 167).
Hans Jonas suggerisce il paradigma del lattante per comprendere la responsabilità: accudire, allevare un lattante comporta delle responsabilità che partono da un dover essere immediato, contingente. Il lattante ha bisogno di cure, da effettuare nel momento in cui sono richieste, che non possono attendere (la delibera, la malattia, le ferie, la finanziaria ecc.), altrimenti muore. La responsabilità del genitore è su due piani che tiene presente comunque: il piano del dover essere presente in quel momento e con quel bambino, suo figlio, condizione necessaria (ma non sufficiente) alla realizzazione del secondo piano, la crescita di un individuo adulto autonomo.
Per ottenere questo la presenza di "santi educatori" è poco utile, necessitano piuttosto tante, piccole e grandi, quotidiane e costanti assunzioni di responsabilità. Una presa in carico… col cuore che però non si deve limitare a fare le cose che sono migliori per il proprio "utente" rispetto al quotidiano. Questo è solo un piano dell’esempio, quello legato all’essere, al contingente. Oltre a quello c’è il piano del progetto. E’ un piano che riguarda entrambi, educatori e utenti. Facciamo un esempio: continuare a lavorare nelle condizioni precarie in cui tante volte ci troviamo costretti, subirle silenziosamente perché "tanto non cambia niente" mi sembra sia anche un segnale di poca responsabilità verso i propri "lattanti" costretti a vivere assistiti da "santi" ed insieme a loro relegati fuori dalla società vera, relegati al ruolo quasi di "icone", senza spessore e senza l’identità di persone.

Bibliografia

– Francoise Dolto, "Le parole dei bambini", Mondadori, Milano, 1988
– Hans Jonas, "Il principio di responsabilità", Einaudi, Torino, 1994
– Jean Claude Schmitt, "Il santo levriero", Einaudi, Torino, 1982

La cultura delle immagini

Sessualità, affettività e comunicazione, tre termini che riguardano intimità vissute e non ripetibili. Rispetto alla “scelta sessuale” occorrono coordinate antropologiche oltre che psicologiche; senza conoscere ciò che ci precede infatti non possiamo essere in grado di comprendere la nostra cultura e la nostra “scelta sessuale”.

La scrittura di un vissuto non è solo mettere in bella copia il proprio pensiero, ma rappresenta l’attività con cui ci si determina mentre ci si esprime, per quella capacità di soffermarsi a riflettere, istoriare un sentimento e fissarlo nel tempo, nella memoria. Le lettere di Eloisa e Abelardo e le innumerevoli sublimazioni della nostra cultura sessuale sono chiari esempi ora di libertà nella costrizione ora di costrizione nella apparente libertà.
Eloisa e Abelardo, entrambi religiosi chiusi in un convento di clausura, hanno avuto in passato un amore pieno e completo; una volta lontani, non potendo più vivere fisicamente il loro amore, ne parlano attraverso le lettere.
Avendo alle spalle questo vissuto rendono ancora più concrete, nell’amore, le loro espressioni. Si tratta di amore autentico e non di sublimazione perché c’è stato un antefatto, poi una scelta (forse più dura per Eloisa e meno per Abelardo però c’è stata), cosicché la lettera, sussurro d’amore, diventa la continuazione di quel dialogo e non già cosa sostitutiva. Sarebbe sublimazione se i "ti amo", "ti voglio bene" fossero frasi senza l’amplesso, senza quell’organizzazione affettiva (precedente) che ha portato due corpi a perdersi in una sintonia di piacere-esplosione di pulsioni.
Che la cultura sia sinteticamente una produzione di sublimazioni è anche vero, ma di varia natura: o come rinuncia al proprio essere o come mutamento di una qualità dell’essere, per cui può sussistere, in alcuni casi, una sessualità senza organo sessuale. La nostra è una cultura ancora manichea su questi temi, sia in campo religioso che in campo laico, per cui separa la sessualità dalla esperienza del sesso.
Essa identifica spesso l’atto sessuale col puro piacere fisico (aspetto "idraulico" lo definisce Cooper), escludendo il rapporto di comunicazione; oppure la sessualità diventa talmente sfumata da identificarsi con il puro affetto. La madre che teneramente stringe al seno il figlio è pulsione letta come mero affetto e non come sessualità. Queste forme di paravento non rappresentano una forma di pudore, bensì una "piega culturale" che trova le sue radici laddove alcuni comportamenti sono divenuti per certi aspetti teatro e per altri vita quotidiana.

Il sesso e la vista

Tra il VI e il V secolo a.C. c’è stata questa spaccatura filosofica, che è diventata spaccatura comportamentale, per cui nell’Olimpo gli dei potevano fare tutto ciò che volevano, mentre nella polis alcune cose erano lecite e altre no. E le pulsioni si sono tradotte in desiderio di mito.
Occorre riflettere anche su queste epoche che ci hanno segnati, per rivisitare quelle nostre capacità organizzative, perdute, ora non certo spoglie di incrostazioni culturali: ad esempio il tatto, l’udito, l’olfatto, o l’epidermide… dove sono andati a finire, ormai quasi assenti dalla nostra cultura sessuale? Il sesso, ora, si promuove in funzione soprattutto della vista, come se la nostra maggiore pulsione erotica fosse provocata tramite l’occhio.
Ci dirigiamo precipitosamente verso la cultura dell’occhio, dove l’estetica si sublima nell’immagine e non nella pulsione del piacere. Estetica, dalla radice greca, significa capacità di provare, quindi provare sensazioni di piacere totali. La cultura mediterranea dando prerogativa all’organo della vista esalta un modello consacrato di bella forma, la forma armonica o simmetrica, come bella copia di una parte della totalità dell’essere.
Da questa deformazione concettuale deriva paradossalmente la cosiddetta deformazione percettiva che diventa deformazione comportamentale. Questa deformazione in termini fotografici si chiama "occhio di pesce". Ciò significa che (come per il bambino quando si accorge del non io) l’adulto mette a fuoco col suo occhio, ingrandendolo, (sia fisico che mentale) un particolare aspetto della realtà, quello che più gli interessa.
In linguistica si chiama sineddoche percettiva, che un tempo ha fatto parte, naturalmente, del vissuto magico del bambino. Si tratta, una volta radicatasi, di una vera e propria stenografia del comportamento.

Una società che non capisce le differenze

La nostra società, quindi, così com’è non è crudele, è logica e coerente alla sua impostazione, non può capire l’handicap perché non comprende le differenze, perché la sua condizione amorfa le impedisce la capacità di lettura proprio come struttura costituzionale. Le gerarchie del sociale e l’uso del sociale hanno confermato altrettante gerarchie di valori con i concetti di estetica ed i relativi modelli, (basta pensare ai mass-media e alle soluzioni per gli handicappati e per le devianze) per cui non è realistico aspettarsi risposte adeguate da questo agglomerato statico che ingoia tutto senza modificarsi, appellandosi alla già pronta gamma dei diritti.
Il diritto all’uguaglianza è diventato ormai simbolo di ipocrisia, mentre il diritto alla diversità è un concetto più strategico che capovolge il primo: io sono uguale a te nel diritto di essere diverso.
L’infinita varietà delle scelte sessuali anche delle persone emarginate è riconducibile a quegli unici modelli vigenti, perché unico e totale è il modello di cultura dominante da cui raramente e isolatamente partono prove alternative.
Risalendo all’epoca classica della cultura greca è possibile rintracciare il bivio dell’estetica. In Occidente ha prevalso una canonica della forma dove il buono è l’accettabile e quindi il prescelto, mentre in Oriente ha prevalso il piacere come unica finalità dove appunto la bontà e la bellezza diventano legittime conseguenze.
Le forme di solitudine sessuale e di solitudine affettiva partono nella maggior parte dei casi da questi presupposti inconsci di scelte preintenzionali. Chi rompe con questo modello, rompe anche con un modo di vita e con certi modelli economici culturali e comportamentali.
Allora, più capisci e accetti la diversità del diverso e più assapori la bellezza delle sue diversità e la possibilità rinnovatrice nell’atto d’amore.
La non apertura all’altro è la chiusura anche nei confronti di se stessi. Molti corpi sono bloccati e rigidi perché hanno paura di sentirsi e si aprono come fiori al primo sole quando donano il loro affetto amoroso. Sono le diversità dell’altro che fanno da specchio alla conoscenza di sé, e più ricca è la diversità dell’altro e più possibilità di ricchezza offre il tuo corpo che si apre in questo dialogo.

Una malattia della modernità

Depressione, aggressioni verbali, minacce da parte degli utenti sono alcuni dei rischi a cui sono esposti quanti lavorano nelle “frontiere del sociale”: educatori, medici, infermieri, assistenti sociali e psicologi a contatto con tossicodipendenti, sofferenti mentali, malati di Aids e altre categorie del disagio sociale. Siamo di fronte ad eventi che possono minare seriamente e profondamente la qualità della vita degli operatori.
Ne parliamo con Mario Massarenti, psichiatra, operatore del Sert dell’Azienda Usl Città di Bologna.

Domanda. Un operatore sociale affronta una quotidianità a volte veramente difficile e non sempre il rapporto con l’utenza è facile. Ci sono realmente rischi legati a questo tipo di professione e quali sono?
Risposta. Sì. Esiste una minacciosità ed è legata, io credo, a due condizioni della realtà: di tipo strutturale e di specificità dell’ambiente in cui si opera. Strutturale se il servizio è esageratamente burocratico e quindi non capisce e non recepisce i bisogni dell’utente; di specificità dell’ambiente perché alcuni utenti continuano a sopravvivere in ambito delinquenziale.
Il tossicodipendente manifesta continui tentativi di resistenza alla cura e questo è un fenomeno psicologicamente normale, ma questa resistenza è anche dovuta all’abitudine a sopravvivere in gruppi asociali legati da interessi economici microdelinquenziali. Quindi se non viene rispettato a fondo un luogo, sufficientemente attrezzato e preparato, dove il dominio della sanità si possa esercitare (un luogo di riparo, poiché il ruolo dell’operatore e delle strutture sanitarie di accoglienza e cura è quello di offrire un porto ove ormeggiare e sospendere il tempo, ove la società concede alla persona di riposarsi un attimo e l’utente vi si affida completamente), finisce che questo luogo, viene assalito dal monopolio del piccolo mercato, del piccolo traffico.
Allora se non c’è o se non è possibile una sufficiente offerta di riparo e controllo da parte degli operatori sanitari si scatena la riconquista del mercato da parte della piccola delinquenza. Ciò porta ad aggressioni, minacce e violenze nei confronti degli operatori vissuti come deboli. Poiché si parla spesso di lavoro di frontiera, è possibile prendere ad esempio la sanità di guerra: se si ha l’impressione che l’ospedale riesca a riparare le persone, tendenzialmente si mantiene il rispetto della nobiltà del lavoro sanitario anche da parte dei belligeranti, da chi è con o contro la società. Ma se la struttura sanitaria ad un certo punto non viene rispettata nemmeno dalla stessa amministrazione, come spesso succede per i servizi ai tossicodipendenti, diventa davvero terreno di battaglie dalla conseguenze imprevedibili. Ho riscontrato spesso nella mia attività che il degrado dell’offerta (dei suoi strumenti, dei suoi luoghi e della qualità delle relazioni) aumenta la pericolosità di esposizione dell’operatore.

D. Come far fronte a questa pericolosità, quali le risorse da mettere in campo affinché tutte queste tensioni non vadano ad invadere il privato degli operatori?
R. Riparare dalle esposizioni l’operatore significa avere sicuramente un gruppo di operatori forte e capace e che investa molto sulla complementarietà delle diverse discipline, in uno spirito di collaborazione e di integrazione delle esperienze e conoscenze. Dovrebbe essere l’integrazione, non la lotta corporativa fra le diverse categorie, che a volte è veramente una peste terribile. La collaborazione e la pari dignità di tutti gli approcci sono assolutamente fondamentali e possono portare successivamente ad una corsa entusiasmante a costruire una cultura scientifica adeguata. Quando si rallenta o non si è capaci di questa corsa, si espone enormemente l’operatore, che si trova ad agire in prima persona, da solo, di fronte ad una serie enorme di contraddizioni vissute dall’utente.
Con l’Aids inoltre la situazione ha assunto proporzioni ancora più drammatiche ed è sorto un nuovo difficilissimo problema per l’operatore.
Si celebrano lutti, uno dopo l’altro, e non si sa più nemmeno come celebrare questo lutto; spesso si condivide con chi si sente giovane ormai morente anche il dolore per il morto recente. A questo punto ci vuole una capacità che non è più tecnica, ma diventa umana e ci vuole un servizio fortemente capace di maturare in valori umani.
Un servizio di questo tipo non brucia soltanto, ma dà consapevolezza, gratitudine e finanche gratificazioni, offre forza e livelli elevati di crescita culturale che altri servizi non hanno. Gli operatori che giungono in servizi come questi o in altri servizi per tossicodipendenti sono spesso più uniti fra loro, ma anche più affezionati agli utenti con forti legami di solidarietà, di empatia, di simpatia. Ma vi sono alti costi e alti rischi perché non si è molto aiutati nel compiere questo percorso.
Occorre uscire dall’opinionismo in questo campo ed entrare in un confronto che valorizzi veramente le acquisizioni e le conoscenze scientifiche e le stabilizzi. Bisognerebbe, ad esempio, ammettere che chi diviene davvero dipendente da droghe sviluppa uno stato grave e complesso di malattia, aggravato sempre dal decadimento sociale e dal disagio psicorelazionale, e che ha bisogno di una seria valutazione e di un trattamento medico completo. Ogni parte del problema ha dunque una sua dignità e richiede interazioni e progetti condotti con metodo.
Quindi a livello operativo significa organizzare servizi che rispettano la pari dignità delle aree (medica, sociale, relazionale) ed attenuare le disparità di trattamento economico e giuridico degli operatori. Non si può pensare per esempio che l’assistente sociale guadagni più o meno
niente e chi ha studiato allo stesso modo, magari le stesse materie guadagni il doppio o il triplo. Oppure che l’amministrazione consideri importanti i sanitari e meno importanti i non sanitari. Tutto ciò umilia la dignità degli operatori e priva dei giusti riconoscimenti giuridici e di titolarità le diverse competenze che sono indispensabili allo stesso modo.

D. Possiamo considerare il burnout una malattia della modernità?
R. Sì, perché sta mutando ciò che si chiede al terapeuta. Andiamo verso tempi strani, verso una società ove ancora ci si illude che con la tecnica si possa risolvere tutto e di conseguenza che non ci sarà più bisogno di pazienza, di tolleranza e di solidarietà. L’area della sanità invece è lavoro sul pezzo mal riuscito, sul pezzo che in quel momento è in stato di stress, è lavoro di riparazione, che dà valore all’insuccesso ed alla tolleranza.
A un certo punto cresce una contraddizione, si parla di terapie ma non si pensa più all’area sanitaria e ci si riempie di figure che non hanno nemmeno un training deontologico. Si sta radicando una deontologia della produzione e della guarigione, ma questa non è propria dell’area terapeutica. E’ da riaffermare, invece, una deontologia della pietà, del non accanimento terapeutico, della pazienza, ma anche della rinuncia al risultato assoluto e della valorizzazione del più malridotto. Per esempio il disabile, tanto più lo si cura, tanto più lo si integra, tanto meglio sta, ma non guarirà mai. Se guarisce bene, crediamo anche nel miracolo, ma non è quello della tecnica bensì è il miracolo della tolleranza, dell’amore per l’uomo anche malato, anche a disagio. Non è l’amore della perfezione ma è amore anche dell’imperfezione.

D. Ci sono responsabilità delle istituzioni sul burnout? E quali risorse mobilitare per far fronte ai problemi?
R. Credo che la sanità pubblica, in quanto tale, sia un valore che non è del comunismo, del capitalismo o altro, è un valore civile in quanto pubblico. La Croce Rossa, per esempio, ha un valore e una funzione così grandi per le società che in nessun caso deve essere smobilitata. La funzione sanitaria dello stregone è nata con le prime società. Il medico probabilmente c’è sempre stato e la sua funzione è stata sempre pubblica, corpo separato dal potere politico istituzionale.
Oggi invece è in atto il tentativo di smantellare la sanità, l’assistenza pubblica e di diffondere e realizzare un ritorno a una sanità privata ove per ogni malattia (e sicuramente solo per quelle che hanno maggior probabilità di guarigione e non le altre) sarà possibile aprire una polizza assicurativa. Tutto questo crea non pochi conflitti all’interno (tra chi esercita queste funzioni e quindi conseguenze) e tensioni anche gravi verso l’esterno, tra gli utenti. Anche per questo, forse, possiamo considerare il burnout come una malattia della modernità.

Il burnout raccontato dagli educatori

Un logoramento costante, un forte senso di delusione e di impotenza e alla fine il sentirsi bruciati. Una condizione questa, osservata con sempre maggior frequenza e diffusa tra i molti operatori sociali che svolgono attività con disabili gravi.

Il Centro Zanichelli, e così tante altre realtà simili, accoglie circa quindici disabili gravi, già abbastanza adulti, alcuni di età oltre i 50 anni. Un’utenza stabile, sempre le stesse persone per molti anni. All’educatore è chiesto un lavoro che coinvolge, che tocca l’emotività, gli aspetti più profondi della persona. Richiede una capacità di relazionare e di considerare l’altro che passa attraverso l’affettività, che coinvolge e spesso arricchisce.
Più difficile è agire sul contesto, mantenere un clima di armonia nel gruppo, creare un buon rapporto con i colleghi, con l’amministrazione agendo così sulla qualità e organizzazione del servizio.
Se il lavoro di gruppo degli educatori, il confronto, il lavoro con il supervisore non prendono in considerazione le dinamiche di lavoro, i conflitti e il malessere che le gravi patologie possono mettere in circolo, c’è il grosso rischio che questo malessere venga fatto proprio dagli educatori, amplificato fino a diventare un ostacolo che limita la comunicazione ed anche il riconoscimento delle reali condizioni e dei reali bisogni dell’handicappato grave.
Si è a contatto quotidianamente con la sofferenza, il dolore, la morte, il senso di impotenza, di inutilità. Tutto ciò amplifica la necessità di trovare un senso, un significato condivisibile con i colleghi sul proprio lavoro, su perché lo si fa e come. Se questo non avviene, e spesso può accadere, ci si trova in balia dello stress o della stessa sindrome del burnout: un senso di svuotamento e di apatia che incide sulla qualità del lavoro e sulla vita privata.
In questi periodi si azzera la lucidità sulla realtà e ne viene messa in risalto solo la parte problematica. Questa ottica riduttiva e anche mistificatrice non rende giustizia né al lavoro che si è svolto fino ad allora (spesso con zelo ed ardore), né all’importanza che si continui a farlo, né all’immagine o idea dell’handicappato grave e adulto che rischia di essere appiattita ad un’unica dimensione (dolore, negatività, sofferenza).

Lavorare non solo con la mente ma anche con il corpo

Il primo passo verso il disabile grave è quello di creare una modalità di relazione, dove quella verbale rimane fondamentale ma molto spesso viene integrata da quella gestuale, corporea, affettiva. Quindi a seconda della persona che si ha di fronte si devono leggere e tradurre segni diversi.
All’educatore viene richiesto di lavorare totalmente non solo con la sua intelligenza, ma anche con la sua intuizione, la sensibilità, non solo con la mente, ma anche con il corpo. L’esposizione è totale poiché la base fondamentale per questo tipo di relazione è l’affettività. Lavorare allora vuol dire cercare un costante equilibrio tra un profondo rapporto di empatia e di partecipazione con il disabile e un distacco, per poter valutare continuamente il proprio operato. Un lavoro che chiama in causa non solo la professionalità ma anche la persona nella sua globalità. Un lavoro che espone totalmente l’operatore, a volte anche alle aggressioni fisiche e che diventa facilmente fonte di frustrazioni poiché spesso con i disabili gravi quello che si evidenzia non è tanto quello che si riesce a fare bensì ciò che non si riesce.
Di fatto la nostra è una professione che ha un alto corrispondente teorico rispetto all’operatività. Le tante e diverse difficoltà dell’utente richiedono un solido bagaglio teorico per poterle affrontare. Ecco allora la necessità di strumenti di crescita e di opportunità concrete affinché il gruppo di educatori possa riflettere, elaborare pensiero rispetto al proprio lavoro, produrre documenti validi per trasmettere la conoscenza acquisita attraverso l’esperienza lavorativa, il confronto e la riflessione di gruppo. Questo impegno, questo sforzo intellettuale dovrebbe essere riconosciuto e questo potrebbe in qualche maniera colmare le altre lacune.
Le risposte che singolarmente gli educatori possono dare sono limitate. Spesso è indispensabile agire sulla struttura togliendo i centri per gravi da un ambito separato e chiuso ma inserendoli all’interno di percorsi educativi e formativi più ampi. Evitare che un educatore rimanga per interi decenni a contatto con gli stessi problemi, le stesse situazioni, gli stessi utenti.
Diventa importante tentare, come è stato fatto in questi anni al Centro Zanichelli, soluzioni istituzionali capaci di garantire mobilità e vitalità ad un’attività sociale (apertura al territorio; utenza allargata e patologie meno gravi; utilizzo delle risorse umane, culturali, strutturali e organizzative da parte del Servizio Handicap Adulto; formazione ad altre strutture) in modo da evitare la fuga dell’educatore e quindi una perdita di ricchezza motivazionale e di esperienza professionale indispensabile per questo tipo di strutture e in generale per la crescita della cultura sull’handicap.

(*) il Centro Zanichelli si trova a S. Lazzaro di Savena (Bo)

La nuova Babele

All’inizio degli anni ottanta Lucio Lombardo Radice difendeva l’uso della calcolatrice nelle scuole medie: milioni di ragazzi avrebbero accelerato operazioni matematiche evitando (e scavalcando) così lunghissimi procedimenti manuali che, altrimenti, avrebbero ritardato nel tempo l’apprendimento logico.

Le ragioni di questa difesa sono ancora robuste e convincenti se concepite come autodifesa, soprattutto se si pensa che l’attuale progresso tecnologico ha messo già in moto un nuovo modello di discriminante sociale (e conseguente emarginazione): tra coloro che non posseggono e coloro che invece posseggono strumenti di comunicazione rapida.
Anzi, di comunicazione rapidissima, tale da annullare il tempo: per procedere verso un traguardo di "tempo nullo", per cui nell’istante stesso in cui parte una notizia, è già arrivata a destinazione. Appunto quel "tempo" che la matematica ha convenzionalmente definito nella formula "Ti con zero" scrivendola così "T0".
Sicchè, accettando l’equazione, più si utilizzano strumenti con questa rapidità d’informazione e più si evita l’emarginazione; ma anche, di conseguenza (preoccupante a dir il vero), più si hanno in mano tali mezzi sempre più rapidi e sofisticati, e più si acquisisce potere: un immenso potere controllato nel silenzio. Nessuno strumento, fino ad ora, rendeva possibile la trasmissione di un messaggio, sull’intera superficie del globo, simultaneamente fruibile da milioni di persone. Una notizia, la più banale o la più catastrofica, ora ha la possibilità di essere diffusa in tutto il mondo in tempo reale. Immagine o voce o scrittura che sia, nel momento stesso in cui viene emessa, è allo stesso tempo vista, ascoltata o letta da chi la riceve, anche se si trova a decine di migliaia di chilometri dalla fonte.
Il sogno di Marshall MacLuhan si realizza appunto quando la Babele del mondo diventa Villaggio Globale, in cui ogni uomo, grazie a potenti apparati di telecomunicazione, annulla lo spazio ed il tempo, e si ritrova vicino a tutti gli altri in qualsiasi punto della superficie terrestre egli si trovi e in qualunque lingua egli parli.
Ma chi dà la garanzia che simili potenti apparati vengano utilizzati a buon fine? E quale sarebbe il vantaggio? E quando c’è un vantaggio, quale prezzo comporta?
Primo dubbio. Una immensa banca di informazioni di qualunque genere, cui poter accedere in ogni momento del giorno, dà certamente sicurezza a milioni di cittadini: dal pronto soccorso alla consultazione di un testo, dalla viabilità stradale agli acquisiti al supermarket, dagli indici delle borse mondiali al terremoto "in diretta" in Giappone, al messaggio del Papa… tutto questo universo enormemente ravvicinato "a portata d’occhio" fa sì che ci sentiamo, in un certo senso, vicini l’un l’altro.
La telematica infatti, come espressione rapida della mente, ci tiene per mano in un girotondo ideale, in una solidarietà "artificiale", che la coscienza collettiva trova "vantaggioso" identificare come progresso. Non solo: la coscienza collettiva saluta la telematica persino come premessa alla pace universale; non tanto in quanto arricchimento della comunicazione (il silenzio di chi riceve non pone in discussione il messaggio dell’emittente), ma in quanto conquista silenziosa di quel dominio economico che dovrebbe "imporre" le tregue nei conflitti manovrando i conflitti stessi.
Di qui, l’equivoco sulla naturalità dello scambio (apparentemente ad "armi pari"): tra chi impone l’informazione, dichiarata "oggettiva" e "disinteressata", e chi la riceve o chi la cerca acriticamente e senza intervenire nel dialogo. D’altra parte il fruitore di queste notizie pre-parate, entra talmente nella logica del messaggio-tecnologico-avanzato come messaggio-giusto che accetta per buono tutto. Sia l’indice Mib che le previsioni del tempo, sia la autodichiarazione di innocenza di De Lorenzo che un’edizione critica della Bibbia, che la catastrofe in diretta del Giappone… entrano nel nostro sguardo tecnologico in modo così "vero" da non riuscire più a distinguere messaggio interessato da informazione utile, da valutare con lo stesso peso specifico i danni causati da un terremoto, i danni causati dalle opposizioni al Polo della libertà (le quali gli avrebbero impedito di lavorare), i danni della mafia e i danni provocati dall’incoraggiamento al pool "mani pulite" (che avrebbe sconvolto i vecchi equilibri del potere, potere corrotto ma che, tutto sommato, reggeva meglio).
L’equivoco si perpetua nel dormiveglia del comune buonsenso perché ogni messaggio è ricevuto standosene sempre seduti sulla stessa sedia. Non cambiando né la postura né la prospettiva mentale, ogni messaggio diventa notizia con la leggerezza di uno stesso peso specifico.
Secondo dubbio. Esistono due modalità nell’acquisire un concetto e nel fare: l’una legata ai tempi del progresso (dominati dalla freccia inesorabile del chrònos) e l’altra caratterizzata dal "tempo dovuto" (la scansione ritmica del kairòs, che corrisponde al tempo che occorre per qualsiasi riappropriazione). La coppia chrònos e kairòs mostra incompatibilità di carattere, e tutte le volte che si vuole vederli in armonica convivenza è perché le tecnocrazie del progresso identificano qualità dell’apprendimento con risparmio di tempo e, quindi, con velocità di trasmissione di un messaggio. Si confonde, in tal modo, l’efficacia del fulmineo intervento dei Vigili del Fuoco con la comoda rapidità con cui un pulsante può darci una soluzione immediata, evitandoci passaggi e procedimenti. Tutto diventa emergenza a scapito della pazienza che porta a maturazione un messaggio inviato o un messaggio appreso. Anche una lettera via fax può perdere così le sue prerogative: confezionata e letta immediatamente, annulla quel "tempo dovuto" che impone al mittente la previsione degli effetti distribuiti in un prossimo futuro sul destinatario, e a questo la memoria di quel lasso di tempo che la lettura della lettera lo separa dalla passata scrittura.
Terzo dubbio. Forse una nuova Babele sta profilandosi: un nuovo Villaggio Globale in cui, tutti, possibilmente seduti, con dita abilissime ed occhi ingigantiti, apprendono ogni cosa da tutto il mondo, ma dove anche non esiste risposta che modifichi (o commuova) la fonte del messaggio, come quel muto "rapporto" in vitro che pretende di rimpiazzare un semplice gesto d’amore.

Il villaggio globale dei volontari

E’ opinione diffusa che la telematica stia vivendo una piccola rivoluzione. Da una prevalente “utenza degli esperti” si sta passando via via ad una prevalente “utenza degli inesperti”. In questo quadro avanza quella società civile impegnata nel campo del volontariato e dell’informazione sociale. Perché? Non è difficile intuirlo: la telematica offre un’inedita capacità di socializzazione dei messaggi e di coordinamento delle iniziative.

Il mondo del volontariato è una sorta di "arcipelago" fatto di tante isole autogestite. Ed è avvertita la mancanza di un sistema informativo comune. Infatti per molti mass media il mondo del volontariato "non fa notizia" e dunque non se ne dà informazione o se ne dà pochissima. La telematica appare quindi un "medium alternativo", un mezzo che può raggiungere un target civico "speciale", costituito da attivisti, insegnanti, tecnici, operatori dell’informazione. Le BBS (le cosiddette "bacheche elettroniche"), con i loro sistemi di "computer conference", costituiscono una risposta telematica già disponibile e tutto sommato economica.

Dal fax al modem

Il disagio di non riuscire a comunicare tramite giornali e tv, sta spingendo il mondo del volontariato ad un "fai da te" della comunicazione: dall’uso massiccio dell’editoria da tavolo per realizzare bollettini al "bombardamento" via fax per gli annunci urgenti. Ma il fax è una risposta adeguata? Molti lo dubitano. Il fax è un mezzo della comunicazione uno-a-uno: lo riceve solo una persona per volta ed il costo è sostenuto da chi invia.
Nella telematica il sistema della computer conference è invece un mezzo della comunicazione molti-a-molti ed i costi sono ripartiti fra chi invia e chi riceve. Un messaggio può essere letto da decine, centinaia, migliaia di persone. Per chi è abituato alla "democrazia assembleare" (ed è il caso di molte associazioni di volontariato) la differenza balza agli occhi subito e c’è anche chi vede nelle tecnologie telematiche le opportunità di un ’68 elettronico.
Un rapido confronto sui costi della comunicazione via fax e via modem rivela anche qui la differenza: un messaggio telematico può costare 200 lire e può essere letto da 200 persone (una lira a testa) mentre 200 fax possono costare mille lire l’uno e quindi 200 mila lire in tutto.
Inoltre stiamo assistendo ad un crollo dei prezzi dei modem: con meno di 300 mila lire si può portare a casa un modem a 14.400 bit al secondo con funzione di fax ultrarapido. Tre anni fa i costi erano dieci volte superiori. Se a ciò sommiamo il fatto che ormai quasi in ogni città c’è una BBS (Bulletin Board System) a cui potersi collegare in tariffa telefonica urbana, il quadro è completo. Per le associazioni di volontariato più attente e attrezzate tutto ciò appare una straordinaria opportunità. Per chi oggi controlla i media tutto ciò appare un’insidiosa minaccia. Punti di vista.

Le bacheche elettroniche delle associazioni

Non è azzardato prevedere che da qui a poco alle bacheche murali delle associazioni di volontariato si affiancheranno sempre più le bacheche elettroniche: le BBS. Quello che sta avvenendo è qualcosa di ben più profondo rispetto a ciò che è derivato dall’introduzione dell’editoria da tavolo e dei database all’interno delle associazioni. Sta cioè mutando il profilo comunicativo del volontariato, la rete di rapporti fra centro e periferia.
Si diffondono realtà di coordinamento in sperduti paesi della provincia mentre prima Roma o Milano costituivano il fulcro di tutto.
PeaceLink è ad esempio una rete telematica nata a Taranto e le BBS centrale sta lì. Con le reti telematiche, mutando la nozione di centro e di periferia, cambia la percezione stessa delle iniziative e della loro portata: se l’attivismo per alcuni gruppi si limitava al quartiere, ora diventano possibili rapporti globali con quartieri di altre città, confronti di esperienze, scambi di solidarietà e risorse, collegamenti nazionali e internazionali prima impensati o improponibili.

Telematica calda

Il villaggio globale vive in questo momento l’esplorazione di una nuova opzione etica: quella dell’impegno per gli altri come conferimento di nuovi significati alla propria vita. La telematica sperimenta il passaggio dalla categoria dei media "freddi" a quella dei media "caldi", vissuti con partecipazione e trasporto umano.
Diverse realtà ispirate a questa opzione etica hanno scelto di creare un circuito telematico comune; è spettato alla rete telematica PeaceLink dare voce a questo fermento in un recente convegno dal titolo "La telematica dei cittadini, le idee per un volontariato dell’informazione, le azioni per una società solidale".
E’ stato infatti il primo convegno del genere in Italia e ad aderire e animare il dibattito c’erano giornalisti di settimanali noti (Avvenimenti, Il Salvagente), mensili antimafia (I Siciliani, fondato da Giuseppe Fava, ucciso dalla mafia), giornali allo stato nascente e telematizzati (Sottovoce, Barbecue), realtà note dell’informazione eco-pacifista (Azione Nonviolenta, Guerre & Pace, Il Giornale della Natura, Qualevita), gruppi "storici" di impegno religioso (Pax Christi, Movimento Internazionale della Riconciliazione, Centro Interconfessionale per la Pace), reti telematiche (Italia Online, MC-Link), parlamentari, movimenti per i diritti telematici (ALCEI, Associazione per la Libertà nella Comunicazione Elettronica Interattiva), centri di ricerca e documentazione (osservatori per la riconversione dell’industria militare), ed ancora obiettori di coscienza, disabili, volontari per il Terzo Mondo e altre realtà ancora del poliedrico universo del volontariato e dell’impegno civile.
Nell’appello che apriva il convegno si leggeva: "Quest’uso alternativo ed indipendente della telematica rappresenta una realtà nel panorama fortemente concentrato dei mezzi d’informazione. La "telematica dei cittadini", gestita "dal basso", dà sicuramente fastidio, come ogni cosa indipendente e libera. Questa telematica è e sarà nel mirino di chi vorrebbe fermarla, toglierle voce, con qualsiasi mezzo e con qualsiasi scusa".

Diritti telematici: conto alla rovescia?

A conferma di tali preoccupazioni al convegno si è diffusa l’indiscrezione (avvalorata da un’intervista apparsa sulla stampa specializzata) secondo cui alcuni "tecnici governativi" starebbero approntando un provvedimento ad hoc per le reti telematiche in cui si attribuirebbe ai SysOp (i system operator che gestiscono le banche dati telematiche) la responsabilità penale e civile dei messaggi degli utenti.
Se ciò dovesse concretizzarsi saremmo di fronte ad un deliberato sovraccarico di responsabilità dei SysOp (quanti chiuderanno la propria BBS?) e ad una manovra di controllo (se non di vero e proprio soffocamento) della telematica sociale a tutto vantaggio della sola telematica commerciale. Ma è realistico questo ipotetico "contenimento" della telematica libera?
Fa riflettere ciò che ha scritto il giornalista americano Howard Rheingold: "Le bacheche elettroniche crescono dal basso, si propagano spontaneamente e sono difficili da sradicare: tutte le interreti ad alta velocità finanziate dai governi del mondo potrebbero sparire domani e le comunità delle bacheche elettroniche continuerebbero a crescere rigogliosamente".
Se negli Usa la telematica sociale sembra ormai avere una forza non più contenibile, qui da noi l’"altra Italia" – quella che lotta contro la mafia, il razzismo e la violenza, quella dei cittadini elettronici, quella dei SysOp libertari – sarà disposta a lasciarsi sfuggire di mano il modem e i propri diritti telematici?

Al servizio del cittadino?

L’hanno chiamato Iperbole (Internet PER BOlogna e L’Emilia romagna) ed è uno sportello a cui possono rivolgersi tutti i cittadini, provvisti naturalmente di computer e modem. E’ il primo esperimento in Italia di quella che è stata subito ribattezzata come “democrazia telematica” e nei prossimi mesi, lo sportello è attivo da pochi giorni, sapremo quanto e come il servizio funziona. Per ora possiamo solo tracciare qualche ipotesi sulla reale fruizione dei servizi “via modem” e cercare di capire chi ne sarà l’utente. Ecco le opinioni in proposito di Angelo Agostini, direttore dell’Istituto di Formazione al Giornalismo dell’Emilia Romagna ed esperto di comunicazione.

Domanda. Le reti telematiche possono configurarsi anche come servizio al cittadino? Possono insomma avere una utilità sociale?
Risposta. Non ho dubbi sull’utilità sociale delle reti telematiche ma con una precisazione indispensabile: le reti telematiche saranno tanto più utili quanto più si diffonderà nella società una cultura tecnologica.
Il Censis ha elaborato dei dati sulla diffusione del computer nelle famiglie italiane molto interessanti: si parla infatti di un 12% il che indica un uguale potenziale di fruitori per le reti telematiche.
Questo è un indicatore molto importante ad esempio per quegli enti, come il Comune di Bologna, che realizzano le cosiddette reti civiche. Oggi però la porzione di popolazione che utilizza questi mezzi è piuttosto limitata e qualunque enfasi posta su iniziative di questo tipo è totalmente inutile se parallelamente non vengono anche attuati dei grossi programmi di acculturazione tecnologica delle società locali. Non parlo certo di corsi gratuiti organizzati dal comune ma sicuramente penso ad investimenti economici e a una volontà politica che coinvolga filtri importanti quali le scuole e le associazioni del privato sociale.
Detto questo sono comunque fermamente convinto che le reti telematiche possano ricoprire un ruolo di primaria importanza.

D. Quali sono i punti di forza della telematica?
R. A mio avviso esistono almeno tre elementi da sottolineare. Innanzitutto la possibilità di accedere ad informazioni quantitativamente e qualitativamente impensabili con i mezzi tradizionali.
Secondariamente il grosso valore che i gruppi di discussione rappresentano come forme comunicative; siamo certamente di fronte all’equivalente tecnologico delle chiacchiere che si fanno al bar ma ciò nulla toglie al peso di questi gruppi in termini di veicoli di socializzazione.
Ultimo elemento è l’estrema accessibilità, sia dal punto di vista economico che da quello tecnologico, di questi mezzi.

D. Non c’è una contraddizione in un servizio che da un lato annulla tempi e distanze (e quindi amplia il campo dei suoi utenti) e dall’altro "seleziona", come spesso accade alla tecnologia, i suoi fruitori?
R. Credo che per certe categorie sociali, quelle troppo distanti culturalmente, non ci sarà mai un accesso diretto alle reti telematiche. Questo è da un lato nella logica di tutte le rivoluzioni tecnologiche, dall’altro trova una parziale soluzione negli elementi di mediazione quali associazioni, gruppi di volontariato, associazioni professionali.
Ribadisco però il concetto già espresso, che per me è di cruciale importanza: oggi non si può pensare ad una diffusione capillare di questi mezzi senza creare le condizioni materiali perché questa diffusione diventi possibile.

D. Cosa si modificherà invece per chi fa informazione in campo sociale?
R. Per chi è in grado di comunicare cambierà pressoché tutto; con questo non intendo dire che scomparirà la carta stampata, scompariranno i periodici, ma ci saranno grosse trasformazioni ad esempio nella diffusione, che con questi mezzi sta già toccando potenzialità altrimenti impensabili. Altre fondamentali mutazioni avverranno rispetto ai canoni di scrittura e di progettazione perché è chiaro che quelli tradizionali non possono reggere.
Presto saranno ancora più chiari gli enormi vantaggi di un sistema di comunicazione che proprio per i costi limitati non deve per forza gravitare attorno alle grandi imprese editoriali; in questo soprattutto risiedono le potenzialità della telematica.

L’handicap in rete 1

Le reti telematiche vengono di sovente paragonate a delle spaziose autostrade (elettroniche) dove corrono a velocità impensate una moltitudine di informazioni riguardanti i campi più disparati: da un paio d’anni su queste veloci autostrade passano anche informazioni riguardanti la disabilità.

Rispetto alla quantità di informazioni che transitano sulle reti telematiche, lo spazio dedicato all’handicap è molto limitato ma esistono già alcune esperienze che vale la pena di conoscere.
Sulla rete Agorà, una delle prime nate in Italia e che si occupa principalmente di problemi politici e sociali, esiste la banca dati "La mano sul cappello" rivolta espressamente all’handicap. "E’ nata nel marzo del ’93 – afferma John Fischetti, moderatore della BBS (Bulletin Board System, ovvero banca dati) – ed è divisa in tre parti; la conferenza, una vera e propria tavola rotonda telematica dove chiunque può leggere e scrivere dei brevi testi, l’archivio che raccoglie testi più lunghi come leggi o articoli inseriti dal moderatore e gli annunci che vengono prelevati dalla rete Internet e che sono per lo più in lingua inglese". Il compito del moderatore, come in ogni altra area, è quello di vivacizzare il dibattito e far rispettare agli utenti delle regole minime di comportamento. Se la gestione dell’archivio e degli annunci sono compito dei moderatori (sono due in questo caso) che ricercano testi nuovi e arricchiscono la banca dati, la conferenza è fatta dagli utenti. Nella conferenza de "La mano sul cappello" sono circa trenta gli interventi al mese, un numero piuttosto basso che indica un primo limite di questa tecnologia emergente.

Ma gli utenti ancora sono pochi

"Manca ancora una grossa utenza – spiega Giorgio Banaudi – mentre vi sono molti "giocherelloni" che si collegano in rete". Banaudi responsabile di "I care" bollettino sul software didattico tocca un punto delicato, quello della scarsa conoscenza del mezzo telematico che viene visto ancora come qualcosa di esoterico.
Le banche dati sull’handicap avrebbero un senso ben maggiore se fossero accessibili dalla gran parte della popolazione, soprattutto da parte dei diretti interessati. Inoltre a volte lo svantaggio coincide anche con quello culturale e se da una parte questa tecnologia può essere di grande aiuto per certe forme di handicap sensoriali, per altre sono necessarie delle mediazioni. In altre parole se per una persona che non vede o non sente, la telematica rappresenta il superamento del deficit e una grande occasione per comunicare e ricevere comunicazioni, per le persone con deficit intellettivi le reti telematiche possono avere delle ricadute positive solo indirette.
La BBS curata da Banaudi viaggia sulla rete Fidonet, la rete amatoriale più diffusa in Italia e nel mondo, ed è la prosecuzione del Bollettino sulle Tecnologie Didattiche (BDT) nato nel 1990. ""I care" – dice Banaudi – intende proseguire idealmente sulla stessa "pista" nel fornire informazioni, materiali e supporto software con particolare attenzione agli ambiti della didattica, della disabilità e dell’impatto sociale che le nuove tecnologie hanno nel settore dell’informazione".
La banca dati è suddivisa in tre parti; le aree file (che raccolgono articoli, testi, software per l’handicap, biblioteca elettronica di testi…), la documentazione On-line (per consultare l’archivio delle Biblioteca del Software didattico) e le aree messaggi condivise con altre realtà telematiche italiane ed estere. In quest’ultima area Banaudi, che è anche l’autore del libro "La Bibbia del modem", modera la conferenza Humanitas che riceve qualche decina di messaggi al mese. "Non siamo mai riusciti a superare la soglia dei cento messaggi al mese – dice Banaudi – però molte persone leggono senza intervenire; è difficile inoltre dire quanti disabili partecipano alla conferenza, perché il mezzo non permette nessuna identificazione".
Il mezzo telematico permette infatti all’utente di dire di sè solo ciò che vuole far sapere; in questo modo un disabile non è tenuto a dichiararsi e può presentarsi come vuole. E’ una situazione nuova per un disabile che può essere vissuta in diversi modi ma di cui è utile tenerne conto.

Software didattici e per i disabili

Un’altra area handicap è presente sulla rete MC-Link, BBS della rivista Microcomputer. "La rubrica è nata un anno e mezzo fa – dice Cesare Patara, moderatore dell’area – ed era orientata verso il settore educativo; oggi invece ha allargato il suo campo d’interessi. All’area sono iscritte circa 100 persone anche se poi quelle attive sono circa una trentina; di solito la gente cerca notizie sulle normative, sulle pensioni di invalidità, sui software".
Su Peacelink, una rete specializzata sui temi della pace e i diritti umani, esiste "Area-BBS", un’altro spazio dedicato all’handicap e alla riabilitazione espressione dell’Associazione Regionale Amici degli Handicappati (AREA) che ha sede a Torino.
"Il nostro gruppo esiste da sei anni – afferma Marco Del Dottore, curatore della banca dati. Ha anche un centro di documentazione, ma l’idea di organizzare una biblioteca è stata superata dalle possibilità offerte dalla rete telematica". L’Area-BBS fornisce soprattutto software di pubblico dominio e, a livello locale, gestisce una computer conference sempre sui temi della disabilità.
Sulla rete Fidonet vi sono altre due banche dati, la Tel&ware-BBS che ha sede a Cento in provincia di Ferrara e la Infoline-BBS espressione della UIC (Unione Italiana Ciechi) di Bologna; tutte e due forniscono informazioni e materiale su software utili per i disabili.
Questo è quanto esiste oggi sulle reti telematiche italiane in materia di disabilità; chi conosce l’inglese e vuole collegarsi a Internet, una rete praticamente mondiale, può però esplorare tra le migliaia di computer conference e di banche dati che raccoglie per trovare qualcos’altro sull’argomento: ad esempio in California viene curato l’"Handicap Digest", un riassunto di ciò che si pubblica nel mondo in materia di handicap.

Tentar non nuoce

Il brano di Luca 4, 1-13 parla delle tentazioni. Cerchiamo di comprendere la tentazione a partire dalla prova, dalle difficoltà che incontriamo. Queste forse sono occasioni per la tentazione.

Se la prova consiste nel non mangiare per quaranta giorni, la tentazione sta nel voler trasformare le pietre in pane: si tratta di un modo sbagliato di superare la prova, sbagliato perché non ci si fida di Dio ma si cercano altri appoggi, oppure ci si aspetta che Dio operi automaticamente un miracolo. Comunque le tentazioni sono qualcosa di estremamente personale; quelle di Cristo hanno un valore paradigmatico, tuttavia sono le tentazioni del Figlio di Dio.
Come tutte le altre persone, anche gli handicappati vanno soggetti a tentazioni, ma le vivono diversamente, partendo dalla propria condizione di deficit. Se per esempio una persona "normale" può nutrire il desiderio di possedere tutto e subito, una persona con deficit può vivere questa tentazione come paura di non avere mai niente. Il meccanismo è lo stesso, ma il punto di vista è diverso. In particolare, un handicappato può avere paura della propria stessa situazione. Un disabile che si sente indifeso e inferiore perché per esempio non riesce a camminare da solo, rischia di farsi condizionare da questi sentimenti più che dal problema oggettivo del suo deficit.
Come si diceva prima, le tentazioni di Cristo sono paradigmatiche. Vediamo come possono essere considerate dal punto di vista della persona con deficit.
Incominciamo dal "ritornello" di Satana: "Se tu sei Figlio di Dio…". La tentazione più pesante, per un handicappato, sia quella di credere di non essere figlio di Dio, o di sentirsi al massimo "figlio di un dio minore". Così ci si rivolgono domande come queste: "Se Dio è buono e onnipotente, perché mi ha creato disabile? Mi ha davvero creato Lui, o no?". Ma queste domande sono più che lecite; la prova e la tentazione stanno nel tipo di risposta che verrà dato. Così, mentre le prima tentazione di Cristo è quella di trasformare le pietre in pane, quella dell’handicappato è il desiderio di avere una vita normale, cioè di mangiare tutti i giorni del pane normale, fatto con la farina e non con le pietre. Si tratta di una situazione di presunta felicità; anche qui, la tentazione non è il desiderio di essere felici, che anzi è cosa buona e giusta, ma il pensare che per essere felici bisogna essere normali, "avere il pane".
La seconda tentazione, "Se ti prostri dinanzi a me, tutto sarà tuo" è forte soprattutto in chi crede di non avere ricevuto niente dalla vita. Come dicevamo all’inizio, forse non è tanto la brama del possesso ma la paura della mancanza, dell’handicap, a tentare le persone con deficit.
La terza tentazione è la più insidiosa, perché si basa sulla Parola di Dio. I versetti citati sono una promessa che sembra fatta apposta per un handicappato che non può camminare o è cieco. Qui c’è la tentazione del miracolo, dell’intervento straordinario di Dio, come se i miracoli fossero qualcosa di automatico, quindi come se Dio stesso fosse automatico… Richiedere con insistenza un intervento divino non è di per sé una tentazione; lo è dare questo intervento per scontato, come se fosse dovuto. Non è sbagliato andare a Lourdes, ma andarci solo per "riscuotere" una guarigione prodigiosa è discutibile.
Nonostante tutte le nostre lotte, può capitare che il deficit formi un deserto, perché può provocare l’handicap (con situazioni di emarginazione, isolamento, mancanza di amici, povertà, umiliazione). Il questa condizione difficile, l’uomo può davvero sentirsi solo, con Satana e con Dio. Però le Scritture annunciano che attraverso il deserto si arriva alla libertà. Anche se è proprio questo che l’handicappato è tentato di non credere, che oltre il deserto c’è la "terra promessa", e che proprio nel deserto Dio è quotidianamente vicino.

Se la riabilitazione diventa un abuso

Violenza e riabilitazione sono due termini che nell’immagine comune difficilmente riusciamo a vedere affiancati. Se questo pensiero si fa strada nell’esperienza di qualcuno coinvolto come familiare, operatore o utente del processo di riabilitazione, la più spontanea reazione è quella di accantonare una problematica che troppo profondamente intaccherebbe l’idea stessa della “cura”, dell’aiuto all’altro, della risposta ad un bisogno.

E’ difficile parlare di abuso e violenza nella riabilitazione senza cadere in una elencazione di aspetti denunciati tra le righe della vita quotidiana di famiglie e bambini handicappati, di operatori e strutture (ambulatori, scuole, ospedali…), ma spesso allontanati da un’immagine complessiva forse troppo dura da riconoscere e accettare.
Violenza manifesta e violenza nascosta; ed è sicuramente quest’ultima, quella nascosta, la più difficile da riconoscere e affrontare. La violenza nascosta è quella che a volte si dà per scontata e quasi per inevitabile, quella che ad esempio non si prende cura di accogliere la nascita di un bambino handicappato fornendo alla madre e al padre tutto l’appoggio e l’attenzione che una condizione come questa richiede e lasciando quasi sempre sospeso il carico di incertezze e di dolore, di scelte e di elaborazione di ciò che è successo.
Sicuramente violenti possono essere avvertiti quei provvedimenti e cure che devono paradossalmente allontanare il neonato dalla madre per terapie intensive; oppure ancora i ritmi, i tempi delle pratiche riabilitative; la curiosità che la diversità provoca, inevitabile eppure tanto forte nel determinare l’immagine della corporeità e le strategie adottate dal bambino.

Il caso dei bambini disabili

Sono tante le variabili in gioco, prime tra tutte le reazioni e le capacità di adattamento specifiche di ciascun bambino, che diventa improponibile dare un quadro generale che accomuni ogni singola storia. Una riflessione attenta permetterebbe comunque di arrivare a riconoscere o scoprire che in alcuni comportamenti o reazioni del bambino handicappato si rivela una condizione avvertita come contrapposta ai propri desideri, subìta senza la possibilità di sottrarsi completamente a ciò che viene avvertito come pericoloso, motivo di paura e dolore.
Questa dimensione soggettiva rappresenta bene quel significato che la parola "soggetto" racchiude: "essere sottoposto a dei limiti". In questo caso un bambino handicappato si ritrova per definizione in una condizione in cui i limiti sono rappresentati non solo dalle situazioni più varie che la realtà propone a ciascuno; ci sono infatti limiti che nel bambino handicappato assumono spesso una vera e propria impossibilità a incidere sulla realtà, sul tempo e sullo spazio entro cui è immerso, salvo adottare questa passività trasformandola in piacere.
Ma "soggetto", come sottolinea Silvia Veggetti Finzi, significa anche artefice della propria condizione e delle proprie scelte, oltre che sottoposto a limiti; anche su questo piano la gamma delle scelte possibili subisce una forte riduzione in presenza di deficit, ma non esclude la possibilità di salvaguardare una spinta al desiderio di autonomia che produca quindi il piacere di incidere sulla realtà.
Perché questo piacere possa essere salvaguardato in misura sufficiente da potere riemergere come risorsa ogni qualvolta nuove e impreviste difficoltà mettono in discussione il processo di crescita nel percorso riabilitativo, è necessario che il bambino possa sentirsi riconosciuto nel proprio timore. In fondo ogni bambino in riabilitazione si trova a dover considerare l’alternanza continua del piacere della dipendenza al piacere di sperimentare nuove autonomie, spesso affrontando da solo il disagio di un tale conflitto.
Tenendo conto di quanto possa essere faticoso e difficile e quindi privo di piacere sperimentare funzioni che sono normalmente vissute come spontanee, istintive, occasioni di scoperta (mangiare, muoversi, afferrare, camminare…) la riabilitazione porta con sé situazioni molto controverse.
In un campo come quello della riabilitazione, esistono aspetti che in modo manifesto o in maniera più mascherata, possono rappresentare vere e proprie condizioni di violenza o comunque essere percepite come tali da chi, a causa ad esempio di un deficit congenito, si trovi a crescere e a strutturare la propria identità e autostima "nonostante" gli svantaggi e le differenze che la menomazione comporta.
Il termine nonostante è tra virgolette allo scopo di sottolineare quanto lavoro emotivo profondo sia richiesto a un bambino handicappato, chiamato ad apprendere come muoversi, percepire collegare le proprie esperienze nell’ambiente circostante e nelle relazioni che lo coinvolgono.
Se spostarsi autonomamente per un bambino che comincia a camminare rappresenta una occasione evolutiva di indipendenza non solo fisica ma anche psichica dall’adulto a cui il bambino partecipa con piacere, esiste un piacere vissuto di riflesso dal bambino, piacere proveniente dalla gioia e dall’orgoglio di un genitore che ad esempio assiste ai primi passi del proprio figlio.
Occasioni analoghe possono diventare per un bambino handicappato situazioni di delusione, di insuccesso, di invasiva presenza dell’adulto, non immediatamente riconoscibile come violenza ma ugualmente in grado di produrre una ferita profonda nella struttura e nella rappresentazione dell’identità del bambino continuamente giocata sul filo del "cosa sa fare, cosa non sa fare", del "troppo presto, troppo tardi".

Le violenze nascoste che negano la persona

Del resto se esistono e possono essere ammesse disattenzioni o errori nell’interpretazione degli effettivi bisogni e desideri che un bambino handicappato propone, generalmente si è molto meno disposti a considerare la presenza di un’altra importante dimensione. Il riferimento riguarda la dimensione interiore, soggettiva della esperienza legata alle terapie, alle manipolazioni, agli interventi più o meno cruenti per la definizione di una diagnosi, agli eventuali interventi chirurgici, alle apparecchiature utilizzate e così via.
A questo è necessario aggiungere una condizione che inevitabilmente si collega con l’elenco prima accennato e che forse più di questo, può rappresentare in termini soggettivi un vero e proprio vissuto di violenza subita; ad esempio le separazioni dalla madre da parte del bambino ricoverato o sottoposto a visite e cure, comunque l’allontanamento dall’ambiente familiare conosciuto, dai ritmi e dalle occasioni tipiche di una casa o di quegli ambiti dove comunemente si svolge la vita di un bambino.
La violenza nascosta può allora essere quella che inconsapevolmente nega la condizione di disagio, tralasciando la persona-bambino per occuparsi dell’handicap-bambino in cui emozioni, sentimenti, conoscenze, comunicazioni, sono separati e tutti filtrati da quel giudizio preordinato che la disabilità può portare con sé in quanto simbolo di diversità e dolore. In questo caso il bambino non è più soggetto della cura, del percorso riabilitativo scandito dalla sua persona e dai suoi bisogni, ma la riabilitazione e le terapie diventano i soggetti a cui il bambino deve adattare la propria crescita e la propria vita quotidiana.
La riabilitazione può trasformarsi nella occupazione della vita della persona handicappata, non solo nella scansione delle giornate, settimane, mesi e anni impegnati, ma nella immagine interna costantemente occupata a definire qualcosa che non è piuttosto che dare una dimensione di se stessi, per quello che si è.

L’angoscia di cadere

Se in questa lettura la riabilitazione assoggetta il bambino handicappato, la sua famiglia, il futuro, sicuramente si può intravedere in tutto questo un aspetto che produce effetti contrari alle intenzioni di chi cura; il bambino può difendersi congelando la propria partecipazione attiva e in definitiva il proprio sviluppo: una sorta di resistenza passiva che egli mette in atto per cautelarsi, come meglio può, da interventi che spesso inconsapevolmente lo sottopongono a situazioni avvertite come minacciose e che quindi lo inducono a sottrarsi dal partecipare alle proposte e alle aspettative dell’adulto.
Winnicott elenca tra le angosce primarie del bambino (1) l’angoscia di cadere. Ogni bambino la sperimenta nei primi mesi di vita. Via via questa lascia il posto a quella capacità motoria che implica la rassicurazione rispetto al "mondo" esterno, attraverso quelle possibilità di modificarlo, di controllarlo e cambiarlo con le proprie azioni (2).
Così il contenimento proveniente dall’esterno, dalla madre che tiene in braccio il bambino, si tramuta in una capacità sempre più autonoma di un sostegno proveniente dall’interno, da una condizione sempre più evoluta in termini motori ed emotivi che il bambino acquista crescendo.
In una condizione di deficit il contenimento dall’esterno si prolunga per più tempo rispetto al periodo fisiologico, influendo sulla costruzione di un’immagine corporea stabile e sull’angoscia primaria di cadere. Questa a sua volta, può prolungare la sua impronta, agendo così sullo sviluppo stesso della motricità, innescando un meccanismo a catena che non tralascia di influire anche sulla relazione primaria (simbiotica). La dipendenza fisica del bambino handicappato mantiene più a lungo, a volte indefinitamente, questo legame e il cerchio si può chiudere a volte ingabbiando il bambino e la famiglia (quasi sempre la madre) in un isolamento inespugnabile: nemmeno il tempo che scorre e gli anni che si succedono hanno a volte ragione di una tale condizione!
Infine una ulteriore paradossale condizione di violenza potrebbe diventare, a dispetto di qualunque profonda attenzione, quella secondo la quale già prevedendo danni più o meno visibili, più o meno recuperabili, ci mettessimo tutti a pensare che in fondo a un’inevitabile condizione di sofferenza corrisponde sempre e comunque un futuro prevedibilmente nero.
Il senso di continuità e di imprevedibilità che il futuro racchiude in sé, molto spesso sembra negato a chi cresce con un deficit. Il senso di continuità significa la possibilità di pensare proiezioni di sé nel futuro che diano anche ragione della fatica di crescere, di proporsi in prima persona, diventando autonomi.
In questo caso, autonomia rappresenta soprattutto la possibilità di progettarsi nonostante il proprio passato, senza dimenticarlo e quindi anche nell’impossibilità di cancellare le cicatrici di una probabile violenza vissuta, ma potendo contare su ferite che si sono rimarginate.

Note

(1) Winnicott D., "Gioco e realtà", Armando
(2) Imbasciati A., "Sviluppo psicosessuale e sviluppo cognitivo", Il Pensiero Scientifico

La storia di Mario

Mario è nato nel 1990. Affetto da sindrome di Down, non è stato neanche riconosciuto dai genitori. Pur trattandosi di un esposto, il Tribunale per i minorenni competente per territorio non ne dichiarò neanche l’adottabilità, non cercò di trovargli una famiglia e accettò la proposta della Provincia di collocarlo in un Istituto di ricovero per anziani non autosufficienti e handicappati adulti che si trova in un’altra regione italiana.

Lì Mario è vissuto, senza cure materne, senza contatto con coetanei, senza speranza di venirne fuori; poi nel dicembre del ’91, nel corso di una nota trasmissione televisiva, una telefonata anonima ne segnalò la presenza. Il Tribunale competente (tengo a precisare che non si tratta del Tribunale di Catania), all’interno del quale era nel frattempo cambiato il Presidente, riconobbe il proprio "scheletro nell’armadio" e si affrettò a definire la posizione giuridica di Mario rendendolo finalmente adottabile e nominandogli un tutore nella persona di una agguerrita assistente sociale che, credendo nella possibilità di farlo adottare, si diede da fare per trovargli una famiglia contattando vari gruppi di volontariato. Così, nel maggio 1992, Mario è finalmente diventato il nostro terzo figlio (gli altri sono due maschietti nati rispettivamente nell’85 e nell’86).
Gelosie iniziali da parte dei fratelli? Tante.
Difficoltà di aggiustamento del nucleo familiare? Tantissime.
Aggravio di fatica fisica per due genitori quarantenni (siamo rispettivamente del ’51 e del ’53) e fortemente impegnati nel mondo del lavoro (marito medico, moglie impiegata) e nel volontariato? Molto.
Ma, soprattutto, tanta crescita, tanta maturazione, tanta "grazia" (per dirla con linguaggio cristiano). Mario è la nostra gioia, il nostro maggiore "affare": meno male che esiste, perché la sua presenza, la sua "diversità" è stata per tutti noi, genitori e figli, occasione di maturazione, ridimensionamento dei valori, apertura verso le cose che contano.
Mario merita di essere amato. Il problema, se mai, è se noi siamo in grado di capire quanto vale. Ci scusiamo per queste sottolineature personali, ma le riteniamo doverose nei confronti del nostro bambino.
Al momento del suo ingresso in famiglia Mario presentava evidenti tratti autistici causati dalla precoce istituzionalizzazione. Dal punto di vista motorio, poi, era in grande ritardo rispetto ai suoi coetanei, anche Down: a quasi due anni non solo non camminava, ma non gattonava, non strisciava, non stava in posizione eretta. Parlare, poi… un miraggio!
Prendeva in mano gli oggetti, ma gli cadevano facilmente… un vero disastro. Piano piano, però, con tanto amore e tenerezza, il muro del suo isolamento è stato sfondato e adesso, per quanto ancora fortemente in ritardo rispetto ai coetanei Down sul piano psico-motorio, dal punto di vista relazionale il nostro piccino è sbocciato: piange, ride, comunica (a modo suo), ama, desidera, cerca…: è parte di noi.

Una soluzione di "comodo": gli istituti

Cosa offrono le nostre strutture pubbliche, le Usl? Pochissimo. Sarebbe auspicabile che le Usl disseminassero nel territorio le strutture riabilitative con èquipe integrate e che fornissero ai disabili la possibilità di usufruire, nel proprio quartiere di residenza, di un programma riabilitativo completo.
Invece la maggior parte delle strutture di riabilitazione sono private (e quindi accessibili a pochi) o private convenzionate, prevalentemente gestite dall’ODA (Opera Diocesana Assistenza) presso gli Istituti Medico-Psico-Pedagogici, che sono solitamente allocati fuori città e quindi scomodi da raggiungere. Mancano, inoltre, centri diurni per i più grandi.
In stretta connessione con la mancanza di una buona rete di servizi pubblici è il diffuso utilizzo da parte delle famiglie poco abbienti del ricovero, nel migliore dei casi a semiconvitto, dei figli malati o con handicap, nell’illusione, spesso purtroppo coltivata da una classe medica assai miope, che "questi bambini" vengano favoriti dal vivere in strutture "adatte a loro".
In questo modo la famiglia viene deresponsabilizzata nei confronti del figlio, e da questa deresponsabilizzazione frettolosamente assolta.

La mentalità dei giudici e degli operatori

Mentre per i minori sani la prolungata istituzionalizzazione induce i giudici ad accertare l’esistenza di uno stato di abbandono, nel caso dei bimbi con handicap o malati l’abbandono di fatto da parte delle famiglie negli istituti viene spesso considerato un evento inevitabile e comprensibile.
Tengo a precisare che in questo ambito il Tribunale per i minorenni di Catania è molto aperto, ma non altrettanto si può dire per gli altri Tribunali della Sicilia: ne è prova il prosperare di megaistituti con internati permanenti.
Questo atteggiamento si ripercuote sulla poca solerzia nel cercare una famiglia per i minori adottabili malati o handicappati. Come insegna la nostra storia gli operatori, giudici e assistenti sociali, prevalentemente non credono nella possibilità di trovare una famiglia per questi bambini, e quindi non si battono abbastanza per trovarla: e questo è un delitto. Si lavora poco sulle famiglie che chiedono l’adozione (e che vogliono soprattutto un bambino piccolo e sano) al fine di far loro maturare un atteggiamento aperto verso l’handicap o la malattia, che invece vengono proposte quasi scusandosi, come un disvalore. Inoltre si cerca dalle coppie una generica, preventiva disponibilità verso l’handicap (che non si trova quasi mai, anche per la paura verso ciò che non si conosce) e non si tenta la difficile e faticosa strada di proporre "a tappeto", senza timidezze o pudori, tutti i casi concreti: l’esperienza insegna che spesso chi dice "no" all’handicap in generale, poi dice "sì" a "quel" particolare bambino malato o handicappato che un operatore attento gli sa proporre.