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Autore: admin

Corpi in scena

Una storia curiosa quella della Societas Raffaello Sanzio di Cesena, fondata da due coppie di fratelli, Claudia, Romeo, Chiara e Paolo quando l’età media si aggirava attorno ai venti anni. Era il 1981, ovvero l’anno in cui la compagnia è nata dal punto di vista formale anche se, come sottolinea Romeo Castellucci, il regista, “Ci siamo trovati a praticare l’idea del teatro senza neppure esserne del tutto coscienti”. Da allora sono state portate in scena oltre venti rappresentazioni, una decina tra oratorie e interventi drammatici e sono stati realizzati altrettanti cortometraggi.

Ma la storia della Societas Raffaello Sanzio è soprattutto caratterizzata dal percorso di rottura e superamento con le consuetudini del linguaggio teatrale: dalle immagini alla parola, dal rapporto con il pubblico alla presenza scenica dell’attore.
Nasce così un teatro che abbandonando l’interpretazione per concentrarsi sull’aspetto visivo, fa del corpo, delle sue componenti comunicative e della sua eventuale diversità, un elemento essenziale. Il discorso sfocia nella realizzazione, nel 1992, dell’Amleto "autistico" e nell’Orestea, in scena a partire dal mese di aprile, in cui il ruolo centrale, quello del re, viene ricoperto da Loris, un ragazzo mongoloide.
Con Romeo Castellucci abbiamo cercato di approfondire il significato di queste due opere e come l’elemento diversità entra nel loro teatro.

Domanda. Il corpo e la diversità nel teatro della Societas Raffaello Sanzio: possiamo chiarire questo concetto?
Risposta. Per noi stare sulla scena significa innanzitutto starci con il corpo che contiene già in sé la comunicazione più potente del teatro. La scelta di portare in scena un corpo che ha delle qualità particolari è stata così praticamente inevitabile perché attraverso la sua diversità è possibile la metafora e il linguaggio del corpo stesso. Molto spesso abbiamo fatto ricorso anche alla metafora della malattia, della patologia ma mai in senso esistenziale; il corpo segnato per noi diventa soprattutto una occasione di rifondazione del linguaggio.

D. Perché portare in scena un Amleto con tratti autistici?
R. Nell’Amleto autistico l’essere sulla scena in modo "autistico" rappresentava per noi un discorso sul linguaggio che era necessario reinventare; significava arrivare ad un grado zero di comunicazione per poi ripartire con un progetto di rinascita del linguaggio. La metafora dell’autismo infantile è stata perfettamente calzante per questo percorso.
Inoltre la persona che ha interpretato per l’appunto il personaggio di Amleto conosceva bene questa realtà in quanto aveva lavorato proprio con bambini autistici.

D. Nel personaggio di Shakespeare avevate riscontrato tratti autistici?
R. Senz’altro ci sono elementi simili ma abbiamo fatto il percorso inverso riscontrando nell’autismo una problematica molto vicina al dilemma di Amleto. Il suo "essere o non essere" sul piano linguistico è in realtà una domanda secondo noi addirittura coincidente con l’autismo.

D. Una domanda che però voi avete trasformato in essere e non essere…
R. E’ la forma della neutralità che rappresenta una scelta tra le più radicali; il nostro Amleto, ma a nostro avviso in modo sotterraneo anche quello di Shakespeare, compie questa non scelta che è ricchissima di conseguenze. Una scelta di neutralità, e quindi di non diretto antagonismo rispetto alla vita, che comporta un esodo da se stessi; un modo di porsi che non ha un valore negativo ma al contrario una maggiore apertura, maggiori potenzialità.

D. Parliamo ancora di diversità: nell’Orestea di Eschilo, che andrà in scena a giorni, recita un attore disabile. Puoi parlare di questa esperienza?
R. Stiamo lavorando con Loris, un ragazzo mongoloide, ma soprattutto una persona straordinaria di cui il lavoro e noi avevamo bisogno. Loris interpreta la parte di Agamennone, quella cioè del re dei greci e lo fa essendo proprio il re, partendo dalla rappresentazione e arrivando alla realtà. Ha un atteggiamento regale, una camminata monarchica come solo le persone mongoloidi riescono generalmente ad avere. Insomma Loris ha in se, come qualità fisiche, i segni, i tratti, che servivano per l’Orestea. Ha la qualità "mitica" del suo essere, che dal punto di vista dello stare del corpo sulla scena a noi normali non è possibile. Per questo dico che non poteva esserci una presenza più efficace e più aderente di lui sul palcoscenico.
Loris entra in scena, con un costume che tra l’altro si è disegnato lui stesso, e fa tutto quello che vuole ma non per un discorso spontaneistico, che per noi sarebbe di un moralismo inaccettabile, ma perché è totalmente padrone di quella parte. Al punto che diventa anche padrone del tempo di quella scena che a volte dura due minuti, a volte quindici; ed è giusto così perché lui è il re.
Nella rappresentazione comunque non c’è nessun discorso sulla patologia, che poi a mio avviso non è nemmeno tale; non c’è alcun giudizio in questo senso anche perché, grazie alla presenza del corpo, questo giudizio cade automaticamente.

D. Oltre all’Orestea è imminente anche la prima di un’altra vostra rappresentazione, Buchettino di Perrault, pensata e rivolta ai bambini. Cosa significa per voi lavorare con l’infanzia?
R. Per noi è indispensabile proprio perché l’infanzia è fuori dal linguaggio; il bambino è colui al quale è ancora possibile una comunicazione vera, non mediata da forme intellettualistiche e che si gioca soprattutto attraverso la sensazione.
Buchettino è una fiaba sonora in cui il pubblico infantile viene accolto in una grande stanza dove ci sono molti letti. Si ricrea così l’atteggiamento tipico dell’ascolto della fiaba che è la dimensione del letto e dei momenti che anticipano il sogno. Questa stanza nel contempo è scenografia e platea perché ogni spettatore, ogni bambino con il suo letto, entra direttamente nella scena. Poi ci sono i suoni, i rumori che fuoriescono dalle quattro pareti. Insomma è una esperienza nuova anche per noi.

Per informazioni: Societas Raffaello Sanzio, via Serraglio 2 – 47023 Cesena. Tel. 0547/25.560-66

Essere, non essere

Corpo e diversità vivono a teatro una necessaria interdipendenza, perché il corpo stesso dell’attore non può non essere “diverso” nel momento in cui rimanda a un personaggio o a un’azione teatrale. Del resto, tutto ciò che entra nelle coordinate “speciali” dello spazio-tempo teatrale è “diverso” dalla realtà quotidiana. Quindi anche il corpo dell’attore, “diverso” perché esibito (e già questo lo renderebbe perlomeno singolare) e soprattutto perché esibito non per ciò che è ma per ciò che rappresenta. Con la conseguenza che lo spettatore può osservare dal vivo il corpo di una persona, l’attore, percependo contemporaneamente sia la fisicità di quella persona che la sua “virtualità”. Una possibilità che solo il teatro concede.

Dunque, la diversità del corpo a teatro sta prima di tutto nella natura stessa del corpo durante l’evento teatrale: corpo esibito, ambiguo, reale/virtuale. Non ci si stupisca, allora, se il teatro sia così attento a cogliere tutte le sollecitazioni possibili sul "corpo diverso" e ad arricchirle con proprie ricerche, attraverso le sue tipiche deformazioni somatiche (sia pure, a livello più elementare, quelle a base di parrucca e cerone nelle recite parrocchiali) o i filoni espressivi dedicati esclusivamente ai movimenti "non normali" del corpo, come il mimo e la pantomima.
Elementi come il movimento ritmato e anomalo, la voce alterata, il trucco della pelle e la vestizione con indumenti e oggetti non ordinari fanno parte dell’esperienza di tutte le forme teatrali delle origini e si sono mantenuti, a secoli di distanza, pressoché inalterati come alcuni degli elementi fondanti del teatro. E’ significativo che proprio lavorando su queste alterazioni molte forme teatrali, in particolare quelle orientali dal giapponese nô all’indiano kathakali, abbiano elaborato rigorosissimi e complicatissimi codici di tecniche del corpo, tramandati per secoli ai pochi eletti che fin dall’infanzia avevano deciso di intraprendere la strada del teatro. Queste tradizioni sono tuttora punto di riferimento negli studi della "antropologia teatrale", che si rivolge proprio all’analisi del corpo dell’attore e della sua "diversità" scenica. Tanto per fare un esempio, l’antropologo teatrale Franco Ruffini ha individuato le "tre leggi della presenza dell’attore" nell’alterazione dell’equilibrio, nella dinamica delle opposizioni e nella coerenza incoerente: concetti che, come è facilmente intuibile, rimandano a un’esperienza corporea di "diversità" difficilmente sperimentabile in situazioni "normali" di vita.

Le tante diversità del corpo

Il "corpo diverso" ha naturalmente a che fare con tutte le varianti possibili del corso umano: tutte regolarmente entrate a buon diritto nello spazio-tempo "diverso" per eccellenza del teatro. A questo punto gli esempi diventano infiniti e ciascuno, nella propria esperienza di spettatore teatrale, è in grado di accrescerne la gamma.
Parliamo, per iniziare, delle dimensioni del corpo, della grassezza. Per esempio quella di Ubu re, lo scalcagnato e feroce tiranno dal corpo a forma di gigantesca pera inventato da Alfred Jarry alla fine del secolo scorso: personaggio la cui debordante grassezza tragicomica rende particolarmente interessanti le soluzioni del "problema fisico" dell’anomala grassezza adottate dagli attori.
Anche sul versante dell’altezza la diversità fisica ha la sua importanza: non è un caso che nelle forme di spettacolo più popolari abbia grande peso la presenza dei nani o dei giganti, spesso "costruiti" questi ultimi con i trampoli, tanto da essere recuperati come "attori trampolieri" nelle parate del teatro di strada.
Anche la voce comporta una diversità rapportata al corpo. A teatro la voce, di per sé già diversa come timbro e volume rispetto a quella usata dall’attore in altri momenti della giornata, implica spesso uno scarto del corpo rispetto alla norma. Ne sono un esempio i personaggi della Commedia dell’arte, dove ogni alterazione interpretativa è amplificata da gesti plastici o acrobatici che accompagnano la battuta in modo platealmente artificioso: basta immaginarsi un Arlecchino che dice "servo vostro" o che fa la corte a Colombina, per avere di fronte agli occhi tante posizioni innaturali del suo corpo che accompagnano quasi automaticamente quelle battute.
Ma anche in tutt’altro ambito, per esempio in un teatro "colto" come quello di Carmelo Bene, la voce alterata si accompagna a posizioni disarticolate del corpo, a una complessa mimica facciale e a torsioni della testa e moti del braccio estremamente ricercati.
Altro elemento di diversità possibile, il colore della pelle, sempre più attuale, già affrontato in passato in vari modi, per esempio nell’"Otello" e nella "Tempesta" di Shakespeare dove si trovano due neri, uno nobile e tragico, l’altro deforme e schifoso. Oggi la diversità della pelle nera in mezzo a corpi bianchi si impone inevitabilmente alla visione del pubblico bianco (e viceversa), e non solo per un fatto cromatico ma soprattutto per le implicazioni culturali e sociali di una compagnia interetnica, almeno in zone dove esistono problemi di integrazione o razzismo. Se pensiamo a una compagnia che per prima in Italia ha lavorato su questo rapporto, Ravenna Teatro, è evidente che la visione politica della diversità come strumento di ricchezza e crescita (anziché della diversità come anomalia o minaccia) si sia positivamente intrecciata con l’esigenza più prettamente teatrale della diversità che stimola lo spettacolo.
La reciproca diversità fisica (oltrechè linguistica) degli attori romagnoli e di quelli senegalesi diventa allo stesso tempo spettacolo in sé e messa in scena del mondo interetnico in cui già viviamo.
Lo stesso handicap a teatro può trasformarsi in una risorsa, in quanto portatore di una ulteriore "diversità" del corpo che il teatro è potenzialmente in grado di comprendere per le ragioni che si sono dette. Tralasciando le esperienze di teatro non professionale compiute all’interno di particolari progetti di animazione con disabili, non è raro che l’handicap fisico o la menomazione siano entrati nello spettacolo attraverso il corpo di grandi attori. Come non pensare alla semi-cecità del Totò degli ultimi anni in rapporto ad alcune sue celebri gag come quella degli occhi strabici o quella dello sguardo concupiscente di fronte a una bella ragazza?
Perfino nel teatro di prosa tradizionale e meno incline a sperimentalismi sul corpo, grandi attori come Corrado Gaipa o Tino Schirinzi esibivano (o dissimulavano) menomazioni rispettivamente alla gamba e al braccio.

L’esibizione del corpo

Sono molte, ormai, in tutto il mondo le compagnie teatrali che raggruppano persone unite da una qualche caratteristica di anomalia rispetto alla presunta "normalità", per ribadire, proprio attraverso la strada "diversa" del teatro, la relatività della normalità e per raggiungere autonomamente una realizzazione attraverso il percorso artistico intrapreso professionalmente: portatori di anomalie fisiche o malattie come disabili, handicappati mentali, mutilati e sieropositivi, o portatori di differenze sociali potenzialmente emarginanti come immigrati, carcerati, omosessuali, che avanzano artisticamente le proprie rivendicazioni anche attraverso una modalità diversa di esibizione del corpo. Basta, a questo proposito, pensare ai corpi drammaticamente "vissuti" degli attori carcerati in molte esperienze di teatro con i detenuti che si stanno moltiplicando negli ultimi anni o ai corpi reinterpretati attraverso esibizioni ammiccanti, travestimenti e gestualità "esagerate", in alcune esperienze di teatro gay.
La stessa diversità sessuale diventa fondamentale a teatro. E’ noto che le donne non fossero tollerate in scena in molte culture. Conseguenza: l’interpretazione maschile di personaggi femminili, con interessanti esiti, come il gioco sull’ambiguità sessuale nel teatro elisabettiano, e il maturare di un codice di rappresentazione della donna attraverso particolari convenzioni in cui venivano alterati e idealizzati i gesti veri delle donne. Ciò approdò alle grandi tradizioni degli attori specializzati in ruoli femminili, come gli "onnagata" giapponesi.
Interessanti anche le rivalutazioni successive di queste potenzialità, quando si previde che alcuni personaggi venissero interpretati da attori del sesso opposto, come suggerì lo stesso Jean Genet per il suo "Le serve". E’ evidente che storicamente l’ingresso della donna a teatro ha comportato riassestamenti in virtù di una inedita diversità del corpo, fino al fenomeno del divismo e alla capacità di grandi attrici, da Adelaide Ristori a Eleonora Duse per restare in Italia, di strappare applausi e consenso con il semplice movimento artificioso di una mano o della testa. Per non parlare dell’esibizione del corpo nudo, dove la diversità dei corpi (non solo maschili e femminili, ma di tutti i corpi tra di loro, non più resi omogenei dai vestiti) viene esaltata, come negli storici spettacoli del Living Theatre, in una completa anarchia: tutti i corpi sono diversi tra loro e quindi sono tutti "uguali" come dignità e potenzialità espressiva ed esistenziale.

Un tecnico di un sapere pratico

Non è semplice in un mondo come il nostro indicare il ruolo dell’educatore (qui lo intendo in senso lato, dall’educatore professionale all’insegnante); eppure non si può parlare di pratica educativa senza partire da una analisi della nostra società e della condizione umana.

Si potrà difficilmente negare la fase di crisi che stiamo vivendo sia sul piano socio-economico che politico-culturale; l’uomo della società consumistica e pubblicitaria sembra – non meno del passato – succube della forza dei nuovi miti evangelizzati e della pubblicità, divenendo schiavo dei rapporti sociali che lo predeterminano in un ruolo dal quale non può emanciparsi. Spesso gli stessi possibili fattori di liberazione emancipatrice – l’educazione, il progresso tecnico – si trasformano, a loro volta, nelle mani delle classi dominanti, in strumenti finalizzati a creare e a ricreare la situazione di oppressione che viene presentata come inevitabile e naturale, o fondata sulla volontà di Dio. A vivere nella condizione di oppressione non è poi solo l’uomo del Terzo Mondo, ma ogni uomo, sotto qualsiasi latitudine viva, impedito nella sua capacità di decidere e di dare un senso pieno alla sua vita.
La civiltà industriale capitalistica, come lo dimostrava l’utopista Charles Fourier quasi due secoli fa, più che costituire un’occasione di emancipazione, come sarebbe lecito aspettarsi, tende a creare le condizioni per una sempre maggiore oppressione attraverso meccanismi di emarginazione sociale e di manipolazione della psicologia collettiva. "L’uomo moderno – scrive Erich Fromm – è schiacciato da un profondo sentimento d’impotenza che gli fa guardare fisso, quasi con occhi paralizzati, le catastrofi che incombono". Inoltre l’uomo si piega al gregarismo perché "ha paura della libertà". L’uomo non si vive più come membro di una comunità ma come singolo atomizzato nella sua vita quotidiana e nel suo mondo interiore.
Oggi, anche se siamo resi indifferenti, l’oppressione è la condizione imposta a milioni di persone; c’è oppressione ogni volta che viene cancellata, negata la vocazione dell’uomo ad essere soggetto, non oggetto. Ed è qui che si colloca il ruolo dell’educatore come creatore di luoghi e tempi diversi all’interno di un progetto umano di emancipazione liberatrice centrato sul recupero dell’uomo come soggetto creatore di storia e di cultura.

Un creatore di luoghi e tempi diversi

Per Jean Paul Sartre l’uomo è un essere situato e datato ed è proprio da questo essere datato e situato che l’educatore deve partire per qualsiasi progetto educativo. Questo significa un dialogo permanente tra l’educatore e l’educando, un’eguaglianza valoriale che comprende differenze e similitudine. "L’alfabetizzazione – scrive Paul Freire, noto pedagogista brasiliano – non può essere fatta dall’alto in basso, come un dono o un’imposizione, ma dal di dentro verso il fuori, con lo sforzo dello stesso analfabeta, di cui l’educatore è solo un collaboratore". L’educatore deve creare le condizioni – mobilitare risorse, soggetti, ruoli, competenze e disponibilità – per una apertura della coscienza a conquistare il possibile, a interrogare, a ricercare. Come Freire pensiamo ad una pratica educativa che permetta all’uomo di diventare soggetto, di costituirsi come persona portatrice di un discorso d’alterità, di stabilire con gli altri relazioni di reciprocità, di essere costruttore di cultura e di storia.
Spesso lavorando con la sofferenza, il disagio, l’emarginazione e l’handicap si osserva come la deprivazione di ogni memoria storica si accompagna all’assenza del possibile; come ha mostrato molto bene lo psichiatra algerino Franz Fanon l’identità non esiste là dove non esiste, o viene negata la storia. Solo nella sperimentazione del possibile, nella relazione con gli altri l’uomo acquisisce consapevolezza del proprio io e dei vincoli tipici di ogni comunità umana. Per sapere quale rapporto esiste tra libertà e responsabilità occorre essere innanzitutto liberi di sperimentare le proprie potenzialità. Solo un’educazione problematizzante coglie il carattere dinamico e plurale di ogni percorso formativo dell’uomo: "L’educazione problematizzante – scrive Freire – è probabilità rivoluzionaria di futuro (…). Corrisponde alla condizione degli uomini come esseri storici e alla loro storicità. Si identifica con loro come esseri che vanno oltre se stessi, come "progetti", come esseri che camminano in avanti, come esseri che l’immobilismo minaccia mortalmente; per i quali guardarsi indietro non deve essere una forma nostalgica di voler tornare, ma una maniera di conoscere meglio ciò che stanno divenendo, per costruire meglio il futuro".

La pratica educativa come pratica di cambiamento

L’educazione come processo di umanizzazione vuol dire mettere il soggetto nelle condizioni di riappropriarsi la propria storia, di provare le proprie capacità, di sperimentare i vincoli, di decodificare il mondo nel quale vive; di passare da una "coscienza mistificata" – Marx avrebbe detto da una falsa coscienza – ad una conoscenza critica dell’essere nel mondo e col mondo.
L’educatore deve concepire l’educazione come un "che fare" permanente attraverso una pratica dialogale in grado di rivalutare il piano dell’intersoggettività; di riconoscere l’alterità e di dare significato alla vita. Per usare un’espressione di Sartre che definisce gli intellettuali si potrebbe dire che l’educatore, in quanto creatore di possibilità (intese come occasioni inedite, altre, di socializzazione e comunicazione intersoggettiva), è un "tecnico di un sapere pratico", cioè un ricercatore sociale che produce conoscenza sulla base della sua prassi educativa.
"Posto il principio – scrive Gramsci – che tutti gli uomini sono filosofi, che cioè tra i filosofi professionali o tecnici e gli altri uomini non c’è differenza qualitativa, ma solo quantitativa" occorre quindi che l’educatore sfrutti ogni spazio, ogni possibilità, ogni occasione per fare esprimere il filosofo presente in ogni uomo. Certo in una società atomizzata e frammentata come la nostra l’agire educativo deve essere un "agire comunicativo" in grado di ricostruire il senso della comunità e nuove forme di socialità.
In questo senso la pratica educativa è pratica di cambiamento; non è adattamento passivo, ma recupero di senso, non è negazione dell’alterità, ma riconoscimento della diversità; non è "amor proprio", per usare una espressione di Jean Jacques Rousseau, ma "amor di sé" cioè stima di sé attraverso il rispetto dell’altro, come un altro io, ma diverso da me. "Conoscere se stessi vuol dire essere se stessi" scriveva Gramsci ed aggiungeva: "la cultura è (…) organizzazione, disciplina del proprio io interiore, è presa di possesso della propria personalità, è conquista di coscienza superiore, per la quale si riesce a comprendere il proprio volere storico, la propria funzione nella vita, i propri diritti e i propri doveri".

L’itinerario formativo

Un itinerario formativo per volontari del settore handicap. Storia di un “viaggio” che, partendo dai modelli di funzionamento delle organizzazioni e del tipo di lavoro richiesto, è approdato alle esigenze formative, molto spesso trascurate, dei singoli. Un’esperienza condotta a Modena dalla società Diathesis.

Intraprendere un viaggio formativo che si propone come un momento per riflettere, analizzare, far emergere le dimensioni "difficili" che segnano il nostro operare dentro una determinata situazione (nella fattispecie l’agire in un’organizzazione di volontariato) non è operazione semplice, in quanto richiede un costante sforzo interpretativo e un coinvolgimento diretto dei partecipanti. non prevedibile, cioè organizzabile a priori, in quanto sono i destinatari a riempire di contenuti personali la situazione formativa, il contenitore messo a punto dai formatori.
E’ per questo motivo che, metaforicamente, potremmo raffigurarci il percorso formativo come una sorta di viaggio, in parte noto in parte sconosciuto (solo nel momento del confronto diretto infatti le persone creano lo strumento del proprio accrescimento) .
Ad esperienza ultimata è invece possibile, oltre che utile per fissare in modo più stabile i contenuti e i significati esplorati, ripercorrere questo cammino, partendo dalle scansioni temporali che lo hanno contraddistinto.

L’identità del volontariato

Il soggetto?oggetto della riflessione è risultato essere un concetto di non facile definizione, che sottende una realtà piuttosto complessa e carica di significati anche divergenti: diversi sono infatti i ruoli che il volontariato svolge (o ritiene di svolgere) nell’ambito sociale, diverse le finalità e le caratteristiche strutturali delle associazioni, diversi i ruoli previsti all’interno delle singole associazioni, diversi gli obiettivi e i compiti da esse previsti, diverse le modalità di intendere, rapportarsi e gestire l’autorità.
L’identità del volontariato è risultata essere un insieme inscindibile di sfaccettature, i cui contorni non consentono di pervenire ad una definizione univoca: il "volontariato" sono quindi dei "volontariati".
Cercando comunque di fornire la rappresentazione metaforica che di questo soggetto è emersa, essa somiglia molto a quella di un grande albero, le cui radici affondano in un terreno (territorio, contesto sociale) spesso assai poco conosciuto, il cui tronco (l’organizzazione intesa come insieme di luoghi, tempi, obiettivi, compiti, ruoli, valori…) consente lo sviluppo o almeno l’esistenza di diversi rami (i vari soggetti che nell’organizzazione o con l’organizzazione operano), ognuno dei quali sviluppa ? per rimanere nella metafora ? propri germogli (bisogni, desideri, motivazioni. stili relazionali. . .) .
La riflessione sopra questi aspetti ha consentito ai partecipanti una prima collocazione circa la natura e la forma dell’impegno volontario che superasse l’ambito circoscritto della propria attività quotidiana nel quale era stato precedentemente pensato per assestarsi su un punto di vista inedito, vale a dire quello della complessità: il risultato è stato quello di individuare proprio in questa prospettiva l’ambito concettuale più promettente ed efficace per lo sviluppo di foglie di azione volontaria in grado di svolgere interventi maggiormente progettuali ed incisivi nel contesto territoriale immediato e nella città.

Il volontariato come organizzazione

Approfondendo con l’aiuto dei conduttori il lavoro Sulle immagini del volontariato, i partecipanti hanno cercato di contestualizzare l’azione dei volontari nelle rispettive associazioni individuando di queste i principali aspetti del funzionamento organizzativo.
I volontari tendono a pensarsi esclusivamente sul piano di una relazione duale, vale a dire quella volontario?utente mentre faticano ad allargare questo campo percettivo ad aspetti, come quelli organizzativi, affettivamente meno connotati, ossia a pensarsi sul piano volontario?utente?organizzazione.
L’identificazione delle peculiarità delle organizzazioni di volontariato ha consentito invece di verificare come questo tipo di consapevolezze possa costituire un valido strumento per affrontare problemi di identità e di abbassamento delle soglie di complessità: difficoltà tipiche delle associazioni di volontariato. In altre parole il prestare attenzione agli aspetti organizzativi è stato concepito come il modo efficace per intervenire sulle dimensioni problematiche focalizzate in precedenza.
I caratteri organizzativi tipici delle associazioni di volontariato, così come sono state colte dai partecipanti nel corso del lavoro esplorativo, sono assai significativi .
a) Spesso non sembrano risultare sufficientemente definite le diverse funzioni presenti nell’organizzazione, situazione che pare da collegarsi alla preoccupazione delle associazioni di non esercitare un’azione di "imbrigliamento", ossia di eccessiva rigidità, verso chi opera in esse. L’analisi delle esperienze e dei casi personali ha tuttavia evidenziato come una definizione molto (troppo) fluida delle funzioni può comportare accresciute difficoltà per i volontari nella delineazione della loro identità e talvolta la sensazione di operare in una sorta di "vuoto legislativo".
Alla salvaguardia di un alto tasso di libertà di azione individuale pare insomma corrispondere una certa difficoltà dei volontari che spesso ritengono di non essere adeguatamente accompagnati nelle fasi di accesso e di orientamento nell’organizzazione, fasi che rappresentano un elemento decisivo sul quale il volontario conferma o revoca la propria decisione di impegno tout court e non solo quello dirimente la scelta dell’organizzazione nella quale svolgere la propria attività. In particolare, sul versante interno, pare sia la funzione di coordinamento che risente maggiormente del livello di bassa strutturazione dell’assetto organizzativo.
b) Il problema del grado di libertà individuale è stato oggetto di discussione anche sotto un altro profilo. Se da un lato un elevato livello di discrezionalità soggettiva rappresenta un forte valore interno al mondo del volontariato, dall’altro esso costituisce ? agli occhi dei partecipanti ? una specie di barriera contro la quale spesso si infrange "la responsabilità e l’affidabilità dei volontari". E’ in questa prospettiva che è stata messa in evidenza la duplicità di significato che può assumere il termine norma.
Alla sua afferibilità all’idea del vincolo è infatti possibile aggiungere la sua prossimità al concetto di opportunità: in questo secondo caso il limite, la norma può rappresentare il punto a partire dal quale si rende concreta la possibilità di costruire, progettare, organizzare.

Le mappe delle relazioni interne

Un altro importante momento di questo percorso è stato quello dedicato all’analisi di come il cooperare era presente nelle varie culture del volontariato attraverso l’elaborazione di "mappe" che tracciassero le relazioni attivate dai volontari nelle rispettive organizzazioni. Il fine è stato quello di chiarire sia gli obiettivi organizzativi per i quali tali relazioni venivano instaurate che il tipo delle stesse (collaborative, rivendicative, costrittive…).
Questa mappa del percorso formativo ha permesso di conseguire vari risultati. Il primo è stato quello di consentire una conoscenza più profonda tra le diverse associazioni che ha visto l’emergere tra i partecipanti di atteggiamenti improntati alla collaborazione.
In quest’ottica sono emersi come nodi rilevanti e critici per il volontariato questi due aspetti.
a) Innanzitutto una certa difficoltà dei volontari, pure a fronte di risorse e disponibilità consistenti, nelle fasi relative all’analisi dei bisogni presenti in una situazione e alla progettazione degli interventi. Questa difficoltà manifesta anche in sede di valutazione dell’attività svolta il cui parziale insuccesso viene più facilmente attribuito alla scarsa collaborazione fornita dall’organizzazione o dalle famiglie dei disabili piuttosto che ricercato anche nelle modalità con le quali è stata costruita.
b) Quindi una certa difficoltà nel trovare un adeguato raccordo tra l’autorganizzazione del volontariato nelle strutture e il funzionamento ordinario delle stesse affidato spesso al personale professionale rispetto al quale l’atteggiamento dei volontari fluttua tra tendenze competitive e ricerca di rapporti di collaborazione continuativi.

Fine o inizio?

Il bilancio dell’esperienza formativa è stato effettuato a partire da un testo preparato per l’occasione che forniva alcuni spunti di riflessione rispetto:
a) al confronto tra le aspettative che i partecipanti nutrivano verso l’itinerario al momento del suo inizio e il loro riscontro nel corso di esso;
b) alle singole parti che andavano a comporre l’itinerario (contenuti, metodologia, tempi…);
c) alle eventuali attese delle organizzazioni di appartenenza.
Nell’incontro i partecipanti hanno ripercorso criticamente l’itinerario avanzando una serie di osservazioni. Innanzitutto, sul piano metodologico, è stato valutato positivamente l’utilizzo del gruppo come strumento di lavoro e ciò per diversi motivi. Qualcuno dei partecipanti infatti ha ricordato che prima dell’inizio dell’esperienza formativa "si aspettava il solito corso cattedratico" mentre la scelta di questa metodologia ha poi consentito:
? una conoscenza dei vari tipi di volontariato operanti a Modena nel settore dell’handicap assieme alla scoperta di condividere con essi problemi che in precedenza si reputavano soltanto personali e che pertanto venivano piuttosto negati che esplorati;
? un’attivazione di rapporti tra parti di una stessa organizzazione che non si conoscevano perché operanti in momenti diversi. Ciò ha consentito di effettuare una lettura dell’organizzazione di appartenenza più completa e più realistica, nel senso che ha agevolato tutti nel riconoscere in essa presenza, esigenze, obiettivi e stili di lavoro diversi dai propri;
? una valorizzazione delle esperienze dei partecipanti che ha evidenziato come, a fronte di situazioni di fatica e difficoltà, sono presenti effettive competenze che il volontariato ha raggiunto e consolidato in questo settore.
Sempre sul versante metodologico sono state anche avanzate alcune esigenze rispetto a contributi teorici diversi (come, ad esempio, quello sulle diverse tipologie dell’animazione) che la natura sperimentale e temporale circoscritta dell’itinerario non ha potuto affrontare.
Rispetto ai nodi che sono apparsi maggiormente significativi deve essere ricordata la sensazione di "una situazione diffusa di distanza tra i volontari e le organizzazioni di appartenenza".
Infine l’incontro ha consentito di chiarire come, in realtà, ogni fine sia anche un inizio, nel senso che il lavoro di valutazione ha costituito al contempo un momento di conclusione rispetto al percorso formativo e di apertura verso attività che sembrerebbero risultare il naturale sviluppo di consapevolezze e bisogni che l’esperienza conclusa ha prodotto o ha contribuito a fare emergere.

Alcune piste per il futuro

L’ultimo incontro effettuato a distanza di un mese dalla conclusione dell’itinerario aveva come obiettivo quello di riprendere le osservazioni fatte dai partecipanti in sede di bilancio per verificare se a distanza di un certo tempo ancora ci si riconosceva in esse o quanto queste erano state nel frattempo approfondite e/o riviste. Tale lavoro era pensato in funzione di una individuazione di ambiti o aspetti "critici" sui quali si pensava di riprendere il lavoro in futuro, ambiti e aspetti che per la gran parte hanno confermato indicazioni e situazioni via via emerse nel corso dell’itinerario formativo. Cercando di sistemizzare le riflessioni sviluppate è possibile indicare tre livelli strategici di intervento formativo.
a) si tratta innanzitutto di un supporto alle attività messe in atto dai volontari tale da costituire in modo specifico un contributo alla loro capacità di progettare e realizzare interventi che
? da un lato procedano da veri momenti di analisi dei bisogni effettivi degli utenti e dalla valutazione delle risposte già attivate dalle organizzazioni e non si limitino a valorizzare comunque risorse disponibili di volontariato, cioè prescindendo da una prospettiva di ordine progettuale concordata (e magari anche in parte costruita) con altre persone dell’organizzazione;
? dall’altro si prefiggano di instaurare rapporti (magari anche circoscritti) di collaborazione e cooperazione con la "parte storicamente più consolidata" dell’organizzazione in modo da realizzare interventi realmente solidi e ben radicati nell’organizzazione.
b) Sembra importante iniziare a lavorare per "costruire" nelle organizzazioni figure in grado di curare le fasi di accesso e di orientamento di nuovi volontari nelle associazioni di volontariato. Da questo punto di vista l’itinerario formativo ha spesso messo in luce che il problema delle organizzazioni non è tanto quello relativo al fatto che sono pochi i volontari che si presentano per offrire servizi, quanto quello di un’assenza di funzioni relative alla facilitazione del loro accesso nell’organizzazione. Il risultato è che spesso i volontari si ‘sentono abbandonati’ e a loro volta ‘abbandonano’ l’organizzazione. Altro problema è quello dell’orientamento: il risultato in questo caso è di non riuscire a trovare per sé un tipo di servizio che non solo sia personalmente gratificante ma anche utile all’associazione in questione. In quest’ottica l’idea sarebbe quella di mettere a punto un lavoro di ricerca e formazione per iniziare a tratteggiare il "profilo" di un simile operatore.
e) Infine sembra ancora utile un lavoro formativo centrato sull’approfondimento e la gestione dei risvolti affettivi e sessuali delle relazioni che si instaurano non soltanto tra volontari e disabili ma anche di quelle che si realizzano all’interno delle famiglie nelle quali è presente un soggetto disabile.
Rispetto a quest’ultima prospettiva che ha come oggetto più la famiglia che il disabile sembra infine importante avviare un lavoro puntuale improntato a forme di ricerca?intervento che da un lato individuino e considerino le "ricadute" che l’handicap ha sugli altri membri della famiglia e dall’altro progettino nuovi interventi orientati a realizzare modelli originali e flessibili di sostegno.

Un caso a sé

L’impegno dei volontari con le persone con HIV: la complessità di un approccio e di un rapporto che richiede una completa riorganizzazione dei parametri solitamente utilizzati per definire il disagio. Un percorso formativo che aiuti a trovare parole e modi diversi da quelli comunemente usati. L’esperienza e le riflessioni della Lila di Bologna.

L’idea iniziale di una formazione, che si rivolge a persone che già operano, è quella di riattraversare autocriticamente le risposte date per certe, i comportamenti assunti come moralmente accettabili, verificare la tolleranza e la plausibilità delle nostre affermazioni per non scontarci neanche lo scontato. Cercare le pregiudiziali nel nostro pensiero che ci permettono di pensarci sicuri e i pregiudizi del nostro agire che ci permettono di evitare insicurezze, far lievitare le contraddizioni alleggerendo il più possibile l’apparato ideologico che ci sostiene, capovolgere i luoghi comuni in luoghi simili dove i timori e le ansie si condividono senza aver paura di ferire, dove sia chiaro che la ferita grave che si può arrecare alla persona con HIV è quella di non pensarle.
Un percorso formativo, quindi, per aiutare a trovare parole e modi diversi da quelli che usiamo comunemente, che consentano alle persone sieropositive o ammalate di stare assieme a noi, di vivere la loro sieropositività in modo non separato dal loro corpo, per imparare a comprendere ed accogliere .
Forse in questo percorso formativo occorre partire dalla constatazione che "il primo rimosso, il primo negato è proprio di chi non ce l’ha. Siamo anche noi, i non infetti, che abbiamo il problema poiché è dentro la nostra cultura il paradigma che tutto è spiegabile, comprensibile. Ed è lo stesso che hanno le persone sieropositive.
Ciò che va prodotto è un cambiamento, che in quanto tale deve favorire la ridefinizione delle posizioni di tutti per divenire patrimonio relazionale delle persone coinvolte. E’ nel procedere assieme che si scoprono i nostri veri volti. Se e solo se si sta nel processo. Se e solo se si accetta l’errore come possibilità di entrambi. Se e solo se si impara ad esitare proprio quando tutto appare chiaro e certo". (1)
Se è vero che nella sola città di Bologna le persone sieropositive, secondo una stima fatta dal Prof. Gritti, direttore del reparto malattie infettive dell’Ospedale Maggiore, sono più di diecimila, allora non può passare inosservata la loro obbligata invisibilità e la conseguente impossibilità di gestire direttamente, senza alcuna mediazione, la loro vita e la loro eventuale malattia. L’incomunicabilità sociale della sieropositività ha creato una situazione che ha superato i confini estremi dell’esclusione sociale. Non si tratta più solo dell’istituzionalizzazione dell’esclusione, ma di nuovi e grandi processi di marginalizzazione che producono auto?esclusione.
La complessità dovrà quindi diventare il nuovo paradigma con cui ridefinire costantemente il nostro impegno sull’Aids. I parametri classici con i quali siamo abituati ad analizzare il disagio (età del portatore, condizione socio?economica, ecc.) in realtà non lo rendono più comprensibile né toccano le radici profonde del suo esistere: la linearità, la consequenzialità, la normativa, che erano considerate caratteristiche della società industriale, sono concetti inadeguati per affrontarsi le situazioni di disagio che l’HIV ha prodotto e produce all’interno della nostra comunità.
Si tratta quindi di cambiare occhiali, punto di osservazione, paradigma, niente di più e niente di meno.
"Sono convinta ? scrive Enrica Mazzola nel suo libro Ho giocato con l’Aids ? che l’essere umano, col passare del tempo, abbia modificato notevolmente la sua struttura psicologica, oltre che quella fisica. La necessità di adattarsi ad un sistema sempre più tecnologico, l’ha costretto a tecnicizzare anche i rapporti umani. Questa autoviolenza l’ha portato a temere, e quindi a rimuovere, tutto ciò che è a rischio di sofferenza. Questo potrebbe spiegare (…) la tendenza a trasformare il rapporto naturale con gli altri in rapporto ‘tecnico’, dove il pericolo di essere preda alle emozioni è ridotto al minimo". (2)
Allora, formazione può volere dire che la sofferenza può anche essere crescita e che accompagnare una persona e la sua rete sociale, lavorare insieme ad essa nell’analizzare i problemi e nel ricercare le possibili soluzioni è ben diverso dal prendersi carico di essa. "Secondo la norma della reciprocità di Nye, l’altro negherà il nostro aiuto se questo è unidirezionale e serve a confermare la sua inferiorità e dipendenza. Ma se sarà invece attivo, se percepirà l’intervento non come qualcosa che si dà ma che si cerca insieme, allora sarà possibile condividere un percorso in cui l’aiuto non è il fine ma un mezzo per ricercare un senso comune. Una formazione quindi orientata, per dirla con Bateson, alla ricerca della struttura che collega, ma anche consapevole della costante interazione, tanto cara a Piaget, tra affettività ed intelligenza e tra affettività ed apprendimento". (3)
L’esperienza dell’Aids ha chiaramente pervaso la vita della nostra associazione, ma sembra che siamo riusciti ad elaborare la presenza del virus HIV solo in termini di attivismo preventivo, informativo, assistenziale… Dovremo però sforzarci (e questo percorso formativo può essere un’occasione per farlo) di recuperare una riflessione ed una elaborazione dell’esperienza Aids e dei relativi vissuti di lutto, di senso della perdita, di tristezza, di bisogno di solidarietà, di valorizzazione della memoria (memoria affettiva ed esistenziale). Tutte cose, si dirà, che attengono alla sfera individuale e che non si conciliano con una elaborazione collettiva. Non è vero. Crediamo invece che, proprio in questo momento storico, molti di noi si stiano muovendo verso il recupero di una riflessione sull’importanza della sfera simbolica, non fine a se stessa, ma finalizzata ad aumentare la nostra ‘tenuta esistenziale’. L’esperienza dell’Aids ha visto mobilitarsi, nella clandestinità dei vissuti privati di molte persone, tante piccole reti di solidarietà e di accoglienza. Dobbiamo riuscire a far sì che queste esperienze di reti di solidarietà prendano corpo all’interno della nostra comunità, trasformandosi in vissuto diffuso, in prassi continuative, in sensibilità condivise.

(*) presidente della Lila (Lega Italiana Lotta all’Aids) di Bologna

Note
(1) R. Merlo, in A. Rotondo (a cura di), Operatori, sieropositività e Aids, Milano, F. Angeli, 1990 (2) E. Mazzola, Ho giocato con l’Aids, Torino, Sonda, 1 992 (3) M. Croce, "Obiettivi inerenti la formazione del personale", in L’assistenza domiciliare alle persone con Aids, Bologna, Clueb, 1992

Formato volontario

La formazione delle persone che si dedicano al volontariato è un tema che ha assunto un’importanza sempre più rilevante: l’espandersi del volontariato nella società italiana, il suo ruolo anche politico che non lascia spazio all’immagine del volontariato dotato solo di sorrisi e buoni sentimenti, ha portato ad una concezione di formazione diversa, che fornisce strumenti, professionali, per poter agire in una società complessa.

Nel 1979, con la pubblicazione delle ricerche realizzate dalla Fondazione Giovanni Agnelli (Organizzazione e partecipazione. Indagine su nove gruppi, vol.II, dicembre 1979) e dalla Caritas (Volontariato di ispirazione cristiana, Edizioni Dehoniane, 1979), comincia a divenire oggetto di studio e di riflessione, in Italia, un ricco complesso di situazioni, scelte culturali, sociali, economiche in qualche modo riconducibili al termine "volontariato".
All’interno del pluralismo di percorsi reso visibile da queste prime macro?fotografie, prendono corpo alcune linee di evoluzione: il volontariato viene sempre più strutturandosi in forme di intervento continuative, e un numero crescente di associazioni inizia a sperimentare un senso di appartenenza più allargato. Arriva così il primo convegno nazionale di studi sul volontariato, a Viareggio nel 1980, al quale faranno seguito per tutti gli anni 80 gli appuntamenti nazionali (ogni due anni) di Lucca.
Nel 1991, a coronare il percorso di un quindicennio di forte e significativa evoluzione ed espansione, giunge l’approvazione della legge quadro 266, che, disciplinando i rapporti delle organizzazioni di volontariato con le istituzioni, dà il via ad una nuova fase di definizione e riflessione per le diverse realtà che si rifanno all’intervento organizzato su base volontaristica.

Il convegno nazionale del 1986

A Lucca, nei 1986, il IV convegno nazionale di studi sul volontariato si ritrova sul tema "Promozione e formazione del volontariato per cambiare società ed istituzioni".
Possiamo scegliere allora questo momento, e questa data, per iniziare un percorso in grado di restituirci almeno un poco di quanto è stato pensato e scritto in questi anni sul tema della formazione all’interno delle organizzazioni di volontariato: senza nessuna pretesa di esaustività, ma solo con l’intento di salvare alcuni passaggi che possono darci la misura del tempo trascorso, e muovere la nostra riflessione per il tempo che deve venire. Al convegno di Lucca del 1986 (per il quale ci rifaremo, qui e più avanti, ai volumi curati da Luciano Tavazza, Promozione e formazione del volontariato, atti del IV convegno nazionale, Lucca 9?11 maggio 1986, Edizioni Dehoniane ? Bologna) il primo e più vistoso dato con il quale, inevitabilmente, i partecipanti si trovano costretti a fare i conti, riguarda la molteplicità di significati attribuibili al termine formazione. Come affermerà qualche anno più tardi Sandra Rocchi, membro del comitato nazionale del MoVI, autrice de "Il volontariato fra tradizione e innovazione" (La Nuova Italia Scientifica, marzo 1993), nel capitolo dedicato a ‘La formazione dell’operatore volontario’, "il significato che si dà ancora oggi alla parola ‘formazione’ certamente non è univoco né pregno delle medesime aspettative. Se la domanda di formazione nel complesso, in molti ambienti e spazi del volontariato, è infatti in espansione, in molti altri ancora non se ne avverte l’importanza; ma aumento della domanda o il suo contrario non sempre indica consapevolezza di ciò che si chiede o di ciò che si rifiuta". A partire dalla consapevolezza della eterogeneità e articolazione delle culture e delle sensibilità presenti all’interno delle organizzazioni di volontariato, per Alessandro Palmonari, docente di Psicologia dell’Università di Bologna (I processi formativi per la qualificazione dei volontari e per contribuire ad una nuova cultura delle istituzioni, atti del convegno, vol.I), è possibile mettere a fuoco alcune tesi "utili per iniziare un lavoro più sistematico: tesi 1. Scelta autonoma del tipo di formazione e dei contenuti formativi; tesi 2. Una formazione che superi ogni mentalità assistenzialistica; tesi 3. Una formazione che interpreti i bisogni e progetti la risposta ad essi in prospettiva storica; tesi 4. Una formazione fondata sulle scienze sociali per distinguere i livelli di realtà e cogliere le connessioni fra essi; tesi 5. Una formazione costruita in gruppo e costantemente in esso verificata; tesi 6. Una formazione che trovi forme efficaci di collaborazione fra professionisti e volontari; tesi 7. Una formazione che permetta di riconoscere lo specifico della cultura di ogni comunità; tesi 8. Una formazione volta a costruire il cambiamento."
Dell’ultima tesi, Palmonari afferma che "assomma in sé tutte le difficoltà esplicitate nelle altre. In che modo, infatti, nell’ambiente sociale si può costruire il cambiamento? Il vero cambiamento (cioè la scoperta di un nuovo modo di vedere la realtà) si ha soltanto quando una minoranza attiva definisce la realtà considerata in modo esplicitamente diverso da come la definisce il gruppo che è al potere. Questo processo evidenzia la centralità, per il cambiamento, della esplicita conflittualità fra i punti di vista diversi, fra le diverse definizioni di realtà. Se la chiarezza della contrapposizione manca, non si innesca alcun processo cognitivo di attenzione al nuovo punto di vista e assunzione dello stesso. La formazione a costruire il cambiamento implica dunque il coraggio (e la fatica) di individuare dei punti strategici del quadro sociale che appaiono non soddisfacenti, e di definire una loro radicale alternativa" (pagg. 139?141).
Per Giuseppe Pasini, direttore nazionale della Caritas (La formazione del volontariato, atti del convegno, vol.II), la domanda da porsi è: "quale tipo di formazione deve assicurarsi il volontariato per essere in grado di contribuire al cambiamento della società e delle istituzioni?"
La risposta indicata da Pasini si snoda a partire dallo schema classico della formazione (sapere, saper fare, saper essere), al quale Pasini aggiunge l’elemento del "saper far fare".
Sapere: "va definito innanzitutto quali conoscenze deve avere il volontariato per svolgere il suo servizio. Conoscenze relative al settore operativo in cui è impegnato, conoscenze relative alla popolazione del territorio sul quale opera, conoscenze riguardo la situazione amministrativa e politica nei cui confronti il volontariato dovrebbe essere di stimolo" (pag. 103).
Saper fare: "si deve parlare se non di una professionalità in senso stretto, di una idoneità a svolgere il servizio; vale per tutti il principio che le forti motivazioni non danno idoneità al servizio: ci vuole apprendimento, ci vuole tirocinio, ci vuole aggiornamento" (pag.104).
Saper essere: "se il volontariato desidera realmente un cambiamento, deve vivere nel quotidiano tutti quei valori che ritiene necessari nel servizio di volontariato" (pag.105).
Saper far fare: "sul piano dell’impegno politico, la formazione al ‘far fare’ può avere uno sbocco preciso nel mobilitare gli emarginati e gli oppressi, perché si organizzino da soli in vista del rivendicare i propri diritti, secondo la filosofia di Don Milani: finiamo di parlare dei poveri: è tempo di dare la parola ai poveri" (pag.106).
Ai passaggi di Palmonari e Pasini, che investono la formazione dei compiti più elevati, e ne sottolineano in modo deciso la natura di strumento per la promozione del cambiamento della realtà sociale, può essere utile affiancare alcuni brani dell’intervento di Roberto Merlo, in quel momento esponente del Gruppo Abele (Investire nella formazione, magari consorziandosi, atti del convegno, vol.II): "a parole, tutti affermano l’importanza della formazione, la sua necessità. Anzi in alcuni casi essa ha la stessa funzione del mito, ad essa si affidano compiti miracolistici di soluzione dei problemi più complessi" (pag.107).
Dopo questo implicito invito alla cautela, la riflessione di Merlo tocca un punto estremamente delicato: "D’altro canto la ‘formazione permanente’, l’aggiornamento’, l’imparare dall’esperienza’ appaiono parole magiche che designano troppe volte un sapere tecnologico certamente necessario, ma non privo di forti ambiguità. Una delle più evidenti emerge quando il gruppo di volontariato affida il suo percorso formativo a tecnici esterni. Se, come è inevitabile quando si fa seriamente formazione, costoro toccano le certezze acquisite, di identità e di organizzazione della leadership, o del gruppo, allora il "dagli al tecnico" diventa il gioco preferito (ed è ciò che spesso ricompatta il gruppo e la leadership)" (pag.107).
Emerge, anche solo attraverso questi brevi passaggi, una significativa distanza tra questo punto di vista e quelli in precedenza riportati: l’attenzione qui non è più tutta rivolta ad un "esterno" da modificare (dove la formazione ha il compito di mettere ognuno in grado re operativo in cui è impegnato, di agire adeguatamente sull’esterno per cambiarlo), ma si volge "all’interno", verso le proprie premesse, individuali e di gruppo.
Prosegue Roberto Merlo: "Il primo problema che si pone in uno schema formativo classico è l’analisi della domanda e dei bisogni formativi. Ma già questa prima operazione comporta una questione che non è di poco conto per un gruppo di volontariato. Una domanda emerge sulle altre: ‘Secondo quale sistema e teoria di riferimento tutto ciò avviene?’ E la parola teoria’, spesso cacciata dal nostro vocabolario, ritorna prepotentemente come bisogno primario. D’altra parte è possibile constatare come comunque il nostro agire ha sempre una premessa teorica, magari inconsapevole, magari contraddittoria, dentro di se’" (pag.108). Dunque, "bisogna cominciare a pensare alla formazione come ad un tipo particolare di processo (sistema coordinato di azioni di cui non è individuabile un unico attore), più che come prodotto o come servizio. Voglio dire che è per lo meno parziale pensare alla formazione come qualcosa che può essere utilizzato come una semplice funzione di mantenimento dello standard qualitativo della organizzazione. La formazione non è un cassetto pieno di singole azioni da tirare fuori secondo il bisogno (di chi, poi…?). Essa non disegna soltanto un modo del sapere, bensì entra nel merito del nostro modo di essere?in?relazione?con." (Pag.109).
E’ particolarmente degno di nota il fatto che Roberto Merlo, nel suo intervento, in un passaggio faccia riferimento ad un testo di Gian Piero Quaglino (Fare Formnazione, il Mulino, 1985), e successivamente dichiari: "mi sembra che come gruppi di volontariato dovremmo prestare più attenzione non solo alle tecnologie più conosciute nel campo del lavoro sociale (corsi di tipo classico, utilizzo della supervisione, roleplay), ma anche a ciò che emerge soprattutto nel campo della formazione manageriale. Non sembri blasfemo ciò che dico, lascio al lettore il compito di verificare se non si possono trarre utilissime considerazioni ed indicazioni per fare formazione proprio da queste tecnologie e contenuti" (pag.111).
Sarebbe davvero interessante, seguendo questa indicazione, correndo il rischio di sembrare blasfemi, verificare cosa è stato detto e scritto negli ultimi anni sulla formazione manageriale in Italia; potrebbe capitare, così, di imbattersi nelle riflessioni di Ugo Morelli, Massimo Bellotto, Massimo Ferrario, Giuseppe Varchetta, Gianni Zanarini, Dario Forti, formatori e pensatori accomunati dalla necessità di una continua riflessione sulle pratiche formative, dall’esigenza di sostare nella fase critica e incerta del pensare la formazione che è intorno e dentro al fare formazione" (Ugo Morelli, Educazione manageriale, Angeli 1993, pag.26), dall’impegno a non dimenticare mai che ‘nelle situazioni formative c’è un ritmo, un tempo, un’energia, che qualificano il lavoro, che distinguono la relazione e lo scambio: quando infatti si passa dalla relazione scambievole al mero ‘spiegare’ è come se si avvertisse un rumore, come se qualcosa venisse ‘ucciso"'(Morelli, pag.32), dalla consapevolezza che ‘la concentrazione sulle soluzioni tecniche e sulla traducibilità didattica delle questioni e dei problemi da affrontare trascura la ricerca necessaria dei modi per ‘abitare poeticamente l’insegnare e l’apprendere’ (Morelli, pag.53), dal desiderio di costruire una didattica nella quale "l’allevare, l’istruire, l’educare" si sviluppino "sotto il sole della scienze e insieme sotto l’altro fuoco, quello che fa nascere il nostro pensiero dalla sofferenza e dalla pietà" (Morelli, pag.53). Ancora una volta, al lettore il compito di verificare.

Una formazione contro gli "equivoci interessamenti "

Un anno dopo il Convegno di Lucca, nel 1987, la regione Veneto approva e finanzia il "Corso Triennale di preparazione per formatori di volontariato" organizzato dalla Fondazione Zancan (centro di studio, formazione e ricerca sui servizi sociali e sanitari con sede a Padova); l’esperienza dei tre anni di corso viene raccontata sul numero 35/1990) di Animazione Sociale (Un corso per formatori del volontariato. pagg. 61?66) dal responsabile del progetto, Giamberto Pegoraro.
Può essere interessante rileggere alcuni dei passaggi dell’articolo, e soprattutto la ricostruzione della riflessione attorno al tema della formazione condotta dalla Fondazione a partire dal 1983, anno di attuazione di una rilevazione sulla presenza dei gruppi di volontariato socio?assistenziale nel Veneto, e sviluppatasi con l’organizzazione di una serie di seminari di ricerca sul fabbisogno formativo delle stesse.
"Nei primi anni 80 ?scrive Pegoraro? si cominciava a guardare con crescente interesse il diffondersi dell’azione volontaria organizzata, dopo che negli anni 70 solo poche istituzioni particolarmente attente al sociale (come la Caritas italiana) ne avevano colto la novità ed i possibili sviluppi. Se tutto questo poteva significare un pronto riconoscimento della capacità di iniziativa, di partecipazione e di innovazione che liberamente sorgeva dal sociale e dalla gente comune, d’altra parte poteva indurre anche il sospetto di un equivoco interessamento, se non addirittura di un vero e proprio tentativo di accaparramento di questa risorsa sociale ai fini del puro e semplice riprodursi e mantenersi delle strutture e dei servizi (pubblici e privati) esistenti. Il volontariato, per essere realmente produttore di nuovi segni e portatore di una nuova cultura nel sociale, doveva innanzitutto trovare la propria identità, capirsi e collocarsi correttamente nel tessuto sociale; doveva darsi inoltre quel minimo di capacità culturale e comunicativa tale da permettergli non solo di sopravvivere e di riprodursi, ma anche di rappresentare una presenza efficace e portatrice di novità per tutti.
Era necessario dunque operare la scelta della formazione e non anzitutto la scelta di una formazione tecnico?operativa, al fine di eseguire bene interventi specialistici nei con?fronti delle persone o delle situazioni cui ci si rivolgeva, ma anzitutto e principalmente la scelta di una formazione che aiutasse ad individuare i fenomeni sociali, le tendenze culturali, l’organizzazione dei servizi… e favorisse nel volontariato (e specialmente nei piccoli gruppi) la capacità di collocarsi consapevolmente nell’attuale contesto culturale e istituzionale" (pag.62).

La teoria della formazione e la pratica della vita associativa

Ancora uno spunto dal già citato articolo di Pegoraro: "Si possono, volendo, individuare alcuni nodi critici; innanzitutto, la durata del corso andrebbe ridotta. In tre anni succedono veramente molte novità, specialmente nei gruppi di volontariato (gruppi che si sciolgono, che si ristrutturano che cambiano tipo di servizio…) e specialmente con i volontari più giovani (per ragioni di lavoro di matrimonio di diversa posizione all’interno dei gruppi di provenienza…)" (pag.66). Al di là della discussione sulla generalizzabilità di questa descrizione rimane il fatto che queste poche righe ci restituiscono in termini concreti una delle specificità con le quali ogni discorso sulla formazione nelle organizzazioni di volontariato si deve misurare: la fluidità la mobilità dei percorsi individuali delle risorse umane ed economiche, la compresenza di esigenze/disponibilità anche davvero diverse tra loro. A questo proposito pur non essendo riflessioni dedicate in modo specifico alle organizzazioni di volontariato può essere utile inserire un brano di Dario Rei (sociologo studioso del volontariato e delle professionalità nel campo socio?sanitario) apparso sul numero 11/1993 di Animazione Sociale (Considerazioni in Formazione nel servizio pubblico, pagg.25?46): "La formazione rischia l’ideologia quando il discorso su di essa assume una portata così ampia ed indefinita da sottrarsi al terreno di una verifica razionale; quando tende a diventare un ‘tutto’ che soppianta e sostituisce altri concetti: l’organizzazione, il cambiamento, la convalida sociale, il progetto… E’ assai facile che questa formazione metaforica, che è quasi?tutto entri in scontro schizofrenico con la pratica reale della formazione: concreta, organizzata, comprata e venduta. Gli esiti saranno allora di depressione impotente (per chi ha sovraccaricato le proprie attese) o di attivismo accaparratore (per chi fa suo il principio per cui ‘va bene qualsiasi cosa’).
E’ importante mantenere una tensione progettuale dinamica; ma occorre fare attenzione a non caricarla tutta esclusivamente lì. La formazione di cui si parla non è una sorte di ‘conversione delle persone’ tra l’altro difficile da imporre. Nemmeno è ‘diretta produzione di cambiamento organizzativo’ anche se le organizzazioni specie quando sono in crisi tendono talvolta a scambiare la formazione con una panacea. E’ più modestamente una funzione di cui le organizzazioni possono servirsi per cambiare in meglio. E’ un processo che può migliorare il modo di essere delle persone nelle organizzazioni e delle organizzazioni nel rapporto con le persone" (pag.26).
Nello stesso numero della rivista è presente anche un intervento di Ugo Morelli formatore docente di organizzazione e gestione delle risorse umane presso l’Università di Venezia (Pochi, venendo da lontano, con un bell’andare… in Formazione nel servizio pubblico): "pensare e fare la formazione comporta un ascolto dell’importanza di riconoscere i propri limiti da parte della formazione. C’è bisogno cioè di verificare ogni volta quello che la formazione può fare e quello che non può fare nelle singole situazioni. Si assiste troppo spesso infatti a situazioni in cui problemi di organizzazione e di gestione vengono ricondotti o ridotti a problemi formativi essendo ritenuta la formazione la via meno impegnativa e meno coinvolgente" (pag.30). Il nodo indicato da questi passaggi risiede nel rapporto tra la formazione e gli altri momenti della vita associativa all’interno di una organizzazione di volontariato; che dire ad esempio di una organizzazione che preveda per il percorso dei propri volontari una ricca offerta di momenti formativi basati sui temi della democrazia e della condivisione e che allo stesso tempo sia strutturata in modo da prevedere una gestione non partecipata, autoreferenziale della circolazione delle informazioni e del potere di progettazione e di scelta?
Di qui per contrario la possibilità di immaginare la formazione non come funzione specifica isolata limitata a tempi/spazi definiti, ma come elemento pervasivo della vita organizzativa vincolo per ogni passaggio come obiettivo quotidiano che costringa ad una costante verifica della coerenza tra fini dichiarati e fini perseguiti: "è perciò importante assumere che l’analisi della domanda di formazione equivale in una certa misura alla costruzione di un processo di coinvolgimento orientato a riconoscere le attese di sviluppo degli individui nelle relazioni e nelle organizzazioni ma anche le risorse e i sostegni presenti e possibili da valorizzare per la realizzazione dei progetti individuali ed organizzativi" (Ugo Morelli Educazione manageriale pag.45).
Dalle dichiarazioni di intenti alle verifiche sul campo.
Nel numero 1/94 di "Politiche sociali e servizi" (pubblicazione dell’Università Cattolica di Milano, bollettino del Centro di documentazione sui servizi sociali "Giovanni Maria Cornaggia Medici"), Donatella Bramanti, docente della scuola per Assistenti Sociali dell’Università Cattolica, presenta (Il ruolo della formazione nelle organizzazioni di volontariato, pagg. 39?60) una indagine realizzata nella regione Lombardia sulle differenti strategie che le organizzazioni di volontariato iscritte all’albo regionale individuano ed il posto che assegnano alla formazione.
La ricerca, corredata di abbondanti tabelle statistiche, è introdotta da una griglia che definisce alcuni volti che la formazione può assumere: informazione/aggiornamento, su singoli aspetti tecnici; educazione ai valori, con approfondimento dei valori ispiratori dell’azione volontaria; formazione vera e propria, intesa come processo in cui i soggetti sono coinvolti in modo attivo, a partire da una "contrattazione" tra formatore e utente.
"Va da sé che questi tre differenti modi di intendere il lavoro formativo contengono obiettivi diversi, richiedono setting ? cioè caratteristiche di tempo e di spazio ? molto differenziati, ed hanno costi differenti" (pag.39).
Schematicamente la Bramante illustra come i tre modelli "implichino un diverso assetto per quanto riguarda: il ruolo del formatore, la collocazione del corso rispetto alla dimensione organizzativa, gli obiettivi che è realistico porsi" (pag.40).
Poste queste premesse, l’articolo propone in un secondo momento una ipotesi di lettura del percorso trentennale del volontariato in base al mutamento della domanda formativa espressa dalle organizzazioni considerate.
Secondo la Bramante, "è possibile identificare diversi tipi/fasi della formazione riferita al volontariato. Si tratta di tipi che si sono succeduti nel tempo ma che attualmente spesso convivono tra loro" (pag.43).
"Il primo tipo di formazione, particolarmente diffuso fino alla fine degli anni 60, è tesa a rafforzare aspetti ideali (educazione ai valori); i volontari si mobilitano in un contesto in cui le domande sociali restano quasi completamente inevase dai servizi socio?sanitari-educativi, sia pubblici che privati. Non esiste quindi un confronto tra operatori volontari e professionisti. Ciò che pare prevalente a fronte di gravi emergenze è il mobilitarsi e l’agire" (pag.44).
"Il secondo tipo di formazione, che prevale negli anni compresi tra il l970 e la prima metà degli anni 80, si sviluppa contestualmente ad una grande espansione del volontariato. Non è più sufficiente riflettere sui motivi ispiratori, ideali dell’azione, ma diventa cruciale acquisire tecniche, metodologie, competenze. Il medium proprio di questo periodo è il corso diretto al gruppo dei volontari, articolato in più giornate, nel quale si intrecciano lezioni con gruppi di lavoro/esercitazioni collettive" (pag.45).
"Il terzo tipo di formazione si diffonde in un momento di assestamento del volontariato in cui si intensificano le relazioni con gli enti pubblici. Solitudine, malattia, morte, povertà, discriminazione sono i problemi con cui i volontari si trovano sempre più spesso a fare i conti. Riemerge quindi l’esigenza di sostenere e "rimotivare" i volontari. Si tratta di capire di più: a cosa può servire un intervento di aiuto, quali sono le aspettative che si possono realmente porre… Il tema della "relazione d’aiuto" non si esaurisce però nella sua valenza tecnica, ma chiama in causa necessariamente il significato dell’intervento… La formazione deve quindi offrire non solo tecniche di intervento, ma deve permettere al volontario di collocare l’oggetto del lavoro di volontariato all’interno della complessità dei problemi della nostra società " (pag.46).

Il presente, la formazione, i Centri di Servizio…

Tre contributi recenti, per arrivare con questo percorso di lettura ai giorni che stiamo vivendo.
Nel 1995, è ancora Sandra Rocchi a chiedersi "quale formazione?" (Servizi Sociali ? bollettino del Centro Studi Zancan ? n.1/95, Per un ruolo politico del volontariato, pagg. 70?74), rispondendo così: "Anche per l’impegno politico è via ineludibile per il volontariato la formazione. Se ai gruppi di volontariato si chiedeva fino ad oggi un approfondimento delle dinamiche e quindi delle capacità di rapporto "interpersonale": nel gruppo, tra gruppi, nel coordinamento di appartenenza; da oggi si deve chiedere loro di saper intuire, vivere e realizzare sinergie" più forti con tutte le espressioni del terzo settore" (pag.74).
Nel numero 6/1995 del quadrimestrale "Il seme e l’albero (bollettino dell’Istituto di Firenze Andrea Devoto per la ricerca sulla marginalità e le polidipendenze) è il sociologo dell’Università di Firenze Nedo Baracani (Formazione nel volontariato: con cautela, pagg. 6?11) a tentare di avviare una riflessione sui processi formativi nel volontariato.
Secondo Baracani, un quadro di riferimento per comprendere l’evoluzione dei processi formativi può essere composto tenendo presenti tre angoli di osservazione.
Il primo punto di vista mette in evidenza "il mutamento nelle modalità della formazione; si sarebbe passati da relazioni formative faccia a faccia, per attività polivalenti, sviluppate in ambiti sociali ristretti a relazioni più professionalizzate" (pag.8).
Un secondo punto di vista privilegia "il processo di istituzionalizzazione: mano a mano che i rapporti tra volontariato e istituzioni si fanno rilevanti, cresce la domanda di stabilità, continuità e competenza, domanda a cui si risponde destinando risorse alla formazione (comunque intesa). Corollario di tale interpretazione è che le organizzazioni di volontariato somigliano sempre di più alle istituzioni con cui intrattengono rapporti di scambio" (pag.8).
Una terza possibile interpretazione privilegia il punto di vista dei soggetti e delle loro motivazioni: "in una fase di espansione dei diritti di cittadinanza i soggetti si sentono motivati a sperimentare forme solidaristiche di agire sociale"; in momenti di difficoltà dello stato sociale, queste "si trasformano, per i soggetti, in una crisi di motivazione che porta alcuni verso l’impegno informale, fuori dalle organizzazioni, altri verso l’abbandono di orientamenti solidaristici" (pag.9).

Prosegue Baracani: "ciascuna di queste interpretazioni fornisce elementi di analisi validi, rilevanti ai fini di ogni azione formativa; restituire spessore personale ai momenti formativi, diffondere la diversità delle organizzazioni di volontariato sia rispetto alle istituzioni che alle imprese con fini di lucro, creare e rafforzare una motivazione all’agire gratuito…"(pag.11).
Infine, una interessante riflessione sulla formazione è presente in Dove va il volontariato contributo comparso sul n.1/96 di Politiche Sociali (pagg.5?21), sintesi dei risultati dei seminari di ricerca organizzati dalla Caritas Italiana e dalla Fondazione Zancan tra la fine del ’95 e l’inizio del ’96.
L’analisi, davvero articolata, prende il via da una "preoccupazione: molte realtà di volontariato non sanno lavorare per progetti, non sanno lavorare insieme, per gruppi di lavoro, non sanno fare verifica (pag.15). Definite poi le priorità di metodo e di contenuto per le azioni formative da realizzare, il documento passa ad una indicazione concreta: "sarebbe ottimale che in ogni associazione fosse presente un gruppo formativo con il compito della progettazione, attuazione e verifica; e ci fossero piccoli gruppi di formazione a interesse specifico (è limitante e pericoloso improntare la formazione solo su problemi generali). Per questo è necessario operare alcune scelte strategiche:
?la formazione non deve essere appaltata (c’è chi forma, c’è chi opera);
?in tal senso va promosso, oltre il professionismo della formazione, anche un volontariato della formazione;
?la formazione deve tendere a far maturare insieme operatori pubblici e privati per mettere in moto la prevenzione. Bisogna proporsi sempre più una formazione realizzata in maniera autonoma e in collaborazione con l’ente pubblico: entrambi ne trarrebbero beneficio anche solo nel "vedersi in maniera diversa da come sono abituati a pensarsi" (pag.17).
Lo stesso documento, poi, passa all’analisi di una serie di criteri che dovrebbero essere tenuti in considerazione per incentivare la formazione da parte dei Centri di Servizio previsti dalla legge quadro 266 sul volontariato. Ma questo, davvero è materiale per un altro numero della rivista.

Dis/avanzi di Stato

Una legge che esiste dal 1972. Disattesa, criticata, passata al vaglio più volte dalla Corte Costituzionale. Oggi, dopo vent’anni, continua a fare discutere la sua riforma. Quella dell’obiezione di coscienza e del servizio civile: una “guerra” combattuta all’ultimo codice. Fino a che una picconata…

Anche questa volta la storia si è ripetuta. Quando sembrava che l’approvazione della legge fosse ormai un dato di fatto, grazie a un’ampia base parlamentare che aveva espresso opinione favorevole, ecco intervenire l’ennesimo ostacolo, rappresentato da Francesco Cossiga, le cui obiezioni a molti aspetti del testo ne hanno impedito il varo definitivo. Dovremo così aspettare l’inizio della prossima legislatura per sentire riparlare di questa legge che, secondo quanto dichiarato dai nostri parlamentari, verrà ridiscussa secondo procedure preferenziali.
Il cammino a favore di una piena realizzazione dell’obiezione di coscienza e di una normativa che ne valorizzi il significato etico ed elimini ogni discriminazione rispetto alla leva militare è destinato, dunque, a proseguire. Si tratta di un processo ventennale, apertosi nel 1972 quando, con l’approvazione delle legge 772, se ne sancì la legittimità. Prima di quel provvedimento, l’obiezione era equiparata a un atto di disobbedienza civile, l’atteggiamento, cioè, di chi trasgredisce la legge – in questo caso l’art. 52 della Costituzione sul diritto-dovere alla difesa della patria – accettandone però la sanzione.
Con questa legge si consentì ai giovani che dichiaravano di "essere contrari in ogni circostanza all’uso personale delle armi per imprescindibili motivi di coscienza… attinenti a una concezione generale della vita basata su profondi convincimenti religiosi, filosofici e morali" di poter sostituire il servizio militare armato con quello non armato (svolgendo incarichi di carattere logistico, tecnico e amministrativo) oppure con il servizio civile.
Pur avendo valorizzato per la prima volta la coscienza individuale, quel testo presentava molti limiti. Così negli anni ’80 numerose furono le sentenze costituzionali che intervennero per modificarne le incongruenze.
La sentenza 164/1985 ha dichiarato la legge 772 conforme alla Costituzione, facendo cadere le riserve di legittimità che alcuni tribunali amministrativi regionali avevano sollevato in relazione all’art. 52 della Costituzione. La Corte Costituzionale, infatti, affermò in quell’occasione che il servizio militare non esaurisce da solo il dovere di difesa, ma ne costituisce soltanto una delle possibili attuazioni. La difesa della patria veniva così concepita in maniera più ampia, cioè come difesa e sviluppo del territorio nazionale e della popolazione, ambiti che richiedono un impegno sociale non armato.
Nello stesso anno il Consiglio di Stato ha ridimensionato l’idea dell’obiezione di coscienza come beneficio dello Stato modificando le funzioni della commissione ministeriale che, secondo la normativa del 1972, era chiamata a esprimere un parere obbligatorio ma non vincolante sulla fondatezza della domanda di obiezione stessa. Per il margine di discrezionalità insito in un’operazione del genere che trasformava questo organo in un vero e proprio "tribunale delle coscienze" – dal momento che una motivazione individuale non è assoggettabile a un giudizio giuridico – la sentenza dichiarò che "l’obiettore ha solo l’onere di indicare i motivi che dal legislatore sono stati astrattamente ritenuti meritevoli della deroga all’obbligo militare". La commissione doveva valutare esclusivamente la loro attendibilità, con la possibilità di dare un giudizio negativo solo in caso di "mancata fondatezza" di quei motivi.
Un’ulteriore modifica della legge 772 si è avuta nel 1986 quando la Corte Costituzionale ha stabilito l’illegittimità dell’art. 11 che poneva gli obiettori sotto la giurisdizione dei tribunali militari, scelta dubbia dal momento che non facendo parte delle Forze Armate hanno anch’essi diritto, come un qualsiasi cittadino, di riferirsi alla magistratura ordinaria.

LA SVOLTA DELL’89

Nel 1989 altre due sentenze della Corte Costituzionale dichiararono rispettivamente che la pena per chi, non ammesso al servizio civile, rifiuta quello militare per motivi di coscienza dovesse essere uguale a quella di chi rifiuta a priori la chiamata alle armi senza addurre alcun motivo, prevedendo un periodo di reclusione da 6 mesi a 2 anni invece che da 2 a 4 anni, e che il servizio civile avesse durata uguale a quello militare, e cioè di 12 mesi invece che di 20, pur ammettendo la possibilità di una durata maggiore per esigenze formative.
Proprio su questo aspetto la recente legge non approvata prevedeva una serie di riforme innovative, tra le quali un periodo di formazione di tre mesi da attuare prima dell’entrata in servizio dell’obiettore e altri più brevi da inserire durante il periodo del servizio stesso per valorizzare il lavoro svolto.
Ma le novità più rilevanti riguardavano il diritto stesso dell’obiezione di coscienza, considerato soggettivo e non più concesso dall’alto, e la smilitarizzazione della gestione del servizio civile. Nonostante il carattere alternativo del servizio civile rispetto a quello militare fino a oggi la gestione degli obiettori era in mano al Ministero della Difesa, fatto contraddittorio se si pensa al carattere antimilitarista del servizio civile stesso. La legge rinviata prevede, invece, l’istituzione di un Dipartimento apposito presso la Presidenza del Consiglio diretto da personale civile, con il compito, tra gli altri, di controllare che il servizio svolto presso gli enti convenzionati – in numero maggiore e più diversificati rispetto prima – sia realmente utilizzato per il bene della comunità.

Le BBS: non solo Internet

Storia e ruolo delle BBS nell’informazione in rete dedicata all’handicap
attraverso le interviste a due persone che si sono impegnate in
questo settore, Giorgio Banaud, responsabile
della Bbs Icare e moderatore della conferenza su solidarietà e handicap
"Human.Ita" presente sulla rete Fidonet (una sorta di
mailing list quindi invisibile da internet) e Marco
del Dottore, responsabile della Bbs Area, specializzata, oltre
alla naturale area messaggi, nella raccolta di software per disabili.

Ti ricordi cos’erano le BBS?

La diffusione, per ora relativa, che la telematica ha avuto nei paesi avanzati tecnologicamente e dotati di risorse, è dovuto principalmente a delle tecnologie che, ad un prezzo abbordabile, permettono un uso immediato e facile del mezzo. Ma la telematica non è solo internet, il grande conglomerato di reti che adottando un linguaggio comune possono connettersi e scambiarsi dati. Telematica significa anche Bbs (Boulletin Board System), rete Fidonet, sysop, point e una serie innumerevole di termini che si riferiscono ad una fase della telematica, risalente agli inizi degli anni ’80, in cui le difficoltà tecniche da superare da parte dell’utente erano impegnative. Chi voleva servirsene doveva dotarsi di una certa competenza tecnica ed avere la pazienza di trascorrere un periodo di apprendistato dove il neofita veniva istruito dagli operatori più esperti. Questa situazione permetteva una certa selezione nell’utenza che necessariamente si sentiva anche un élite che per prima si serviva di un mezzo nuovo e potente come quello telematico. Le reti telematiche amatoriali (vengono chiamate anche in questo modo) sono contrassegnate da un un’interattività che spesso internet, riducendosi per molti ad un serie di "vetrine" in cui vedere delle cose interessanti, non assicura. I rapporti tra gli utenti e gli scambi di informazioni e software sono molto ricchi e, altro elemento positivo, il discorso pubblicitario e commerciale è pressoché assente. Il fatto è che le nuove tecnologie introdotte con l’era di internet sono destinate, a detta dei più, a far eclissare le reti telematiche amatoriali, soprattutto grazie all’immediatezza e la facilità d’uso e alle possibilità offerte dalla multimedialità (testo, immagini e suono) che le Bbs non possono assicurare. È anche vero che questo sviluppo è determinato da precise scelte industriali, da multinazionali che dettano legge e standard. Come è anche vero che i paesi poveri ben difficilmente riusciranno a dotarsi in tempi utili delle tecnologie necessarie. Non vogliamo però discutere e criticare in questa sede le linee di sviluppo della telematica, come nemmeno vogliamo fare una rassegna di ciò che, anche tecnologicamente, le reti telematiche amatoriali possono fare in meglio rispetto ad internet; vogliamo solo occuparci di quanto le Bbs hanno fatto e fanno sul tema dell’handicap e del disagio. Prima di internet alcune Bbs si sono occupate con competenza del tema della disabilità e per non dimenticare questo pezzo di storia abbiamo deciso di ricordarla attraverso delle interviste a due persone che si sono impegnate in questo settore, Giorgio Banaudi, responsabile della Bbs Icare e moderatore della conferenza su solidarietà e handicap "Human.Ita" presente sulla rete Fidonet (una sorta di mailing listquindi invisibile da internet) e Marco del Dottore, responsabile della Bbs Area, specializzata, oltre alla naturale area messaggi, nella raccolta di software per disabili.

La conferenza Human.Ita

Intervista a Giorgio Banaudi

D. Non esiste solo internet, anche alcune Bbs hanno dedicato parte o tutta la loro attivita’ al tema dell’handicap; ne parliamo con Giorgio Banaudi responsabile della Bbs I Care.

R. Il mondo della telematica ha bruciato così velocemente le sue tappe che i figli non riconoscono più nemmeno i vestiti che i loro genitori portavano da ragazzi; prima che modem e internet diventassero termini da bar sport o salotto esisteva già un ricco sottobosco di persone appassionate che stavano mettendo le basi per l’evoluzione che oggi abbiamo sotto gli occhi. In Italia il fenomeno dei Bbs inizia a farsi consistente intorno al 1985. Nascono i primi sistemi telematici amatoriali singoli e comincia a crescere anche la rete Fidonet, un’associazione di Bbs che si scambiano automaticamente la posta, di notte, permettendo così scambi di messaggi personali e di conferenze tematiche sugli argomenti più svariati, con un occhio alla tecnologia nascente e l’altro… alla bolletta. Tra le molte conferenze spicca fin dagli albori quella dedicata ai temi dell’handicap, dello svantaggio, della solidarietà. Su Fidonet prende il nome di Humanitas. Per una serie di coincidenze in quell’epoca mi trovavo a Genova e frequentavo da buon curioso l’Istituto per le Tecnologie Didattiche; dalla curiosità sono poi passato alla collaborazione e siccome i 2 principali filoni di attività di questo Istituto gravitavano proprio intorno alla didattica e all’handicap, era inevitabile che, una volta iniziata la frequentazione telematica, nascesse anche l’idea di realizzare qualcosa di specificamente dedicato a questi temi.  

D. In che periodo hanno cominciato a diffondersi le Bbs in Italia e quali sono state quelle che si sono dedicate al tema dell’handicap e dell’emarginazione?

R. Il mondo telematico italiano ha cominciato ad uscire dall’ombra intorno al 1990; esistevano già numerose realtà, ma in quel momento ancora poco diffuse e conosciute solo da una ristretta cerchia di patiti ‘smanettoni’. Quando all’ Itd si è pensato di sperimentare uno "sportello telematico"; ci si chiedeva se tale strumento poteva essere una risposta realistica a determinate attese. La convinzione che alcuni cambiamenti bisogna non solo immaginarli ma favorirli ci ha spinti ad iniziare, nonostante si sapesse già in partenza che non avremmo dovuto sgomitare tra folle oceaniche di utenti! Quando abbiamo iniziato, nel 1991, la frequentazione del nostro Bbs era piuttosto ridotta; inizialmente le chiamate erano solo del bacino circostante (Genova, Liguria, persone che conoscevano l’Itd); con la decisione di agganciarci alla rete Fidonet è stato possibile allargare la cerchia dei contatti. I filoni conduttori erano essenzialmente due: didattica e handicap. Per quanto riguarda l’handicap potevamo contare sulla ricca dotazione di conoscenze, di informazioni e di software che faceva riferimento allo staff dell’ Itd. La disponibilità di persone, di tempo e di risorse garantiva una qualità invidiabile; comunque i contatti erano decisamente pochi. Avevo stabilito rapporti con diverse persone interessate, con esperti e con portatori di handicap di vario tipo (visivo, uditivo e motorio, essenzialmente). Per divulgare informazioni mi ero abbonato ad un paio di liste (soprattutto Handicap Digest) che circolavano su internet (quando ancora internet era fuori dalla portata dei comuni mortali!) e settimanalmente esportavo quelle che potevano essere informazioni e comunicati di un certo interesse. Si offriva la possibilità di ricercare nella banca dati di software per l’handicap. La banca dati era consultabile all’epoca tramite Videotel e tramite la rete Earn!; l’utente ci chiedeva se esisteva un software di un certo tipo e noi svolgevamo la ricerca in differita. Curavo anche i contatti con le altre realtà telematiche di cui venivo a conoscenza; così ho conosciuto l’Area di Torino, il Bbs Bes di Bologna, che svolgeva una funzione di supporto per l’Asphi (che aveva un rapporto di sviluppo software con l’ Itd), quindi, sempre a Bologna l’Infoline, dell’Istituto Cavazza per i ciechi. Altre realtà significative erano rappresentate dalla grande Bbs Agorà, con un’area Handicap curata da John Fischetti e Raffaello Belli che abitualmente consultavo (per alcuni mesi abbiamo tentato un riversamento reciproco di messaggi interessanti, Agorà <->Fidonet e viceversa) e l’area Handicap di Mc-Link, altro fondamentale Bbs storico per lo sviluppo della telematica italiana, sul quale era ed è presente un’area dedicata all’handicap.  

D. Cosa esiste oggi in Italia?

R. Per forza di cose la frequentazione telematica si è concentrata e ridotta; attualmente sono ancora attivi l’Area di Torino e io proseguo nella gestione di I Care (anche se i miei tempi risultano sempre insufficienti per poter seguire e migliorare i materiali disponibili).  

D. Mi racconti la storia della tua Bbs? Quando e’ nata e come si e’ sviluppata?

R. Come detto in precedenza la mia attività è nata con il Btd, nel 1991. Si trattava di una sperimentazione a tempo determinato. Nel 1994 si concluse questa fase con una riflessione sull’evoluzione del sistema, una ricerca statistica sulle chiamate, sul pubblico contattato, sui riscontri effettuati. Ne è venuto fuori un rapporto interno dell’ Itd che ha messo in luce come la presenza di tale sistema, la sua diffusione, tramite contatti telematici, convegni e articoli, sia servita anche come esempio e stimolo per altre iniziative, per far crescere la domanda, per suscitare l’uso di risorse telematiche da parte di persone che in questi strumenti potevano trovare risposte decisamente più soddisfacenti dei mezzi tradizionali.  

D. Oggi come lavora e come e’ strutturata?

R. Da un paio di anni mi sono fisicamente trasferito a nord di Milano ma ho proseguito nell’impegnativo hobby del sysop, anche se per motivi di lavoro (sono attualmente preside di una scuola media libera) ho dovuto relegare questa cura ai ritagli di tempo. La prima cosa che ho potuto notare, cambiando contesto, è stata inevitabilmente un calo di chiamate; la densità telematica e le molteplici offerte sono necessariamente un limite con il quale fare i conti; se poi i materiali che si offrono sono particolarmente selezionati, l’utenza interessata risulta piuttosto ridotta. Non ho modificato in modo particolare la struttura; il software di gestione della Bbs è sempre il ‘vecchio’ Maximus (ora alla versione 3, che ha come unico plus la possibilità di strutturare i materiali, file e messaggi, in modo gerarchico, insomma, come le directory di un hard-disk).  

D. Che tipo di pubblico si rivolge alla Bbs e cosa chiede?

R. I due fronti supportati da I Care sono quello didattico e quello relativo all’handicap. Per ciò che si riferisce all’handicap ora avverto un certo calo di partecipazione (ma da parte mia, essenzialmente per motivi di tempo) e quindi l’attenzione consiste essenzialmente nel veicolare l’area Fidonet Humanitas.  

D. Si nota un progressivo cambiamento che vede la chiusura delle Bbs e un loro spostamento su internet: vedi questo processo come inevitabile?

R. La marcia di internet sembra inarrestabile, per molti aspetti può essere vista anche come un livellamento e un denominatore comune per quanto riguarda "la" telematica; ma a conti fatti (conti anche economici) si tratta pur sempre di instaurare un rapporto economico con un provider, legarsi ad un certo contesto operativo (anche software) che non sempre è accessibile a chiunque. La telematica amatoriale è forse destinata a scomparire o vivere di interventi di appassionati interessati più al mezzo che ai contenuti, ma conserva la sua natura di entry-level e di sistema che non richiede contratti formali. Può sicuramente significare qualcosa di molto interessante per giovani che si misurano con la tecnologia e per chi non vuole o può indirizzarsi verso internet. Credo che oggi la telematica orizzontale sia rappresentata in ampia misura da chi ha un accesso internet. Per scelte tecnologiche e commerciali risulta l’approccio meno complesso. L’indiscusso vantaggio di aver fornito un’interfaccia grafica di sicuro impatto (i navigatori web) e una modalità di collegamento standard e meno eterogenea (pensiamo alla connessione tramite Windows 95 che, se tutto funziona, richiede solo un paio di clic del mouse!) è sicuramente un elemento importante. Ma mettiamoci anche nei panni di chi trova ostico un simile approccio. Il mondo Web è ad esempio poco attento a chi deve interfacciarsi con sintetizzatori vocali, anche se le specifiche prevedono accessi facilitati; comunque i contenuti non sono certo pensati anche nell’ottica di un utilizzo da parte di non-vedenti. Nei casi di disabilità motoria le cose sono meno problematiche, anche se la tendenza ad utilizzare macchine sempre più potenti e sofisticate incide in maniera più pesante su chi fatica ad appropriarsi delle abitudini necessarie per un uso autonomo (nel giro di pochi anni sono decisamente cambiati i modi di effettuare le stesse operazioni, e ciò richiede una flessibilità che un disabile potrebbe dedicare a cose più vitali). Penso che la migrazione verso internet debba tenere conto anche delle modifiche che la rete poco alla volta prenderà. Oggi la sua fisionomia è ancora apparentemente anarchica e adolescenziale, tutto sembra facile o consentito; ma non tarderanno a consolidarsi regole e modalità di accesso più controllate, standard e garantiste; non sono solo i Bbs che tenderanno verso internet, ma numerosi altri ambiti del nostro vivere quotidiano oggi: lo vediamo già dai giornali, dai fornitori di informazione, dai negozi che stanno già migrando in tale senso. Per alcuni versi è un trasferimento di sede abitativa che coinvolge molti, se non ancora tutti, e per chi vive nella disabilità questo può significare persino un notevole passo avanti verso una maggior integrazione, quasi una trasparenza del proprio stato. Ma non è ancora il caso di credere ingenuamente che sarà quello il mondo nel quale passeremo la maggior parte della nostra giornata. La vita reale ha bisogno anche di strumenti telematici, ma non può certo ridursi a questo tecnologico e limitato ambito della vita.

Area Bbs  

Intervista a Marco del Dottore

D. Le Bbs hanno cominciato a diffondersi in Italia negli anni ’80; si sono subito indirizzate verso un telematica sociale o hanno avuto un percorso piu’ articolato?

R. Posso parlare del periodo in cui ho cominciato ad interessarmi di telecomunicazioni amatoriali, principalmente per l’interesse mio e di alcuni miei amici verso l’astronomia. La realtà delle Bbs verso inizio/metà degli anni 80 era chiaramente differente da quella di oggi. Nelle grandi città come la nostra (Torino) iniziavano a funzionare molti sistemi dedicati a determinati temi, come la programmazione su sistemi oramai "mitici" tipo lo ZX Spectrum o il Commodore 64, ed in generale il tipo di utenza era comunque caratterizzato da interessi tecnici piuttosto specifici. Noi ad esempio ci siamo avvicinati ai primi sistemi collegati alla rete Fidonet, di cui parleremo un po’ più avanti, proprio per seguire le prime aree di discussione legate al tema dell’astronomia. Non credo, secondo quello che posso ricordare, che fosse possibile immaginare una rapida estensione ad argomenti sociali della telematica per quel periodo, proprio per le attitudini troppo tecniche della maggior parte degli interessati.  

D. Come si e’ evoluto lo scenario con il passare del tempo?

R. Il panorama è iniziato a cambiare in modo molto veloce mano a mano che la diffusione dei personal computer e dei modem (apparecchi essenziali per potersi collegare tramite linea telefonica) ha coinvolto sempre più persone grazie all’abbattimento dei loro costi e all’incredibile miglioramento delle prestazioni in termini di velocità di collegamento. In questa seconda fase, che grossolanamente possiamo identificare con la fine degli anni 80, la realtà delle reti amatoriali è andata sempre più affermandosi e gli argomenti trattati sono di conseguenza aumentati, affiancandosi a quelli esclusivamente "tecnici". Quando è cominciato ad essere attivo il primo sistema in Area, a carattere sperimentale, erano già state attivate da tempo banche dati dedicate al problema dell’handicap. A Genova, ad esempio, era possibile accedere alla Bbs "Btd, Bollettino delle Tecnologie Didattiche" – che ora si chiama "I Care Bbs" – di Giorgio Banaudi, il moderatore della conferenza della rete Fidonet Human.Ita dedicata ai temi della solidarietà e del disagio e una fra le persone più attive in questo campo. Fra gli altri sistemi più interessanti posso ricordare in quel periodo la Bbs Tel&Ware di Cento (Ferrara) e il sistema bolognese Infoline che collaborava con l’UIC dell’Istituto Cavazza. Nel frattempo si diffondeva in tutta Italia la rete amatoriale PeaceLink che, pur non trattando esclusivamente il problema dell’handicap, è ancora oggi la testimonianza più significativa per quello che riguarda l’interesse verso i temi della solidarietà e del volontariato. Oggi in Italia, non mi sembra ci sia stata una grande variazione nel numero dei sistemi dedicati a questi argomenti mentre invece sono cambiati molti modi di concepire i servizi e le possibilità di collegamento offerti agli utenti. Ad esempio alcuni sistemi hanno reso possibile lo scambio di informazioni con "mailing list" (gruppi di discussione) di più grande portata residenti sulla rete internet, coinvolgendo così un numero molto più ampio di partecipanti. Alcune Bbs (come ZnortLink a Torino) hanno inoltre portato avanti esperimenti come l’uso del software FirstClass, riguardanti l’utilizzo della Bbs tramite una interazione di tipo grafico – non più solo testuale – per rendere più intuitivo e semplice l’accesso da parte degli utenti.  

D. Come e’ nata Area Bbs e come si e’ evoluta?

R. L’idea iniziale ha avuto origine dalle richieste delle persone che abitualmente si rivolgevano al Centro di documentazione dell’Area. Proseguendo con il lavoro di analisi e catalogazione del software orientato alla disabilità abbiamo infatti considerato l’opportunità di formare una vera e propria biblioteca di applicazioni per i computer più diffusi. Si è così iniziato ad acquisire i prodotti distribuiti attraverso i canali commerciali tradizionali per installarli sui personal del Centro e avere così la possibilità di esaminare le soluzioni migliori per ogni singolo caso. Va però detto che, a differenza dei software di più grande diffusione, i programmi specifici per l’handicap hanno in genere una "tiratura" piuttosto limitata e questo spesso rende quasi impossibile affrontare i costi relativi alla loro distribuzione. Per questo motivo molti autori scelgono di mettere in circolazione i loro prodotti secondo la regola dello "shareware": la versione messa a disposizione del pubblico, che è invitato a farne copie aggiuntive e distribuirle direttamente a propri amici e colleghi, è a disposizione per un periodo di valutazione. Terminato questo periodo si può decidere se continuare ad utilizzare il programma e inviare direttamente all’autore la cifra che lui stesso richiede nella documentazione del programma (in genere poche decine di dollari o di migliaia di lire). A volte è anche possibile, come avviene per alcuni programmi che abbiamo realizzato in Area, che gli autori decidano semplicemente di… regalare il proprio lavoro. In questo caso si parla comunemente di prodotti "freeware", senza nessun costo a carico di chi vuole utilizzarli. In questo processo di distribuzione un sistema telematico come la Bbs è subito risultata una soluzione ottima in quanto ci ha permesso di mettere a disposizione di tutti la nostra raccolta di software shareware e freeware abbattendo i limiti imposti dalla disponibilità del personale del Centro, in quanto la Bbs è attiva 24 ore su 24. Si è poi eliminato il problema di dover raggiungere fisicamente la nostra sede per avere una copia del programma o della documentazione, difficoltà particolarmente sentita nel caso di portatori di handicap.  

D. Come sono cambiati nel tempo il tipo di servizio e le funzionalita’ del sistema?

R. La prima versione della Bbs era basata su un software americano e realizzava quasi esclusivamente le funzioni di "download service", ovvero di distributore di programmi e file di documentazione. Dopo un periodo sperimentale si è deciso di istituire delle "conferenze", ovvero delle aree messaggi dedicate a particolari temi per permettere lo scambio di esperienze e di punti di vista fra persone con interessi e necessità comuni.  

D. E oggi come lavora e come e’ strutturata Area Bbs?

R. Un grande cambiamento, sia dal punto di vista della struttura del sistema che della qualità del servizio, si è verificato al momento in cui abbiamo deciso di integrare il nostro sistema all’interno di un network di Bbs. Il problema delle conferenze definite localmente sul nostro sistema è rappresentato dal numero relativamente ristretto di partecipanti. Per motivi legati essenzialmente al costo delle chiamate telefoniche moltissimi utenti preferiscono infatti chiamare esclusivamente i sistemi localizzati all’interno della loro rete telefonica urbana. I network di Bbs sono organizzazioni gerarchiche di sistemi, analoghi a quello Area e sempre di tipo amatoriale, che fanno circolare al loro interno una serie di conferenze dedicate ai temi più diversi. Mediante un sistema di collegamenti automatici ad orari predefiniti, in genere durante la notte, viene realizzato uno scambio reciproco dei nuovi messaggi inseriti su ogni singolo sistema. Dopo un breve periodo ogni singola Bbs "nodo" della rete riceve così i contributi che provengono da zone anche molto distanti limitando al minimo i costi. In questa maniera si realizza quindi uno scenario in cui ogni utente sceglie il sistema a lui più comodo (e più vicino) e può comunque prendere parte a discussioni che coinvolgono partecipanti da tutta Italia e oltre. Per quello che riguarda l’installazione vera e propria del sistema abbiamo cercato, nel tempo, di rendere sempre più… robusta la macchina dedicata alla Bbs, in modo da garantire il più possibile una continuità del servizio. Attualmente siamo arrivati alla configurazione formata da un personal basato su Pentium con uno spazio su disco di 2 Gigabyte. Da pochi mesi ho inoltre installato un protocollo e una scheda di rete locale: in questo modo si può accedere agli archivi della Bbs anche dagli altri personal del Centro Area durante gli incontri di consulenza senza interrompere o rallentare i collegamenti dall’esterno alla banca dati.  

D. Quali sono le reti di Bbs a cui siete collegati?

R. Di network amatoriali ne esistono oramai molti ed ognuno di essi ha delle particolari finalità o interessi specifici. Considerando il tipo di problemi di cui si occupa l’Area si è deciso di entrare a fare parte del network Peacelink, che secondo noi rappresenta la realtà più importante per quello che riguarda oggi gli argomenti della solidarietà e della non-violenza, e Fidonet che è stata storicamente la…"mamma" di tutte le reti di Bbs amatoriali attualmente attive e che conta probabilmente il maggior numero di sistemi collegati.  

D. Che tipo di pubblico si rivolge alla Bbs e cosa chiede?

R. Essendo un sistema aperto a tutti e senza particolari vincoli legati ai limiti di prelievo di file la nostra "utenza" è formata da persone che appartengono alle categorie più varie. Ovviamente tanti "approdano" alla Bbs solo per curiosità, magari dopo aver letto il numero di telefono su una rivista di computer o dalle nodelist (la lista dei sistemi) di Fidonet e Peacelink. I frequentatori più assidui sono invece persone che hanno un interesse più specialistico verso i problemi inerenti all’handicap, come ad esempio i tecnici della rieducazione (logopedisti, fisioterapisti) gli insegnanti e le famiglie o i conoscenti di portatori di handicap. Le loro richieste in genere vertono su informazioni relative al software disponibile per risolvere o aiutare a rendere meno onerose determinate situazioni legate a deficit motori o sensoriali. Riscuote un grande interesse anche il software dedicato all’aiuto all’apprendimento ed in genere quello che riguarda l’ausilio in campo scolastico. Per quello che riguarda invece il lato più tecnico della mia attività di "Syso"’ (in gergo… "il responsabile tecnico della Bbs") devo considerare che è molto importante a volte poter dare consigli agli utenti meno esperti, in modo da poterli aiutare ad utilizzare il meglio possibile il nostro sistema e superare le naturali difficoltà che possono nascere durante la configurazione di modem e programmi di comunicazione.  

D. E invece… che cosa chiede la Bbs a chi la utilizza ? Ovvero, cosa costa usufruire di un servizio del genere?

R. La Bbs… non chiede niente, nel senso che i costi sono sostenuti dall’Area anche tramite la collaborazione del lavoro volontario come quello mio e dei miei colleghi del Centro. L’unica spesa a cui va incontro l’utilizzatore è rappresentata dal costo della comunicazione telefonica, che a tutti gli effetti è una normale telefonata…"audio". È lasciata alla sensibilità e alle possibilità di ognuno la decisione su come eventualmente partecipare alla "vita" del sistema. Da questo punto di vista è molto significativo constatare come molti, spontaneamente, si occupino di inviarci programmi shareware o documentazione provenienti dalle fonti piu diverse (CdRom, ricerche su internet, scambi con colleghi o specialisti) contribuendo così ad aumentare l’informazione disponibile a tutti gli altri utilizzatori. È forse questo uno degli elementi più importanti per provare a definire il vero "successo" di un servizio di questo tipo: da semplici utilizzatori di un sistema si passa alla partecipazione attiva quando effettivamente si pensa di contribuire a qualche cosa di utile e alla portata di altre persone che possono così trarne un vantaggio diretto.  

D. Quali sono gli aspetti piu’ significativi di questo tipo di comunicazione per quello che riguarda i portatori di handicap?

R. Il fatto di aver messo a disposizione delle "aree di discussione" sul nostro sistema, oltre al semplice servizio di distribuzione di file, mi ha permesso di osservare dei particolari interessanti che riguardano il modo di comunicare per via elettronica. Uno fra gli aspetti che viene discusso con più frequenza, specialmente quando la stampa non specializzata si occupa di internet e della telematica in genere, riguarda la possibilità di rimanere comunque anonimi o non riconoscibili da parte dei propri interlocutori. Ho notato che questo fattore, normalmente poco desiderabile quando utilizzato per scopi non utili, favorisce invece una partecipazione più serena da parte di persone affette da disabilità più o meno gravi, in quanto permette di non lasciare filtrare nessun indizio sulla propria condizione verso l’esterno. Inoltre l’utilizzo di periferiche specifiche, come tastiere o dispositivi di input speciali e i lettori di schermo, permette di superare i problemi dovuti a deficit motori o sensoriali che normalmente impediscono o rendono difficile la comunicazione interpersonale.  

D. Qual e’ secondo te la differenza tra una Bbs dedicata all’handicap e un sito internet dello stesso tipo?

R. Il fattore tecnico è fondamentale per poter distinguere i due tipi di sistemi. Basta pensare che la nostra Bbs è stata inizialmente installata su un… povero 386 con poca memoria a disposizione. Un sistema collegato in rete con il protocollo Tcp/Ip può offrire la possibilità a molti utenti di accedere contemporaneamente alle risorse di una banca dati (file e informazioni ipertestuali) mentre la Bbs è fatalmente legata al vincolo del numero di linee telefoniche installate. Due numeri di telefono già occupati, specialmente nelle ore serali, significano quasi invariabilmente che la coda di persone in attesa è destinata ad allungarsi. Inoltre le chiamate telefoniche dirette alla Bbs possono avere un costo tutt’altro che trascurabile, mentre l’accesso ad internet tramite un provider nella propria città permette di consultare informazioni fisicamente residenti su sistemi a migliaia di chilometri di distanza al costo di una telefonata urbana. C’è poi da considerare che anche il contenuto del proprio "sito" internet può essere organizzato in modo da offrire, tramite l’approccio ipertestuale della presentazione delle informazioni sulle pagine Web,un legame logico ad altri sistemi dedicati all’argomento corrente senza il bisogno di duplicare fisicamente le informazioni presso il proprio sistema. Un semplice esempio potrebbe essere il seguente: sulla nostra Bbs spesso inseriamo delle copie (intese come nuovi file memorizzati impegnando dello spazio sui nostri dischi) di testi e immagini provenienti d internet per fare in modo che possano essere prelevate dagli interessati che non hanno accesso a questa rete. Per chi invece ha un accesso diretto al nostro sito è possibile offrire un collegamento diretto alla vera fonte dei dati inserendo il "link" (collegamento) logico nelle pagine Web al sistema di origine, garantendo così anche un aggiornamento delle informazioni più tempestivo. Per quello che riguarda lo scambio di opinioni e la partecipazione a gruppi di discussione non c’è praticamente paragone fra i due tipi di sistemi, in quanto le "newsgroups" e le "mailing list" di internet (tipi differenti di conferenze su temi specifici) hanno un potenziale di partecipanti distribuito su tutto il pianeta che è ben diverso dalle centinaia di persone raggiunte da una Bbs amatoriale.  

D. La facilita’ con cui si puo’ usare internet e la maggiore gradevolezza grafica porta ad un rapido declino delle Bbs: cosa ne pensi?

R. Sicuramente internet offre vantaggi che fino a pochissimi anni fa non si potevano nemmeno sperare. La sua diffusione fra non specialisti porterà sicuramente dei problemi legati a fattori tecnici, come il sovraccarico della rete e la non disponibilità delle risorse in certe ore del giorno, ma rappresenta uno dei più importanti cambiamenti nel modo di comunicare dei nostri giorni. Accanto ai vantaggi si devono però considerare altri aspetti legati a realtà particolari, come per esempio quella dei disabili. La continua evoluzione dei programmi utilizzati per accedere ad internet e dei dispositivi hardware come i modem, l’obbligo di utilizzare la lingua inglese in quasi tutti i contesti, i costi non sempre limitati degli "abbonamenti" ai fornitori del servizio, i lunghi tempi di risposta della rete, la presentazione quasi esclusivamente grafica delle informazioni che preclude l’utilizzo di lettori di schermo per non vedenti sono sicuramente alcuni fra i problemi più importanti che ho potuto rilevare fra coloro che frequentano già da tempo la nostra Bbs e che… rimangono comunque affezionati al loro primo "flirt" telematico. Penso quindi che sarà sempre importantissimo poter mantenere viva una realtà più accessibile e spontanea come quella dei sistemi amatoriali, soprattutto per poter avvicinare al mondo delle telecomunicazioni le persone che non hanno nessun interesse tecnico specifico ma solo la necessità di poter usufruire di un nuovo modo di comunicare, magari aiutati all’inizio da un Sysop (responsabile della Bbs) armato di molta pazienza e riconoscibile, nella vita di tutti i giorni, dai tipici sintomi del debito di sonno arretrato.

Immigrazione. La responsabilità giornalistica in un tema sociale

Come viene presentato sui quotidiani locali di Bologna il tema dell’immigrazione? Intervista al giornalista Luigi Spezia, da cui emerge come sia difficile fare una buona informazione sui temi sociali e come la mentalità giornalistica sia dura da scalfire.

Domanda. Signor Spezia nello svolgere questa ricerca ho osservato parecchio i giornali, su La Repubblica sostanzialmente di immigrazione scrive solo lei. Perché si decide di scrivere di immigrazione?
Risposta. Ho cominciato a scrivere di immigrazione cinque o sei anni fa, ho cominciato io, perché questo diventava un problema cittadino. In primo luogo per l’immigrazione come fenomeno che riguardava la città, poi perché l’immigrazione clandestina portava con sé la criminalità, in terzo luogo perché la criminalità diventava un problema di sicurezza per la città.

D. Ma questo legame con la sicurezza? È un argomento fortemente all’ordine del giorno. E allora come la vive questa correlazione fra immigrazione e sicurezza? 1l Carlino ha impostato questo legame in modo molto forte. C’è un’influenza di "Riprendiamoci Bologna" (La campagna portata avanti sul tema dal Carlino. n.d..r.) sul vostro lavoro? Questo legame è stato creato dai media o è automatico, naturale?
R. Guardi, i primi articoli che sono usciti a Bologna sul degrado e la sicurezza legati all’immigrazione li ho scritti io. Fecero incazzare moltissimo una serie di persone di sinistra, pseudo intellettuali, che videro in quell’articolo un attacco
a una linea della sinistra che era quella di non criminalizzare alcune fasce sociali e soprattutto quello di non esagerare alcune tendenze. E’ anche vero che il problema allora era agli esordi e poi è diventato il problema politico della città, questo del rapporto con la sicurezza, poi quello che ci sta dietro… Non è stato creato dai giornali, il problema della sicurezza, poi è stato strumentalizzato…credo che il Carlino l’abbia usato a fini elettorali. Il problema della sicurezza non è tutto creato dagli immigrati, per niente. Al cittadino dà più fastidio il drogato che l’immigrato, l’immigrato spaccia, non dà fastidio alla vecchietta, a chi possa essere derubato o scippato. Chi ruba o chi scippa è più il tossicodipendente, non lo spacciatore. Qui si è molto glissato. Come si è glissato sul fatto che ci sono gli extracomunitari che spacciano, ma c’è una domanda di droga che è dei bolognesi. Su questo il Carlino ha glissato molto.

D. Ma questo succede anche su Repubblica. Leggevo un suo articolo sulla sicurezza. Gli immigrati erano nominati undici volte in dieci righe, anche se si parlava di tutt’altro (degli atti vandalici dell’ultimo dell’anno)…
R. Infatti bisogna precisare. Non si deve parlare di extracomunitari, ma di clandestini. La parola clandestino non può essere applicata agli italiani, no? Se non si vuole parlare di stranieri, ma si vuole usare un termine che non criminalizzi tutta la categoria, bisogna parlare di clandestini. Perché sono quello il problema, i clandestini. Quindi secondo me c’è anche un errore culturale nostro, ci hanno anche chiesto alcune associazioni di non usare più la parola extracomunitari, comunque, si continua a usarlo in generale, spesso anche come sineddoche, la parte per il tutto, se c’è una parte degli extracomunitari che delinque, si usa il termine generale… Questo è un grosso errore. Però, cinque o sei anni fa, io scrivevo del fatto che erano i tunisini a conquistare la piazza dello spaccio della droga, mi telefonavano tanti stranieri dicendo che ero un razzista. Io invece rivendicavo il diritto di scrivere tunisini, perché altrimenti non si sarebbe capito qual era il fenomeno. Perché una cosa è che spaccino degli italiani, una cosa è che spaccino gli stranieri. Cambia la dinamica sociale. Se invece si vuole generalizzare, se si vuole puntare non sul fatto, ma sull’argomento, probabilmente lì c’è una generalizzazione che è sbagliata. C’è poi anche un altro discorso, quello degli effetti: se anche solo scrivere che sono tunisini basta per creare una categoria più generale, quindi per tutta la città per creare uno stato d’animo negativo nei confronti degli stranieri. Però questo è uno degli effetti indesiderabili della comunicazione. Non si può evitare, purtroppo. È un effetto collaterale, ma non voluto. Ma non lo scrivo io. Questo è un processo che fa la gente. E’ vero che sapendolo dovresti evitarlo, tamponarlo. Ma non c’è modo di farlo. Ogni volta che scrivi un pezzo di cronaca, cosa devi fare? Scrivere: "Sono stati arrestati tre tunisini per spaccio di droga. Punto. Ma altri trecento lavorano nelle fabbriche". Non lo puoi scrivere, se no il caporedattore poi taglia. Se scrivo che un bolognese è un assassino, devo scrivere che tutto il resto della popolazione non lo è?

D. Quanto conta il problema immigrazione nell’economia del giornale? In certi periodi abbiamo notizie di cronaca di questo tipo ogni giorno, in altri nessuna… Perché succede questo? E’ un problema di notiziabilità, di priorità di altre notizie che portano a eliminare questi argomenti relativamente "all’ordine del giorno" in alcuni periodi, o c’è un qualche altro meccanismo?
R. Non lo so. Ci sono tre incidenti aerei in un mese, forse non si scrivono tre articoli, se ne scrivono trenta. Ma questo non ti fa dire che c’è un atteggiamento razzistico dei giornali nei confronti degli incidenti aerei. Quando si parla di extracomunitari si parte da un pregiudizio opposto a quello comune. Che comunque bisogna tenersi più indietro del normale. Meglio un articolo in meno che in più. Non capisco perché. Questo ci viene fatto notare dalle associazioni, dal Console del Marocco, ad esempio. Alcune associazioni, di sinistra, mi dicono che non bisogna calcare la mano. Una domanda come la tua mi fa pensare che ci sia un pregiudizio di questo tipo. Ci vuole un atteggiamento un po’ più laico. Ogni articolo danneggia qualcuno. Allora non facciamo più i giornali.

D. No, non era un discorso di accusa. Era proprio un’osservazione empirica. A dicembre si trovano ventiquattro articoli che parlano d’immigrazione. A novembre ce n’erano quattro. Uno si chiede come mai differenze di questo tipo.
R. Ma perché tu lo noti. Se non si parla di omicidi per un mese, tu ti chiedi "Be’, non ci sono più assassini"? No, evidentemente.

D. Solo che ci sono cose che fanno flettere. Su Repubblica del 24 dicembre compare un’intervista a Mottura, ex presidente dell’ISI (Istituzione dei servizi per l’immigrazione del Comune di Bologna, chiusa dal 5 novembre 1999 per
ordinanza dell’assessorato alle politiche sociali n.d.r.), il quale afferma: "Politici e giornalisti sono tutti convinti che a parlare di immigrazione si perdano voti". Si fa un breve controllo e si vede che effettivamente nelle due settimane che precedono le elezioni del Collegio 12 scompaiono articoli sull’immigrazione sia dalla Repubblica che dal Carlino. Stesso fenomeno, più prolungato, nel mese che precede l’elezione del sindaco. Allora viene naturale chiederle se secondo lei c’è una correlazione.
R. No, è totalmente casuale. Mottura si sbaglia. Anzi, certi problemi vengono acuiti sotto le elezioni. Vedi la sicurezza per il Carlino. La campagna elettorale di Guazzaloca e del Carlino è stata tutta incentrata sulla sicurezza, in cui gli immigrati facevano una parte da leone. Poi, dopo le elezioni, di immigrati non si parla più, o si parla in modo diverso. Lì sì allora che c’erano delle strumentalizzazioni .

D. Dal vostro lato, come lo vivete il rapporto con strumentalizzazioni possibili? Mi spiego: lei afferma che il Carlino ha strumentalizzato un problema. Voi avete sentito un’esigenza di riequilibrare una situazione, di fare un tipo di comunicazione diversa? Lo "schieramento" di Repubblica e del Carlino come giornali di sinistra e di destra è molto sentita, si è vista, in tutti gli schieramenti elettorali; allora avete un bisogno di dare un’informazione diversa?
R. Sì, questo sì. Però il problema degli extracomunitari il Carlino può averlo esagerato, non inventato. Di degrado per primo ho parlato io, mentre la sinistra non vedeva la realtà così. Adesso tutto è al contrario. Si deve parlare di queste cose, perché è il problema della città, la gente vuole saperne di più, se no compra il Carlino. Noi siamo più equilibrati. Però se il Carlino tutti i giorni pubblica una foto del marocchino che spaccia, noi non possiamo pubblicarne una del marocchino che lavora in fabbrica. Sarebbe una scelta ideologica.

D. E le fonti? Molto spesso vengono interpellate le questure, la polizia, è difficile raggiungere loro, i diretti interessati?
R. No, spesso è molto facile. Anche per capire quali sono i problemi, anche da un punto di vista sociale. Non ci sono problemi a parlare con gli extracomunitari, è più facile che con tanti altri argomenti di cronaca nera. Se c’è uno sgombero, te lo dicono loro. Hanno interesse al fatto che tu sia lì.

D. Va bene, io sono soddisfatta. Il mio tema è questo: vedere come la copertura giornalistica dell’immigrazione operi, in un contesto non così polarizzato, con poi non così tante differenze fra testate, visto che la città è la stessa e il pubblico spesso è comune.
R. Infatti, guarda io spesso parlo con colleghi del Carlino e dico: "Ah, voi avete fatto questa cosa, secondo me perché…" No, spesso è totalmente casuale. Chi fa il critico dei giornali vede delle linee chiare che spesso non ci sono… dipende dai giorni… come un critico letterario, no? Vede delle cose che l’autore non aveva visto. Non bisogna pensare a delle logiche troppo deterministiche. È chiaro che poi quando un giornale tutti i giorni mette in testata un logo, che è Riprendiamoci la città, uno scopo c’è, questo è chiaro.

D. Perché parlando di una serie di cose si avverte l’idea che ci si aspetti dalle due testate una grande differenza di toni.
R. Non è vero. A volte noi parliamo di degrado, il Carlino no.

D. E lei avverte delle aspettative da parte del pubblico?
R. Sì, mi capita spesso che un pubblico qualificato, istituzionale, dica: "Noi ci aspettavamo che scriveste questo, invece non l’avete scritto". C’è una certa aspettativa, quasi una linea. Un mese fa successe che morì un extracomunitario in un casolare, di asma. Il Carlino scrisse che era morto di freddo, che non è proprio esatto. Il freddo era una concausa, un modo indiretto. Comunque il Carlino scrisse questo, in cinque
righe, e che ce n’era stato un altro. Noi non lo scrivemmo: perché è vero, era la morte di persone dimenticate, abbandonate, ma non erano morte di freddo. Per il primo morto il Carlino fece un’apertura di pagina, noi soltanto una breve. Per il secondo noi
aprimmo, loro scrissero solo queste cinque righe. Quella persona che ti dicevo si stupì: pensava, giustamente, e qui abbiamo dormito, che il giorno dopo noi facessimo un attacco alle Istituzioni, aprissimo una discussione sul fatto che due persone erano morte in strada. E invece noi non l’abbiamo fatto. Il Carlino sì. Comunque, oltre al pubblico, io introduco un terzo criterio: esiste una valutazione politica, esiste
una valutazione del pubblico, ma c’è anche la considerazione tecnica della notizia. La notizia va data, non si può nascondere, se è molto antipatica si può ridurre, ma il criterio prevalente è la scelta della notizia. Il giornale non è al servizio di nessuno. Ho aperto io la notizia dell’inchiesta sui campi profughi del Comune, che coinvolgeva l’assessore Golfarelli (ex assessore alle Politiche sociali della vecchia giunta di sinistra). Come giornale di sinistra, non dovevo farlo?

L’educatore disabile

Riportiamo di seguito un capitolo tratto da Progetto Calamaio, la cultura della diversità a scuola, a cura di Sonia Pergolesi e Claudio Imprudente, UTET Editore, TO, 1997.

Non è facile trovare persone disabili che desiderino essere educatori ed animatori e che abbiano un grado di maturità tale da mettersi in gioco, trasformando il proprio deficit in un arma educativa in più. Veramente questa non è una cosa semplice: pensate solo al fatto che la prima impressione che dà una coppia di operatori del Calamaio, uno normodotato l’altro disabile, non è quella di due colleghi al lavoro ma di un operatore e di un utente, uno che è aiutato e l’altro che aiuta. Si trovano delle resistenze solo ad immaginare di diventare educatore disabile, figuriamoci il diventarlo. Per spiegare meglio: una persona con deficit è sottoposta a due spinte che la portano in direzioni diverse. La prima spinta va verso l’emancipazione dal proprio deficit per liberare la propria persona dall’immediata identificazione con esso. Ciò significa in altri termini voler affermarsi e confrontarsi con il "modello forte" di uomo, volere ad esempio che il proprio lavoro venga riconosciuto per quello che vale e non tanto perché è stato fatto da un disabile. L’altra spinta porta invece un disabile non a negare o peggio a rimuovere il deficit ma a riappropriarsi del deficit in termini positivi. Lo sport per disabili ad esempio porta l’individuo a confrontarsi con il proprio deficit non nei termini di un improbabile superamento ma nell’ottica di mettere in gioco le potenzialità residue. Nell’attività sportiva il limite e la difficoltà non consistono tanto nell’avere un deficit, ma costituiscono un aspetto fondamentale della competizione agonistica. L’essenziale nello sport è la sfida con noi stessi e con gli altri per il raggiungimento di un obiettivo. Diminuire il tempo che impieghiamo per percorrere cento metri, vincere contro un’altra squadra, migliorare la nostra comprensione del gioco, imparare a dominare alcune emozioni: sono tutti obiettivi che ogni atleta, disabile o non, uomo o donna, anziano o giovane, possono proporsi. Il deficit qui non viene rimosso, né viene annullato: semplicemente rende speciale una disciplina sportiva. Il calcio in carrozzina dieci anni fa è nato in seguito a una esigenza, a un richiamo che le mature condizioni culturali e di conseguenza l’autoconsapevolezza delle persone, hanno permesso di ascoltare. E l’unico sport al mondo in cui hanno un ruolo parimenti attivo sia atleti disabili sia atleti normodotati e ne possono nascere molte altre di queste discipline miste… Un educatore disabile del Calamaio se da un lato deve necessariamente acquisire competenze per poter fare bene l’animatore e l’educatore, dall’altro gli sono necessarie anche una maturità e gli strumenti che lo portino a vivere il suo deficit non più come un limite ma anzi come risorsa per il lavoro educativo. La "forza" del Progetto Calamaio sta proprio nella debolezza dei suoi educatori, o meglio nel processo che trasforma questa debolezza in qualcosa di positivo. Ad esempio Alberto, un educatore del Progetto, non riesce ad articolare chiaramente i suoni che compongono le parole. Se riusciamo a creare nei ragazzi una giusta aspettativa, se il capire Alberto oltre ad essere faticoso diventa una scommessa, se Alberto riesce ad affascinarli con le sue parole allora otteniamo dei grossi risultati che probabilmente non sarebbe stato possibile ottenere senza quel deficit. Infatti sappiamo bene che le parole di un educatore disabile e quelle di un normodotato possono avere un peso ben diverso. Consideriamo ad esempio Alice, una delle nostre educatrici più valide: lei, che è non vedente, riesce ad affascinare moltissimo bambini e ragazzi. La scoperta di come riesce a scrivere, a leggere l’orologio, a camminare da sola per strada, fa veramente luce sul come, con creatività ed intelligenza, si possono superare ostacoli apparentemente insormontabili. Ecco perché il deficit, o meglio, un modo appropriato di vivere e considerare il deficit può essere sfruttato in termini positivi, diventa per chi lo sa usare uno strumento in più nel bagaglio dell’educatore. Naturalmente ciò non è facile: la bravura di Alice non è una cosa improvvisata, ha richiesto anni di preparazione e di lavoro. L’esperienza ci insegna che aiuta moltissimo la dimensione del gruppo, il costante dialogo tra gli educatori del Progetto, il sapere affrontare insieme le grandi e piccole difficoltà che si presentano ogni giorno, il lavorare in squadra raggiungendo così l’affiatamento giusto che permette di creare e programmare i percorsi educativi.

"Abbiamo fatto il gioco di essere handicappato"

Spesso mi viene in mente questa bellissima frase, scritta in un tema da un bambino di una scuola elementare. In questa frase, che si riferiva al gioco di ruolo in cui un giocatore si immedesima in un disabile e l’altro giocatore in una persona qualsiasi che presta il suo aiuto, c’è veramente tutto il significato del Calamaio. Ludwig Wittgenstein, il grande filosofo austriaco, afferma che non esiste un’unica logica sottesa al reale, ma una pluralità di logiche, che lui chiama giochi linguistici, imparentate tra loro ma mai riducibili a principi primi. In altre parole non esistono significati astratti dai contesti ma giochi linguistici con regole più o meno precise e codificate. L’essere handicappato determina un gioco particolare, speciale, le cui regole linguistiche non sono trasferibili meccanicamente in ogni situazione ma anzi vanno di volta in volta adattate ed interpretate. Nell’interazione tra i due comunicanti, il giocatore con deficit e il giocatore normodotato, viene elaborato un linguaggio che tiene conto, mediante tentativi ed errori, del vissuto di ognuno dei giocatori e che mette da parte per un momento lo stereotipato e abitudinario sistema di regole linguistiche che invece si ripropone automaticamente fra due parlanti normodotati. Si scopre che giocare ad essere handicappato non è per niente facile e non richiede solo emotività ma mette in moto tutte le intelligenze, dalla corporea alla logico?matematica. Non basta mettersi in gioco, non basta, diremmo, partecipare. Nel "gioco di essere handicappato" però se uno dei giocatori vince, vince anche l’altro, se uno perde, perde anche l’altro. La comunicazione avviene se entrambi le sorgenti?riceventi funzionano. Questo non è facile e semplice: bisogna battere molte strade e creativamente affrontare le varie difficoltà che insorgono. Anni fa in una scuola materna di Bologna, durante un incontro con i genitori, il Prof. Canevaro ha esplicitato un concetto che sulle prime ci ha stupito, e che in sostanza è il seguente: se un bambino, incontrando un altro bambino disabile, viene allenato a reagire creativamente a situazioni in cui bisogna elevarsi sopra l’abitudine, può diventare più intelligente, non solo da un punto di vista emotivo. Generalmente si pensa che l’integrazione di un bambino disabile in una classe possa maturare socialmente gli alunni, innescare una prassi di solidarietà. Certo, anche. Ma soprattutto può alimentare un approccio creativo alle difficoltà che è un ottima scuola per l’intelligenza. Avere una mente aperta, non dogmatica, libera, non è qualcosa di innato, ma si impara con più facilità se aiutati da persone ed ambienti liberi ed aperti, capaci di lasciarsi mettere in discussione ed in crisi da una persona con deficit, la quale, volente o no, mette in crisi pressoché ogni struttura sociale in cui si inserisce. Quando nasce mette in crisi la famiglia, quando va a scuola mette in crisi la scuola, quando va a lavorare mette in crisi l’azienda, e così via. La crisi è un dato di fatto e può trasformarsi in momento di sviluppo, non va necessariamente connotata come qualcosa di negativo (come una certa accezione di crisi vorrebbe suggerirci).

La "necessaria leggerezza" del Calamaio: la diversità e il divertimento

"Abbiamo fatto il gioco di essere handicappato". La parola gioco richiama le parole coinvolgimento e divertimento. Direi che un incontro del Progetto Calamaio non possa prescindere da queste due parole. Nel Calamaio si impara giocando e divertendosi. Certo si può essere seri anche nel divertimento ma mai seriosi e soprattutto mai noiosi.
Credo che sotto sotto la maggior parte dei ragazzi e degli insegnanti che incontriamo si aspettino un incontro di una pesantezza unica. Non si parla forse di handicap? Mammamia che tristezza! Fa sinceramente piacere a noi educatori assaporare il momento in cui le resistenze si allentano, si trova una posizione più comoda e rilassata sulla sedia, si incomincia veramente a dialogare. Certo un incontro del Calamaio mette in crisi, eccome. Però fallisce se assieme alla riflessione non associamo anche il divertimento, se non diamo la possibilità di divertere, di guardare altrove, di girare un po’ intorno, di lasciare anche vie di fuga. Educare ed educarsi, come tutte le arti, è saper dosare i pieni ed i vuoti, i silenzi e le parole, l’azione e l’ozio (che sono i due momenti dell’atto creativo). Accennavo prima al fatto che il Calamaio non obbliga a dare risposta alle domande che suscita. Certo di risposte prefabbricate ce ne sono a bizzeffe ma non ci interessano perché banalizzano, fan contenti quelli che vogliono a tutti i costi verificare. L’accettazione di sé e degli altri, il valore della diversità, l’autoconoscenza, migliorare la propria vita: queste sono un po’ le finalità del Progetto Calamaio e di tanti altri percorsi educativi. Come si vede sono temi grandi, universali e quindi c’è tempo, non abbiamo fretta, tanto non basta una vita. Una insegnante una volta ci ha detto: "Anche fra molto tempo i bambini ricorderanno l’atmosfera di gioia che si respirava durante gli incontri…". Certo se non c’è anche un po’ di gioia di incontrarsi, di conoscersi, di vivere insieme qualche ora, come educatori ed animatori abbiamo fallito. Il Progetto Calamaio vuole comunicare un’immagine del disabile diversa dall’immagine cupa e triste. Se non si concretizza anche questa gioia, questo ben?essere, possiamo aver affrontato (a parole) i problemi più profondi dell’essenza umana ma abbiamo fallito, abbiamo tradito lo spirito del Progetto. Attenzione però. Non stiamo in questo modo dicendo che il mondo del disabile è tutto rose e fiori, che siamo tutti felici o cose del genere. Vogliamo comunicare un’immagine di disabilità il più possibile realistica, per come la stiamo vivendo: un grave errore risulterebbe rimuovere la sofferenza, i momenti difficili che si presentano anche nella vita di una persona con deficit. L’importante è non fermarsi solo a questo: l’incontro diretto con un educatore disabile aiuta i bambini, i ragazzi e gli insegnanti ad arricchire la propria immagine della disabilità. Scoprire che esiste ad esempio il calcio in carrozzina non è una scoperta da poco. Giocare un po’ con Alberto e divertirsi tra un tiro di pallone e l’altro, approfondire i concetti del poter o del non poter fare alla luce della distinzione deficit-handicap, illumina di una luce nuova una realtà poco conosciuta e misconosciuta come quella della disabilità. Infine, diversità e divertimento sono parole che nascono da una stessa parola latina: divertere, volgere in opposta direzione. Qualsiasi sia questa direzione il Calamaio è già per strada, a braccetto di queste due parole, e in buona compagnia. Chissà dove se ne andrà…

Le tante facce dell’handicap

"Abbiamo fatto il gioco di essere handicappato". Uno degli obiettivi del gioco di ruolo proposto è quello di scoprire che, pur se in effetti solo uno dei due giocatori ha un deficit mentre l’altro è normodotato, entrambi vivono degli handicap, delle difficoltà, degli ostacoli. Generalmente la parola difficoltà richiama negatività: viene da pensare alla fatica, a emozioni come il disagio, l’angoscia, la tristezza. In realtà, a guardar bene, non esiste un gioco senza una qualche difficoltà?handicap, che se non fosse presente penalizzerebbe enormemente il gioco. Non varrebbe più la pena di giocare a quel gioco se non ci fosse una qualche difficoltà intrinseca. Ogni gioco presenta dunque un certo grado di difficoltà ma, mentre nella maggior parte dei giochi essa consiste nel rispettarne le regole e finalità, ci sono alcuni giochi in cui la difficoltà sta proprio nel trovare le regole del gioco. Tra un disabile e un normodotato il momento critico è l’entrare in comunicazione, perché il deficit del disabile non permette di far riferimento a codici preconfezionati. La categoria della difficoltà acquisisce un significato esistenziale con due accezioni ben diverse e che danno origine a sentieri diversi. Da un lato la difficoltà come sfida, motore dell’azione, momento essenziale del gioco; dall’altro un accezione negativa per cui delle difficoltà faremmo volentieri a meno. Cos’è che ci fa propendere verso l’una o l’altra delle due accezioni? Che cosa ci fa vedere ora l’una ora l’altra delle facce di questa difficoltà?Giano bifronte? Uno dei motivi per cui il gioco viene a noia è l’essere costretti a giocare quando non se ne ha più voglia. Quando l’individuo sente che non può incidere sullo sfondo in cui si colloca, non può determinarlo ma esserne solo determinato, la frustrazione e l’angoscia diventano il pane quotidiano. Essere determinati da un contesto, l’essere obbligati a recitare volenti o nolenti una parte, sentirsi tutt’uno col proprio deficit, sentire la propria persona appiattita sul proprio deficit, è una tragedia insopportabile, e a questo punto ogni difficoltà non può che diventare smisuratamente grande e crudele. Ma se ci si dà la possibilità di giocare più ruoli in più giochi diversi, di affrontare continuamente difficoltà nuove e nuove avventure diverse e tutto questo lo riconduciamo al grande gioco?spettacolo dell’esistenza (in cui siamo insieme attori e spettatori), allora le cose cambiano. Il trucco sta nel come maneggiamo la parola difficoltà, così vitale e così mortale, così crudele e così meravigliosa, a seconda dei punti di vista.
"Superare l’handicap" (il motto che dà il titolo al progetto più ampio, realizzato a Parma, in cui si è inserito anche il Calamaio) va letto dunque nei termini hegeliani come il movimento che supera la contraddizione ma che insieme la conserva, la invera, non l’annienta. Senza l’handicap?difficoltà non c’è storia, non c’è sviluppo perché la contraddizione alimenta il tempo, il divenire, il reale. L’obiettivo del Progetto Calamaio è certamente il cercare il più possibile di diminuire l’handicap (perché ciò è possibile) ma riconoscendo alla categoria della difficoltà il suo giusto valore, la giusta "necessità" in un processo di sviluppo e maturazione non solo individuali ma anche collettivi, sociali.

Un vuoto da riempire

Molto spesso non si dà importanza alla struttura e al contesto in cui il volontario opera e si concentrano gli sforzi formativi sui rapporti personali con l’utenza. Ma esistono anche altri livelli, come la conoscenza del gruppo in cui si opera e la conoscenza del contesto in generale (rapporti con gli altri gruppi, con il servizio pubblico…). Intervista a Francesca Busnelli della FIVOL

Quando si parla di formazione del volontario si tende a sottovalutare, da parte di chi fa formazione, alcuni aspetti che riguardano il contesto in cui il volontario opera.
Poniamo a Francesca Busnelli, della Fondazione Italiana per il Volontariato (FIVOL), alcune domande sul rapporto e la percezione che il volontario ha del gruppo di appartenenza.
D. Come viene affrontata la questione relativa al rapporto operatore-volontario?
R. Dalle consulenze, dai rapporti con gruppi e associazioni che la FIVOL ha maturato in questi anni emerge, di fatto, una mancanza di attenzione nei riguardi della struttura ed in generale del contesto in cui viene operata l’azione volontaria. L’attenzione del singolo e di rimando del gruppo sembra ancora molto legata al rapporto interpersonale con le persone di cui ci si occupa, all’aiuto diretto che ad esse si rivolge.
Ciò che riguarda, di contro, la personale percezione della struttura in cui si opera, quindi come si qualificano e come sono vissuti i rapporti tra volontari del servizio e tra questi e gli operatori… la definizione dei ruoli, la distribuzione del potere… in altre parole la percezione del clima organizzativo, viene abitualmente espressa attraverso ‘osservazioni’, ‘sfoghi verbali’ critici, senza essere assunto come un reale oggetto di discussione e di analisi sia a livello personale e di gruppo. Quanto detto è stato anche confermato dai risultati ottenuti da una ricerca condotta grazie ad una borsa di studio della Fondazione, da S.Giuliani su La sindrome del burn out negli operatori e nei volontari (1993).
Fatta richiesta agli operatori e ai volontari (si trattava in questa ricerca di volontari operanti in strutture sanitarie) di valutare la qualità della struttura in cui operano con l’intento di rilevare il livello di ‘credibilità’ percepita, è risultato che per entrambi la percezione globale dell’ambiente di lavoro/servizio è sufficientemente positiva, anche se per i volontari la dimensione dell’amicizia’ e in particolare della ‘fiducia’ risultano disattese o poco soddisfatte.
In generale la dichiarata percezione positiva non sembra, di fatto, garantire agli operatori la sicurezza necessaria per un atteggiamento di maggiore apertura. Lo scambio di sensazioni, la comunicazione tra gli operatori, sono carenti e anche operatori e volontari conversano maggiormente tra i membri del proprio gruppo e meno a livello infra-gruppo.
Ciò accade soprattutto rispetto alla condivisione del rapporto vissuto di disagio, dei momenti di crisi.
Interessante è notare che i volontari si confrontano tra di loro anche meno di quanto non facciano gli operatori.
Dall’indagine sul ‘potere’ emerge che la ‘struttura di potere’ non viene vissuta come esercitante un rigido controllo sul personale, elemento questo che ostacola il raggiungimento del ‘successo psicologico’ individuale. La ricerca dice inoltre che, a livello di ‘potere contrattuale’, i volontari si sentono in uno stato di debolezza, condizione che sembra da una parte essere compensata, in parte, dal sentirsi abbastanza autonomi nella gestione del proprio servizio e dall’altra confermata dal percepire il proprio ruolo non sufficientemente definito, soprattutto nella sfera dei diritti; ciò risulta condizionare tanto il vissuto personale quanto i rapporti interpersonali.
Tra gli altri fattori la ricerca evidenzia come entrambe le figure rispetto ai problemi, alle difficoltà che incontrano, sia a livello personale, emotivo-psicologico, sia a livello organizzativo-gestionale, assumono un atteggiamento di chiusura mostrandosi disposti ad elaborare una revisione personale ed un costruttivo confronto neanche con il gruppo di appartenenza.
D. Che tipo di strumenti dare al volontariato affinché abbia una conoscenza del contesto in cui opera: gli altri gruppi di volontariato, l’amministrazione pubblica…
R. Mi sembra di poter dire con una certa tranquillità che per ora non sono molte le situazioni e le realtà nelle quali si dia particolare importanza al vissuto del volontario all’interno della struttura di lavoro, ma non è solo questo il punto.
E’ macroscopica in alcune situazioni la mancanza di attenzione all’ingresso, all’accoglienza del nuovo volontario in un gruppo, sia rispetto alla conoscenza di attività, finalità, persone, sia tanto più relativamente alla conoscenza di ‘regole’ esplicite o meno.
Il volontario che entra in una associazione, deve in fondo gestirsi da solo con le proprie capacità, intuizioni, disponibilità, deve cercare di farsi benvolere, o se questo non gli ‘interessa’, deciderà di fare il proprio servizio come ritiene meglio e spesso inevitabilmente in modo autonomo, non collegato alle modalità o finalità proprie del suo gruppo.
Tanto più tale disattenzione si ripropone nel momento in cui si lavora in una struttura esterna (ospedale, scuola, ecc.) tanto più si rischia di fare il proprio lavoro non mettendo neanche in discussione il fatto che possa essere utile usare del tempo per conoscere questa struttura per individuarne gli aspetti critici ed i punti di forza, le relazioni di potere e le modalità organizzative.
In altre situazioni, le più ‘fortunate’ potremmo dire, o meglio le più attente alle persone e non solo a quelle a cui si rivolge il servizio, hanno invece individuato modalità e strategie, piccoli accorgimenti, per accompagnare i nuovi volontari in un lavoro ed in ambienti nei quali, tra l’altro, spesso il "non detto" è più importante di ciò che è evidente.
Sono nate perciò delle figure quasi di ‘tutor’ dei nuovi volontari proprio con il compito di seguirli, di facilitare il lavoro; viene dedicato del tempo alla formazione iniziale, alla condivisione con il gruppo di motivazioni personali ma anche alla esplicitazione delle finalità del gruppo stesso.
Accanto a ciò in particolare pensando a chi di fatto opera anche in strutture esterne e non solo in quanto associazione per proprio conto, si inizia ad essere testimoni in certi ambiti della proposta di analizzare, come volontari, la struttura.
Ciò che viene proposto è sia l’analisi del sistema organizzativo che del proprio vissuto, del proprio ruolo e dei rapporti esistenti. Dalla condivisione dell’esistente viene stimolato un approccio operativo, capace, attraverso la progettazione, di individuare interventi, percorsi alternativi.
Sarebbe fondamentale per i gruppi dare attenzione al singolo, al singolo in un contesto, al gruppo in un contesto; sono passaggi diversi, che presuppongono momenti di lavoro, di discussione e riflessione diversi.
C’è certamente una realtà di gruppo, quella che si vuole dare all’esterno, la ‘mission’ che il gruppo si è dato, ma che rischia di essere disattesa se non si dedica tempo per condividerla e verificare se realmente tutti i volontari ci si ritrovano.
Naturalmente ciò vuol dire anche che il gruppo deve essere capace di interrogarsi e farsi interrogare da ciò che può venire dall’esterno, dalle sollecitazioni che vengono dalle possibilità di rivedere le proprie convinzioni o di rafforzarle.
D. Quali strumenti perciò dare ai volontari?
R. Certamente attraverso una formazione permanente, non solo occasioni sporadiche, si possono tenere presenti tutti gli elementi che di volta in volta il volontario si trova ad affrontare.
Una formazione nella quale ci si "attrezzi" di strumenti per la conoscenza del territorio, per la comprensione delle dinamiche organizzative e di contesto, per la creazione di reti informative per i rapporti con gli altri; una formazione che punti alla conoscenza e discussione sui propri ruoli all’interno delle diverse realtà, del proprio ruolo rispetto all’ente pubblico, alle famiglie; ma anche una formazione legata alla propria crescita personale, allo sviluppo di motivazioni non legate ad un momento ma frutto di riflessione e messa in discussione insieme agli altri.

L’odissea dello sponsor

In questo nuovo capitolo della ricerca permanente curata dal nostro osservatorio sulla stampa italiana e l’handicap, ci occupiamo di una tematica di estrema attualità anche se dai contorni imprecisi e, spesso, necessariamente, soggettivi: la pubblicità.Pubblicità progresso, spot televisivi, depliant pubblicitari, lettere circolari, pubblicità elettorale rappresentano un segmento dell’informazione e della cultura dell’handicap che non ha caratteristiche ben strutturate, ma che costituisce piuttosto un "filo", a volte chiaramente visibile, a volte meno, che lega tra loro varie tematiche e varie strutture ed organizzazioni del mondo dell’handicap.
Quello degli sponsor, delle strategie promozionali e pubblicitarie, è una finestra che, a differenza di quelle classiche (scuola, riabilitazione, assistenza) ci permette molto meglio di cogliere alcune dinamiche in corso e alcuni cambiamenti culturali avvenuti in Italia nell’ultimo decennio. In particolare ci riferiamo all’ampliarsi di quella area dell’handicap che una volta era unicamente occupata dalla beneficienza e che ora invece sempre più spesso viene affiancata dalle strategie della promozione e della sponsorizzazione.
Esaminando questo argomento, più che in altri capitoli della ricerca, è molto importante avere letteralmente sott’occhio il materiale pubblicato. Questo per avere un preciso riferimento visivo di quello di cui si parla, in modo che ognuno possa farsi anche una propria personale opinione.

LE DIVERSE TESTATE

Per questa tematica non ci sono dati particolari da presentare, a differenza delle altre volte, dato che ci occupiamo di vari veicoli dell’informazione. Sottolineiamo unicamente che, per quanto riguarda quotidiani e settimanali, sono stati
raccolti dall’985 al 1991 più di trecento tra pubblicità progresso, inserzioni commerciali ed elettorali, commenti a campagne di sensibilizzazione.
Registriamo comunque come i settimanali, di solito avari di contributi sull’handicap, salvo casi di Famiglia Cristiana e Stop, sono invece il regno delle pubblicità progresso. In un solo numero de L’Espresso ne abbiamo contate sino ad otto. Altra strategia usata è quella delle pubblicità redazionali e, ad esempio, su Avvenire sono già stati pubblicati varie volte "paginoni" ed inserti dedicati
alle nuove tecnologie della comunicazione e sanitarie per anziani, ammalati, handicappati. Sui settimanali ad altissima tiratura invece (Famiglia Cristiana, Messaggero di S.Antonio, Grand’Hotel, Gente…) si concentrano le pubblicità delle ditte di ausili per il superamento delle barriere architettoniche che, negli ultimi anni, hanno affiancato le classiche pubblicità delle protesi acustiche.

CHI, COME, DOVE

Proviamo allora a seguire il filo di cui si parlava prima incominciando un viaggio tra una serie di materiali che probabilmente sono molti di più di quanto uno
si possa aspettare. Per affrontare l’argomento possiamo porci sostanzialmente tre domande: chi incontriamo lungo questo filo, ovvero quali strutture e quali persone; quali strumenti vengono usati e con quali caratteristiche; infine quale clima culturale possiamo individuare alla spalle di queste iniziative.

LE ASSOCIAZIONI

Sono senz’altro le regine delle pubblicità progresso anche se è necessario fare dei precisi distinguo di carattere storico e culturale. Le associazioni più vecchie, quelle nate per intenderci negli anni ’50, sono assenti da questo settore. Ad AIAS (Associazione Italiana Assistenza Spastici) ed ANFFAS (Associazione Nazionale Famiglie Fanciulli Adulti Subnormali) vanno accreditate solo sporadicissime iniziative come la campagna dei comitati regionali dell’Emilia Romagna nel 1987 (manifesti murali e inserzioni sui giornali) e l’iniziativa dell’ANFFAS di Milano apparsa nel ’90 su alcuni quotidiani (vendita di piante in collaborazione con Standa ed Euromercato). Anche della UIC (Unione Italiana Ciechi) non c’è traccia salvo una pubblicità giocata sul tema dei campionati mondiali di calcio. Recentemente si è mossa l’ANMIC (Associazione Nazionale Mutilati Invalidi Civili) con uno spot televisivo (… soffitta in penombra… un uomo mummia che si toglie alcune bende che coprono le sue protesi), mentre sulla rivista della LIMIC (Lega Italiana Mutilati Invalidi Civili) è apparsa in prima pagina, a evidente scopo promozionale, una amena rubrichetta tenuta da Raffaella Carrà che dialoga del più e del meno con lettori. In generale queste poche iniziative sembrano essere di efficacia a volte limitata perché condotte con episodicità e anche perché, non essendo giocate sulla raccolta di fondi (alcune campagne di questo tipo hanno raccolto anche cifre attorno ai cinque miliardi), l’incidenza qualitativa del messaggio è sconosciuta dato che non si hanno notizie di verifiche strutturate.
La seconda "generazione" di associazioni, quelle nate negli anni 60-70 attorno a patologie meglio definite (si pensi come termini"spastici" e "subnormali", AIAS e ANFFAS, siano quantomai generici e omnicomprensivi), sono molto più avvezze all’uso delle pubblicità progresso. Le inserzioni di queste associazioni si trovano con regolarità sulle pagine dei nostri settimanali. Associazioni come la UILDM (Unione Italiana Lotta Distrofia Muscolare), l’AISM (Associazione Italiana Sclerosi Multipla), l’AICE (Associazione Italiana Contro l’Epilessia), possono spendere nei loro messaggi il dato medico contenuto nella loro sigla. Le patologie rappresentate da queste associazioni sono malattie (degenerative, neuromuscolari) e quindi il messaggio pubblicitario richiama i concetti di possibile cura e possibile guarigione, a cui corrisponde quindi una immediata utilità e positività nel finanziare le attività di ricerca. UILDM e AISM, tramite personaggi noti legati a queste due associazioni (Enzo Ferrari, il cui figlio Dino morì a causa della distrofia muscolare, e Rita Levi Montalcini, presidente AISM), hanno precorso in un
certo senso l’uso dei cosiddetti "testimonial", ovvero di personaggi noti che legano la loro immagine alle campagne promozionali. Troviamo così sulle pagine dei giornali Enrica Bonaccorti per l’AISM, Renzo Arbore per la Lega del filo d’oro, Ornella Vanoni per l’ASTRI e più recentemente Luciano Pavarotti per una associazione modenese. Tra i testimonial anche Enzo Biagi, firmatario nel 1989 di una lettera circolare, inviata a casa di molte famiglie italiane a cura dell’ASM (Associazione Studio Malformazioni) , dai contenuti a volte discutibili (… infelicità che si trasforma in tragedia. ..esperienza di dolore. . .dare una mano a milioni di infelici… strappare alla natura un’altra fonte di pena…). Molto meglio le successive iniziative dell’ASM tramite pubblicità progresso.
Tra tutte le iniziative di queste associazioni mi sembra che la migliore sia quella della AIP (associazione italiana paraplegici) della Lombardia che ha un gustoso senso del paradosso ("Facciamo di tutto per non avere associati") e… una tazza di the al posto giusto. Misurate e senza "scivoloni" le pubblicità progresso della UILDM e dell’AISM.

LA TERZA GENERAZIONE

Con le associazioni nate a cavallo tra gli anni ’80 e ’90 si assiste ad un vero e proprio boom delle iniziative promozionali. Queste associazioni sono promosse generalmente all’interno del mondo medico (ospedali, centri di ricerca e riabilitazione), coinvolgendo in alcuni casi anche i genitori di persone in cura o ricoverate presso queste strutture. La lista è motto lunga: ALT (trombosi), ITACA (terapia intensiva), ARIN (neuroricerca), AIL (leucemie), APRIN (malattie neurologiche), FOREP (epilessia)…
Quasi tutte queste pubblicità richiedono fondi e sono ideate e pubblicate gratuitamente. La ricaduta culturale è spesso in termini di ulteriore frammentazione del mondo dell’handicap e della malattia e in una visione del tema giocata su coordinate essenzialmente sanitaria.
Messaggi basati su toni sociali e culturali, come la campagna della Lega per il Diritto al Lavoro degli Handicappati sui quotidiani o lo spot televisivo con Pierangelo Bertoli (…incidente di moto.. cabina del telefono inaccessibile), sono stati tentati, ma non essendo immediatamente legati a sentimenti primari, come quelli evocati dal binomi vita/morte, dolore/felicità, salute/malattia, hanno minore presa richiedendo una maggiore capacità di elaborazione.
Tra le pubblicità di taglio medico un caso a parte è quello dell’ARIN che, seppur le iniziative più recenti siano nettamente migliorate, nella seconda parte degli anni ’80 ha usato delle pubblicità decisamente censurabili in cui si passava da una informazione scientifica un po’ approssimativa (cos’è la "paralisi spastica"?!), a un grossolano tentativo di accodarsi alle sensibilità ecologiche (…vent’anni fa chi aveva il morbo di Parkinson moriva… e moriva anche il falco reale o la foca monaca e si lasciava che i cavalli di San Marco si sbriciolassero), ad una logica semiterroristica del "ce ne è per tutti" (le malattie del ricambio colpiscono nel primo anno di vita… la sclerosi dai 15 a 30… la trombosi dopo
50… la demenza senile negli ultimi anni…).
Quest’ultima logica è usata anche in altre pubblicità come nel caso dello slogan "Nessuno è escluso" (Associazione Ricerca sul Cancro), nella domanda "…e se fosse tuo figlio?" (Associazione De Marchi per le leucemie) e perfino nella pubblicità di una assicurazione (SAI) in cui compare un giovane padre sorretto da stampelle che guarda il figlio con sguardo triste e interrogativo. "Quanto vale un uomo che non può più correre?" recita lo slogan. Non c’è bisogno di commenti.

LA PUBBLICITÀ VERA E PROPRIA TRA SOCIALE ED ECOLOGICO

Ad alcune pubblicità commerciali storiche che da anni siamo abituati a vedere sulla stampa, come quelle degli apparecchi acustici (AMPLIFON, MAICO), negli ultimi anni si sono aggiunte, soprattutto nei settimanali, anche numerose ditte di ausili per il superamento delle barriere architettoniche (elevatori, montascale), così come fecero una apparizione nel settore dell’handicap e della malattia anche i detersivi, verso la fine degli anni ’80.
I detersivi, oltre a lavare i panni, lavarono anche molte coscienze con due operazioni molto pubblicizzate. Cominciò DASH con Missione bontà (ricordate? Celentano, la scuola per i negretti, la famosa vignetta dell’Italia che con una mano dash e con l’altra riprende); seguì DIXAN sfruttando come testomonial Maria Pia Fanfani, presidente della Croce Rossa. Poi, una volta eliminati i fosfati dalla loro composizione chimica, i detersivi si sono rifatti in parte l’immagine, offuscata nell’inconscio ecologico degli italiani, e non se ne è saputo più niente anche perché adesso i detersivi non nascono più negli stabilimenti chimici ma nei laghi di montagna (ATLAS) e nel mare popolato dai delfini (SURF).
E questa altalena tra sociale ed ecologico deve essere proprio efficace se ancora oggi rappresenta il terreno ideale per strategie culturali e promozionali attraverso cui consolidare ed affermare alcune tematiche del settore handicap venute recentemente alla ribalta.
Basta pensare al tema delle barriere architettoniche e degli ausili tecnologici e ristrutturazioni edilizie per il loro superamento. Le tantissime promozioni che si sono fatte su questo tema (articoli, convegni, guide alla accessibilità, mostre) non sarebbero state possibili se quello delle barriere architettoniche non fosse
stato il tema di confine tra sociale ed ecologico, sfruttando quindi le caratteristiche di attualità e promozionali di quest’ultimo. Ed è in questo senso che capita sempre più spesso di imbattersi in convegni che in realtà sono piccole fiere campionarie sotto mentite spoglie, dove l’importante è "vedere che aria tira" piuttosto che ascoltare i relatori che si avvicendano in rapidissima successione sul palco (in un convegno delta primavera del 1991, ne abbiamo contati 18 in tre ore).
Sempre nel solco di quanto detto sopra è interessante citare la parabola della rivista ANCHE NOI che si occupa di tematiche connesse all’handicap e agli anziani. Solitamente sono le riviste delle associazioni ad ospitare le pubblicità di ausili e tecnologie per l’autonomia domestica e la mobilità; in questo caso capita l’inverso ed è una rivista che si occupa di arredamento (Rassegna bagno cucina) che promuove questa iniziativa e ospita i primi due numeri di ANCHE NOI al proprio interno.

I PARTITI

Dato che tra pochi mesi si va a votare, è bene tenere aperti gli occhi su come i Partiti useranno le corde della solidarietà nelle toro campagne. Come concilieranno tagli alle spese sociali e volontariato?
Andando a rovistare nell’archivio dell’Osservatorio la fortuna ci è stata diplomaticamente amica e così abbiamo trovato materiale relativo alla DC, al PSI e al PCI (ora PDS).
Di tipo classico e con toni abbastanza scontati le uscite di DC e PCI (DC: politiche ’87, campagna elettorale dell’On. Parisciani, in AVVENIRE del 12.6.87. PCI:
elezioni 1987, Depliant elettorale della Federazione di Napoli).
Molto più interessanti sono le pubblicità elettorali dell’onorevote Piro del PSI che opera senz’altro una vera rivoluzione in termmi di linguaggi mixando opportunamente note politiche, etiche, musicali, poetiche.

TRA RIFIUTI E RIFIUTATI IL PASSO E’ BREVE

Uno strumento particolare, che ha risvotti in termmi di ricaduta culturale, sono i sacchetti per la raccolta di carta e abiti usati che alcune, sedicenti, associazioni distribuiscono nelle cassette della posta dei condomini di varie città. Qui i toni sono veramente bassi e così troviamo associazioni che hanno come stemma due stampelle incrociate, sacchetti in cui barboni e handicappati solidarizzano, motti del tipo "alzati e cammina" e, anche qui, accenni di tipo ecologico "…il riciclaggio del materiale è un contributo alla economia del paese". Stranamente la maggior parte di queste associazioni hanno sede nei dintorni di Prato (Firenze), nota capitale europea del riciclaggio degli stracci. Le sigle sono varie: ADIC, UNMC, AIAMIC per il settore invalidi, CALCIT, NOI E IL CANCRO per il settore tumori; troviamo anche però la LEGA PER LA DIFESA DEL CANE, L’AMBASCIATA DELLA REPUBBLICA CENTRAFRICANA e altri.
Certamente di tono diverso, ma come i sacchetti giocati su immagini un po’ datate, sono depliant della SPAM (Solo Pittori Artisti Mutilati) che da trent’anni arrivano per posta a Natale, corredati da biglietti di auguri su cui sono riprodotti quadri rigorosamente dipinti con la bocca o con i piedi.

IL FILO SI FA SOTTILE, SE NE PERDONO LE TRACCE

Siamo passati dalle pubblicità progresso ai partiti, dai sacchetti per gli stracci ai pittori mutilati. Il "filo" della promozione e pubblicitario si fa sottile e incerto, a volte si biforca, prende altre strade, entra ed esce dall’handicap incrociando temi e sentimenti diversi. E ancora potremmo seguire fili che ci portano ai talk show pieni di handicappati che dicono a volte cose intelligenti e a volte amene banalità, ai film come "Rain man" o "II mio piede sinistro" e alle relative promozioni, o ancora, in maniera più casereccia, all’assessore di una grande città italiana che inserisce nei "piani handicap" del comune gare di pentolaccia e serate conviviali. Gli esempi potrebbero essere ancora tanti, mentre altri attori come il sindacato e il volontariato (Superman, occhio alla kryptonite!!!), si aggiungono sulla scena assieme ad associazioni, ditte, partiti, straccivendoli.
Come interpretare tutto questo? Come viverle, senza negarle, le contraddizioni che questi anni ’90 ci portano quando cerchiamo di ragionare attorno a termini come beneficenza e promozione? Credo si possa affermare che questi due termini sono senz’altro collegati, per certi versi sovrapponibili, ma non sono la stessa cosa, l’uno non è solo la riedizione ammodernata dell’altro.
Tutto il viaggio percorso, tutti i fili seguiti dove possono portarci? Ad una critica decisa e inappellabile alla logica della beneficenza? Ad un sano realismo? Ad una via di mezzo che tenga conto di motivazioni etiche e culturali ma abbia anche buoni occhi per vedere tagli alle spese sociali e i perché certe leggi passino (volontariato, cooperazione) e altre no (associazionismo, obiezione di coscienza)? Ad una infinita disponibilità nelle relazioni interpersonali per andare "oltre" al soldo e parlare, ascoltare, incontrare, spiegare?
Parlare di sponsor, di beneficenza, significa tener conto dei cambiamenti culturali avvenuti ed evitare di credere che la beneficenza abiti solo nei sottoscala delle parrocchie.
Se beneficenza è un impatto puramente emotivo con le cose e gli avvenimenti ed esaurisce nel denaro l’incontro tra le persone, allora di beneficenze ce ne sono tante. Quella delle patronesse per i mutilatini, quella degli ecologi con sette magliette col panda e venti adesivi, quella delta rivoluzionaria che beve solo caffè del Nicaragua… Forse una delle strade percorribili è quella di rendersi conto che è necessario ripensare il termine beneficenza e le dimensioni che esso sottende, per dare nuovi linguaggi, nuove logiche, nuove piste di decollo alle speranze di sempre. Speranza di giustizia sociale, di rispetto delle persone, di solidarietà, di diritti, e di supporti concreti in termini di servizi, formazione e informazione per tutto questo.

Solidarietà in vendita

Farsi conoscere, sensibilizzare l’opinione pubblica su un tema particolare, raccogliere fondi per promuovere le proprie attività; sono questi i motivi principali che spingono le associazioni operanti nel sociale ad affidarsi ai messaggi pubblicitari. E i risultati, in termini di popolarità e di soldi, non tardano ad arrivare.E’ sempre più facile scorgere, accanto alle pubblicità delle macchine e dei detersivi, anche quelle che si riferiscono a temi sociali; le campagne pubblicitarie televisive targate "Pubblicità Progresso" hanno raggiunto dimensioni notevoli e sono conosciute dalla maggioranza degli italiani.
I motivi, i contenuti e gli stili dei messaggi pubblicitari sono diversi da associazione ad associazione e l’unico comune denominatore è la consapevolezza che, in una società come la nostra, è molto utile anche per un discorso di tipo sociale e solidaristico ricorrere alla pubblicità e porsi "quasi" come un prodotto commerciale pur mantenendo caratteristiche proprie.

ARBORE COME TESTIMONE

C’è chi lo fa per procurarsi fondi, come nel caso della Lega del Filo d’Oro, l’associazione che si occupa della riabilitazione dei pluriminorati sensoriali. Hanno trovato un testimonial eccezionale in Renzo Arbore che compare accanto ad una bambina sordo-cieca spiegandone le condizioni. Accanto ad una campagna di sensibilizzazione verso una condizione di emarginazione sconosciuta ai più (almeno prima della campagna pubblicitaria), l’intento principale rimane quello della raccolta dei fondi. E i risultati non si sono fatti attendere; dice Rossano Bartoli membro della Lega: "La nostra associazione era conosciuta da poche persone e nel giro di 6 – 7 anni di promozione siamo oramai conosciuti in tutta Italia; per quanto riguarda i finanziamenti con la campagna di Renzo Arbore abbiamo raccolto qualche miliardo di lire".
La prima campagna pubblicitaria aveva come protagonista Alberto, un disabile conosciuto dal pubblico per la sua apparizione alla trasmissione "Buona Domenica" di Maurizio Costanzo. Ma l’utilizzo di un personaggio famoso rafforza un messaggio pubblicitario; "bisogna essere realisti il più possibile – afferma Rossano Bartoli – con un testimonial di questo calibro il riscontro è stato senza dubbio maggiore".
Per quanto riguarda lo stile "volevamo fare qualcosa che prendesse a livello emotivo senza pero scadere nel pietistico, né diventare aggressivi: volevamo raccontare una storia vera cercando di essere semplicemente realisti". Recentemente l’A.I.C.E. (Associazione Italiana Contro l’Epilessia) ha promosso una campagna pubblicitaria per sensibilizzare l’opinione pubblica su questa malattia e anche per far conoscere le attività della stessa associazione: "con questa iniziativa non cerchiamo soldi, né volontari – dice Sandra Malaspina, responsabile dell’A.I.C.E. – la nostra vuol essere solo una pubblicità informativa, dato che la conoscenza sull’epilessia è bassa; in secondo luogo vuol essere anche una promozione per la nostra associazione".
Oltretutto queste campagne non costano nulla; gratuitamente si prestano i testimonial, gratuitamente si offrono le agenzie pubblicitarie che poi realizzano concretamente il messaggio e gratuiti sono infine gli spazi pubblicitari offerti dai mass media. Di solito questi spazi vengono concessi solo nei mesi di gennaio e febbraio, quando il mercato degli inserzionisti registra un forte restringimento dopo l’abbuffata pubblicitaria natalizia.

GLI SPOT PREVENTIVI

"Una campagna che mira a sensibilizzare il problema delle malformazioni e a prevenirlo" così Antonella Sacchetti, dell’ufficio stampa dell’ASM (Associazione Italiana Studio Malformazioni), definisce le pubblicità che compaiono in questi giorni un po’ dappertutto. Due mani femminili congiunte formano una specie di nido dove sono posate due scarpine da neonato, una di lana rosa l’altra azzurra e sotto una scritta recita: "maschio o femmina l’importante è che sia sano". Qui l’informazione pubblicitaria insiste particolarmente sulla prevenzione, mentre in precedenza l’ASM aveva scelto un messaggio differente: "La nostra precedente campagna pubblicitaria aveva come protagonista una bambola con il braccio staccato – spiega Ruben Abbatista responsabile dell’associazione – ad un certo punto ci è sembrata che desse un’idea troppo drammatica e negativa del problema, noi volevamo dare invece un messaggio di speranza, che ci ponesse prima del problema, per prevenire il dramma".
Di solito all’agenzia pubblicitaria si dà solo un’indicazione come questa, che dopo è libera di interpretare come vuole. Sia nella prima che nella seconda campagna pubblicitaria il riscontro è stato enorme e sono arrivate all’associazione numerose telefonate e richieste d’informazione.
Improntata alla prevenzione è anche la campagna promossa dall’Associazione Paraplegici. La pubblicità presenta due fotografie, nella prima una persona sta facendo un’attività pericolosa, nell’altra la stessa persona è seduta su una carrozzina; sopra campeggia una scritta: "E’ meglio riflettere prima che dopo"
"A noi interessava mandare un messaggio di prevenzione alle persone – spiega Gabriella Furlani dell’Associazione Paraplegici – aprire loro gli occhi in un modo tranquillo". Non è facile avere un riscontro con pubblicità di questo tipo anche se dopo la campagna l’associazione è stata subissata di telefonate soprattutto di scuole o altre persone che volevano diventare soci. Un elemento caratterizza tutte le pubblicità che abbiamo esaminato: da tutti viene rifiutato un messaggio pubblicitario di tipo pietistico o commovente o che voglia informare con la paura. Ma questa scelta di stile è propria solo delle associazioni più moderne, che utilizzano la macchina pubblicitaria con una certa consapevolezza e in tutte le sue potenzialità. La stessa cosa non si può dire per tutti ed è ancora possibile imbattersi in pubblicità che puntano ancora a commuovere, a chiedere carità e aiuto per i "poveretti".

Pubblicità… a muso duro

“La pubblicità va presa con le molle perché si sovrappone a culture preesistenti e si rischia di essere fraintesi”. Intervista a Pierangelo Bertoli sul rapporto tra pubblicità e handicap.Pierangelo Bertoli, cantautore modenese, poliomelitico dall’età di undici mesi, è stato il protagonista di una campagna realizzata da "Pubblicità Progresso". Questa la scena: Bertoli è testimone di un incidente motociclistico. Cerca di prestare soccorso telefonando da una cabina. Inutilmente: le barriere architettoniche glielo impediscono e la sua mano si ferma a pochi centimetri dalla cornetta.
D. Come mai ha collaborato a questa pubblicità?
R. Sono probabilmente l’handicappato più famoso d’Italia; perciò mi ha contattato un’associazione di Milano che riteneva che la mia persona andasse bene.
La cosa mi è molto piaciuta; a dir la verità io ero per un finale molto più violento, avrei buttato giù la cabina telefonica ma dal punto di vista legale saremmo andati incontro a delle noie.
D. Cose ne pensa in generale delle pubblicità che hanno come protagonista un handicappato?
R. Io ho fatto solo quella pubblicità; non è facile fare bene questo tipo di cose, in modo che non sia solo pietistico e che quindi ottenga l’effetto opposto a quello desiderato.
D. Ma secondo lei queste pubblicità servono a cambiare certi atteggiamenti, a modificare delle situazioni?
R. Sì, servono in generale; questi messaggi penetrano nella testa della gente ma purtroppo vengono dimenticati in fretta e perciò devono essere ripetuti massicciamente.
La pubblicità va presa con le molle perché si sovrappone a culture preesistenti, si rischia di essere fraintesi. C’è un grosso lavoro da fare perché la sensibilizzazione non sia solo pietismo che rimane fine a se stesso: bisogna fare cose pensate bene e campagne di lunga durata.
D. Non è pericoloso usare lo stesso mezzo, la pubblicità, che propone determinati modelli di uomo e di donne e determinati schemi mentali ben lontani dalla realtà del disabile?
R. E’ vero, ma la gente poi sa che tutto quello che si vede è falso, che sono tutte favolette e che nella realtà non esistono.
D. Non ha mai fatto pubblicità per altro, come un sapone o un dentifricio?
R. No, ma la potrei fare un giorno, tutto dipende dall’oggetto da pubblicizzare e dal modo; non sono contrario alla pubblicità, sono contrario a che si prenda in giro il pubblico.

Ciak, c’è l’handicap in TV

La pubblicità non esiste solo per commercializzare beni di consumo. Strategie, marketing e mass media al servizio della comunicazione sociale: parlano due creativi."Oggi – secondo Marco Mignani della R.S.C.G. di Milano – trovare spazi gratis per questo tipo di promozione è diventata un’impresa. Non era così invece nel 1972 quando realizzammo la prima campagna in Italia a scopo sociale".
Eppure la R.S.C.G., ovvero Roux, Séguéla, Cayazac, Goudard da nomi dei fondatori (e chi conosce un minimo la storia della pubblicità saprà che si tratta di grandi nomi) non è certo l’ultima arrivata. Anzi. In Italia, dove esiste da nove anni è oggi la dodicesima agenzia del mercato con una lista-clienti che investe annualmente nei mezzi di comunicazione 140 miliardi. L’agenzia è inoltre il primo gruppo europeo ed il settimo gruppo mondiale.
Ma facciamo qualche nome evocatore: Citroen, Voiello, Zucchetti, Foxy, Palmera…e le dimensioni della R.S.C.G. sono subito chiare.
A fianco di questi clienti poi tre realtà sociali: Telefono Azzurro, Associazione Italiana Contro l’Epilessia, Vidas (Volontari di Assistenza Domiciliare ai malati terminali di cancro).
"Ho iniziato quasi venti anni fa – racconta Marco Mignani – con una pubblicità a favore dell’Associazione Lombarda Lotta all’Epilessia, realtà che in questi anni si è ampliata fino a divenire l’odierna Associazione Italiana Contro l’Epilessia".
In tutto sono state realizzate quindici differenti campagne sempre veicolate attraverso la stampa. Perché nessuno spot? Non è solo un problema di costi ma anche di precise strategie: "…quello dell’epilessia -dice Mignani – è un problema da meditare e non da portare in prima pagina. Ed ecco perché qui alla R.S.C.G. abbiamo scelto di utilizzare la stampa e di realizzare manifesti ad altezza d’uomo, leggibili quindi, e non poster a sei metri". Diverso il discorso per Telefono Azzurro di cui l’agenzia ha curato tutte le campagne, dalla nascita nell’87 ad oggi. "Telefono Azzurro – spiega il pubblicitario – è forte di un’onda emotiva molto vasta ed ecco che l’impressione televisiva funziona bene".

EMARGINAZIONE? DIVERSITA’? UN PRODOTTO COME GLI ALTRI

Ma non ci sono solo le grandi campagne nazionali. Grigio, rumore di traffico… indifferenza? Un foglio sgualcito cade a terra. Passano secondi che sembrano eterni. Finalmente una mano irrompe nel campo, prende il foglio, lo stende quasi accarezzandolo. C’è una donna, china su se stessa, abbandonata su una panchina…
Poi la voce fuori campo: "A Modena ci sono ottomilasettecentocinquanta persone che hanno bisogno di aiuto e centocinquantamila che potrebbero aiutarle. Basta poco per dare il sorriso ad una vita stropicciata"… La donna solleva il capo, abbozza un sorriso conteso tra la speranza e l’amarezza.
Questo lo spot che Walter Chietto dell’agenzia bolognese New Image ha realizzato lo scorso anno per la Consulta del Volontariato della città di Modena e che è stato trasmesso dalle reti locali.
Contemporaneamente è stata attivata anche la campagna stampa.
Lo scopo, sensibilizzare e coinvolgere nuove persone, è stato raggiunto se non altro in termini di interesse: molte le richieste di ulteriori informazioni sulle attività alcune delle quali si sono tradotte in aiuti e collaborazioni concrete.
"In fondo – spiega Walter Chietto – abbiamo utilizzato un concetto semplice per veicolare il nostro messaggio: ci sono poche persone che hanno bisogno di aiuto e molte che le potrebbero aiutare.
La difficoltà maggiore – prosegue il creativo – è stata quella di rivolgersi ad un target ampio (tutti possono fare opera di volontariato) e di fare riferimento ad uno stato di bisogno generalizzato: non al tossicodipendente, l’alcolista o alla persona anziana ma ad una condizione più ampia di necessità. Questo d’altra parte ci era richiesto proprio all’organizzazione della Consulta che articola le sue attività in diversi settori di intervento". II mondo della pubblicità dunque offre un’altra immagine di sé; ma c’è poi davvero tanta differenza tra lanciare sul mercato un nuovo prodotto e trasmettere un concetto di tolleranza o informare per fare prevenzione, per aiutare e trovare aiuto? Decisamente no secondo Walter Chietto: "Anche un concetto è un prodotto da vendere. Inoltre – aggiunge – sono quelle rare occasioni in cui anche noi pubblicitari ci sentiamo a posto con la coscienza perché vendiamo qualcosa in cui crediamo in modo particolare".
Dello stesso avviso Marco Mignani. "Non c’è nessuna differenza tra un prodotto e un concetto; è sempre un esercizio di intelligenza, di creatività e di buon senso.
L’unica differenza è che per prodotti commerciali, quindi con un budget, possiamo andare a colpire il target con i mezzi giusti. Nel caso di campagne sociali dove invece è tutto gratis, non possiamo sceglierci ad esempio le testate più idonee. Quindi se mettono a nostra disposizione uno spazio lo prendiamo.
L’impossibilita di dominare il media – aggiunge il creativo – implica poi un’altra ricaduta: la difficoltà a misurare i risultati nel caso di pubblicità sociale. In Italia non c’è una storia della comunicazione sociale, non esistono quindi standard e nemmeno ricerche in questo senso. Solo da poco la Presidenza del Consiglio dei Ministri chiede che ogni campagna sia affiancata da una verifica sui risultati.
Le mie campagne – prosegue – hanno funzionato e non funzionato. Il Telefono Azzurro in questi anni è esploso, ma in primo luogo perché si tratta di una organizzazione che funziona bene.
Ritengo che molte delle campagne di questo tipo che si fanno in Italia siano inutili, talvolta anche dannose. Mi riferisco ad esempio alla campagna contro la mafia di Maurizio Costanzo: è il classico messaggio non meditato".