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Autore: admin

L’individuo e il gruppo

L’individuo e il gruppo
“In una fredda giornata di inverno un gruppo di porcospini si rifugia in una grotta e per proteggersi dal freddo si stringono vicini. Ben presto

 

però sentono le spine reciproche e il dolore li costringe ad allontanarsi l’uno dall’altro. Quando poi il bisogno di riscaldarsi li porta di nuovo ad avvicinarsi si pungono di nuovo. Ripetono più volte questi tentativi, sballottati avanti e indietro tra due mali, finchè non trovano quella moderata distanza reciproca che rappresenta la migliore posizione, quella giusta distanza che consente loro di scaldarsi e nello stesso tempo di non fari male reciprocamente”.

 

(Consuelo Casula, I porcospini di Schopenhauer. Come progettare e condurre un gruppo di formazione di adulti, Milano, FrancoAngeli, 1997)

Un gioco di equilibrio
Un gruppo di lavoro non è mai dato. Occorre intenzionalmente ricercare i modi e i tempi per favorire il passaggio dal gruppo inteso come dimensione naturale dell’esistenza, al gruppo come strumento dell’operare educativo e scolastico. La costituzione di un gruppo è un percorso che passa attraverso alcune fasi dove primario è il gioco di rapporti fra la dimensione soggettiva, ciò che l’individuo porta come suo peso specifico, e la dimensione collettiva. Nella fase iniziale, di costituzione formale del gruppo, la dimensione soggettiva prevalente è l’insicurezza, data dall’essere di fronte al non conosciuto e alle richieste di cambiamento reciproco dentro cui il singolo si sente immerso. Le reazioni principali sono di natura diversa e vanno dal “superattivismo”, esemplificato dal riempire il tempo di parole, riempire lo spazio con il movimento del proprio corpo e da molte altre situazioni che spesso le figure educative descrivono nel raccontare l’inizio di un anno scolastico o di una nuova attività. Così come frequente è il richiamo a situazioni di passività, “bambini che si confondono con il muro, che non si espongono, che non parlano”. Al di là di situazioni difficili, che in alcuni casi arrivano alla patologia, è davvero frequente che molte persone reagiscano alle situazioni nuove con un atteggiamento di sospensione di ogni intervento, una sorta di strategia “passiva” per prendere confidenza e poter osservare. In questa fase iniziale di costituzione del gruppo i sentimenti e i bisogni prioritari sono individuali, le azioni fanno riferimento in maggior parte allo scambio di informazioni. Comincia poi a delinearsi una fase di identificazione con il gruppo. Questa fase è caratterizzata da un atteggiamento di apertura ai rapporti e costruzione di relazioni. Si tende a stabilire rapporti interpersonali ritenuti affidabili. Il gruppo valuta le proprie risorse umane interne: si esce dall’ ”anonimato”. E’ una fase in cui si pongono le premesse per riuscire ad essere qualcosa di più e di diverso dalla somma dei singoli, ad elaborare fondendo i propri apporti. Si parla, in effetti, del passaggio ad una vera e propria fase di fusione, in cui la dimensione soggettiva che prevale è la tensione al confronto. La natura del confronto dipende dall’andamento delle fasi precedenti: si può andare dal confronto emulativo al conflitto competitivo.Le attività possono ora fare capo anche alla valutazione e alla presa di decisione: aumenta la consapevolezza che nel momento decisionale sono in gioco i contenuti più che i rapporti. Quando l’evoluzione del percorso è scorrevole e sorretta da motivazione e strumentazione adeguate si realizza la fase di efficacia produttiva. La dimensione presente è il senso di appartenenza al gruppo percepito come centro di riferimento gratificante. L’appartenenza ha infatti come oggetto prevalente il gruppo nel suo complesso e non i rapporti personali privilegiati. In questo senso il gruppo diventa capace di produrre attività progettuali complesse.

Ogni persona è un mondo
Non esiste, quindi, un gruppo omogeneo. Un contesto di gruppo sarà percepito da chi ne fa parte come adeguato quanto più i singoli appartenenti si sentiranno rispettati e valorizzati sia per ciò che li connota come persona a tutto tondo (carattere, stili, storia…) che per l’apporto che sono in grado di dare all’elaborazione e alle nuove scoperte del gruppo. Ogni situazione di vita reale, ma vale anche per le situazioni sperimentali gestite in laboratorio, ci mette a contatto sia con l’eterogeneità dei componenti che con la loro eterocronia. Questo aspetto sembra interessante soprattutto in rapporto al profilo eterocronico della persona che ha un deficit o vive una situazione di difficoltà. Il termine eterocronia, che è stato elaborato da un gruppo di ricerca, nell’ambito della psicologia sperimentale, guidato da Renè Zazzo, non è nuovo nella storia educativa. Risale infatti alla fine del ‘700, ed è legato dapprima alle vicende del dott. Itard e dell’ ”enfant sauvage" ritrovato nei boschi dell’Aveyron, in Francia, e subito dopo alle intuizioni, tradotte poi in indicazioni operative, del dott. Seguin e al suo lavoro svolto con gli "idioti" all’interno degli istituti. E’ l’etimologia stessa della parola composita eteros cronia a suggerirne il suo significato: diversi tempi. Il concetto di eterocronia è infatti utilizzato per definirne i diversi tempi di sviluppo che esistono nella stessa persona. E’ una sottolineatura ulteriore nella concezione del gruppo come dimensione che poggia sulle specificità ed originalità di chi ne fa parte. Nella scuola ampio spazio, soprattutto nella fascia dell’obbligo, viene riservato all’accoglienza e al lavoro sulla persona. Più complesso e per certi aspetti più lacunoso, è il tentativo di coinvolgimento attivo nel percorso di appropriazione del proprio apprendimento di tutti gli allievi, anche di quelli che convivono con un deficit o esprimono forti disagi e difficoltà. Soprattutto verso questi ultimi si è indirizzata da molti anni la ricerca di strategie di individualizzazione. Il rischio di considerale come prerogativa degli allievi “difficili” è stato presente nel quadro attuale delle esperienze scolastiche. Concettualmente molto si è fatto e si va facendo per spostare l’attenzione da categorie speciali di allievi ai bisogni educativi che ogni persona in fase di apprendimento esprime in termini propri. La caratteristiche individuali dello studente (abilità, conoscenze, stili cognitivi, atteggiamenti, emozioni, stili di attribuzione) sono sicuramente un aspetto fondamentale dell’apprendimento e dello studio. Possono infatti facilitarlo o, al contrario, ostacolarlo, ma in ogni caso rendono personale e specifico il processo di elaborazione e costruzione della conoscenza, e di questo l’insegnante deve tener conto. Sembra centrale, allora, riprendere il concetto di individualizzazione e legarlo strettamente all’idea di responsabilità. Individualizzare l’apprendimento significa predisporre un contesto educativo che rende possibile il massimo di responsabilizzazione, per ogni persona coinvolta, nel disegnare il proprio percorso formativo. Facendo i conti con le proprie capacità ma anche con le aree di debolezza, con ciò che si presenta come punto di forza e ciò che invece esprime criticità e mancanza. L’individualizzazione dell’apprendimento per i bambini e le bambini disabili rifugge dall’ipotizzare strade separate dal gruppo classe, è un’ occasione per pensare in modo mirato a nuove occasioni di integrazioni, ad un modo di vivere l’integrazione nella classe e nella scuola che tenga insieme le identità differenti che questa comunità di sapere costituiscono. “Sotto questo aspetto, la grande sfida dell’integrazione oggi passa attraverso i tentativi di costruire, all’interno e all’esterno del piano educativo individualizzato, dei percorsi che rendano significativa ed efficace la permanenza dell’alunno disabile dentro il suo gruppo classe, a vantaggio dello stesso alunno, come anche a vantaggio dei suoi compagni”.

Gli strumenti del proprio apprendimento
E’ demagogia pensare di poter fornire a tutti gli allievi la possibilità di riuscita scolastica? E’ possibile procedere all’individuazione di strategie che consentano a ciascuno di raggiungere gli obiettivi proposti all’interno della comunità scolastica? Molti autori, attraverso approcci anche estremamente differenti, hanno cercato di dare risposte a queste domande sottolineando diversi aspetti e proponendo varie piste operative. Due in particolare ci sembrano offrire spunti interessanti per coniugare i differenti stili individuali dei bambini con il lavoro collettivo all’interno del gruppo classe: Philippe Merieu e Antoine De la Garanderie. Merieu, docente di pedagogia all’Università di Lione, da molti anni segue attività di sperimentazione nelle scuole e nella formazione, nel suo libro "Lavoro di gruppo e apprendimenti individuali" trasforma gli interrogativi sopra ricordati in propositi e ne fa dei punti di forza del progetto educativo, "Passaggi obbligati per poter effettivamente entrare nel dibattito pedagogico". Sempre Merieu interrogandosi sul concetto di educabilità e passando in rassegna le differenti implicazioni e gli sviluppi che tale concetto ha avuto sottolinea come "Il postulato dell’educabilità è un presupposto da rendere attuale, tiene in conto le differenze oggettive che possono presentarsi e cerca i mezzi specifici per far progredire ognuno". Il compito dell’educatore viene così ad essere quello di gestire un progetto all’interno del quale la ricerca di strumenti atti a favorire l’apprendimento si realizza nel pieno rispetto delle identità e grazie al contributo ed alla partecipazione attiva degli allievi. Il riconoscimento delle differenze individuali, la negazione del mito del gruppo omogeneo, il rispetto delle originalità di ognuno, rappresentano i nuclei centrali anche del lavoro condotto da Antoine De la Garanderie che da molti anni si occupa dell’individuazione dei fattori concorrenti nel determinare l’insuccesso scolastico. L’autore, per elaborare le sue ipotesi teoriche, è partito da un’attenta analisi dei differenti metodi di lavoro utilizzati dagli allievi, al fine di fornire a ciascuno i mezzi indispensabili affinché possano gestire in maniera consapevole il proprio capitale pedagogico e sfruttare al meglio le proprie competenze. E’ alla luce di queste riflessioni che il concetto stesso di competenza viene ripreso e si trova ad essere scomposto in una molteplicità di abilità, di saperi che hanno bisogno di trovare precisi criteri di leggibilità e trasferibilità. Può accadere però che le competenze rimangano inespresse, soffocate da proposte che non lasciano spazio per il ricorso all’esperienza personale. Il rischio può essere allora quello di produrre una frattura insanabile, di ampliare lo scarto fra le attività scolastiche ed extrascolastiche, tra gli apprendimenti curricolari e quelli legati al vissuto quotidiano. Questo può diventare penalizzante soprattutto per i bambini in difficoltà che spesso invece possiedono delle competenze insospettate. I "so fare", le abilità dei bambini, possono diventare il punto di partenza per costruire un intervento realmente centrato sull’allievo. Come De la Garanderie sottolinea "Vi sono campi in cui gli allievi che hanno difficoltà a scuola riescono particolarmente bene"; è necessario capire il perché di questa predisposizione e studiare come poter trasferire questi risultati positivi nell’ambito scolastico. Può essere utile allora partire dalle cose che piacciono di più, ad esempio gli hobby, gli sport, i giochi con gli amici e dare al bambino la possibilità di spiegare come realizza queste attività. Per fare questo è necessario porsi in una situazione di ascolto e dialogo. Il confronto permette di prendere coscienza del proprio modo di lavorare, dei punti di forza che ne derivano e offre l’opportunità di sfruttare al meglio le proprie risorse personali. Come abbiamo visto la vita di una classe offre molti spunti ed agganci per attivare un lavoro sull’identità competente, l’età degli allievi rimanda all’impiego di strumenti che di volta in volta potranno avere caratteristiche diverse, accomunati da un duplice obiettivo :
• permettere di compiere una ricognizione sulle competenze individuali in maniera generale (scuola, extra scuola, ambienti significativi) e specifica (come ci comportiamo di fronte alla risoluzione di un compito)
• permettere una esplorazione delle condizioni per la competenza (tempi, spazi, luoghi, materiali, condizioni organizzative, motivazioni) aprendo la strada all’interrogazione delle procedure.
L’insegnamento influisce sulla qualità del processo di apprendimento quando mette in condizione l’identità competente da un lato di riconoscersi stili e procedure, dall’altro di riconoscere altre procedure e stili e di confrontarsi con essi, ampliando in tal modo le possibilità di scelta.

Riferimenti bibliografici
P. Perticari, Insegnamento apprendimento. Reciprocità e sorpresa a scuola nel vis à vis quotidiano, Milano, Anabasi, 1995
V. Severi, Insegnamento e apprendimento in difficoltà. Ricerca e azione educativa di fronte all’insuccesso scolastico, Torino, UTET, 1995 (M. G. Berlini, A. Canevaro (a cura), Potenziali individuali di apprendimento. Le connessioni, le differenze, la ricerca partecipata, Scandicci (Fi), La Nuova Italia, 1996)

La lettura
I sentieri della comprensione
Un bambino di nome Antonio inizia a raccontare quello che ha fatto domenica scorsa, descrivendo l’immagine della partenza per una gita. Una bambina di nome Giulia racconta la sua domenica partendo dall’ora della sveglia, e procede tenendo sempre il riferimento dell’orario. I racconti sono disinvolti e felici. Un terzo bambino, che si chiama Gino, inizia la narrazione con l’evocazione della propria casa in un giorno di festa, ma il racconto è stentato, difficile da seguire sia per lui che per chi ascolta.

L’impressione è che Gino utilizzi qualcosa di non suo, di preso a prestito e di non ben padroneggiato.
Atonie De La Garanderie ha svolto ricerche sullo stile di quella che ha chiamato la “gestione mentale”, ovvero i modi di organizzare i nostri argomenti sulla base di immagini mentali evocate, oppure sulla base di concetti richiamati da parole, con un filo di memoria che ha chiamato “fonetica”, basata sull’utilizzo di parole evocate. E Gino? Forse Gino è l’esempio di chi non pensa di poter compiere una scelta, ritenendo di dover aderire a uno stile, forse ritenuto “naturale”, Perché Gino ha questa credenza? Forse si accosta più facilmente, o almeno così gli pare, ad Antonio, perché è un bambino come lui, perché sono amici, e perché vede che ha successo, perché è stato incoraggiato a prenderlo ad esempio, e per molte altre piccole ragioni.
Quasi sempre, abbiamo l’idea che uno stile sia “naturale”, e che il nostro compito sia realizzarlo. E qualche insegnante parte proprio da questa credenza, trasmettendola a chi impara. Involontariamente, può creare la stessa difficoltà in cui si dibatte Gino. Sarebbe invece importante capire che non c’è uno stile naturale, ma vi sono più stili, e che è utile cercare di capire quale sia quello più consono al singolo soggetto.
Antonie De La Garanderie indica quattro parametri sui quali l’evocazione, iconica o fonetica, può esercitarsi: la vita quotidiana, l’automatismo, ovvero ciò che facciamo senza bisogno di fermarci a riflettere prima, la logica e l’immaginario. In questi quattro parametri possiamo ritrovare l’uno o l’altro stile di gestione mentale.
Il compito di chi educa insegnando non può che partire dalla comprensione del proprio stile, che di conseguenza non sarà né vissuto né presentato come “lo” stile, assoluto perché naturale. Quindi chi insegna potrà esplorare insieme a chi impara lo stile di ciascuno, cercando di capire insieme come ciascuno compia la propria gestione mentale. Il resto sarà frutto del percorso del soggetto, e non certo di un travaso compiuto da altri e tanto meno da chi insegna.
Sembra molto appropriata, come chiusura di questa breve nota, una poesia, molto conosciuta, – e che a volte suona un tantino retorica, ma non in questo caso – di G.K. Gibran, dal titolo Parole sussurrate:

“Nessuno può rivelarci nulla,
se non ciò che già si trova
in stato di dormiveglia
nell’albeggiare della vostra conoscenza.
L’insegnante che avanza nell’ombra del tempio,
fra i suoi discepoli,
non trasmette la sua sapienza,
ma piuttosto la sua fede e la sua amorevolezza.
Se è veramente saggio, non vi introdurrà
nella casa della sapienza
ma vi accompagnerà
alla soglia della vostra mente.”

(A. Canevaro, Viaggio in terza classe, Centro Documentazione Educativa – Centro Documentazione Handicap del Comune di Modena, anno V, n.3, settembre 2000)

La comunicazione delle cattive notizie

La tematica della comunicazione al paziente è oggi particolarmente attuale e riveste sempre più un ruolo cruciale all’interno della pratica medica e della relazione medico-paziente. Questo tanto più nel caso in cui il compito del clinico sia comunicare informazioni cosiddette “infauste”, altrimenti conosciute con l’appellativo di cattive notizie. Le seguenti riflessioni nascono a partire da un’esperienza condivisa all’interno di un Corso di Formazione alla Comunicazione delle Cattive notizie, promosso all’interno dell’Azienda Ospedaliera S. Orsola-Malpighi, giunto nel 2004 alla sua seconda edizione. Comunicare cattive notizie rappresenta uno dei compiti più difficili della professione medica. Esso richiede sia conoscenze tecniche da parte del medico, sia la padronanza di modalità comunicative che sappiano adeguarsi ai diversi tipi di pazienti e alle diverse situazioni di cui essi sono portatori. Le competenze psicologiche costituiscono un attributo importante delle professioni d’aiuto ed è noto l’impatto che il tipo di relazione può giocare tanto nella cura del malato quanto nel decorso del trattamento. Dati dalla letteratura dimostrano che una buona capacità comunicativa del medico è in grado di migliorare sia l’aderenza del paziente alle cure, sia il decorso della malattia. Questi ragionamenti sembrano ovvi e banali, ma diventano cruciali in particolare nel momento in cui la comunicazione al paziente diventa il compito principale del clinico e quando la comunicazione si fa portatrice di notizie cosiddette “cattive”. In ogni modo, riferendoci strettamente al problema della comunicazione delle cattive notizie, è bene precisare che: 1. la comunicazione della cattiva notizia non coincide necessariamente o esclusivamente con la cosiddetta “diagnosi infausta”, ovverosia senza speranza di vita; 2. lo spettro delle cattive notizie che il personale medico si trova a comunicare è molto ampio e include tutte quelle situazioni che, pur non pronosticando il decesso del malato, ne possono alterare drammaticamente le prospettive di vita, con effetti peggiorativi della vita sia per il malato che per i suoi congiunti. Da quanto detto risulta evidente come la formazione del medico alla comunicazione e alla relazione con il paziente sia un aspetto fondamentale di questa identità professionale. Tale formazione può essere svolta, sia in ambito universitario, durante la laurea, sia successivamente, come miglioramento delle capacità relazionali. Quanto attualmente proposto sembra però non essere sufficiente e molti medici e studenti condividono la necessità di una maggiore formazione proprio in questo campo, di per sè difficoltoso e complesso. Comunicare con il paziente significa infatti relazionarsi contestualmente con un ampio spettro di variabili e comprendere (o almeno tenere in considerazione) i contenuti emotivi che della relazione fanno parte. Ciò non significa che il medico debba trasformarsi in psicologo, ma sottolinea ancora una volta l’importanza di saper “maneggiare” alcuni fondamenti psicologici alla base della comunicazione e della relazione terapeutica con il paziente. Di sicuro possiamo affermare che una buona comunicazione passa attraverso una buona relazione e che è importante come l’informazione viene presentata, compresa e elaborata. È in questo contesto, in particolar modo, che disciplina medica e psicologica sembrano essere particolarmente interconnesse. Ed è in questo ambito che si colloca il corso di formazione alla comunicazione, punto di partenza delle riflessioni esposte in queste pagine. Il tentativo che si è fatto è stato quello di descrivere alcuni degli elementi che giocano un ruolo primario nella comunicazione, sia per come essi sono considerati dalla letteratura, sia per come essi sono emersi e sono stati discussi dai medici che hanno preso parte alla nostra formazione.

La complessità della comunicazione

Vogliamo considerare qui la complessità, dal punto di vista del medico, che caratterizza la comunicazione con il paziente e in particolar modo la comunicazione delle cattive notizie. Si tratta di un compito certamente articolato che viene influenzato da diversi fattori fra i quali il sistema organizzativo che contraddistingue l’istituzione ospedaliera, le rappresentazioni mentali degli attori coinvolti (medico e paziente) e gli automatismi relazionali e rappresentazionali dei medesimi. Abbiamo usato questi termini poiché ciascuno contiene un significato specifico e dà ragione della complessità del fenomeno in sé. Il momento della cattiva notizia mette in gioco molte variabili e può essere visto come una specie di “precipitato relazionale”; una situazione in cui “vengono al pettine”, diremmo in un gergo, “i nodi” di situazioni che, in realtà, sono già state impostate attraverso le vicende precedenti. Per vicende precedenti intendiamo sia la possibile storia della relazione tra quel medico e quel paziente, sia il sistema di relazioni che non si limita alla sola diade medico-paziente ma include un contesto fatto di molti elementi, elencati di seguito. La nostra descrizione intende inoltre mostrare gli aspetti trasversali di una identità, quella del medico appunto, troppo spesso “ridotta” a un solo significato e a una sola funzione (medico come colui che guarisce), rischiando di generare distorsioni anche nel sistema relazionale tra i medici stessi. I principali elementi che influenzano, secondo la nostra prospettiva, la relazione con il paziente e quindi la comunicazione stessa sono: Gli elementi strutturali, istituzionali e culturali Rappresentano per così dire “la cornice di riferimento” all’interno della quale la relazione si colloca. È uno schema dichiarato: la cura implica un’interpretazione diversa e specifica, compatibilmente con i significati e i valori culturali della società in cui si realizza. Intendiamo con questo non solo elementi di tipo concreto, ma anche elementi di soggettività legati al sistema di rappresentazioni che in ogni individuo si formano per quanto concerne la cura, in relazione all’istituzione, al suo ruolo e al ruolo delle figure che ne fanno parte. Questo appare particolarmente attuale quando il medico deve “scontrarsi” con pazienti provenienti da culture diverse, contraddistinte da diversi rapporti fra utente e istituzione, fra medico e istituzione ospedaliera e soprattutto fra medico e paziente. Risulta necessario in questo caso calarsi nei modi di pensare e di vivere la malattia dei diversi soggetti. Senza questo sforzo non è possibile, come riportano i medici, “creare un ponte comunicativo con il paziente”. Spesso inoltre si lavora a compartimenti stagni, senza la conoscenza di quello che gli altri in realtà fanno e di come affrontano situazioni problematiche simili. “Un sentimento largamente condiviso è il senso di solitudine che si vive in relazione alle diverse unità operative all’interno della stessa organizzazione e nei confronti dei livelli più alti delle gerarchie”. Questo genera e aumenta il senso di anomia e può creare difficoltà nella gestione multidisciplinare del paziente. Il bisogno di base è in questo caso quello di riconoscersi in stretto rapporto coordinato con altre responsabilità istituzionali e organizzative. Emerge in questo caso l’esigenza di una forma di “responsabilità compartecipata” e l’équipe di riferimento diventa qui fondamentale. Oltre che al supporto tecnico e gestionale, la gestione in équipe può infatti facilitare i passaggi per la presa in carico del paziente, creando un ponte di collegamento fra tutte le figure professionali coinvolte, contraddistinte, a loro volta, da differenti tipologie di modelli comunicativi. Il sistema delle rappresentazioni mentali Si intende con questa espressione l’idea che ciascuno si fa degli altri, ovverosia una costruzione mentale in cui si concentrano elementi di conoscenza precedente, aspettative e motivazioni. L’idea che il paziente si fa di quel medico e di quell’ospedale è influenzata dalle esperienze pregresse del paziente in relazione a quel medico o quella istituzione, ed è influenzata anch’essa dagli elementi culturali che caratterizzano la sua vita. La stessa cosa vale per il medico. Nella categoria delle rappresentazioni mentali includiamo quindi anche quegli elementi pregiudiziali che spesso rendono spinose le relazioni e, quindi, di conseguenza, anche la comunicazione al malato. Tali rappresentazioni contribuiscono a produrre quelli che chiamiamo automatismi relazionali e costituiscono il nostro bagaglio culturale di riferimento. Automatismi relazionali e rappresentazionali Nella costruzione della nostra personalità e funzionamento mentale acquisiamo modelli di comportamento, che mettiamo in atto quando ci relazioniamo con gli altri come forme spontanee e riflesse. La consapevolezza di questi automatismi è importante. Essi vanno riconosciuti affinché il nostro modo di relazionarci non sia la semplice applicazione o replicazione di modi acquisiti e consolidati, ma il frutto di quanto si sviluppa nella relazione con quel particolare paziente, nei confronti del quale il modo di comunicare e i tempi del medico dovrebbero adeguarsi. Il sistema organizzativo Ci riferiamo all’organizzazione e alla gestione che caratterizzano all’interno dell’istituzione ospedaliera la cura e il trattamento e all’impatto che essi hanno sulla relazione/comunicazione con il paziente. Questo punto è particolarmente associato alla qualità del servizio erogato e sarà ripreso in seguito. Tutti gli elementi descritti sopra si calano in un sistema di relazioni che dai medesimi è fortemente influenzato e determinato. Ognuna di esse mostra un aspetto delle varie sfaccettature che entrano in gioco nella comunicazione delle cattive notizie.

La complessità relazionale

Secondo quanto emerso dagli incontri fatti con i medici questa complessità relazionale può essere così riassunta: Relazione del medico con: – se stesso – con il paziente – con i parenti – con l’organizzazione – con i colleghi e altro personale Tale schema è il risultato del tentativo di sistematizzare i dati provenienti dal lavoro di gruppo svolto con i medici che hanno partecipato in forma volontaria al nostro percorso di formazione ed è illustrato in maniera più dettagliata all’interno di un documento aziendale “La comunicazione di cattive notizie”, ospedale S. Orsola-Malpighi. Questi elementi sono fra loro interconnessi e hanno un peso diverso a seconda delle varie situazioni.

Relazione fra il medico e se stesso La storia personale di ciascuno e l’elaborazione psicologica che di questa storia abbiamo fatto costituiscono lo strumentario di base con cui comprendiamo le relazioni e interagiamo con il resto del mondo. Su questa base concettuale diventa comprensibile l’estrema utilità di saper distinguere, nelle risonanze emotive particolarmente coinvolgenti, quelle che corrispondono a parti legate alla propria esperienza da quelle di competenza del paziente. Può capitare, infatti, che un proprio modo di vivere situazioni familiari o amicali rischi di indebolire il confine tra il personale e il professionale e finisca per interferire nella relazione medico-paziente. Alcuni medici ad esempio riferiscono di sentirsi in difficoltà quando la situazione rispecchia eventi personali vissuti o ancora in corso e non totalmente superati. Spesso al medico è attribuita una capacità sciamanica e egli è visto da parte dei pazienti come il “padrone della vita e della morte”, dal quale molti si aspettano miracoli. In alcuni casi i medici si rendono conto di non essere stati in grado di soddisfare le attese dei pazienti e questo può creare o aumentare il senso di solitudine. “Abbiamo fatto i medici per curare, e il dare la cattiva notizia ci fa sentire impotenti e rappresenta concretamente il fallimento della nostra disciplina”. È così che si rinforza un senso di impotenza di fronte alla malattia e il senso di precarietà e di frustrazione per non essere riusciti a prevedere o a fronteggiare un evento come la morte. Un vissuto comune in questo caso sembra infatti derivare da una rappresentazione di sé riferita a un senso di immortalità e di morte (che il medico si è costruita o che gli altri gli hanno attribuito) e che viene intaccata proprio nel momento in cui egli deve comunicare la cattiva notizia e si imbatte in diagnosi infauste e ineluttabili. Ci sembra in questo ambito particolarmente pertinente introdurre il concetto di “medico sufficientemente buono”, rifacendoci al concetto di Winnicot di “madre sufficientemente buona”. Si tratta di un concetto che ci pare molto pertinente e si riferisce in questo caso al concetto di un medico che, come la madre nella diade madre-figlio, si adatta al paziente, consapevole dei propri limiti, in una distanza relazionale e attraverso modalità che devono essere non “ottimamente né scarsamente buone”, ma sufficienti e adeguate a quel particolare tipo di paziente. Spesso inoltre il medico si trova a comunicare ai pazienti da solo, senza la possibilità di condividere con colleghi il carico emotivo di situazioni di per sé drammatiche. Ciò rischia di aumentare il senso di frustrazione e di stress, come riportato in molte delle esperienze descritte dai medici. La relazione fra il medico e il paziente I pazienti presentano caratteristiche diverse, sia cliniche che personali, con contesti familiari diversi alle spalle. Per molti medici i casi più difficili sono quelli che coinvolgono bambini. In questi casi la difficoltà a comunicare si affianca a un senso di disperazione, di colpa e di inadeguatezza. Alcuni pazienti si affidano completamente al medico, altri sembrano preferire una posizione di distacco. Alcuni vogliono sapere tutto. Altri invece preferiscono non sapere la verità e delegano altre persone. La questione della distanza emotivo-relazionale (“distacco dal paziente” vs “contatto con il paziente”) diventa qui cruciale. Il rischio è quello di essere troppo coinvolti, da una parte, o di essere troppo distaccati dall’altra. “Alcuni pazienti dichiarano di essere nelle nostre mani. Questo ci gratifica, ma a volte può diventare soffocante e non si sa mai come raggiungere una distanza emotiva ottimale”. Il coinvolgimento emotivo, inteso come risorsa utile per comprendere alcuni aspetti importanti della relazione, deve essere trasformato in modo da tradursi in professionalità. Inoltre, il contatto diretto e prolungato con il paziente, proprio per una mancanza di “pratica” a comprendere e a “elaborare” l’emotività, può diventare logorante. Ci si dovrebbe chiedere a questo punto chi si debba prendere cura del medico e del suo modo di metabolizzare contenuti emotivi di sofferenza, i quali, se non trattati, sono potenziali produttori di sofferenza per ambedue i protagonisti della relazione. Una delle domande più ricorrenti a questo proposito è infatti “Chi pensa a chi si occupa degli altri? E chi si cura dei curatori?”. La relazione fra il medico e i parenti “Le comunicazioni vanno date prima ai parenti o ai pazienti, e c’è una regola valida in tutti i casi?” si chiedono alcuni medici, “E poi qual è la distanza giusta?” . I famigliari costituiscono una presenza più o meno influente all’interno della relazione medico-paziente e nel contesto della comunicazione. In alcuni casi essi facilitano il compito e la gestione del paziente e si rivelano una risorsa. In altri casi essi costituiscono una variabile di disturbo che rischia di creare complicazioni. Si riconosce che pazienti e familiari costituiscono comunque elementi che il medico deve sempre tenere in considerazione nel suo rapporto con il paziente. In questo contesto si calano inoltre spesso questioni di carattere legale, con le quali, oggi più che mai, il medico si trova ad avere a che fare. La relazione fra il medico e l’organizzazione La relazione medico-paziente sembra essere fortemente influenzata dai fattori “spazio temporali”, entro i quali la comunicazione ha luogo. È infatti opinione condivisa che la comunicazione adeguata passa attraverso la considerazione del tempo e degli spazi adeguati. Molti medici lamentano di non avere a disposizione spazi sufficienti e adeguati per parlare con serenità, all’interno di uno spazio “psicologicamente protetto”. “Gli spazi sono inadeguati, sia quelli per i pazienti, sia quelli per i medici, e non sempre è possibile offrire un livello di privacy adeguato”. Questi due elementi qualificano in maniera marcata il contesto ospedaliero e il lavoro che al suo interno viene svolto, e rappresentano alcune delle questioni più sentite e dibattute dai medici che abbiamo incontrato. La relazione fra il medico, colleghi e altro personale Anche la relazione del medico con i colleghi gioca un ruolo chiave nella comunicazione al paziente e si può affermare che “il destino del paziente è condizionato anche dal rapporto fra i colleghi all’interno del reparto”. “Mi è capitato di dover lavorare con un collega e mi è stato molto utile avere uno scambio di idee, per consigliarci e per condividere la problematicità dei casi”. “Una volta mi hanno chiamato per rianimare un paziente che era già morto. Ho chiesto ‘Perché?’ e mi sono sentita dire: ‘Avevo bisogno di conforto’”. Anche in questo caso la presenza di colleghi può costituire una forma di risorsa o una “complicazione”, a seconda dell’utilizzo che se ne fa. Si inserisce in questa riflessione l’importanza riconosciuta del lavoro d’équipe e della condivisione delle responsabilità. “È meglio non trovarsi da soli e condividere le responsabilità e far sì che le decisioni siano il frutto di un lavoro di gruppo, in particolare di quel gruppo che ha seguito quel caso”.

Considerazioni conclusive

Gli elementi descritti rappresentano i punti nodali del difficile e delicato compito della comunicazione delle cattive notizie. Come ci aspettavamo il problema della comunicazione è molto sentito e in particolar modo dai medici con maggiore attenzione e sensibilità a questi aspetti della loro professione. Quanto riportato ribadisce come sia complesso il compito della comunicazione e sottolinea allo stesso tempo come insufficiente sia ancora, in molti casi, la formazione fatta ai medici in materia di comunicazione e di relazioni con il paziente. Un elemento costate e condiviso è che diversi sono i livelli di attivazione personale negli operatori sanitari coinvolti nel momento della comunicazione. Fra questi un ruolo primario ricoprono l’elevato carico di lavoro e il coinvolgimento emotivo, fonte in molti casi di forti stati di disagio e di insoddisfazione per il medico stesso, che rischiano di influenzare inevitabilmente la relazione con il malato e con coloro che lo circondano. Il problema che si pone in questo caso è quindi quello di cercare di trasformare questo bagaglio emotivo, e le risorse ad esso connesse, in potenzialità professionali, partendo dal presupposto che le “relazioni non sono qualcosa di innato ma si possono apprendere e si possono migliorare”. Si può infatti imparare a riconoscere i contenuti emotivi e cognitivi che si attivano nelle relazioni e cercare di utilizzare la relazione nel modo migliore per affrontare i diversi problemi che possono emergere, consapevoli delle numerose variabili già descritte prima. Questo è vero nel caso di ogni forma di comunicazione ed è particolarmente pertinente nel caso della comunicazione di cattive notizie. Ci sembra quindi evidente che il lavoro di formazione, sia per il livello di gradimento mostrato (dati di gradimento), sia per le carenze emerse in ambito formativo, dovrebbe essere incoraggiato da parte di tutta l’istituzione ospedaliera, al di là dei settori specifici di competenza. Una strategia potrebbe essere quella di far ricorso a incentivi di tipo economico, come già accade negli Stati Uniti: le compagnie assicurative praticano sconti sostanziali sui prezzi per le polizze di responsabilità professionale per quei medici che hanno partecipato a corsi di formazione sulla comunicazione con il paziente. Questo sottolinea ancora una volta il peso dei fattori economici nella professione e nella gestione dell’utenza ospedaliera e ripropone lo stretto rapporto tra elementi economici e etici, non sempre facile da dipanare e da comprendere. La questione del contenzioso legale entra qui a pieno diritto e risulta essere correlata, secondo quanto riportato dai medici, al tipo di comunicazione e alla qualità della relazione instaurata con il paziente. Di sicuro essa rappresenta una questione molto attuale e sentita e costituisce un’area per ulteriori approfondimenti e discussioni.

*L. Brunori e C. Raggi, Dipartimento di Psicologia dell’Università di Bologna R. D’Alessandro, responsabile del Progetto formativo della Azienda Ospedaliera di Bologna

Criteri per una comunicazione adeguata

– La comunicazione corretta della diagnosi segna l’inizio di una presa di coscienza dei genitori che non può essere che progressiva.
– È necessario scegliere con cura il momento e il luogo della comunicazione (ad esempio, non in sala parto).
– Gli operatori che si caricano della comunicazione devono rendersi disponibili durante il ricovero della madre a rispondere a tutte le sue domande (bisogna affrontare il problema insieme, evitare fughe o deleghe).
– La comunicazione deve rispettare le condizioni di intimità necessaria, possibilmente alla presenza del padre e del neonato. Si è visto che se il colloquio si svolge con ambedue i genitori le dinamiche interattive saranno più positive.
– Comunicare solo ciò che è certo spiegandolo in termini accessibili (al primo momento comunicare il sospetto clinico e successivamente, la certezza che deriva dall’esame citogenetico).
– È necessario essere propositivi, enfatizzare le possibilità del bambino e il ruolo che i genitori possono giocare nel suo sviluppo, e astenersi dal formulare prognosi senza appello.
– Deve essere assicurato un sostegno psicologico particolare alla madre durante il periodo di soggiorno all’ospedale (il primo momento è infatti quello più difficile da affrontare), dopo la comunicazione diagnostica.
– Bisogna sostenere l’interazione madre-bambino e incoraggiare la presenza del padre nell’interazione. Evitare la separazione madre-bambino.
– Il personale del reparto deve essere sensibilizzato e adottare un linguaggio comune e un atteggiamento coerente che si forma principalmente col lavoro d’équipe.
– È necessario assicurare e “chiarire” il collegamento con i servizi di cura esterni e con le associazioni dei genitori delle persone Down, dando ai genitori consigli personalizzati sia durante la permanenza che all’uscita dal reparto.

Le parole tra noi leggere

Parlare ai bambini di una nascita “diversa” non è facile, il linguaggio scientifico può essere troppo lontano, astratto. Il linguaggio letterario, con la sua capacità evocativa, l’uso di immagini simboliche, la personalizzazione degli eventi può essere una strada per avvicinare i giovani e giovanissimi a temi così difficili. Abbiamo scelto due testi, tra la produzione editoriale più recente, adatti a svolgere questa funzione di ponte comunicativo. Il primo narra, attraverso le parole in prima persona del ragazzino protagonista, dell’incontro con la sorellina appena nata, segnata in modo emblematico da una diversità tangibile: la piccola ha le ali! Il secondo, adatto anche ai piccoli lettori, ci racconta la storia di Dodo strano animaletto che in cerca della sua identità incontra le diversità altrui, che sono parte fondante e insostituibile della realtà. Come polli in un banco frigorifero La sorellina di Jon era nata con le ali. Jon lo vide con i suoi occhi. Piccolissime ali ossute con la pelle sottile in mezzo, piegate e rugose come le ali di un pipistrello. Nere. Di un nero marrone e granulose come la pelle delle zampe di un pollo. Anche sua madre e suo padre videro le ali. Non dissero niente. Il padre di Jon guardò fisso la parete dalle piastrelle lucide e verdi. La madre di Jon prese la sorellina e la tenne come se fosse un gatto che poteva mordere. Poi la rimise subito giù nella culla trasparente. In seguito, quando Jon pensava a quel giorno in ospedale, era soprattutto il silenzio che si ricordava. Si ricordava gli occhietti della sua sorellina, che lo guardavano, e mamma e papà zitti. Non erano passati cinque mesi quando la vendettero. La madre e il padre di Jon vendettero la sua sorellina, non volevano più tenerla. Non dissero mai che era a causa delle ali, ma Jon ne era sicuro. Era difficile. Non volevano qualcosa che complicasse le loro vite. “Almeno fossero state bianche!” disse la madre di Jon. Il padre di Jon tossì toccandosi il taschino della camicia dove c’erano le sigarette. Non era stato lui a volere un altro figlio. Prima di vederla, Jon non era molto contento del suo arrivo. Ma quando la tenne in braccio tutto cambiò. Lui era convinto che i neonati fossero grassi. La sua sorellina era leggera come una bambola. Un uccellino dalla pelle morbida, impacchettato in un vestitino di cotone troppo grande. Emise un piccolo grugnito e guardò Jon con i suoi occhi neri senza batter ciglio. Non batté ciglio nemmeno una volta, e non distolse lo sguardo da lui che stava lì seduto con lei in braccio sulla sedia d’ospedale. La sua pelle era così bianca. Era così trasparente, si riuscivano a vedere le arterie blu sotto la pelle. Era calda. Era come tenere un cagnolino. Jon sedeva immobile. Con l’indice disegnava cerchi sulla sua schiena, in mezzo alle due ali piegate. Le sentiva attraverso la stoffa. Erano sottili e ossute. Il padre di Jon dovette uscire a fumare una sigaretta. Poi rientrò e disse che era ora di tornare a casa. Erano appena arrivati, pensò Jon. La radio si accese a pieno volume quando il padre di Jon mise in moto l’automobile. Jon l’abbassò. “È carina, no?” disse. “Ha gli occhi neri come il carbone. Mi guardava fisso mentre la tenevo.” Il padre brontolò e suonò il clacson a un ciclista che stava per tagliar loro la strada. “A quell’età sembrano tutti polli in una cella frigorifera” disse, tossendo. “Chiamiamola Liv” disse Jon sottovoce, e questo fu il suo nome.

Tratto da Il ragazzo con il casco d’argento di Hanne Kvist, Milano, I Delfini Fabbri, 2000

Dodo

Patatrac! L’uovo si ruppe in mille pezzi e apparve Dodo, un animaletto molto strano con un espressione smarrita. “Cosa è successo?”, gli chiede il camaleonte. “Non lo so”, disse Dodo. “Io sono appena arrivato” “Chi sei?” “Non lo so. Me lo chiedo anch’io. Chi sono?” “Sembri uno strano uccello, uno strano animaletto”, risponde il camaleonte. “E tu, non sei strano, che cambi continuamente il colore della pelle? Ora ti saluto. Vado a scoprire chi sono”. E così Dodo si incamminò. Ma il camaleonte lo seguì. […] “Aiuto!”, gridò lo struzzo con la testa piantata per terra. “Qualcuno mi aiuti a tirare fuori la testa da questa buca!” Dodo passava di lì proprio in quel momento e accorse in suo aiuto. “Sai dirmi che animale sono?”, chiede Dodo allo struzzo. “Mmm… No. Non ho mai visto un animaletto più strano di te”, disse lo struzzo. “Io sì, invece. Ne ho appena conosciuto uno che nasconde la testa sotto la sabbia per non vedere quel che succede intorno, ma poi non riesce più a tirarla fuori e, per di più, chiama strano chi cerca di aiutarlo. Strano sarai tu!”

Tratto da Dodo di José Moran, Emilio Urberuaga, Paz Rodero, Padova, Bohem Press, 2003

Il gruppo “Prima informazione e handicap” dell’ospedale S. Orsola di Bologna

Molte e complesse sono le problematiche comunicative all’interno di una struttura organizzativa quale quella ostetrico-neonatologica. L’evento nascita già di per sé carico di aspettative, ansie e desiderio di realizzazione della coppia, talora si complica allorché il bambino tanto desiderato e ricco di contenuti fantastici, presenta comportamenti o aspetti fisici tali da far porre la diagnosi di un quadro clinico correlato ad una probabile/certa disabilità. La situazione che il medico si trova a dover affrontare, oltre a essere potenzialmente impegnativa in termini assistenziali, presenta inevitabilmente un impegno relazionale con la coppia genitoriale ricco di componenti emotive, non facile e molto coinvolgente a livello pisco-affettivo. A questa difficoltà di base si aggiunge poi il fattore temporale e cioè l’urgenza di rispondere alle tante, giuste domande avanzate dalla coppia, alle quali il professionista non sempre è in grado di poter dare precise risposte. Il medico è consapevole che il momento della comunicazione è particolarmente delicato e che dalla modalità della sua comunicazione può dipendere il rapporto del contesto familiare con il bambino e influire sulle potenzialità di adeguata accettazione del bambino stesso. La comunicazione della diagnosi, infatti, mette la famiglia di fronte a una realtà inaspettata, a volte temuta, sempre molto sofferta e con risposte emotive già identificate dagli studi di psicologia, ma che sono del tutto caratteristiche di quello specifico contesto familiare. Da qui la necessità di non nascondere la realtà, ma contemporaneamente di lasciare spazio alla speranza sull’esistenza di una possibilità di recupero/contenimento della disabilità e soprattutto di prospettare quegli interventi mirati e individualizzati che possono aiutare a limitare il corteo sintomatologico. Certamente non è facile trovare le parole per dire a una mamma e a un papà che quella bambina attesa per nove lunghi mesi “ha un problema”. È un momento veramente difficile per i genitori che vedono svanire quella gioia così attesa, e all’improvviso si trovano a dover fare i conti con una realtà molto diversa da quella immaginata. Chi deve dirlo? Come dirlo? Cosa dire? Da qui è scaturita la volontà di organizzare, sollecitati anche da strutture associative di genitori che hanno vissuto e vivono giornalmente problematiche legate alla disabilità, un percorso assistenziale che veda coinvolte le tante figure professionali che – fin dal momento della nascita – ruotano attorno alla diade madre-neonato, in grado quindi di fornire alla famiglia le informazioni utili a meglio finalizzare gli interventi riabilitativi e assistenziali più idonei per quel piccolo bambino. La comunicazione offre anche l’opportunità di analizzare i comportamenti e le reazioni emotive a eventi vissuti in un contesto collegiale e aperto al confronto diretto.

Un gruppo di lavoro formato da personale sanitario e associazioni

Nella primavera del 2002, presso l’Istituto Clinico di Pediatria Preventiva e Neonatologia del Policlinico S. Orsola-Malpighi di Bologna, è stato pertanto costituito un Gruppo di Lavoro definito “Prima Informazione e Handicap”, composto da personale sanitario (neonatologi, ostetrici, neurofisiatra, psicologo, pedagogista e ostetriche, infermieri, riabilitatori, assistente sociale) e da rappresentanti delle associazioni e dei genitori, allo scopo di definire un percorso di aiuto e supporto alla famiglia che, partendo dalla prima fase di dolore e incredulità, possa aiutarla a ricostruire il proprio ruolo genitoriale in una prospettiva di fiducia e speranza nelle possibilità di crescita del bambino. L’esperienza, basata su incontri mensili, si è data innanzitutto una metodologia di lavoro che prevedeva: 1. costituzione di un gruppo multispecialistico di accoglienza; 2. promozione di momenti d’incontro per l’analisi di casi specifici; 3. identificazione di riferimenti, funzionali all’informazione ed alla definizione di un piano di sostegno sia al neonato che alla famiglia, con il coinvolgimento sia dei referenti del territorio sia del pediatra di famiglia; 4. costruzione di una rete di servizi per seguire con continuità il percorso di vita del bambino per la sua presa in carico da parte degli operatori territoriali. La nascita, ad esempio, di un piccolo che presenti gravi malformazioni o un qualsiasi tipo di disabilità (asfissia perinatale, grave prematurità) è infatti un evento drammatico e la famiglia non può essere lasciata sola di fronte a una realtà carica di sofferenza e di dolore. Accanto ai medici, ostetriche, infermieri è necessario prevedere l’intervento degli psicologi per cercare di capire i bisogni e le reazioni dei genitori, e in particolare delle madri che rappresentano spesso in questa fase il soggetto più fragile. Da subito infine si devono avviare i contatti più idonei per quella particolare condizione clinica al fine di consentire di seguire il bambino anche al di fuori dell’ospedale e garantire quindi la continuità delle cure. Questa rete, se ben strutturata, può risultare di fondamentale importanza per la famiglia che dovrebbe trovare sostegno e soprattutto un percorso assistenziale strutturato. Ma non sempre questo è realizzabile, non sempre le competenze specialistiche sono disponibili sul territorio, non sempre la macchina organizzativa è in grado di fornire questo supporto e quindi il rischio è che i genitori siano lasciati soli, senza punti di riferimento precisi, talora abbandonati a se stessi con informazioni frettolose e poco comprensibili. Come migliorare lo stato attuale delle cose? Come essere di reale aiuto alla famiglia? Dopo questa prima fase, della durata di circa un anno, in cui sono stati soprattutto affrontati e discussi collegialmente situazioni e episodi vissuti direttamente dai vari operatori, si è deciso di iniziare un’altra esperienza, necessario completamento della prima, con il riconoscimento dell’Azienda Ospedaliera del Policlinico S. Orsola-Malpighi nell’ambito del corso di formazione sulla “Comunicazione di cattive notizie”.

Il rischio di nascere

Il corso di formazione definito “Il rischio di nascere: la comunicazione con i genitori”, sollecitato dagli operatori dell’originario Gruppo di Lavoro, è stato strutturato sulla base di un progetto redatto con l’intervento della prof.ssa Luisa Brunori, Direttrice del C.I.R.I.G. (Centro Interdipartimentale per la Ricerca e l’Intervento sui Gruppi). Il corso, della durata di un anno a partire dall’ottobre 2003, si basa su 3 momenti essenziali: 1. presentazione/discussione di casi clinici da analizzare nella loro complessità, concretezza e nella possibile definizione clinica; 2. espressione da parte degli operatori dei contenuti emotivi soggettivi, individuali e istituzionali sollecitati dal caso; 3. ricerca di soluzioni che tengano conto, partendo dal caso in esame, anche degli elementi di contesto necessari, sia interni all’istituzione, sia nella comunità più ampia, così come elementi di collegamento tra interno ed esterno. Questo aspetto verrà sviluppato come funzione progettuale di forme sperimentali nuove, laddove non dovessero esistere modi e strategie adeguate ai problemi emersi dall’analisi del percorso assistenziale pre/postnatale. Sulla base delle richieste di partecipazione al corso e della disponibilità delle risorse, sono stati costituiti due gruppi di 12/13 unità, comprendenti solo operatori stabilmente coinvolti nell’assistenza pre/postnatale presso il Dipartimento di Ginecologia ed Ostetricia e l’Unità Operativa di Neonatologia. Le persone che accettano su base volontaria di partecipare all’esperienza sono tenute a parteciparvi con assiduità, perché è proprio nella frequenza continuativa che si sviluppa il potenziale del gruppo necessario alla sua funzionalità. A questi due gruppi, che presentano comunque le stesse caratteristiche, ne viene individuato un terzo al quale possono aderire altre figure professionali sia interne (assistente sociale, genetista, psicologo, ecc.) sia esterne alle strutture dipartimentali (associazioni di famiglie, neuropsichiatra infantile, ecc.), che quelle di collegamento tra interno ed esterno. Questo gruppo (definito “gruppo progettualità”) è pensato per sviluppare anche una funzione progettuale di forme sperimentali nuove, laddove non dovessero esistere modi e strategie adeguate ai problemi. Gli incontri sono previsti su base quindicinale per i due gruppi e su base mensile per il gruppo progettualità. Tra gli obiettivi del corso, quindi, oltre a quello di favorire la comunicazione tra le diverse figure professionali coinvolte nell’assistenza e cura del neonato, e tra queste e le famiglie, e creare una cultura condivisa sulla comprensione/elaborazione delle problematiche emerse dall’analisi dei casi discussi, è fondamentale quello di elaborare strategie/indicazioni volte a collegare la realtà ospedaliera con il territorio, incluse le associazioni di competenza.

* Professore Associato di Pediatria Preventiva e Sociale, Istituto Clinico di Pediatria Preventiva e Neonatologia, Università di Bologna

Il bambino sullo scaffale

Per chi ci segue da tempo non è una novità trovare un percorso bibliografico tra i libri per bambini e ragazzi sul tema della diversità. L’incontro con altre storie, uguali e diverse dalla propria, la conoscenza di bambini e ragazzi disabili o con delle difficoltà, può aiutare a confrontarsi con la realtà e tutti i suoi aspetti su un terreno protetto dove potersi sperimentare con la vita vera. Ideale prosecuzione de Le facce della diversità nella letteratura infantile (“HP-Accaparlante” 74/2000), il percorso che proponiamo si snoda fra libri per ragazzi più grandi, che toccano anche temi particolarmente difficili e delicati come quelli della sofferenza mentale, del rapporto tra fratelli, del deficit acquisito e del rifiuto nei confronti della diversità, per arrivare ai libri dedicati ai più piccoli ai quali sanno proporre, anche se in modo diverso, temi non banali e scontati.

Hanne Kvist, Il ragazzo con il casco d’argento, Milano, I Delfini Fabbri, 2000

“La sorellina di Jan era nata con le ali. Jan lo vide con i suoi occhi. Piccolissime ali ossute con la pelle sottile in mezzo, piegate e rugose come le ali di un pipistrello. […] Si ricordava gli occhietti della sua sorellina, che lo guardavano, e mamma e papà zitti. Non erano passati cinque mesi quando la vendettero. La madre e il padre di Jan vendettero la sua sorellina, non volevano più tenerla. Non dissero mai che era a causa delle ali, ma Jan ne era sicuro”. (pag. 5) Comincia così questa bellissima storia, irreale, incantata, che racconta del viaggio di Jan per ritrovare Liv, di strani incontri e di un centro dove un conte misterioso tiene prigionieri tanti bambini piccolissimi, tutti con le ali, in attesa che siano mature per essere tagliate. Come sottolinea Faeti nella post-fazione, questa è una vera fiaba con tutti gli ingredienti per affascinare i bambini ma è anche (come le fiabe) una dichiarazione d’amore per la vita e per la libertà.

David Almond, Skellig, Milano, Junior Super Mondadori, 2000

È Michael, un ragazzino alle prese con troppi problemi, a raccontare in prima persona l’incontro con un essere misterioso nascosto in fondo a un vecchio garage. Michael ha appena traslocato e si sente piuttosto solo, tanto più che i suoi genitori sono molto presi dalla sorellina appena nata che ha un grave difetto cardiaco. Insieme a Mina, sua coetanea e vicina di casa, cerca di superare la paura che gli fa l’uomo del garage (ma è un uomo? Cosa sono quelle protuberanze morbide sulla schiena? Perché mangia gli insetti?) e affronta l’incontro con una diversità che gli permetterà di guardare con occhi nuovi la sua vita e i suoi rapporti con gli altri. Un romanzo centrato soprattutto sulla crescita ma in cui viene sottolineato con forza il valore della diversità e la possibilità che da un nuovo incontro possano scaturire stimoli positivi.

Joke van Leeuwen, Ma non è un angelo, Milano, Gli Istrici Salani, 1998

“Warre era appassionato di uccelli…”, comincia così questo bel libro illustrato dall’autrice in modo che anche i deliziosi disegni facciano parte integrante della storia. E Warre un giorno trova qualcosa… “Somigliava più che altro a un bambino, o piuttosto a una bambina. Solo che aveva delle piume al posto dei vestitini. E al posto delle braccia due ali. Vere. Sul momento Warre pensò che fosse un angioletto caduto dal cielo. Ma sapeva bene che non poteva essere, perché gli angeli hanno le braccia. Gli angeli hanno le ali sulla schiena e le braccia lì dove devono stare le braccia. O almeno sono secoli e secoli che gli uomini pensano così degli angeli. No: questo era un uccello in forma di bambina. O una bambina in forma di uccello. O una via di mezzo. Dormiva. Forse, pensò Warre, era stata abbandonata lì perché qualcuno la trovasse. È vero che ogni tanto si vedono anche degli adulti sdraiati davanti a una porta o in un’aiuola, ma nessuno pensa che siano lì per essere trovati”. (pagg. 10-11) E così Warre porta a casa, dalla moglie Tina, la bambina-angelo-uccello e vorrebbe tenerla con sé. Dolcissimo il rapporto della coppia con la bambina e i loro tentativi di “nasconderne” la diversità per evitare gli sguardi dei curiosi che “sarebbero venuti tutti insieme a pregarla di far loro dei favori…”. Anche farla mangiare non è facile: Icci non ha le mani e Tina deve studiare diversi sistemi per permetterle di mangiare da sola. Ma Icci non resterà a lungo con Warre e con Tina e, come ogni uccello che si rispetti, sceglierà la libertà dopo aver però incontrato altre persone con cui tessere un legame di amicizia e di affetto. Un libro che parla di diversità ma soprattutto di accettazione e di libertà, e che comunica chiaramente quanto sia sbagliato “impossessarsi” dei bambini e considerarli proprietà privata senza tener conto invece del loro desiderio di indipendenza. Un’indipendenza però che non vuole e non può rinunciare alla tenerezza e all’amore. Come sanno dimostrare Tina e Warre nell’ultimo, bellissimo capitolo quando preparano la cena d’addio alla piccola Icci che, sanno benissimo, presto partirà per il Sud.

Errol Broome, Magnus il grande (forse), Milano, I Delfini Fabbri, 2001

Una storia da leggere senza interruzioni questa di Magnus il topolino bianco che, scappato dalla gabbia dove viveva nella camera di un bambino, si ritrova a dover affrontare la vita, quella vera, in cui c’è fame, paura e solitudine. Al suo fianco una famiglia di comunissimi topolini scuri di cui saprà pian piano guadagnarsi l’affetto. Come ci rammenta Faeti nella post-fazione, “Magnus è da subito un diverso che fa nascere tante domande, che suggerisce un atteggiamento razzista, che imbarazza, stupisce, tormenta. Perché lui solo è bianco se noi siamo di colore scuro? […] Di uno così ci possiamo fidare? Uno così a che cosa serve? Come si avverte bene, non sono domande nuove. Riguardano uomini, donne, stranieri, clandestini, diversi. Ancora una volta, uomini e topi vivono lo stesso destino, animano storie molto simili, riempiono di dubbi le menti e le fantasie”. Ma se questa diversità fa pensare subito a una differenza razziale, in senso più ampio rappresenta tutte le diversità, mentre la storia indica la strada della piena accettazione che passa dal contenuto e non dall’apparenza. Una chiave di lettura che sempre più di frequente troviamo nei libri per ragazzi, in cui non si assiste più tanto spesso a magiche guarigioni e trasformazioni, ma in cui l’epilogo positivo è legato proprio al riconoscimento che ciascuno vale per quello che è.

Jerry Spinelli, La schiappa, Milano, Mondadori, 2003

Il nuovo romanzo di questo scrittore eccezionale è molto particolare e abbiamo deciso di inserirlo in questo percorso anche se di fatto Zinkoff, il protagonista, non ha alcun deficit, è solo… un perdente, un incapace, una schiappa. Eppure non si scoraggia e affronta la vita con grinta, determinazione, una buona dose di incoscienza e tanta gioia di vivere. La sua storia e la storia delle relazioni, o meglio delle non-relazioni, che intreccia con i compagni di scuola, raccontano a chi è attento molto di più di quello che dicono le parole. E mentre tratteggiano un quadro che troppo spesso ci è capitato di vedere da vicino, intuendone la conclusione inevitabile, indicano strade inesplorate, illuminano abilità particolari, lasciando aperta la porta a nuove soluzioni e possibilità di relazione. E soprattutto sottolineano come sia possibile arrivare a essere accettati rimanendo quello che si è.

Philip Pullman, Ero un topo, Milano, Gli Istrici Salani, 1999

Come reagireste se, una sera, alla vostra porta bussasse un bambinetto magro, dai vestiti sbrindellati e vi dicesse che lui, prima, era un topo? Inizia così questo bel romanzo che conferma le grandi doti di fantasia dell’autore. Da leggere tutto di un fiato la storia del bambino che era un topo e che da tale si comporta, cercando disperatamente di capire come invece dovrebbe comportarsi da essere umano. Le indicazioni che riceve sono infatti contraddittorie e tutte tese a mettere in risalto la mostruosità della sua situazione e della sua natura. Intercalato dalle pagine del quotidiano “La Sferza” (che ricorda tanto le pagine che spesso ci troviamo costretti a leggere, chiedendoci dove sia finita la vera informazione) il romanzo si snoda ricco di colpi di scena. Senza bisogno di retoriche morali, lancia un messaggio chiaro e una richiesta precisa perché sia rispettata la diversità di ciascuno e sia tutelato il diritto a essere informati correttamente. E così conclude il bambino cui viene chiesto se era meglio prima, quando era un topo: “Si ha meno guai a essere un topo, tranne che per essere sterminati. Questo non vorrei. È difficile fare una persona, ma è meno difficile se pensano che sei una persona. Se pensano che non sei una persona, allora è troppo difficile per me.”

Karen Hesse, La musica dei delfini, Milano, I Delfini Fabbri, 2000

“Li raggiungo a nuoto in mezzo al mare che mormora. Quando arrivo, il loro cerchio si apre per lasciarmi entrare, poi si richiude”. (pag. 7) Fin da queste prime righe siamo invitati a leggere questo bellissimo libro da una prospettiva diversa. La storia di Mila, allevata dai delfini e riportata fra gli esseri umani, ripropone una riflessione sul nostro senso di superiorità, sulla nostra convinzione che “umano sia meglio” e che quindi sia giustificato qualsiasi tentativo di riportare tra gli uomini qualcuno che non vuole starci, pensando così di salvarlo. Le riflessioni di Mila, i suoi tentativi di compiacere le persone con cui deve vivere, sforzandosi di apprendere a parlare, a mangiare, a muoversi… come fanno loro, evidenziano con chiarezza una realtà apparentemente positiva ma di costrizione e dolore per la ragazzina. “Justin, io penso a domani e domani sempre chiusa a chiave nella mia stanza o nell’aula, con addosso i vestiti, a mangiare cose morte. Ma io voglio tornare indietro. Dalla mia famiglia di delfini, dalla mia casa di delfini. […] Justin dice: Mia madre non ti lascerà andare via […] Tu sei già abbastanza brava. Sai fare tanto di più di quello che credevano. Ma loro non sanno mai quando fermarsi”. (pag. 133) Per nulla scontato, il libro ci porta verso l’unica soluzione possibile, ponendoci di fronte ad un’accettazione totale della diversità e dei desideri che solo Justin, un ragazzino solo come Mila, anche se è sempre vissuto fra gli uomini, è in grado di seguire fino in fondo. E così Mila si chiede: “Posso forse andare con i delfini e dimenticare di essere umana? È difficile pensare, sono stanca. La dottoressa Beck dice: Mila so che stai male adesso. Ma non farà sempre male così. Essere uomini va sempre meglio. Te lo prometto. La promessa è una cosa buona. So che c’è amore e attenzione per me, non solo per la ragazza delfino, ma per me, Mila. Ma non può andare meglio. Anche se la dottoressa Beck fa una promessa. Io sto tornando al mare dal momento in cui l’ho lasciato”. (pagg. 173-174) E dice anche lucidamente: “Io credo che abbiano interesse solo per la bambina delfino. Tutta la mia vita con gli umani sarà così. Io sarò sempre la bambina delfino. Gli umani saranno curiosi come il delfino è curioso della spazzatura che galleggia sul mare. Una cosa con cui giocare, una cosa da trascinare e lanciare, ma alla fine una cosa da abbandonare”. (pag. 155) Un libro per ragazzi ma un invito per tutti a guardare con occhi diversi le persone che ci circondano, senza certezze e con un’immensa disponibilità all’ascolto.

Mordicai Gerstein, Victor, Milano, Junior +10, Mondadori, 2000

“Che diavolo è quel coso?” borbottò il fornaio, sforzandosi di penetrare con lo sguardo le volute di nebbia che si addensavano sulla piazzetta. Strizzò un paio di volte gli occhi, poi spalancò la bocca per lo stupore. “Mio Dio” esclamò sua moglie “Ma è un bambino!” Si precipitarono fuori dal negozio per guardare meglio, e una dozzina di negozianti della piazzetta fecero altrettanto. Da est, i raggi del sole cominciavano a riscaldare l’aria disperdendo la nebbia, mentre una luce dorata si rifletteva sull’acciottolato. Il bambino penzolava dal bastone con le caviglie e i polsi legati, completamente nudo, tranne che per lo strato di sudiciume che gli si era seccato addosso. Sembrava proprio che l’avessero appena tirato fuori da sottoterra”. Così gli abitanti di Saint-Sernin nel distretto di Aveyron fecero la conoscenza di Victor, il ragazzo selvaggio diventato l’emblema di una delle più impegnative sfide dell’educazione. che ha anticipato per molti aspetti la cultura dell’integrazione sociale e la ricerca di sostegno all’evoluzione di persone con problemi evolutivi e difficoltà di apprendimento. La vicenda complessa ed affascinante di Victor è, infatti, l’incontro fra la natura e la società che assume le sembianze di Jean-Marc-Gaspard Itard, il medico che si assunse il compito di dimostrare la sua “educabilità” vivendo e lavorando a stretto contatto con il ragazzo. L’autore, avvicinatosi alla storia di Victor attraverso la visione dello splendido film di Francois Truffaut, riscrive l’intero percorso dell’enfant sauvage: l’infanzia passata in solitudine nei boschi, i primi momenti di avvicinamento, il lungo e puntiglioso lavoro di Itard e Victor, la costante e quasi testarda determinazione del dottore, la delusione e la fatica, la ricerca di affetto e il ruolo esercitato dalle donne di casa Itard, la signora Guerin su tutte. Non è un racconto facile, tanti temi si intrecciano nell’esperienza del ragazzo selvaggio e ci aiutano ancora oggi a pensare cosa è il bene per una persona, quale la forma di un vero aiuto rispettoso dell’identità, la ricerca di equilibrio fra libertà e legami.

Martha Heesen, Mia sorella è un mostro, Milano, Feltrinelli, 2002

L’autrice, con questo romanzo, punta il riflettore sui fratelli e le sorelle delle persone disabili, sul loro rapporto con la famiglia e il resto del mondo. È un bel romanzo e certamente ci saranno fratelli e sorelle che si riconoscono nella protagonista e nella sua vita difficile. Sicuramente è un bene che non si sentano soli e che sappiano che altri provano i loro stessi sentimenti. Ma troviamo inadatto il libro a bambini di 10-11 anni (come vorrebbe l’indicazione della collana). A 10 anni ci deve essere posto per la speranza e, se pure è difficile vivere con un fratello o una sorella diversi, è necessario sapere che si può guardare avanti e che ci sono spiragli di luce e mani che sostengono e aiutano a diventare grandi.

Angela Johnson, Sussurri, Milano, Shorts Mondadori, 1999

È difficile vivere con una sorella diversa e ancora di più quando la diversità che la segna è imprevedibile. È Sophy, adolescente, che racconta la sua vita al fianco di Nicole e della sua schizofrenia. Un bellissimo libro che affronta una tematica difficile, dolorosa, di cui si fa fatica a parlare. L’autrice riesce a dar voce alle paure e alle angosce di Sophy, sorella di carta di tanti fratelli e sorelle reali, riesce a farci capire come sia possibile insieme amare e odiare una sorella così: “Odio mia sorella… Non credo che possa esserci niente di peggio. […] Vorrei poter amare Nicole come un tempo. Mi dice che essere schizofrenici è come urlare in un ripostiglio dove nessuno può sentirti”. (pagg. 76-77) Ci dice come sia facile precipitare in un abisso di disperazione ma ci dice anche, con estrema chiarezza e decisione, che non sempre si precipita e che, anzi, è possibile guardare avanti e sperare ancora. Un libro coraggioso che affronta il tema delicatissimo delle sofferenze mentali e affida un forte messaggio di speranza ad un personaggio emblematico e bellissimo, la signorina Onyx che ha perduto tutto all’epoca del nazismo. E proprio lei che non ha salvato nulla, neanche i suoi sogni, sa leggere nel cuore di Sophy e tenderle una mano per farle riprendere l’equilibrio. “Pensa…, sì pensa se ti fosse tolta la possibilità di ballare, se non potessi più servirti di un dono che possiedi dalla nascita. […] E ora pensa a tua sorella. Pensa a come si sente smarrita, quando non riesce a venire fuori da se stessa. Perciò è così importante usare il dono che hai ricevuto. Più lo userai, più troverai te stessa. Non sapevo di essermi smarrita, e lo dico. La signorina Onyx annuisce sorridendo. Tu non lo sai, ma non sai ancora chi sarai un giorno. Ci sarà ben altro. Oh sì. Mi aspetto molto da te”. (pag. 38)

Mary Rapaccini, Perché Giulia non è bella, Milano, Arka, 2000

"Nonno, è così brutto essere diversi?” “A volte sì perché certe persone non capiscono e giudicano le cose o gli altri per quello che vedono. Succede anche a me […]. Pianto un seme e mi aspetto una pianta. Sulla busta dei semi c’è un pomodoro rotondo, così io aspetto che spunti una pianta di pomodori rotondi […]. Essere diversi è saper già in partenza che non sarai uguale al disegno che c’è sulla bustina dei tuoi semi, sarai diverso da quello che gli altri si aspettavano da te. Ma alla fine, sarà solo il tempo che ci dirà se quello che ci sembra solo diverso non è diventato qualcosa di speciale." Pensieri, emozioni e vita quotidiana di una ragazzina alle prese con una nuova sorellina che ha la sindrome di Down in questo bel libretto che fa parte della collana "l’Orsa Maggiore" rivolta a bambini dai dieci anni in su.

Louise Lawrence, Le luci di Rigel, Milano, Junior fantascienza, Mondadori, 1999

Il libro raccoglie otto racconti di spessore diverso, tutti ambientati in un futuro lontano che si lecca le ferite lasciate da catastrofi ambientali, guerre e distruzioni (che riflettono in modo inquietante il mondo di oggi). Le storie affrontano, spostandoli nel futuro, problemi di oggi, dal rispetto dell’ambiente ai rapporti fra le culture fino alla paura della diversità. Proprio su questo tema vi consigliamo di leggere in particolare il penultimo racconto, che dà il titolo alla raccolta, la cui piccola protagonista sa vedere il fascino e la bellezza delle luci di Rigel, considerate dagli altri pericolose e nemiche, e ne intuisce, accogliendone la diversità, il legame profondo con gli abitanti del pianeta.

Theresa Breslin, Sussurri tra le tombe, Milano, Junior horror Mondadori, 1999

Ci sono tutti gli ingredienti dell’horror in questo romanzo, dall’antico cimitero abbandonato alle tombe che si aprono fino alle streghe e alle maledizioni. Ma c’è anche un ragazzino, il protagonista, abbandonato dalla madre e con un rapporto conflittuale e difficile con il padre alcolista. Questo ragazzino è dislessico. Una storia apparentemente centrata su tutt’altro in cui invece questo tema viene affrontato con delicatezza ma in modo incisivo, tanto che si potrebbe proprio parlare di due racconti paralleli con lo stesso protagonista che, da un lato, deve fare i conti con sortilegi e apparizioni ma, dall’altro, deve affrontare una realtà difficile e imparare a fare i conti e a accettare una diversità che non porta per forza all’emarginazione. E così Solomon, che non riesce a leggere e scrivere e conosce “decine di trucchi per evitare di essere scoperto. Guardo, copio, ascolto e ripeto quello che dice qualcun altro; chiedo di uscire prima che arrivi il mio turno per leggere; faccio chiasso e mi sbattono fuori. Funziona sempre” (pag. 32), sta per rinunciare chiedendosi disperato “Perché non riesco a trasformare i pensieri in parole scritte? Riesco solo a usare le parole che sono sicuro di poter scrivere nel modo giusto. Devo scrivere carino quando invece intendo bello, e poi bene quando penso perfetto. Tutte le mie immagini e le mie idee sono soffocate e fallite in partenza. Dentro di me ci sono i colori dell’arcobaleno, ma sfumano subito in una specie di nebbia opaca e grigia”. (pag. 95) Ma troverà qualcuno che saprà infondergli fiducia, parlandogli con chiarezza senza illuderlo ma spronandolo a proseguire. “Riuscirò a farlo giusto un giorno? – chiedo. Incontra i miei occhi e non distoglie lo sguardo. Certo, ma forse non completamente. – dice – Quando diventerai ricco e famoso, non compilare mai un assegno senza che nessuno controlli se le cifre sono esatte. – Sorride – Potresti scrivere 3000 sterline anziché 300. Ma PUOI farcela comunque abbastanza per andare avanti. Ricordati che è una difficoltà e non un’incapacità, devi superarla e andare avanti con la tua vita, per scegliere di fare quello che vuoi. Tieni tu il controllo e non farti condizionare da questo”. (pag. 134).

Silvana De Mari, La bestia e la bella, Milano, Gli Istrici Salani, 2003

Una bellissima rivisitazione della fiaba che il film di Disney ha fatto diventare famosa. Qui però non ci sono teiere parlanti né candelabri e sgabelli che saltellano. Il principe crudele, che racconta in presa diretta, viene trasformato in cane ma “non in uno dei miei magnifici segugi dal pelo fulvo che splendeva di oro, non in uno dei miei splendidi alani ma in un immondo rognoso botolo di un indistinto color fango, con la coda come quella di un sorcio e una vocetta ridicola”. (pag. 5-6) Sarà scacciato dal castello ma anche dal villaggio, sperimenterà rifiuto, violenza, fame e freddo ma anche amore e accoglienza che gli verranno offerte dalla persona più emarginata e più povera di tutte. Una donna che vive in una grotta, sola con il suo bambino, una guaritrice accusata di stregoneria. Non vi raccontiamo il seguito per lasciarvi il piacere di leggere questa bellissima storia di diversità e accettazione ma anche di memoria, umanità e giustizia.

Claudio Imprudente, Il principe del lago, Trento, Erickson, 2001

Protagonista di questa storia è Giangi che un giorno, per caso, cade dentro un libro e si ritrova alla ricerca del Principe del Lago scomparso misteriosamente. Conoscerà individui singolarissimi e luoghi incantati, dovrà affrontare prove di abilità e di coraggio, arriverà a dubitare di sé e delle sue convinzioni ma troverà alla fine, attraverso l’incontro con la diversità, il vero tesoro. Un libro che sa raccontare in modo semplice e piacevole le difficoltà e i timori che può suscitare il contatto con la diversità mentre indica la strada per arrivare a superarli.

Silvia Roncaglia, Orco qua, orco là, Milano, Feltrinelli kids, 2003

Cosa fareste se la vostra mamma vi desse nome Peonia (Rosa di cognome)? Al ragazzino protagonista di questo libro è proprio capitato così e naturalmente tutti lo prendono in giro. Peonia ha anche uno strano papà grande e grosso che, si scoprirà poi, è un orco disintossicato. Non mangia più bambini, cioè. Mescolando questo ed altri ingredienti, nasce questa storia divertente che affronta il tema della diversità in chiave umoristica ma lascia tra le righe un chiaro messaggio che anche i ragazzini più giovani, cui il libro è rivolto, saranno in grado di cogliere.

Alessandro Ghebreigziabiher, Tramonto, Roma, Lapis, 2002

Un bellissimo libro colorato che ci racconta di chi “nasce in mezzo, su una linea di confine e vive camminando su una corda immaginaria, sospeso su un mondo bisognoso di riconoscere e di riconoscersi”. Dalla sua vicenda personale di uomo nato fra due Sud, Napoli e l’Africa, l’autore crea un racconto incantato il cui protagonista cresce alla ricerca di una collocazione e di una identità. Una storia contro i pregiudizi razziali ma anche, in senso più ampio, una dichiarazione “a favore” di tutte le diversità. “Non è vero che siamo tutti banalmente uguali ma tutti splendidamente diversi e unici […] le diversità non vanno tollerate o sopportate, ma vanno amate, sono ricchezze”.

Fred Bernard, Francois Roca, Gesù Betz, Troina (EN), Città Aperta junior, 2003

Abbiamo aperto con molta curiosità questo particolarissimo libro e ne siamo state subito conquistate. Sotto forma di lettera alla madre e accompagnato da bellissime illustrazioni, è il protagonista che racconta la sua storia di uomo senza braccia né gambe e della sua vita in mezzo a uomini e donne che l’hanno rifiutato e cacciato e ad altri che invece hanno saputo accoglierlo e amarlo per quello che è.

Claire H. Blatchford, La missione di Nick, Milano, Junior giallo, Mondadori, 2002 Donna Jo Napoli, Nuovi amici per Pat, Milano, Fabbri, 2001

Il protagonista del primo romanzo, divertente e abbastanza coinvolgente, è Nick, un ragazzino non udente che riesce a salvare un amico e a risolvere una situazione piuttosto intricata. La storia potrebbe rientrare fra quelle, ormai numerose, in cui è già avvenuto un processo di acquisizione in relazione al deficit che viene quindi inserito nelle trame senza che rivesta particolare importanza in quanto tale. Ma l’abbiamo segnalata perché, senza calcare la mano né usare toni didascalici, pone l’accento sulla necessità della comunicazione e sulle difficoltà che può trovare una persona priva dell’udito a mettersi in relazione con gli altri. La scelta, in questo caso, è per la lingua orale mentre nell’altro tenero racconto, per ragazzini più piccoli, lo strumento di comunicazione privilegiato è la lingua dei segni che anche i piccoli amici di Pat, la protagonista, cercano di imparare per poter giocare con lei. Sia Nick che Pat hanno chiaro che per loro non è facile relazionarsi con il mondo degli udenti, entrambi hanno momenti di sconforto e di rifiuto ma riescono a trovare la strategia giusta per non isolarsi, riuscendo a intrecciare rapporti significativi. Non sta a noi stabilire quale dei due sistemi comunicativi sia più adatto (sempre che una scelta debba essere fatta), ma ci pare interessante che anche i giovani lettori possano rendersi conto che ci sono diverse possibilità e che ci si può venire incontro per fare un po’ di strada insieme.

Simonetta Anniballi, Il regalo del nonno, Roma, Sinnos, 2000 Simonetta Anniballi, Matteo è sordo, Roma, Sinnos, 2003

In relazione a questo deficit particolare segnaliamo anche questi due bei libretti, strumenti di lavoro che possono essere utilizzati con i bambini non udenti e le loro famiglie, ma anche con i compagni di classe che, leggendo le semplici storie raccontate anche attraverso la lingua dei segni, potranno scoprire un nuovo sistema di comunicazione e, perché no, imparare a usarlo.

Arianna Papini, Amiche d’ombra, Firenze, Fatatrac, 2000

“Adesso me lo dice. Di sette mesi è nata e nell’incubatrice hanno sbagliato l’ossigeno e lei non ci ha visto mai più. Allora ci vedevi quando sei nata le dico e lei dice sì, che si ricorda la luce e i colori, un pochino. A me mi viene da piangere ma non glielo faccio sentire di voce. […] Non essere triste, mi dice piano”. (pag. 11) Un anno di scuola attraverso il racconto di piccoli episodi, dei compagni, degli insegnanti, delle gite… ma soprattutto un anno al fianco di Michela che guarda la vita con le mani. I bellissimi disegni e le scanzonate descrizioni ci accompagnano in questa storia lieve di integrazione, guidata dai bambini che sanno istintivamente come avvicinarsi a chi è diverso da loro.

Jutta Richter, Quando imparai a addomesticare i ragni, Milano, Salani, 2003

Vogliamo chiudere questa prima parte dedicata ai ragazzi più grandi con un libro che apparentemente non c’entra niente. Ma se si legge tra le righe della piccola, bellissima storia di una bambina e della sua amicizia con Rainer, ragazzo difficile, con una famiglia disastrata alle spalle e poco apprezzato dai coetanei, si scopriranno temi quali la capacità di guardare al di là delle apparenze, il valore dell’amicizia, l’importanza dei patti e della lealtà, l’accettazione della diversità e la ricerca di un’identità, temi che ritornano anche nei testi che abbiamo letto per voi. Un libro dunque che si presta a diversi piani di lettura e può fare da filo conduttore per aiutare i ragazzi, soprattutto nel momento più complicato, nella terra di mezzo fra l’infanzia e l’adolescenza, a crescere senza perdere di vista i valori veri e imparando a scegliere con autonomia e intelligenza.

L’handicap acquisito

Non sono molti i libri per ragazzi che affrontano la tematica del deficit acquisito e la conseguente dura ripresa di contatto con la realtà. Ma ne abbiamo trovati tre che vi presentiamo qui di seguito. Pur di spessore e qualità diversi, ci lasciano con un messaggio di speranza e sottolineano con fermezza che è dentro se stessi che bisogna cercare l’energia e la volontà per rialzare la testa e proseguire lungo una strada in cui proprio la diversità aiuta a riconoscere l’essenziale e a saper discriminare fra l’apparenza e la sostanza delle cose.

Paola Zannoner, La linea del traguardo, Milano, Junior Best seller Mondadori, 2003

Leo, adolescente un po’ presuntuoso con una sfrenata passione per il calcio coronata dal successo, si ritrova, dopo un incidente in motorino, paralizzato dalla vita in giù e con tutti i suoi sogni infranti. “Ti è rimasta un’unica parola maligna a tormentarti: sintagma, quella che a scuola non riuscivi a capire e che ora sembra echeggiarti nella testa come fosse la cosa più chiara che ci sia. Hai perso il sintagma, la combinazione di base per cui correvi, giocavi a calcio, camminavi, saltavi. Non sai di preciso come è successo e dove si è interrotta la linea, ma è quello che ti è capitato: il tuo corpo è un sintagma spezzato”. (pag. 48) […] “Ti ricordi? Sei rimasto ammutolito quando la professoressa di lettere ti ha chiesto cos’è un paradigma. Oggi sapresti spiegarglielo attraverso te stesso: il tuo obiettivo è costruire il tuo paradigma esistenziale. Ed è dura quando in questo paradigma devi coniugarci il dolore”. (pag. 56) Insieme a Leo, ripercorriamo con fatica e rabbia la strada che lo riporterà fra gli altri dopo una dura presa di coscienza. “Noi siamo gli esiliati, non stiamo nel mondo come gli altri ma in una specie di via di mezzo, come quelli che lasciano la loro casa, la loro terra e non ci possono tornare […] e anche se imparano alla perfezione un’altra lingua, altri costumi e cosa si mangia e come si saluta, c’è qualcosa in loro che li fa riconoscere subito per quello che sono, esiliati […]: la nostalgia della terra perduta che impregna lo sguardo come una sostanza oleosa che non riesce a lavar via, neppure dopo tante lacrime”. (pagg. 86-87) E siamo ancora con Leo, e con Viola che sa stargli accanto, quando rialza la testa e si ritrova capace, di nuovo, di affrontare la vita. Siamo con loro fino in fondo, al bellissimo crescendo finale che vi invitiamo a leggere tutto di un fiato, prima di mettere il libro fra le mani dei ragazzi perché lo leggano al più presto.

Cynthia Voigt, Una ragazza modello, Milano, Gaia Junior Mondadori, 1998

Questa volta la protagonista è Izzy, un’adolescente carina, intelligente e ben accetta da tutti che, come Leo, improvvisamente si ritrova a fare i conti con una nuova prospettiva di vita, dopo un incidente stradale nel quale ha perso una gamba. Una storia che affronta forse con un po’ troppa leggerezza i passaggi necessari perché Izzy possa accettare la sua nuova condizione, ma che ha il pregio di far riflettere sui rapporti d’amicizia e sulla possibilità di essere considerate persone normali, con sogni e desideri… anche senza una gamba. “La vita andava avanti e così anch’io… sulle stampelle d’accordo però […] dentro la mia testa vidi la piccola Izzy. Stava lì tutta sola, senza grucce, con la sua gonna di velluto nero. […] Sapevo, anche se non si vedeva, che sotto la lunga gonna c’erano una gamba di carne e una finta. La piccola Izzy restò immobile per un momento e poi mosse un esitante passo in avanti… preparata a cadere, preparata a non cadere”. (pagg. 174-176)

Benjamin Zephaniah, Al di là del volto, S. Dorligo della Valle (TS), Ex Libris, 2000

Ha molte analogie con Leo questo Martin sicuro di sé e un po’ sbruffone che si ritrova con il viso sfigurato dalle fiamme dopo un incidente stradale. Un tema particolare e una diversità che fa molta paura perché tocca il viso in cui riponiamo i segni della bellezza e del riconoscimento. Anche questo romanzo ci accompagna attraverso la presa di coscienza di Martin che arriva con fatica e determinazione a accettarsi mentre ridefinisce le relazioni e le amicizie sulla base di valori più solidi e significativi.

Per i più piccoli

Wilhelm Hauff, Piccolo Nasolungo, S. Dorligo della Valle (TS), Einaudi ragazzi, 2002

Hauff, vissuto all’inizio dell’Ottocento a Stoccarda, ha raccolto trenta volumi di fiabe e poesie della tradizione popolare fra le quali Einaudi, in un piccolo volumetto con belle illustrazioni delicate, ha scelto la fiaba di Jacob trasformato da una strega in un mostriciattolo dal lunghissimo naso. La sua mente resta però viva e pronta e Jacob non si scoraggia. Troverà lavoro come cuoco presso il signore di quelle terre e saprà dimostrare che non bisogna soffermarsi sull’aspetto fisico ma vedere quello che una persona è capace di fare. Aiutato da un’oca riuscirà alla fine a liberarsi dall’incantesimo e… vivranno tutti felici e contenti.

Nicola Cinquetti, Il dono della farfalla, Roma, Lapis, 2001

“C’era una volta una farfalla che aveva una sola ala. Oh poverina! – esclama Chiara, guardando la farfalla grigia disegnata sulla pagina. Poverina un corno! – grida la farfalla, con una voce esile e decisa”. Sta in queste prime righe l’interesse di questo bel libro illustrato. La storia non è diversa da tante altre che si ritrovano nei racconti per i più piccoli ma in questo caso la farfalla si ribella decisamente, fin da subito rifiuta il ruolo di vittima che le si vuole affibbiare e aiuta Chiara, e con lei i piccoli lettori (ma anche i meno piccoli!) a guardare le cose da un’altra prospettiva in cui anche le diversità, tutte le diversità, diventano qualcosa di prezioso e di positivo.

Didier Daeninckx, La farfalla di tutti i colori, Milano, Junior -8 Mondadori, 2000

Ben diversa la storia di Esmeralda, un’altra farfalla che nasce con le ali completamente bianche e si deve rendere conto ben presto che questa caratteristica la rende diversa e quindi la isola dal resto del mondo animale. Dopo essersi dipinta le ali per essere accettata, viene smascherata e di nuovo allontanata. E meno male perché non ci sarebbe piaciuto molto vedere che, solo mascherandola e nascondendola, la diversità può venire accettata. La storia finisce invece con la farfalla sana e salva sull’arcobaleno che in un gioco di luce le colora le ali e la ospiterà per sempre. Sana e salva sì ma… sola. Non sarebbe stato più bello pensare che altri insetti potessero raggiungerla?

Dr. Seuss, Gli Snicci e altre storie, Firenze, Giunti Junior, 2002

Theodor Seuss Geisel è uno dei più conosciuti e amati autori per bambini della letteratura infantile americana e non solo, grazie alla sua rara capacità di usare le doti dell’ironia, della dolcezza e della profondità. Così è anche per il racconto in rima dedicato al popolo degli Snicci che, distinti in “stellati” e “comuni”, sono ben decisi a farsi guerra a vicenda. La presunta superiorità di una parte sull’altra e i tentativi di emulazione diventano, attraverso le strofe e i disegni di Seuss, occasione per riflettere in maniera divertente ed acuta su quanto sia diffusa fra gli esseri umani l’abitudine di mettere muri e recinti a protezione di una irreale e insensata superiorità. Per fortuna sempre di una favola si tratta e quindi, almeno per quanto riguarda gli Snicci, il lieto fine è assicurato e così: “e con gioia vi aggiorno che gli Snicci capirono finalmente un bel giorno, giorno in cui fu deciso che gli Snicci sono Snicci, e nessuno è migliore, non han senso i bisticci. Da quel giorno, di stelle più nessuno ha parlato E ogni Sniccio è felice che sia o meno stellato”.

Anne Maar, Pozor, storia di un cane, Firenze, Fatatrac, 2001

Un grande libro, illustrato magistralmente da Bernd Malck Tassel, che racconta di Pozor, un cane gentile e ordinato che sa lavare i piatti e rifarsi il letto ma… molto grande e con una bocca enorme. Tutti ne hanno paura e lo evitano. Racconta anche di Lukas, un bambino molto molto piccolo che sogna di diventare un domatore. L’incontro fra i due personaggi è l’incontro tra due diversità che si integrano in un progetto comune e condiviso senza mai annullarsi l’uno nell’altro, ma anzi trovando forza proprio nell’affettuoso riconoscimento della peculiarità di ciascuno.

Dino Guernieri, Anzoletto vola in cielo, Padova, Edizioni Messaggero di Padova, 2001

Accompagnati da deliziose illustrazioni, seguiamo le avventure di Anzoletto Cherubin che sta sospeso in aria sul cielo di Venezia. Siamo ai tempi delle repubbliche marinare, il Doge è furibondo: la diversità fa paura, ciò che non si riesce a tenere sotto controllo va eliminato. Un piccolo libro da leggere tutto d’un fiato da cui si ricava (ma senza che ci si annoi con lezioni pedanti!!) che le diversità non vanno rinchiuse entro caselle che le delimitano e le controllano, ma vanno accolte e accettate per quello che sono.

Marco Meschini, I rapatori di teste, Monte S. Vito (AN), Raffaello, 1999

Un’avventura divertente con tutti gli ingredienti per piacere ai bambini: un nonno, dei cattivi, un po’ di magia e un tesoro nascosto. E naturalmente due bambini come protagonisti di cui uno ha "le gambette sottili come le zampe di una cicogna ma corte corte; la testina completamente pelata e le orecchie perfettamente a sventola. Era sempre molto silenzioso ma ogni tanto schiudeva le labbra e allora tutti udivano chiaramente tao du du e perfino esè esè pappo di cui nessuno conosceva il significato…". Un bambino "diverso" ma con il quale l’amico riesce a comunicare e di cui scopre, con assoluta sicurezza, le capacità e le potenzialità che saranno necessarie per il lieto fine.

Kitty Crowther, Il mio amico Jim, Bolzano, AER, 1998

Poche brevi frasi per un libro tutto illustrato, rivolto ai più piccoli, che racconta dell’amicizia fra Jack, un corvo nero nero e Jim, un gabbiano… ovviamente bianco bianco. Guardato con ostilità dagli altri gabbiani, Jack rivelerà presto una dote nascosta che permetterà di superare le diffidenze e la paura della diversità.

Hiawyn Oram, Susan Varley, Talpa e la luna, Bolzano, AER, 1997

Si sa, le talpe non vedono niente. Ma Piccolino Talpa riesce a vedere al buio… e quando cerca di comunicare agli altri le sue scoperte arrivano i problemi. "Vede ciò che non esiste […] è meglio fargli controllare gli occhi…". Così si ritrova con una benda sugli occhi che lo impiccia e lo fa inciampare… Naturalmente Piccolino si libererà della benda e riuscirà a convincere i grandi che la sua diversità è preziosa.

Rémy Simard, Pierre Pratt, Lo stivale magico, Bolzano, AER, 1997

Un libro con illustrazioni coloratissime per raccontare ai più piccoli la storia di Pippo, un bambino con "dei piedi lunghi che non vogliono smettere di crescere". La storia è semplice ma godibilissima, naturalmente il lieto fine è assicurato e ci sono tutti gli ingredienti per appassionare i piccoli lettori, dall’amico invidioso alla fatina buona, dall’orco alla magia.

Francesco Enna, Il bambino di porcellana, Cagliari, Condaghes, 2000

Una fiaba divertente che aiuta a capire chi sono i bambini con autismo, attraverso le avventure di Daniele, bimbo di fragilissima porcellana, le cui avventure sono raccontate in modo fantastico e poetico ma con riferimenti precisi alle figure reali di bambini con questo deficit.

Concetta Rundo, La bambina che parlava con le mani, Troina (EN), Città aperta junior, 2002

È accompagnata dalle bellissime tavole di Lucia Scuderi la fiaba di Selene che dialoga con le stelle e la natura usando le mani. Un viaggio nel mondo senza suoni dei non udenti e la ricerca di una possibile integrazione col mondo molto più rumoroso, ma a volte distratto, di chi ci sente.

Associazione Italiana Dislessia, Il mago delle formiche giganti, Firenze, Libriliberi, 2002

Una storia semplice e divertente per far sapere ai bambini che cos’è la dislessia. Alla fine della storia si trovano schede operative e giochi per cercare di capire e affrontare un problema sempre più frequente fra i bambini delle scuole elementari.

Virginia Fleming, Floyd Cooper, Sii amorevole con Eddie Lee, Bologna, Giannino Stoppani Editore, 2001

Un bellissimo libro in cui le meravigliose illustrazioni si fondono con un testo semplice e poetico che ci trasporta in un pomeriggio caldo e assolato, insieme a tre bambini e alla loro scoperta della diversità di tutti gli esseri umani.

Guido van Genechten, Rikki, Trieste, Emme, 2000

Una deliziosa, piccola storia che ci fa conoscere Rikki, un coniglietto come tutti gli altri, solo che una delle sue orecchie pende in giù e così gli altri lo prendono in giro. Dopo aver tentato in tutti i modi di raddrizzare l’orecchio ribelle, Rikki arriva a capire che tutte le orecchie sono diverse e ritorna nel gruppo di amici con una proposta divertente per farlo capire anche a loro.

Leo Lionni, Un colore tutto mio, Milano, Babalibri, 2001

La magica matita di Leo Lionni crea un personaggio indimenticabile, il piccolo camaleonte alla ricerca di un colore tutto suo. L’impresa si rivelerà impossibile, tutto cambia colore intorno a lui e insieme a lui, ma la soluzione, suggerita da un altro camaleonte, sarà molto semplice: “Perché non stiamo insieme? Cambieremo colore ogni qualvolta ci sposteremo, ma tu e io saremo sempre uguali. E così rimasero insieme sempre vicini. Erano verdi tutti e due e viola e gialli. E rossi a pallini bianchi. E vissero sempre felici e contenti.” Anche i bimbi che non sanno leggere saranno in grado di cogliere il messaggio chiarissimo che scaturisce dai bellissimi disegni e che non ha bisogno di commenti.

Jeanne Willis, Tony Ross, Questa è Susanna, Milano, Mondadori, 2000

Anche senza leggere la spiegazione sul retro di copertina senz’altro superflua e un po’ troppo didascalica, lo scopo del libro è chiaro e, ci pare, assolutamente raggiunto. Deliziosi disegni accompagnati da brevissimi testi ci raccontano tutte le cose, giuste o sbagliate, che Susanna sa fare, tutti i sentimenti, buoni e cattivi, che prova e solo alla fine ce la mostreranno sorridente su una sedia a rotelle mentre la didascalia ci dice che “questa è Susanna, queste e tante altre sono le cose che sa fare proprio come me, proprio come te”.

Kathryn Cave, Chris Riddell, Qualcos’Altro, Milano, Mondadori, 2000

“Su una collina esposta al vento, da solo, senza nessuno con cui fare amicizia, viveva Qualcos’Altro”. È già chiaro da questo inizio che il protagonista è stato rifiutato, nonostante tutti i suoi tentativi, da tutti gli altri. Una sera però sarà lui a dover decidere se respingere o accogliere Qualcosa diverso da lui che bussa alla sua porta. Una storia semplice, dai disegni accattivanti, che fa riflettere sulla diversità e l’accoglienza, senza falsi moralismi e con molta semplicità.

Marina Bassani, Zefirino Collolungo, Milano, Feltrinelli kids, 2000

Un esile libricino, illustrato da Emanuele Luzzati, porta i primi lettori in un paese senza luce elettrica dove incontrano un bambino dal collo lunghissimo che, naturalmente, viene cacciato da tutti perché combina solo guai. Sarà però proprio la sua diversità che porterà la luce nel paese, insieme alla riconoscenza e all’affetto di tutti.

Geronimo Stilton, Un meraviglioso mondo per Oliver, Casale Monferrato (AL), Piemme, 2003

Una nuova storia per un topo molto amato dai bambini che, questa volta, affronta il tema della disabilità e delle barriere architettoniche attraverso una storia semplice e gradevoli soluzioni grafiche.

Augusto Roa Bastos, Il pulcino di fuoco, Milano, Junior -8 Mondadori, 1994

Dalla penna di un importante scrittore latino americano, esce un’esile fiaba sulla diversità, le paure e i pregiudizi che può suscitare. La storia del pulcino di fuoco che incendia tutto quello che tocca (a cominciare dal suo stesso pollaio…) è semplice e non racconta niente di nuovo, ma tratteggia bene alcuni tratti tipici che contraddistinguono chi, alle prese con la diversità, non sa far altro che fuggire demonizzandola, attribuendole tutti i mali del mondo, oppure cerca di mercificarla, facendone un fenomeno da baraccone.

Nicoletta Bertelli, Maria Loretta Giraldo, Gli amici di Anna, Cinisello Balsamo (MI), San Paolo Edizioni, 2001

Un libretto per primi lettori con grandi illustrazioni accompagnate da poche righe di testo in stampatello che raccontano di Anna e dei suoi compagni preferiti, emarginati dagli altri perché hanno qualche difetto. Uno è troppo grasso, un’altra non riesce a scrivere, uno è troppo aggressivo e lei stessa ha i capelli rossi e le lentiggini. Diventa quasi un gioco e vuole essere un invito esplicito a cercare dietro le apparenze perché “Luca spesso balbetta […] ma quando parla la lingua degli uccelli non balbetta, sa fare il verso del passero e quello del merlo e quello del fringuello. Quando Luca cinguetta sembra di essere in un bel boschetto”.

Marie Ndiaye, La diavolessa, Milano, Junior -8 Mondadori, 2002

Una bellissima fiaba di una scrittrice per adulti che ci trasporta in un mondo magico al fianco di una donna alla disperata ricerca del figlioletto che non trova più. Lo cerca per tutto il villaggio, bussa a tutte le porte ma… “La diavolessa aveva un viso piacevole da guardare […] ma non era possibile aver pietà della diavolessa, una volta che ci si accorgeva dei suoi piedi non umani”. Bisogna abbandonare ogni logica e seguire l’incanto della fiaba senza farsi domande, immergendosi nelle coloratissime illustrazioni, per arrivare alla conclusione che non vi anticipiamo e che non ha bisogno di alcun commento.

Guido van Genechten, Perché ti voglio tanto bene, Bolzano, AER, 2003

Una tenerissima storia che ci racconta di Nevoso, un orsetto polare molto curioso, e della sua mamma. Tenerissime illustrazioni accompagnano il crescendo di domande di Nevoso fino a una molto particolare. “Ma se io fossi giallo – domandò Nevoso – penseresti ancora che sono tenero e dolce? Ma naturalmente – rispose la mamma. E se fossi rosso o verde o blu, dappertutto? Lo penseresti ancora? Certamente! – sorrise la mamma. Perché? – le chiese Nevoso. Perché ti voglio tanto bene! – disse la mamma”. Ed è questo che conta, per tutti. E questo messaggio, i più piccoli sapranno coglierlo senza bisogno di spiegazioni.

Piotr Wilkon, Jozef Wilkon, La gattina Rosy, Milano, Arka, 1989

Una piccola storia di diversità, rifiuto e accettazione la cui protagonista è una scatenata gattina dal pelo rosso, nata in una famiglia di gatti neri e molto per bene. Rosy non è come i suoi fratelli, non riesce a seguire le regole, è in perenne movimento e fa amicizia con tutti (compresi… topi e cani!). La sua famiglia viene emarginata dalla comunità finchè Rosy non decide di andarsene per il mondo, restituendo così la tranquillità e il buon nome alla famiglia. Diventerà un’affermata cantante e riporterà ai nonni, finalmente riconciliati e disposti a accettarla, quattro nipotini di cui tre rossi e uno… nero come il carbone.

Marina Schlossmacher, Iskender Gider, La gallina nera, Saint-Germain-en-Laye, Nord-Sud, 2003

C’era una volta un pollaio in cui viveva una gallina nera. Non solo era nera, deponeva anche uova di tutte le forme tanto che le altre galline, rigorosamente bianche e con uova a forma di uovo, la prendevano in giro e la accusavano di essere la vergogna del pollaio. Ma il coniglio pasquale porterà le sue uova al re… Lieto fine assicurato per una piccola storia che, senza retorica, parla ai più piccoli di accettazione e fiducia nelle proprie capacità.

Marie-Hélène Delval, Susan Varley, Un fratellino diverso dagli altri, Milano, Einaudi scuola, 2002

È stata una gradevole sorpresa trovare questo libretto rivolto ai ragazzini più giovani in cui i protagonisti sono conigli ma il tema della diversità viene affrontato in modo molto concreto e reale, non attraverso metafore come accade quasi sempre nei testi per i più piccoli. È la sorellina di Toto che ci racconta com’è la vita con un fratello con la sindrome di Down, sottolineando anche le fatiche e i momenti di rifiuto per arrivare a un’accettazione piena che sa tener conto del deficit ma sa vedere anche tutto il resto.

Louise Gorrod, Mio fratello è diverso, Milano, Fondazione Clara Fabietti per l’autismo, 1997

"Mio fratello è diverso. Vi spiego cosa voglio dire…". Comincia così questo libretto con grandi illustrazioni e poche righe di testo che, attraverso la voce della sorellina maggiore, spiega ai bambini cos’è l’autismo e come ci si può comportare con i bambini che hanno questo deficit. Chi volesse maggiori informazioni può rivolgersi alla Fondazione Fabietti, via De Amicis 19, 20123 Milano o scrivere una e-mail a fondazionefabietti@tin.it.

José Moran, Emilio Urberuaga, Paz Rodero, Dodo, Padova, Bohem Press, 2003

Una notte nel bosco piove un uovo enorme da cui esce “Dodo, un animaletto molto strano con un’espressione smarrita” che va alla ricerca della propria identità interrogando tutti quelli che incontra. Ne ottiene puntualmente risposte evasive che non fanno che sottolineare la sua diversità. Quando Dodo comincerà a essere stanco di questa ricerca infruttuosa ecco che dal cielo piovono molte altre uova e può dare il benvenuto alla sua famiglia: “Questo è un pianeta fantastico per viverci, vedrete! Bè ci sono alcuni animaletti strani, sono diversi da noi ma non fanno male a nessuno… e, dopotutto, chi non è un po’ strano?”.

Eric Battut, Ric e Ric. Storia di un orco e di un folletto, Padova, Bohem Press, 2002

Enormi, coloratissimi disegni e poche righe di testo per la storia di Ric e Ric, uno orco e l’altro folletto, nati nello stesso istante. Ma… il figlio degli orchi era nato piccolo mentre il figlio dei folletti cresceva sempre più. Attraverso le loro vicende passiamo per le difficoltà e il rifiuto della diversità, per arrivare al riconoscimento delle capacità e delle caratteristiche di ciascuno. Senza miracoli né trasformazioni. “Ric e Ric erano sempre gli stessi, né più grande né più piccolo. Qualcosa però era cambiato: avevano ora un sorriso fino alle orecchie”.

La diversità è glamour…o no?

“Sii quello che vuoi sembrare che sei. Oppure, per dirlo più semplicemente: non immaginare mai né d’essere diversa da quello che può sembrare agli altri che tu sia o possa essere stata o potresti diventare; né diversa da quella che avresti dovuto essere per apparire agli altri diversa”, dice la Duchessa, uno dei personaggi che popolano il Paese delle Meraviglie, ad Alice, nel famoso libro di Lewis Carroll. Alice fatica a trovare una morale in questa frase, perché essa ha qualcosa di simile al paradosso, intendendo per paradosso una situazione davanti alla quale il cervello si “smarrisce” all’interno dei giochi linguistici e figurativi. La stessa sensazione di smarrimento, di situazione paradossale, che tra l’altro si inserisce perfettamente nei concetti di essere, apparire, voler essere e dover apparire, l’hanno provata i lettori di “Panorama” il 26 giugno 2003, quando il noto settimanale italiano ha dedicato la copertina e un lungo servizio giornalistico e fotografico all’elogio della diversità, in occasione dell’Anno Europeo delle persone disabili. Nei giorni seguenti alla pubblicazione, cori di protesta hanno fatto il giro di Internet, inserendosi in quasi tutti i newsgroup e forum che trattano di disabilità. In luglio, poi, le stesse lettere che sono circolate nella Rete sono state riprese in toto da alcuni settimanali cartacei, ad esempio da “Vita”, uno dei magazines del non profit più famosi e attendibili, aggiungendo titoli “ad effetto” per rimarcare addirittura lo “scandalo” di un reportage come quello di “Panorama”. Ma uno degli elementi paradossali risiede nel fatto che le proteste non sono giunte dai lettori diciamo normodotati, bensì dai lettori disabili e dalle associazioni che si occupano di disabilità. Che cosa non ha funzionato, allora, nel tipo di informazione sociale proposto da “Panorama”? Innanzitutto, probabilmente, esiste un errore temporale. Il pezzo giornalistico è stato scritto da una giornalista italiana, Stella Pende, ma le foto che accompagnano il servizio e che sono la parte determinante, non le ha scattate Stella Pende, né qualche altro collaboratore di “Panorama”, né sono state pensate e realizzate per il servizio del settimanale.
Le foto sono frutto di due anni di lavoro di un celebre fotografo francese, Gérard Rancinan, che, insieme alla giornalista Virginie Luc, ha girato il mondo alla ricerca di “handicap” curiosi, strani, di uomini e donne che nonostante i gravi problemi e deformità dei loro corpi sono riusciti ad affermarsi come persone vincenti. Tutte le fotografie e i testi di questi due anni di esperienze verranno pubblicati in un libro che uscirà nel 2004 col titolo “In praise of difference” (in Italia: “Elogio della differenza”).
Quindi, anche se nel servizio di “Panorama” viene specificato che le foto sono di Rancinan e Luc, esse comunque appaiono decontestualizzate dalla funzione originale per la quale sono state scattate. Funzione che si capirà sicuramente meglio quando il libro sarà pronto. Ma si sa che i giornali tendono all’esclusiva, allo scoop, e queste immagini hanno ormai fatto il giro d’Europa. In luglio, servizi analoghi a quello di “Panorama” sono stati pubblicati nel supplemento spagnolo del quotidiano “El-Mundo” (“Magazine” n° 199 del 20 luglio 2003, col titolo discutibile di “Gli irrepetibili”) e in alcune riviste dei Paesi dell’Est. Ma procediamo. Un altro errore probabilmente commesso è di tipo estetico, e anche di conseguenza morale: se ci si pensa, ????? ???? ???? ??????? ??????? ?? ?????? ?????
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???????? ?? ??????? ??????..immagini non parlano da sole. L’immagine fotografica è di solito un’immagine senza codice, o comunque con un codice molto debole. Di conseguenza è un’immagine polisemica, cioè può avere più significati a seconda della soggettività di chi la osserva e la interpreta. L’immagine ha bisogno del contesto affinché la sua interpretazione vada nel senso voluto dall’autore. Una fotografia contiene in sé una vera e propria affermazione visuale di una scelta, di una cultura, di uno stato d’animo… ma da sola non può connotare un messaggio. Eppure in questo caso le immagini hanno parlato, ancora di più delle parole della Pende. Si pensi anche alla campagna pubblicitaria del 1998 intitolata “I girasoli” e realizzata dal fotografo Oliviero Toscani per l’azienda di vestiti Benetton: bambini down e ragazzi con deficit psichici furono ritratti con i loro operatori normodotati in un’esplosione di colori, sorrisi e allegria, griffati ovviamente Benetton. Scattarono subito le polemiche delle associazioni di categoria: lo scandalo era l’aver abusato della disabilità per vendere più magliette. Non si pose mai la questione di come furono realizzate le foto, se questi bambini e ragazzi si divertirono, se si instaurarono belle relazioni sociali. Le immagini (senza contesto) bastarono per scardinare certi stereotipi e per preoccuparsene. Personalmente, la campagna “I girasoli” mi piacque molto, così come mi piace – a questo punto posso anche ammetterlo – il servizio di “Panorama”. Con tutti i difetti e le imperfezioni giornalistiche che ha, mi piace nella misura in cui mi pare rispecchi ciò che questi soggetti fotografati da Rancinan vogliono: cioè essere guardati. Si tratta di persone così lontane da quella che comunemente è chiamata normalità, che sono comunque guardate sempre e da tutti, appena escono di casa. Anziché nascondersi, hanno scelto di mettersi in mostra in tutte le manifestazioni della loro vita, scegliendo mestieri che li portano a contatto col pubblico e con la visibilità. Pascal Kleiman, nato senza braccia, è uno dei dj più famosi di Francia e viene chiamato in parecchi locali e discoteche. Anne Cécile Lequien, che ha subito amputazioni alle braccia e a una gamba, nuota e vince davanti a tutti e in costume da bagno alle Paraolimpiadi. Deb Teighlor fa la modella nonostante i suoi 250 chili. Una delle due gemelle siamesi fa la cantante country. Jennifer Miller, la donna con la barba, oltre a insegnare all’Università, si è già mostrata nuda in diversi giornali. Alison Lapper, nata senza braccia e con le gambe più corte, è oggi un’artista di talento e basta una semplice ricerca in Internet per scovare il suo sito personale (www.alisonlapper.com) dove si trovano molte foto artistiche di lei nuda, alcune anche in compagnia di suo figlio. Sono persone abituate quindi a mostrarsi e che hanno fatto della visibilità la loro vittoria sui deficit. Guardiamo, allora, non c’è niente di male (almeno in questo caso). E intanto auguriamoci che l’Anno Europeo delle persone disabili non produca solo servizi poco esaustivi e polemiche circolari.

Dall’altra parte della guerra

Libri per piccoli e piccolissimi

Filastrocca della pace
La pace è una bambina
Che non chiede cose matte
solo alzarsi la mattina
Non col sangue, col latte.

Bruno Tognolini

Nikolai Popov, Perché?, Nord-Sud edizioni, St-Germain-en-Laye, 2000
Tutto illustrato, con brevissimi testi, il libro racconta di un topo, di un ranocchio e della loro lite, che coinvolge ben presto altri topi e altri ranocchi. Non c’è fine alla storia, men che meno lieto fine, né si ipotizza soluzione al conflitto. Si passa, in un crescendo che le illustrazioni sostengono benissimo, da un paesaggio incantevole, da un’atmosfera serena e distesa, ad uno scenario di devastazione e di desolazione, dal verde intenso dei prati ad un grigio di morte. E’ proprio il caso di chiedersi “perché?”.

Vanna Cercenà, Mai più crociate, Fatatrac, Firenze, 2000
Attraverso gli occhi di Cuordicavallo, immaginario figlio naturale di Riccardo Cuordileone, possiamo vedere cosa accadeva ai tempi della terza Crociata e come erano gli infedeli che bisognava combattere. Un romanzo appassionante e coinvolgente, ben accompagnato dalle belle illustrazioni di Emanuela Orciari, in cui i ruoli di vittima e di eroe sono spesso rovesciati rispetto ai libri di storia, in cui non è scontato sapere chi sono i buoni e i cattivi ma si scopre, insieme al protagonista, che "un infedele era un uomo come tutti gli altri".

Marcello Argilli, Il giorno dei discorsi mai sentiti, Fatatrac, Firenze, 2001
Si legge tutto d’un fiato questo romanzo con bellissime illustrazioni in cui si racconta del popolo dei Testafina, geniali e con la gobba, e del popolo dei Testagrossa, molto forti ma poverissimi e privi di cultura, due popoli che fra di loro si disprezzano pur senza conoscersi e che sono entrambi sottomessi ai crudeli Grangustai padroni di Ricconia. Fra colpi di scena appassionanti, apparenti sconfitte e apparenti vittorie la storia si snoda veloce e intrigante; un bellissimo romanzo sul totalitarismo e l’ingiustizia scritto per i ragazzi ma che può appassionare e divertire anche gli adulti.

Fernando Savater, A briglia sciolta, Contemporanea Mondadori, Milano, 2002
Ha scritto solo questo libro per i ragazzi ma ha fatto centro: la storia degli abitanti di Nubelungi dal Mare e del loro amore per la pace e la libertà è un divertente apologo contro la guerra e tutte le dittature, prima fra tutte, quella del pensiero, quella che vuole tutti omologati, tutti ossequienti alla stessa voce, alla stessa bandiera. Da leggere assolutamente le pagine in cui il sindaco del paese “inventa” la bandiera.
“Allora il sindaco decise di inventare qualcosa che inducesse tutti gli abitanti di Nubelungi a sentirsi uniti in nome dell’orgoglio nubelungino. Un bel giorno uscì per strada impugnando fieramente un manico di scopa al quale aveva legato uno strofinaccio non troppo pulito, giallo a righe nere. Poi chiese al primo che incontrò per strada: “Vediamo un po’, non dirmi che non sai che cos’è questa”
L’uomo, con una certa prudenza per paura che si trattasse di un’altra delle sue manie, gli rispose che non lo sapeva.
“Ebbene, questa è…la bandiera di Nubelungi! E’ il simbolo di Nubelungi, hai capito? Ogni bravo nubelungino deve amare la propria bandiera.”
E convocò tutti gli abitanti per il giorno dopo, nella piazza principale, per un gran comizio il cui slogan era: “Uniti sotto la n? ??????? ???????? ??? 5 ????? .. ??? ?? ??????? ??? ???? ?? ???? ???? ? [/COLOR][/SIZE]
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[CENTER][SIZE=5][COLOR=black]?????????? ???? ??????? ???????? ?????? [IMG]http://www.te3p.com/vb/images/smilies/1.gif[/IMG][/COLOR][/SIZE][/CENTi, molti anni dopo, escono…tanti elefanti grigi.
La storia, con bellissime illustrazioni e un testo molto breve, potrebbe finire qui. E, considerando che si tratta di un libro per bambini piccoli, sicuramente sarebbe sufficiente per trasmettere un messaggio positivo.
Ma McKee ci lascia invece di fronte ad un nuovo odio nascente (quello degli elefanti grigi con le orecchie piccole verso quelli grigi ma con le orecchie grandi) che, senza bisogno di commenti e ulteriori spiegazioni, dice tutto sull’assurdità delle guerre.

Hubert Nyssen, La strana guerra delle formiche, Le Nuvole Racconti filosofici, Mottajunior, Milano, 1998
Una bella storia metafora della distruttività di ogni guerra. Per l’intrusione di Fata Eloisa le formiche blu e le formiche verdi vengono dotate del linguaggio, questo dono non richiesto conduce gli insetti prima ad una lotta verbale poi fisica che li porterà alla completa distruzione. Un ottima occasione di riflessione sul peso del pregiudizio e sulla pericolosità di segnare l’altro come diverso perciò nemico.

Jurij Olesa, I tre grassoni, Grand’istrice, Salani Editore, Firenze, 1996
Lo spirito di questo libro nasce in modo diretto dalla biografia dell’autore. Olesa nato nel 1899 da una nobile famigli polacca decaduta incontra la Rivoluzione Russa; artista variopinto dedicò a questo avvenimento e agli anni che seguirono storie di fiaba che propongono in tono fantastico gli accadimenti della storia. Anche in questo testo i protagonisti sono a metà strada tra il reale e la fantasia; in parte umani come il funambolo Tibul in parte giocattoli come la bambola meccanica che attraverso una serie di mirabolanti avventure metteranno fine all’odioso regno dei Tre Grassoni.

La nascita di un bambino Down: l’esperienza di Ferrara

II territorio ferrarese presenta la peculiarità di due Aziende Sanitarie: la prima, costituita dall’Az. Ospedaliera-Universitaria, dove è allocata l’Unità Operativa (U.O.) di Terapia Intensiva Neonatale e Neonatologia, che riceve utenza da tutto l’ambito provinciale e dai territori limitrofi.
La seconda Azienda è costituita dagli altri presidi ospedalieri e da tutti i Servizi “territoriali” della provincia, compresa l’Unità Operativa di Neuropsichiatria-Psicologia-Riabilitazione dell’Età Evolutiva.
Questa tipologia di Servizi poteva confermare l’eredità di una certa disconnessione operativa tra équipe distrettuali diverse, se non addirittura una separazione delle aree nascita ai Servizi territoriali di Riabilitazione. Nel caso specifico della Sindrome di Down, non era infrequente l’arrivo ai Servizi di Riabilitazione dei bambini in età avanzata e, su un piano operativo, anche metodologie dissimili d’approccio al fenomeno.
Dal 1992, definendo una prassi consolidata da almeno un decennio, è stato costituito un gruppo di lavoro interaziendale composto dal pediatra/neonatologo, dallo psicologo, dalla fisioterapista e dalla logopedista, con la consulenza del neuropsichiatra infantile.
Tale gruppo di lavoro, con la conseguente metodologia, ha assunto carattere di convenzione interaziendale e di progetto obiettivo; e ha il compito di accogliere e accompagnare fin dalla nascita il bambino Down e la sua famiglia, inviandoli precocemente ai Servizi territoriali di riabilitazione di competenza.

Evento Nascita
La nascita di un bambino Down è un evento che ridefinisce il progetto di vita di una coppia di genitori. La diversità del bambino atteso segna in modo indelebile il futuro che sarà irto di difficoltà e impegni. La famiglia dovrà raggiungere un nuovo equilibrio. Lo sviluppo del bambino e della famiglia diventa un lungo viaggio tra normalità e diversità, dove spesso viene cercato il “massimo” possibile senza talvolta incontrarlo.
Al di là della contraddizione che la prima comunicazione comporta è innegabile che la qualità e le modalità con la quale essa avviene rappresentano fattori fondamentali che determinano il primo legame (genitori-bambino, genitori-medico, genitori-struttura).
La comunicazione, affidata alla sensibilità del medico, impone il fornire corrette informazioni sia retrospettive (per prevenire o correggere distorsioni dei vissuti e o sensi di colpa), che prospettiche (per conoscere in tutti i suoi aspetti ciò che questa anomalia genetica può comportare e essere in grado di affrontare le problematiche che si incontreranno). Deve inoltre mirare alla costruzione di una consapevolezza dell’esistenza dei problemi (che possono essere affrontati con adeguati programmi di interventi collaborativi tra le varie competenze), consentendo alla famiglia di affrontare le inevitabili problematiche in modo relativamente più adattivo e “sereno”.

La prima comunicazione
La comunicazione della diagnosi di una malattia che colpisce lo sviluppo neuropsichico, come accade nella sindrome di Down (SD), è sempre un momento importante e molto delicato per il contenuto e per il contesto in cui avviene.
Questo momento (che viene ricordato dai genitori anche a distanza di molti anni) riveste il significato di evento traumatico e può determinare più o meno gravi distorsioni della interazione precoce dei genitori con il bambino, con conseguenti influenze negative sulla sua evoluzione.
Ancor di più oggi dove i recenti progressi dell’ostetricia e della neonatologia inducono a pensare a una “nascita senza problemi”, la nascita di un bambino Down trova i genitori (specialmente se giovani) più impreparati e disarmati, e spesso provoca uno shock emotivo particolarmente doloroso. Il medico e il personale sanitario non sono esenti da questi sentimenti d’impreparazione, d’impotenza e di rabbia. La comunicazione rischia di essere frettolosa e inadeguata con un eccessivo distacco emotivo oppure di essere delegata a altri operatori (genetista, psicologo, ecc.).
Questa comunicazione ai genitori della problematicità del loro figlio è pertanto un momento carico di conseguenze. Uno dei motivi principali è legato al fatto che i genitori confrontati con un bambino diverso da quello immaginato (“ideale”, bello, sano, intelligente), sono colpiti profondamente nel loro senso di identità e di preoccupazione per il futuro, generandosi così la cosiddetta “ferita narcisistica”.
Va ricordato che la comunicazione diagnostica relativa alla SD presenta alcuni aspetti peculiari, si tratta infatti di una diagnosi che, con l’ausilio della citogenetica, è subito certa mettendo ancora più a rischio il fattore “attaccamento”.
Pensiamo che una modalità adeguata di comunicazione debba essere caratterizzata da un sostegno immediato da parte dei curanti con disponibilità di ascolto della sofferenza espressa dai genitori, in un clima di considerazione reciproca e di fiducia, evitando ogni prognosi troppo negativa a distanza e favorire l’”alleanza terapeutica” fra genitori e curanti, senza la quale non sono possibili progetti terapeutici a medio e lungo termine.

La nostra scelta operativa
Coerentemente con quanto affermato si è provveduto a costruire una continuità di percorso che saldasse il primo momento della nascita e della prima comunicazione con il processo d’intervento in rete relativo allo sviluppo neuropsichico successivo. Il coinvolgimento immediato dei professionisti interessati nella riabilitazione territoriale e nei bilanci di salute è diventato un fattore di eccellenza e si sono create procedure formalizzate di attuazione.
È stata quindi approntata una procedura il cui scopo è quello di effettuare la comunicazione della diagnosi ai genitori nei modi e nei tempi più adeguati, tenendo in considerazione gli esiti delle indagini strumentali eseguite per escludere l’associazione di altre malformazioni congenite, al fine di essere esauriente e puntuale e coinvolgere il più precocemente possibile (fin dai primi giorni di vita del paziente con SD) le figure professionali alle quali verrà demandata la gestione coordinata del bambino e restituire ai genitori un’importante qualità partecipativa.
Un secondo obiettivo, più trasversale, viene raggiunto relativamente all’elaborazione dell’evento con i genitori che hanno la possibilità di affrontare la discussione della diagnosi a loro comunicata.
Viene dedicato loro il tempo necessario in questa fase critica permettendo di avviare un percorso sin dentro l’ospedale. In questo modo ci sembrano assicurate continuità e accoglienza tra ospedale e territorio.
Ci sembra che questa impostazione sia un’azione concreta e produca un percorso continuo e progressivo presentando le due realtà (ospedale e territorio), non in maniera dicotomica ma come momenti diversi per bisogni diversi.
Parallelamente a questi due obiettivi (prima elaborazione della diagnosi comunicata e invio precoce) il Gruppo interaziendale mantiene un mandato di monitoraggio dello sviluppo del bambino Down e della sua famiglia; infatti accanto all’invio ai Servizi Territoriali e al riferimento del pediatra di libera scelta, viene proposto di mantenere un rapporto di follow-up.
Questa impostazione tende a superare la dialettica tra Servizi-Strutture-Centri centralizzati e Servizi operativi decentrati. È indubbio però che, per un buon funzionamento, serve la condivisione di protocolli e linee guida che assicurino trasparenza e comunicazione interattiva tra le diverse istanze, garantendo anche alle famiglie la soddisfazione dei bisogni e la loro partecipazione attiva nella definizione del complessivo percorso. Per meglio gestire la salute del bambino Down si è convenuto, in armonia con le linee guida del Gruppo di Studio di Genetica Clinica della SIP, di seguire il programma di follow-up affidato ad un’équipe multidisciplinare (genetista, neonatologo, pediatra, cardiologo, neuropsichiatria infantile, psicologo, ecc.).
Le famiglie stesse diventano così consapevoli dell’esistenza di momenti critici nello sviluppo che tecnicamente vanno monitorati, e partecipi di una processualità condivisa e responsabile sia nelle scelte di salute e che di qualità della vita.
 
In conclusione questa scelta operativa ci sembra aver comportato alcuni risultati decisamente positivi:

– la comunicazione assume valore e significato cardine del processo curativo e riabilitativo;
– la continuità del percorso sanitario assistenziale del bambino e della sua famiglia sancisce la centralità del bisogno rispetto al luogo di erogazione dei servizi;
– la formalizzazione di un percorso condiviso tra Servizi diversi di Aziende diverse, nello specifico tra Ospedale e Territorio (un percorso funzionale che lega l’équipe ospedaliera, quella riabilitativa territoriale e i pediatri di libera scelta);
– si sono coniugate diverse esperienze tecniche culturali e professionali.

Riferimenti bibliografici
S. Barbagna (a cura di), La sindrome di Down Proposte per un percorso educativo e riabilitativo, Tirrenia (PI), Edizioni del Cerro, 2000.
G. Cocchi, “Diagnosi prenatale e prevalenza alla nascita della Sindrome di Down”, in R.I.P., 25/4: 756, 1999.
R. Ferri, Il bambino con Sindrome di Down. Tecniche di intervento nei primi anni, Roma, Il Pensiero Scientifico Editore, 1996.
O. Gabrielli, “La Sindrome di Down: aggiornamenti clinici e fisiopatologici”, in R.I.P., 25/4: 760, 1999.
Magnani, Benatti, Garani, Stoppa et al., “Studio policentrico di nati con Sindrome di Down: mortalità e sviluppo da 0 a 3 anni”, in ACTA Pediatrica Latina, n. 2, 1994.
Montecchi, Ceracchi, Magnani, Marinucci, “La verifica della soddisfazione degli utenti in un servizio di neuropsichiatria infantile”, in Giornale Neuropsichiatria Età Evolutiva, n. 18, 1998.
M. Piccione, “Follow-up clinico e problemi assistenziali”, in R.I.P., 25/4: 763, 1999.

* Pediatra Neonatologo – Az. Osp. Univ. Ferrara. Sezione Terapia Intensiva, Istit. Pediatria
** Logopedista, AUSL – Ferrara, U.O. Neuropsichiatria Psicologia Riabilitazione Età Evolutiva
*** Psicologo, AUSL – Ferrara, U.O. Neuropsichiatria Psicologia Riabilitazione Età Evolutiva

Riflessioni su un posto vacante: l’Avvocato della salute

Il percorso che si trova ad affrontare una persona con disabilità, o diversabilità come spesso si usa dire, è costellato di piccoli e grandi problemi.
Il panorama attuale è ricco di iniziative che cercano di aiutare le persone con disabilità ad affrontare tali problemi e a trovare le soluzioni più adeguate alle loro esigenze: il sistema dei servizi che fanno direttamente capo alla A.S.L., le cooperative sociali (o altre forme associative) che con la loro creatività danno corpo a questi servizi e creano opportunità per sostenere i soggetti in questione e le loro famiglie, nonché le associazioni che fanno da stimolo alla società e all’istituzione pubblica affinchè i diritti delle persone interessate rimangano al centro delle politiche sociali ed economiche, ad esempio per quanto riguarda le politiche urbanistiche dove primeggia la questione delle barriere architettoniche.

E’ tuttavia ormai chiaro, almeno per molti che lavorano da anni sul campo, che uno dei nodi più importanti è di ordine culturale. La barriera più dura da abbattere non si trova tra la strada e il marciapiede, dove basta un piano inclinato, ma come si suol dire “nella testa delle persone.”
Molti, con indubbi meriti, si occupano di difendere i diritti delle persone con handicap, la legislazione stessa è sempre in via di riforma per ridurre gli ostacoli, altri preferiscono ribaltare la prospettiva culturale del disabile che ha bisogno di aiuto e di assistenza, proponendo che, quando possibile, sia il disabile stesso ad aiutare gli altri.

Nonostante le consapevolezze e le conseguenti operatività siano ormai radicate nella coscienza di chi vive quotidianamente il mondo dei disabili, resta però il fatto che questi ultimi si trovano, per così dire, sotto accusa. La rivendicazione dei diritti, seppur per certi aspetti necessaria, spesso non tiene conto del pre-giudizio di in-competenza, fino ad inutilità, che il soggetto disabile rischia di incontrare ad ogni angolo. Per quanto frequentemente coperta e mascherata dal “buonismo” della carità “pelosa” (ovviamente non si tratta di carità, ma di finta carità: c’è una bella differenza), la sentenza di in-competenza è sempre pronta per essere formulata e la “condanna” è la perdita progressiva, e quel che è peggio la rinuncia, a qualsiasi inziativa individuale che abbia un fine di soddisfazione, condanna in cui il soggetto ormai si crede costretto a vivere.

E’ per questo che sembra emergere l’urgenza di colmare un vuoto all’interno delle funzioni di aiuto, che non miri solo a difendere il soggetto dal lato dei suoi diritti verso le istituzioni (altri lo fanno già e abbondantemente) ma che lavori nella prospettiva di una difesa della personale competenza di quest’ultimo. Il posto di cui parliamo è caratterizzato da una certa forma di avvocatura (o tutoraggio) in un rapporto individuale. Un Avvocato della salute che, sollecitato da una specifica e individuale domanda di trattamento – rivoltagli dal soggetto stesso, dalla famiglia o da chi ne fa le veci – si metta a fianco della persona e l’aiuti ad orientarsi ed ad orientare la propria vita, avendo di mira il mantenimento e/o la ri-abilitazione, perciò la difesa, della sua individuale competenza, competenza ad usare della realtà di volta in volta incontrata secondo le proprie iniziative e i propri desideri, con il fine di ottenerne benefici e soddisfazioni possibili.

Un avvocato che si ponga quindi a fianco del soggetto e ne prenda in un certo senso provvisoriamente le difese, in un momento delicato del suo percorso di vita, per far fronte a quelle (per quanto talvolta non dette) accuse, che spesso si rivelano infondate, di in-competenza e in-abilità.
Solo un esempio: una non corretta diagnosi differenziale tra impossibilità o inabilità per cause organiche effettivamente riscontrate e riscontrabili e incapacità dovute a rinuncia dell’inziativa individuale, porta spesso a dilatare quella singola impossilità o handicap in una generale impossibilità di agire e di prendere iniziative. Un risultato di questi errori, in tantissimi casi, è il rinforzo della propensione melanconica o depressiva, a fare di ogni impossibilità e di ogni incapacità o insuccesso la ragione di un rinuncia al prendere in mano la propria vita in vista dei propri fini. Ed è qui che l’Avvocato della salute vigila ed è competetente a riguardo di questi errori, sollecitando a percorrere ogni strada possibile per non giungere alla rinuncia di cui si è detto.

La formazione di un tale professionista è complessa. Deve sapersi orientare e saper orientare – non certo sostituirsi ad altri professionisti o ai servizi preposti ai vari compiti, deve piuttosto sapersene servire – su quel che riguarda la diagnosi differenziale (tra patologia organica, psicopatologia, normalità). Ha insomma la competenza circa l’offerta di servizi di diagnosi, cura e assistenza presenti sul territorio, riguardo al quadro normativo del Servizio Sanitario e dei Servizi sociali, intorno alle provvidenze economiche di vario tipo e alle facilitazioni all’accesso al lavoro, circa gli aspetti giuridici che riguardano i soggetti incapaci di badare a se stessi. Ma, quale che sia l’intervento dell’avvocato della salute – il servizio sanitario, la scuola, il tribunale, l’ospedale, la ricerca di un lavoro, il contesto di lavoro, ecc… – gli ambiti, di cui l’Avvocato della salute è di volta in volta competente, sono quelli che possono favorire o ostacolare l’iniziativa e la riuscita del proprio cliente. Quella dell’avvocato della salute è in sostanza una competenza che di volta in volta, nel rapporto di aiuto, diviene la competenza stessa del cliente: in quanto il fattore principale della rinuncia all’iniziativa individuale in vista di un successo è proprio l’idea che il contesto in cui si è in difficoltà non sia affrontabile e padroneggiabile con competenza dal soggetto stesso.

La figura di questo tipo di Avvocato-tutor è gia conosciuta da secoli, ad esempio nella scuola, da Oxford in poi, nell’apparato giudiziario, ma attualmente anche nelle istituzioni sanitarie o assistenziali, si sente il bisogno di figure intermedie tra il singolo e l’istituzione per, come si suol dire, “individualizzare” l’intervento.
L’Avvocato della salute non è però una figura istituzionale, non è un “uomo dell’istituzione”. In alcun modo però il suo atteggiamento deve essere prevenuto verso le istituzioni sopra individuate; peraltro il suo operare trae origine da una consapevolezza necessaria alle società evolute, cioè che nessuna istituzione, per il suo intrinseco scopo e mandato, è esente dal rischio di diventare autoreferenziale

La forma giuridica in cui opera l’Avvocato della salute è quella del contratto professionale (prestazione d’opera intellettuale) che per definizione è a termine. Egli è quindi un libero professionista poiché gli viene data, da parte di chi lo assume, la delega ad occuparsi di uno o più aspetti della sua vita. Fin dal momento del contratto, egli agirà a servizio e in aiuto del soggetto in difficoltà quanto al recupero e alla difesa della sua competenza e della sua salute, e non al servizio degli interessi del contesto, anche se è vero che poi, in caso di successo, tutto il contesto ne trarrà benefici.

Infine, la formazione dell’Avvocato della salute è debitrice dei tre Studia promossi dall’associazione milanese: Studium Cartello (Enciclopedia, Scuola pratica di psicopatologia e Lavoro psicoanalitico), a cui si sono aggiunti corsi introduttivi specifici, sia nel contesto dei corsi organizzati dalla Regione Lombardia, sia per iniziativa dell’associazione stessa.

Per ulteriori approfondimenti si rimanda al sito dell’associazione: www.studiumcartello.it specificamente alla sezione “Avvocato della salute”.
andreagual@alice.it

“Che bel campà!”

L’amore è l’energia più grande e positiva che l’uomo possiede, è in grado di superare angosce, di migliorare la vita, ed è la più antica e consolidata terapia di guarigione. Questa è la prima riflessione da me maturata durante la terza vacanza AST, dove un numeroso gruppo di associati si è ritrovato ad Ascea Marina, in Campania, e dove nuovamente la sua forza si è fatta sentire tramite la stretta unione che ha regnato fra tutti i partecipanti accogliendoci in un caldo abbraccio e cullandoci per un’intera settimana.
A distanza di tre anni abbiamo capito che ciò che ci spinge ad organizzare la nostra vacanza potrebbe tradursi in maniera semplicistica nel puro desiderio di stare insieme vivendo a pieno lo spirito del gruppo che col passare degli anni si consolida sempre più. Tuttavia, sono convinta che ciò che realmente ci sprona a rinnovarci anno dopo anno meriti una riflessione più attenta poiché racchiude molteplici motivazioni che necessitano della dovuta considerazione.

Come sempre ci ritroviamo arrivando da tutte le parti di Italia, consapevoli che non sarà una vera e propria vacanza in quanto la cura e le attenzioni da dedicare ai nostri figli, familiari ed amici ci impegneranno sia fisicamente sia emotivamente. Siamo comunque pronti ad affrontare tutto questo e a condividerlo con gli altri nascondendo in noi la speranza che si verifichi quel miracolo già accaduto e al quale nuove famiglie dell’associazione, forse un po’ titubanti e perplesse, desiderano partecipare.
Non è mia intenzione raccontare cosa abbiamo fatto e quanto ci siamo divertiti a trascorrere insieme piacevoli giornate di vacanza: per coloro che hanno fatto parte del gruppo sarebbe come sentire il racconto di un libro già letto, e per coloro che non erano presenti non sarebbe sufficientemente significante ascoltare la descrizione di giornate trascorse in spiaggia chiacchierando e giocando, delle gite a Paestum, a Padula o agli scavi di Velia. Quest’anno voglio cercare di comunicare a tutte quelle persone che non credono nella vacanza, a quelle persone che non credono nello spirito del gruppo, che non credono nell’associazione, che hanno paura di vivere la malattia, di conoscere la malattia, a quelle persone che pensano di non avere il coraggio e la forza di poter superare il loro dolore, i loro dubbi, a tutte quelle persone che si sentono sole e abbandonate voglio cercare di comunicare quello che ciascuno di noi ha provato durante la vacanza, i piccoli innumerevoli miracoli che sono stati compiuti, l’amore che si è manifestato nella sua massima espressione ed è cresciuto dentro ognuno di noi, riscaldandoci e dandoci forza. Desidero portare a conoscenza di tutti coloro che nutrono delle perplessità, che ciò che abbiamo vissuto è un’esperienza unica e assolutamente ripetibile, che tutti noi vogliamo condividere con un sempre maggior numero di persone.

Ciò che ci spinge ogni anno a ritrovarci per trascorrere insieme una vacanza tutta nostra è essenzialmente l’amicizia che si è instaurata con immediatezza all’interno del gruppo. E’ un’amicizia fondata sul rispetto e sulla solidarietà, tramite la quale riusciamo a colmare quella parte di vuoto che ci portiamo dentro da tanti anni e su cui non ci siamo forse mai soffermati troppo per poter capire da dove provenga e come poter fare per estirparla dal petto senza rischiare di lasciare un vuoto ancora più grande. E così abbiamo iniziato a parlare delle nostre storie, srotolando i nostri io sulle scabre tavole delle nostre vite senza timori, senza freni inibitori, mettendo a nudo le nostre parti più fragili, ognuno con i propri mezzi e con le proprie risorse emotive, culturali e sociali. Imparando le storie altrui abbiamo imparato a conoscere meglio noi stessi, ad essere più clementi e indulgenti, e quel senso di colpa che ci siamo portati dietro per anni ora riusciamo a guardarlo in faccia affrontandolo con cognizione di causa. Ci siamo accolti l’un l’altro con comprensione, amore, ci infondiamo coraggio e fiducia ed è un po’ come sentirci rinascere una seconda volta col desiderio di vivere la vita da vivi. Ci diamo la possibilità di trasformare il dolore in letizia tramite l’accoglienza non solo di colui che ci sta più a cuore, bensì di tutti i partecipanti al gruppo e queste tenere carezze d’amore che ci siamo scambiati tutti i giorni, assieme ai sorrisi luminosi ed ospitali che ci sono arrivati dai visi più sinceri e trasparenti hanno un potere curativo dell’anima inimmaginabile.

Mi ostino a chiamare tutti noi “il gruppo” perché viviamo davvero uniti dal giusto spirito di condivisione. Credete forse che se fossimo stati in vacanza da soli con le nostre famiglie saremmo andati a ballare sotto quella pioggia battente che abbiamo affrontato con tanta disinvoltura? Io non penso. Eppure siamo andati tutti senza remore e l’unica cosa che abbiamo lasciato a casa sono stati i pensieri negativi. E’ il gruppo che crea questa magia, siamo noi, tutti insieme che formiamo questa forza della natura. I nostri sorrisi di gioia così come quelli dei nostri figli sono il bene più prezioso che abbiamo. La felicità non è una meta da raggiungere, la felicità sono attimi, più o meno lunghi che vanno carpiti, vissuti intensamente e poi serbati nel cuore per il futuro. Quanti sguardi affettuosi ci siamo scambiati, quante foto abbiamo scattato per cogliere questi attimi magici e per poterli condividere con le persone non presenti a testimonianza della felicità che regnava fra di noi!
Ho osservato con attenzione tutti i nostri ragazzi e sono rimasta affascinata nel vedere come siano migliorati all’interno del gruppo. L’affiatamento e il profondo desiderio di vivere che hanno dimostrato, così come la richiesta d’affetto e di condivisione che hanno manifestato nei modi più svariati hanno aperto un solco nella mia mente seminandovi un germe di speranza e di fiducia in tutti loro.

Alessandro, con la sua parlantina divertente ed acuta è stato davvero felice di stare assieme agli altri, ha partecipato a tutte le attività incluso le danze serali divertendosi moltissimo. Ha un desiderio di apprendere notevole ed esprime la sua voglia di sentirsi autonomo e di trovarsi una sistemazione in una casa famiglia. Alessandra, sempre attenta a tutto quello che la circonda, è stata molto tranquilla, non ha mai avuto un momento di sconforto o di aggressività, si è divertita e le piace moltissimo ballare, momento in cui allenta i propri freni inibitori trasformandosi in una prima donna. Luca quest’anno è sbocciato, partecipando ai momenti di gruppo ed aprendosi al contatto con gli altri chiacchierando, giocando in acqua, ballando e creandosi momenti di autonomia. La piccola Filomena è cresciuta tanto dall’anno scorso, è una bambina sorridente e serena. Luisa ha partecipato come sempre a tutte le attività svolte continuando a dimostrare, assieme ai suoi cari, che con il giusto supporto e il giusto spirito è possibile fare tutto. Abbiamo inoltre assistito alla trasformazione di Sergio nel corso della vacanza. Inizialmente rifiutava le attività proposte, poi si è lasciato travolgere dallo spirito del gruppo e il sorriso, la parlantina e le canzoni sono fioriti sulle sue labbra. Anche per Luisa come per Sergio è stata la prima esperienza con il gruppo. E’ una ragazza molto dolce, un po’ timida ma con una grande voglia di fare e di vivere nuove esperienze assieme agli altri. Luciana non ha mai avuto un momento di disagio. Come ad ogni vacanza, puntualmente, è invecchiata di un anno e noi ne siamo stati tutti testimoni con un caloroso festeggiamento. Stefania, anche lei nuova conquista del gruppo, ha dimostrato una consapevolezza di sé incredibile. E’ fiera del suo burrascoso percorso di crescita e della graduale presa di coscienza di sé e lotta per mantenere quel fragile equilibrio raggiunto. Nico ha un profondo bisogno di veri amici, è un ragazzo socievole e con tanta voglia di divertirsi. Una volta partiti i genitori si è lasciato andare rivelandosi un ballerino di talento e alla moda. Elena purtroppo ci ha raggiunto gli ultimi giorni di vacanza e quindi è riuscita a stare poco con noi, ma sicuramente una volta maturata la giusta fiducia nel gruppo, sarà un’altra preziosa conquista. Il mio Nicola, incallito don Giovanni, è migliorato nella socializzazione e nel controllo delle sue reazioni. Ha fatto nuove amicizie e sta imparando ad esprimere diverse emozioni. Daniela, amica AST, si è dimostrata una ragazza molto estroversa e determinata con un’enorme desiderio di scambio e aperta ad instaurare nuove amicizie. Da non sottovalutare è stata la continua presenza di Egle la quale, per libera scelta, ogni anno decide di partecipare alla vacanza pronta all’aiuto e partecipe alle problematiche discussioni inerenti la malattia dimostrando a tutti la sua maturità.

I nostri ragazzi hanno espresso il naturale bisogno di momenti di condivisione. Necessitano di una compagnia non intesa come il mero prendersi cura delle loro esigenze primarie, ma di una compagnia costruttiva ed interattiva basata sulla socializzazione e mirata all’amicizia. La solitudine è il loro nemico numero uno ed è nostro compito precipuo far sì che lo spirito del gruppo lo possano ritrovare ogni giorno della loro esistenza.
Ciò che abbiamo fatto durante la nostra vacanza è stato un prodigioso lavoro. Abbiamo dato fiducia ai ragazzi cercando di esaltarne le potenzialità, abbiamo dedicato del tempo all’ascolto e al dialogo, abbiamo riso, scherzato, ci siamo commossi ed emozionati. Abbiamo imparato assieme a loro, abbiamo vissuto una piccola ma indimenticabile parte della loro vita accorgendoci, nel triste momento della separazione, che da questa esperienza ne siamo usciti tutti indubbiamente arricchiti.

Per contatti
e-mail: giulia.dellagiovampaola@tin.it
AST regione Emilia Romagna al 349-619.10.10
Sede centrale di Roma info@sclerosituberosa.it

La storia di Susanna

La storia che vi racconto vuole essere ancora una volta la testimonianza di una vita fatta di gradini che ci circondano: non architettonici, bensì mentali…ma di una grande voglia di vivere!

Sono una ragazza di 26 anni. Mi chiamo Susanna Serranò, sono nata a Parma nel 1979, e ho numerosi problemi fisici dovuti a uno schiacciamento, prenatale, delle vertebre. Mi diagnosticarono Spina Bifida, affetta da Mielomeningocele, una malformazione congenita.
Al contrario di chi ha avuto un incidente io sono cresciuta sapendo quel che potevo fare e quello che mi era precluso.
Dai racconti dei miei genitori, sono sempre stata una bambina con il sorriso sulle labbra, nonostante le infinite peripezie alle quali mi sono sottoposta nell’arco di questi anni. Per un problema o per l’altro, ho dovuto affrontare ben 22 interventi chirurgici. Per me questo, però, non ha mai rappresentato un problema.
Ho sempre, con “disinvoltura ma rassegnazione”, superato ogni ostacolo.
Fra un’operazione (chirurgica, non matematica…) e l’altra, ho conseguito, con buoni voti, regolarmente il diploma delle scuole dell’obbligo. Sono sempre stata attorniata dall’immenso affetto dei miei genitori, sempre in compagnia di numerosi amici con cui scherzare, uscire e divertirmi (mi reco talvolta anche in discoteca, a "Gardaland", e dove meno si possa immaginare una ragazza sulla sedia a rotelle…), e da quasi 7 anni ho accanto a me una meravigliosa persona, Davide, il mio moroso che il 9 Settembre 2005 è diventato mio marito.

Prima di tutto vorrei sottolineare che essere una diversamente abile e avere la necessità di utilizzare la sedie a rotelle per i miei spostamenti, non è certo una condizione di tragedia!!!…c’è chi sta peggio al mondo…bisogno sempre guardare chi è più sfortunato di noi, e se appena riflettiamo, ci accorgiamo che il mondo è pieno di disgrazie, peggiori delle nostre!!!. Per me la sedia a rotelle è come un normo dotato che utilizza le proprie gambe per camminare. Non è una vergogna, né un ostacolo, niente di tutto questo…la sedia a rotelle mi serve per muovermi, mi serve per affrontare quotidianamente la mia giornata, quindi… non è assolutamente né un impiccio né un problema. Questa è la cosa principale, che vorrei comunque trasmettere. Sono tante le cose negate a chi si trova in carrozzina, ma anche tante altre si possono fare. Molte persone, anche incontrandomi per strada, senza neppure conoscermi, affermano talvolta: “Come sei bella, eh…poverina…, cosa ti è successo?”, sentirmi dire “poverina” perché sono sulla carrozzina non lo concepisco proprio. Non è un’affermazione da utilizzare secondo il mio modo di vedere la mia disabilità. Molti, inoltre affermano “eh, ma come ci si sente ad essere disabili?… ma soffrirai a vedere gli altri camminare…?”. Io vivo bene la mia vita anche da questa posizione, non ho mai provato a camminare, la mia normalità è questa. Sicuramente sarei felice se potessi muovermi con le mie gambe, ma questo non mi è consentito, l’opzione è rapida da rilevare. Sono dell’idea che nella vita si possa fare tutto, pur essendo disabili, tutto pur volendolo. Volere è potere….un gradino si può abbattere, quello che oggi è ancora difficile da abbattere sono le barriere mentali, e purtroppo è questo che ci limita a condurre una vita pressoché normale. Ho sempre parlato di me senza alcun problema, la franchezza non fa male.

La prima barriera che ho incontrato è stata a livello mentale. Sostengo che le barriere architettoniche siano pressoché superabili, mediante l’installazione di uno scivolo, di un montacarichi o di un qualsiasi strumento…
Quello che non è ancora possibile abbattere sono proprio le barriere mentali.
Diverse volte nella mia carriera scolastica e accademica ho incontrato barriere architettoniche difficilmente abbattibili, solamente perché erano ben salde quelle mentali.
Ho un carattere determinato e piuttosto grintoso…E’ avvenuto tutto in modo spontaneo….in 25 anni come detto poc’anzi, mi sono sottoposta a numerosi interventi chirurgici di una certa entità, ne ho superate tante nella mia vita. Sembrava essersi risolto un problema quando invece era pronto a bussare alla porta un altro, in realtà però un po’ come a casa di tutti.
E’ stato importante tirare fuori la forza che avevo dentro, e tutta la grinta possibile. Ho avuto il coraggio di affrontare ogni situazione. La vita mi ha riservato gambe fragili e problemi fisici, ma fortunatamente sono stata dotata di queste splendide doti che mi hanno fatto sempre affrontare tutto con più disinvoltura. Bisogna avere un forza d’animo enorme per affrontare il tutto nel migliori dei modi, bisogna saper combattere a testa alta. E’ capitato a me, poteva capitare ad un altro, nessuno lo ha deciso o forse si, comunque ora sta a me…affrontare nel migliore dei modi il mio destino di disabile. La vita è un esame continuo…quindi anche un intervento è un esame da affrontare, da dover risolvere perché nessuno te lo allevia. Bisogna accettarsi per come si è, belli o brutti, alti o bassi, magri o grassi,…disabili o non…
Non rimangono molte soluzioni, io ho accettato la mia condizione perchè credo nella vita che i miei genitori mi hanno donato.
Forse ho avuto la fortuna di avere un carattere combattivo, non mi deprimo quasi mai…. Sì, certamente gli attimi di sconforto ce li ho, anch’io piango, non sono una “roccia”.
Il dolore non me lo toglie nessuno, le sofferenze tanto meno, per cui è importante saper risolvere!.
Se si risolve ogni situazione con un minimo di serenità, senza logorarsi e tampinarsi di mille quesiti a cui mai nessuno potrà rispondere, la quotidianità sarà molto più semplice affrontare.

Nella mia infanzia non ho mai avuto nessun tipo di problema, se non quelli fisici, superati sempre con molta tenacia e grinta. Nessuno mi ha mai fatto percepire che io fossi disabile o diversa dagli altri. Avevo ed ho tantissimi amici, non sono mai in casa, sono attorniata da amici, conoscenti, parenti…. Vivo in modo normale. Ho sicuramente tante difficoltà, da superare quotidianamente e sicuramente sono tante in più rispetto alle difficoltà di una persona normodotata. Alle scuole elementari mi spostavo autonomamente con l’utilizzo di una biciclettina o col tutore, apparecchio che mi consente di stare in piedi e di camminare. La giornata l’affrontavo in modo normale, uguale agli altri. Non mi ricordo di essere mai stata presa in giro neppure dagli amichetti.
Per strada la gente mi guarda…credo che sia ovvio, non è uno scandalo, probabilmente faccio così anch’io se vedo passare qualcuno vestito in modo strano e apparentemente “diverso”.
Altro aspetto secondo me molto positivo, è stato quello di avere una famiglia splendida, molto forte, le persone che ho avuto sempre vicine, soprattutto i miei genitori, ma ai tempi anche la mia nonna, adesso il mio moroso e mia zia, hanno sempre cercato di accogliermi tra di loro senza considerarmi una diversamente abile.

I problemi ci sono sempre stati, però si possono risolvere, si può arrivare ad una soluzione, senza drammatizzare, combattendo con la massima serenità.
Ho sofferto e continuo a soffrire, ma ogni giorno è nuovo ed è tutto da scoprire.
I miei genitori hanno dovuto affrontare molti momenti difficili e drammatici, ed io per questo gliene sarò grata per tutta la mia vita. Sono stati loro che con il loro splendido affetto, nei confronti di una creatura che avevano messo al mondo con il loro amore, mi hanno fatta crescere trasmettendomi serenità, gioia e amore di essere ciò che in realtà ero e sono. Il mio carattere sicuramente, come molti sostengono, speciale come indole, ha giocato una parte importante nella mia vita. Sono state le persone che mi hanno sempre attorniata a costruirmelo, proprio grazie ai miei genitori e ai parenti più stretti, crescendo con loro sin dalla mia nascita hanno sempre accettato la mia disabilità. Avere accettato numerose problematiche quotidiane, non è senza ombra di dubbio semplice, e non da tutti. La disabilità non sempre viene accetta, ne dalla persona che ne è affetta nè da parenti e amici; io ho avuto invece questa grande fortuna…tutti mi hanno sempre voluto bene e accettata.
Se io avessi avuto dei genitori che non mi avessero accettato, mi avrebbero fatto pesare la mia condizione, aggravando il mio vivere quotidiano… invece ero una bambina, adesso sono una ragazza e nonostante le problematiche, affronto la giornata con tranquillità. I problemi, sono sia fisici che mentali, tutto è difficile…dall’andare a fare la spesa al programmare un viaggio ad organizzare il proprio matrimonio…ma tutto è risolvibile.

Tante amicizie mi hanno sempre circondata… Se usciamo fuori a cena con un gruppo di amici si sceglie la pizzeria dove non ci sono gradini o semplicemente si ovvia prendendomi in braccio. Ho cominciato ad avere relazioni a 13-14 anni… non mi sono mai posta il problema di avere la possibilità o meno di avere delle storie. Sicuramente le persone che mi hanno dimostrato affetto e amore hanno accettato la mia disabilità o probabilmente passava in secondo piano. Avevano ben presente quale fosse il mio problema perché la sedia a rotella non si può nascondere…in primo piano c’era e c’è il nostro rapporto e la nostra felicità come due persone normo dotate. Le persone che hanno avuto relazioni con me avevano presente quale fosse il mio problema e l’hanno sempre affrontato. Non ho mai avuto ragazzi in carrozzina, perché le mie amicizie erano e sono diverse.
Il progetto più grosso adesso è che l’anno prossimo mi sposerò, abbiamo comprato una casa che stiamo costruendo. A fianco ci saranno i miei genitori, posso talvolta avere bisogno di loro e loro di me, per quello che io sarò in grado di poter fare.
Il primo grosso traguardo l’ho superato nel Novembre 2004, mi sono laureata in logopedia presso la facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Ateneo di Parma.
La laurea e il matrimonio con Davide sono due capitoli importantissimi seppur diversi, della mia vita, proprio come ognuno di noi.
La carriera, l’ambizione personale e professionale, e il desiderio di costruire una propria famiglia rappresentano oggi per me un sogno realizzabile.

Dal 1999 ad oggi lavoro a Forum Solidarietà, centro di servizi per il volontariato in Parma. Coordino un progetto di anziani.
Lavoravo anche durante gli anni dell’Università, nessuno mai me lo ha imposto ne la mia famiglia aveva bisogno di un sostegno economico, rappresentava per me solamente una grossa soddisfazione personale, credevo e credo ancora tutt’ora nel mio lavoro.
Dalla laurea ho un grosso progetto professionale… realizzarmi nel campo logopedico.
Il mio desiderio a livello professionale è proprio fare la logopedista. La mia aspirazione massima è il sociale, aiutare l’altro sotto ogni punto di vista, vuoi attraverso il volontariato, vuoi attraverso il sanitario…
Adesso ho 26 anni e riesco un po’ a distinguere quello che riesco fare e quello che non riesco. La logopedista lo posso fare!!!

Nella mia tesi di laurea in logopedia, sui “Disturbi d’apprendimento nei bambini affetti da spina bifida”, ho cercato di associare la mia disabilità alle mie capacità logopediche. L’anno di tesi è stato un anno importante per me. Mi sono trovata a relazionare con i genitori dei bambini, affetti da spina bifida e disabili quanto me. Ho valutato la competenza linguistica e il livello di apprendimento della lettura di questi bambini, tramite una batteria di test standardizzati.
Ho avuto modo di parlare e confrontarmi con loro. Tutto ha sempre proceduto con estrema naturalezza. Una bambina, Valentina, mi chiama tutt’ora, vuole scoprire quella che è, e sarà, la sua vita. Vuole avere un riferimento concreto, vuole pensare al suo futuro pur essendo disabile. I bambini testati per la tesi hanno problematiche relativamente meno gravi delle mie, ho sempre cercato di far capire loro quanto sia possibile fare pur essendo sulla sedia a rotelle. Mi faceva piacere incentivarli, fargli capire che si può vivere pur essendo disabili.
Sicuramente affermo convinta concetti che dentro di me hanno percorso un cammino importante.

Rileggendo il mio diario segreto di adolescente, non trovo nessun pensiero dedicato o contro la mia disabilità, non è mai rientrato tra le mie preoccupazioni.
Ritrovo invece una cara lettera che mi scrisse mia mamma dopo un esame: “…oggi come tante altre volte 30! Noi siamo orgogliosi di avere una figlia come te, che ci dia tante soddisfazioni. Per tutti è facile lavorare, studiare ed altro, ma per te tutto questo è doppiamente faticoso, e nonostante, tutto sei sempre una carica esplosiva di energia…”

Affronto momenti molto difficili con grande tenacia e sfrontatezza. Questo è per i miei genitori fonte di grande orgoglio.

Infine riporto una considerazione sulla mia disabilità, queste righe le ho inserite nella mia tesi di laurea in logopedia.

“Molte volte mi sono sentita chiamare “handicappata“ e come me tanti altri bambini nelle mie stesse condizioni…In realtà significherebbe: individuo che soffre di deficit psichici, fisici o sensoriali…Parole fredde, che in modo sintetico tentano di dare una spiegazione di cosa significhi essere “handicappato“ .
In realtà credo che sia impossibile descrivere, con parole semplici, tutto ciò che si nasconde dietro questo termine… a meno che si condivida questo mondo, questo stato…
Praticamente l’handicappato è un diverso…
Solitamente il sentimento che prevale di fronte ad un handicappato è quello di pietà, compassione, nei migliori dei casi commozione per quello che si ritiene essere un destino avverso che colpisce chi è più sfortunato…
Non è esattamente questo che vorrei far passare, non sono triste per il mio stato di salute, sono felice per come sono, non sono triste, non ho vergogna.
Soffro e con me soffrono i miei genitori e chi più mi sta vicino giorno dopo giorno, ma ho accettato i miei problemi …posso dire alla vita ….Grazie.
Grazie di avermi dotato di un corpo non tanto perfetto, ma di un cuore e di un livello intellettivo, che mi permettono di condurre giorno dopo giorno una vita splendida.
Spesso molte persone mi dicono che sono meravigliosa…ma nella mia timidezza…arrossisco…per poi dirigermi in un altro discorso. Affronto la vita con coraggio, forza e speranza…l’augurio che vorrei fare, in quest’occasione è che anche le altre persone, con deficit, possano condividere come me, lo splendore dell’amore e della vita”.
“L’amore è la capacità di avvertire il simile nel dissimile“.

Madri disabili: facilitare i gesti quotidiani

Quando la madre disabile viene dimessa dall’ospedale, e torna a casa col proprio bambino, è in quel momento che diventa una mamma “handicappata”, cioè si ritrova a vivere una situazione di handicap nell’occuparsi del figlio.

Quando la madre disabile viene dimessa dall’ospedale, e torna a casa col proprio bambino, è in quel momento che diventa una mamma “handicappata”, cioè si ritrova a vivere una situazione di handicap nell’occuparsi del figlio. Ricordiamo che non esistono persone handicappate in sé! L’handicap è sempre situazionale, dato dall’esterno.
Dopo il parto la madre deve anche prendersi cura di sé, il suo corpo è affaticato e si è indebolito.
Deve organizzare il proprio tempo per occuparsi sia di sé che del bambino. Identificare i gesti di vita quotidiana che potrebbero risultare più difficili, e trovare le soluzioni più adatte, diventa uno stato di necessità per migliorare le condizioni sia della madre che del figlio.
Molto spesso si tratta di “trucchi” semplici, o di “adattamenti” realizzati con mobili comunemente in commercio (e non adattamenti “dedicati alla disabilità”). Altre volte occorre invece un consiglio di un esperto e una soluzione tecnica studiata ad hoc per quella persona, per quel tipo di deficit, per quel tipo di abitazione, ecc.
È importante studiare un percorso di autonomia, perché l’essere (o anche il sentirsi) più autonomi infonde fiducia e aiuta a superare i limiti fisici, psicologici e anche sociali (l’immagine della persona disabile come “non abile” a prendersi cura di un figlio) di cui si è detto.
Dato che in Italia si parla ancora molto poco di genitori disabili, mi sono rivolta a due professioniste straniere che da anni seguono le soluzioni personalizzate a genitori disabili: Marie Ladret, ergoterapeuta dell’“Espace conseil pour l’autonomie en milieu ordinaire de vie (ESCAVIE), e Susan Vincelli, ergoterapeuta del Centro di rieducazione funzionale “Lucie Bruneau”, del Québec (Canada). Dopo qualche scambio di e-mail, ecco un piccolo vademecum con alcuni suggerimenti molto semplici ma utili.

La cameretta del bambino

Innanzitutto bisogna che la camera del bambino sia perfettamente accessibile, senza alcun ostacolo che potrebbe mettere in pericolo la madre e il figlio: diminuire quindi i rischi di cadute eliminando ad esempio i tappeti, e rispettare gli spazi di circolazione.
Il letto del bambino deve essere facile da manipolare e a un’altezza adeguata alle proprie esigenze. Una scelta del lettino adattata a se stesse è importante, perché mettere il bambino nel letto è un gesto ripetuto più volte nell’arco di una giornata. La rete del lettino dovrebbe potersi fissare a differenti altezze. Meglio scegliere un letto che abbia delle sponde di facile apertura (ad esempio sponde in tela con chiusura lampo) o comunque preferire dei sistemi di apertura delle sponde che non prevedano la necessità di utilizzare le due mani nello stesso momento.
Se una madre è in carrozzina, si deve posizionare parallela al lettino e l’altezza adattabile della rete non è sufficiente per afferrare il bambino, occorre anche una torsione del busto. Il fatto è che la schiena della madre è fragile al ritorno dal parto, e per evitare queste torsioni sarebbe ideale che la parte sotto il lettino fosse completamente libera in modo da permettere il passaggio della carrozzina: per questo è preferibile un lettino con l’apertura delle sponde laterale.
Esistono anche lettini che hanno l’altezza della rete regolabile elettronicamente attraverso un telecomando, ma si tratta purtroppo di sistemi molto costosi.
Per sollevare il bambino dal letto e trasportarlo, ci sono alcuni trucchi che possono aiutare i genitori disabili. “Acchiappare” il bambino per la tutina può rivelarsi molto pratico; esistono comunque delle amache porta-bambini che permettono di prendere il bambino in tutta sicurezza.
Spesso la mamma in carrozzina afferra il bambino con una sola mano, perché ha bisogno dell’altra mano libera per assicurare il suo equilibrio sulla carrozzina (soprattutto nel periodo post parto quando gli addominali sono deboli). Anche la mamma con difficoltà a deambulare può ugualmente avere bisogno di avere una mano libera per trovare un punto d’appoggio con cui poi farsi forza per sollevare il bambino con l’altra mano.

Il fasciatoio

Il fasciatoio, elemento importante per la cura del bambino, deve avere un’altezza giusta in rapporto alla statura della persona disabile e del suo deficit. Se la persona è in carrozzina, il fasciatoio deve essere sgombro nella parte inferiore in modo da consentire il passaggio delle ginocchia. Anche in questo caso esistono dei fasciatoi regolabili in altezza elettronicamente, ma si tratta sempre di un problema di costi economici.
Un materassino da usare come un fasciatoio posizionato su una scrivania o una tavola qualsiasi, con dei cassetti su un lato in modo da avere vicino tutto l’occorrente, è spesso l’opzione scelta dai genitori in carrozzina, ed è in effetti la più semplice. I fasciatoi tradizionali non permettono il passaggio della carrozzina nella parte inferiore.

Il bagnetto

Il bagno è un momento privilegiato tra la madre e il bambino, ma è ugualmente uno dei momenti più temuti dalle mamme disabili. Infatti esse sono spesso in apprensione, apprensione di solito più legata alla paura che non al deficit!
Esse possono sicuramente utilizzare le vasche da bagno per bebé che si adattano alla vasca da bagno grande. Delle piccole sedie a sdraio da posizionare sul fondo della vasca o della doccia sono una sicurezza supplementare. Esistono anche delle piccole vasche da bagno da posizionare sulla tavola, o su dei cavalletti che facilitano l’accesso in carrozzina.
Quando il bambino diventa grande, alcune mamme con difficoltà a deambulare preferiscono utilizzare la doccia perché il bordo è meno alto e la madre non ha bisogno di sollevare il bambino per farlo uscire.
Il termometro nell’acqua per verificare la temperatura è raccomandato soprattutto se la madre ha delle disfunzioni che riguardano la sensibilità superficiale della pelle.

Nutrire il bambino

L’allattamento

Le madri che hanno una debolezza muscolare a livello delle membra superiori, possono utilizzare dei cuscini di mantenimento o dei cuscini d’allattamento che permettono di mantenere il bambino in una posizione confortevole in tutta sicurezza e di evitare contratture o torsioni.

Dare il biberon

Le persone che hanno una mancanza di forza possono utilizzare dei biberon in plastica, più leggeri e che non si rompono. Per le mamme che hanno delle difficoltà ad afferrare gli oggetti, sono sempre possibili degli adattamenti sul biberon, tipo impugnature speciali, magari con sistemi a strappo. La sterilizzazione dei biberon è più facile a freddo o nel micro-onde. Anche gli scalda biberon elettrici sono più pratici e più sicuri perché evitano di manipolare oggetti bollenti (soprattutto per le persone che hanno delle disfunzioni che riguardano la sensibilità superficiale della pelle).

Lo svezzamento e ilpassaggio al cucchiaino

Le mamme che hanno delle difficoltà ad afferrare gli oggetti possono utilizzare delle posate adattate (ad esempio coi manici grossi, o anche qui con sistemi a strappo), o anche degli anti-scivolo, dei piatti con dei punti d’appoggio, tutti gli ausili di cui la madre magari già si serve abitualmente.

Il seggiolone

La scelta del seggiolone può essere importante soprattutto per le madri in carrozzina. Alcuni modelli di seggiolone hanno i piedi sufficientemente divaricati senza barre trasversali per permettere il passaggio della carrozzina. Esistono dei seggioloni regolabili: la parte in cui far sedere il bambino può essere installata più o meno in alto a seconda dell’altezza della madre e del suo deficit.

Trasportare il bambino

Portare il bambino tra le proprie braccia potrebbe sembrare una cosa del tutto naturale, ma quando la mamma ha già delle difficoltà a spostarsi, questo diventa più complicato e soprattutto più angosciante perché c’è la paura di cadere insieme al bambino.
I porte-enfant, quelli che si attaccano al ventre, possono essere una soluzione per sostenere il bambino, sia che la madre sia in carrozzina oppure no. È più pratico che il sistema di aggancio sia sul davanti e facile da manipolare, magari con sistemi a strappo. Per sollevare il bambino, molti genitori lo afferrano per i vestiti; delle amache porta bambini disponibili sul mercato possono facilitare, come già detto, il trasporto del bambino, soprattutto per sollevarlo dal letto o dal fasciatoio. Il porte-enfant laterale è più pratico quando il bambino cresce: evita la torsione della colonna vertebrale quando si porta il bambino su un lato.

I primi passi

Il momento in cui il bambino comincia a camminare è un momento molto delicato, perché egli tocca tutto e bisogna seguirlo dappertutto, e una mamma con difficoltà a deambulare o in carrozzina non potrà sorvegliarlo così facilmente. Per rimediare a questa difficoltà, alcune mamme utilizzano dei veri e propri “trottatori” in modo che il bambino non cada (i genitori disabili non possono rialzarlo o frenarlo facilmente) e non abbia accesso a tutti gli angoli della casa (dove i bambini amano generalmente andare!).
Per insegnare loro a camminare, esistono delle vere e proprie “bardature” primi passi (che si possono procurare in qualsiasi ipermercato) per mantenere il bambino in equilibrio senza doversi abbassare.

Le uscite

Per il trasporto all’esterno

Le mamme in carrozzina utilizzano spesso il porte-enfant ventrale, così possono tenere il bambino contro di esse e nello stesso tempo spingersi con la carrozzina. Alcune mamme con difficoltà a deambulare preferiscono utilizzare la carrozzina per bambini o il passeggino (mezzi che procurano anche un punto d’appoggio per loro stesse). Esisterebbero anche delle motorizzazioni per le carrozzine e i passeggini in modo da facilitare la spinta nelle salite o il frenaggio nelle discese, ma purtroppo questo tipo di aiuto è molto costoso e non commercializzato in tutti i Paesi.
Una specie di “guinzaglio” è utilizzato quando il bambino cammina: questo gli permette di andare e venire e spostarsi in un perimetro di sicurezza che la mamma può controllare. Questa soluzione è la più prudente quando si è sulla strada, ma può essere utilizzata anche ad esempio in prossimità dell’acqua.

La macchina

Mettere il bambino nel seggiolino dell’auto non è affatto semplice quando un genitore ha un deficit. D’altra parte il seggiolino va utilizzato per questioni di sicurezza. Probabilmente si avrà bisogno di aiuto nel collocare il bambino sull’auto, oppure quando il bambino diventa più grande può salire da solo. Esistono dei seggiolini girevoli che possono facilitare questa operazione, ma questo materiale ha un costo importante e resta un lusso per la maggioranza delle madri.

“Non vorrei esser nato mai…”

Riflessioni sulla disabilità come stigma che contrassegna in modo indelebile e irreversibile

Eccomi qua. Disteso sul letto. Con questo corpo sgraziato (privo veramente di grazia), piegato e piagato. Le gambe atrofiche e rinsecchite, i piedi ricurvi, le braccia perennemente ripiegate e i polsi curvi in modo innaturale. I movimenti a scatto, apparentemente bruschi, impossibilitati a gesti e a movenze fluide. Lo scatto della mandibola che impedisce alla parola di trovare un suo senso. Fisso il muro bianco che mi trovo in alto e penso…io non sono questo corpo, io sono una cosa, un organismo, tutti mi vedono come un organismo. Sono “sezionato”, diviso, scomposto, separato. Io “sono” un corpo malato, una cosa ammalata, sono inefficiente, malandato e sofferente, sono squilibrato e sbilanciato, malfermo e disarmonico. Non c’è sguardo di desiderio su questo corpo, non c’è struggimento, ansia o bramosia in cui perdere i propri sensi. Respiro e solo ascolto il silenzio. Sento un battito lento e regolare; è un suono sordo, cupo, lieve. Nelle profondità della carne continua il suo interminabile pulsare, nessuno mai ha sentito l’eco di questa vibrazione, è un suono segreto, celato e riposto. La finestra è aperta, spira il vento e la brezza; ecco, solo loro mi accarezzano, non gli ripugna sfiorarmi il corpo delicatamente, serpeggiare fra le mie dita, scompigliare i capelli e insinuarsi fra le pieghe più segrete. Chiudo gli occhi e lascio che ogni fibra del mio corpo assapori il brivido delicato dato dal vento e porti con sé un segreto d’amore.
Ho bisogno di un dono, il dono di uno sguardo d’amore, uno sguardo di memoria e di ricordo, ma so che resterò da solo su questo letto lindo e con un pensiero che si dipinge nella mia mente e che dice: non vorrei essere nato mai…

Questo post pubblicato su un forum di un sito di disabili evidenzia in modo quasi tangibile la sofferenza, la disperazione, la solitudine e finanche l’alienazione a cui può portare una condizione esistenziale che è quella della disabilità.
In questo breve scritto cercherò di delineare alcuni orizzonti tematici che riguardano in specifico il tema dell’handicap e come questo si declina nell’esperienza di chi si trova in una condizione di minoranza.
La condizione di minoranza in questo caso non viene attribuita per ragioni di tipo etnico, razziale o di genere, ma riguarda una diversità relativa al corpo. Un corpo che non è con-forme, anzi è de-forme, quindi al di fuori di una “forma” culturalmente costruita e che non risponde ai criteri di efficienza, di salute, di utilità e funzionalità richieste in un contesto produttivo e di consumo.
La disabilità, una presunta minorazione fisica diventa quindi uno stigma, un marchio che contrassegna in modo indelebile e irreversibile l’individuo che ne è portatore.

Origini dello stigma
La convivenza civile, l’intersecarsi e il contrapporsi di diversi interessi, visioni del mondo, valori e ideali genera delle tensioni che se non controllate possono destabilizzare un sistema sociale e quindi impedirne il suo funzionamento. Queste tensioni, possibili generatrici di violenza e di effetti destabilizzanti, vengono esorcizzate attraverso rituali che ne consentono una “catarsi” e le depotenziano delle loro cariche “eversive”. Ben conoscevano la questione i Greci che già nell’antichità effettuavano riti che

“recitando, ritualizzando, sublimando la violenza, si cercava una via d’uscita alla violenza stessa […] Ad Abdera, nella Grecia classica, l’intera comunità si purificava attribuendo ad un individuo designato il ruolo di capro espiatorio (pharmakòs): lo si nutriva abbondantemente e poi lo si inseguiva a colpi di pietre fino ai confini del territorio della città” .

Non è un caso che l’etimo di “capro espiatorio” sia pharmakòs che è lo stesso di farmaco, di medicina, ma anche di veleno. Il capro espiatorio diventa una sorta di medicamento, di farmaco contro le possibili esplosioni di violenza date delle tensioni o nei vari momenti critici di crisi. E’ da tenere presente che secondo l’antropologo René Girard (La violenza e il sacro, 1972) la ricerca del capro espiatorio per farne un assassinio sacrificale è all’origine e a fondamento delle società umane in quanto la violenza viene circoscritta e ritualizzata, confinandola su un elemento che si presta a tale sacrificio e impedendo quindi che la violenza dilaghi. Dato che il processo di sacrificazione è ritualizzato, il capro espiatorio si carica di elementi mitici e spesso gli vengono riconosciuti attributi divini, ponendolo in una dimensione di tipo sacrale e non riconoscendolo più come “umano”. Di questo aspetto di divinizzazione vedi paragrafo sullo stigma morale.
La designazione, la ricerca di un capro espiatorio è cosa oramai ben risaputa, ma ci sono alcune categorie di persone che per le loro caratteristiche si prestano meglio di altri ad essere additati come elementi impuri e quindi sacrificabili per il bene collettivo. Queste persone vengono quindi stigmatizzate per poter essere riconosciute come tali e come tali essere trattate.
Il termine stigma deriva dal greco stígma, deriv. di stízein che significa marcare, pungere, e secondo Goffman (Stigma, l’identità negata, 1963)

“stigma indica quei segni fisici che caratterizzano quel tanto di insolito e criticabile della condizione morale (corsivo mio) di chi li ha” .

Goffam continua:

“Si possono elencare, grosso modo, tre tipi diversi di stigma. Al primo posto stanno le deformazioni fisiche; al secondo gli aspetti criticabili del carattere che vengono percepiti coma mancanza di volontà, passioni sfrenate o innaturali, credenze malefiche e dogmatiche, disonestà […] Infine ci sono gli stigmi tribali della razza, della nazione, della religione”

Goffman asserisce che ogni contesto sociale stabilisce le caratteristiche che devono essere manifestate da un individuo per poter dimostrare di appartenere a tale contesto. In una situazione sociale (relazionale) in cui ci si incontra è possibile che l’aspetto di una persona permetta di stabilire a quale categoria appartenga. Gli si attribuisce, in altri termini, una “identità sociale”. Quest’ultima può essere determinata da una serie di attribuzioni presupposte che non necessariamente corrispondono ai fatti. A volte, o forse spesso, sono frutto di proiezioni, pregiudizi, convinzioni e convenzioni fino a creare dei veri e propri stereotipi.
Quando ci si trova di fronte ad un “estraneo” che possiede un attributo che lo rende diverso dalla categoria a cui dovrebbe corrispondere

“nella nostra mente viene declassato da persona completa a cui siamo comunemente abituati, a persona segnata, screditata. Tale attributo è uno stigma [grassetto mio], specialmente quando ha la capacità di esercitare un profondo effetto di discredito. […] Un individuo che potrebbe essere facilmente accolto in un ordinario rapporto sociale possiede una caratteristica su cui si focalizza l’attenzione di coloro che lo conoscono alienandolo da lui, spezzando il carattere positivo che gli altri suoi attributi potevano avere. Ha uno stigma, una diversità non desiderata rispetto a quanto noi avevamo anticipato.

In questo caso sembrerebbe attuarsi lo scambio fra la pars pro toto, avvitando l’attributo negativo come asse esistenziale e disconoscendo di conseguenza tutti gli altri attributi della persona. Lo stigma stesso agirebbe ricorsivamente come una lente di ingrandimento che si focalizza su sé stessa dilatando e permeando l’attributo negativo anche su tutti gli altri aspetti. Succede per esempio e con una certa frequenza, restando nel campo della disabilità, di rilevare che le azioni, gli atti sociali svolti da una persona disabile vengano letti in funzione della disabilità, come se quest’ultima fosse l’unico parametro in grado di dar conto delle possibilità espressive della persona cosiddetta disabile.
Questo attributo negativo, la disabilità, l’handicap che allontana dalle aspettative normative comporta un processo di discredito dovuto alla “visibilità” dello stigma in cui la soggettività viene negata e con essa la disconferma di persona umana.
E’ sempre Goffam che afferma:

“Per definizione, crediamo naturalmente che la persona con uno stigma non sia proprio umana [grassetto mio]. Partendo da questa premessa, pratichiamo diverse specie di discriminazioni, grazie alle quali gli riduciamo, con molta efficacia anche se spesso inconsciamente, le possibilità di vita.”
Andrò ora ad esaminare in specifico due tipi di stigma, quello morale e quello medico, che si sono premuniti o a cui è stata affidata la delega della “gestione” della devianza dovuta allo stigma.

Stigma morale
Uno degli stereotipi più radicati è profondi inerenti una condizione di disabilità fisica (ma anche quella psichica) è quello relativo alla colpa.
Alla persona con uno stigma fisico viene attribuita come causa del suo stigma una colpa “originaria” (a volte riferita anche ad una vita precedente!); una trasgressione, un peccato originale che deve essere espiato attraverso le conseguenze che comporta il suo essere diverso. Questa colpa primaria è “impressa”, visibile e naturalmente più è grave la colpa commessa, più grave è la punizione (più sarà grave il livello della disabilità). Non è un caso che siano state le istituzioni religiose ad occuparsi in prima persona delle persone stigmatizzate fisicamente, in quanto il loro “essere” era (è) ammantato da una colpa morale e come tale è di pertinenza dell’ambito religioso farsene carico. A questo riguardo posso riportare un’esperienza diretta che esemplifica in modo chiaro questo tema. Ai tempi della mia istituzionalizzazione presso un centro religioso, all’età di 7, 8 anni chiedemmo alla nostra assistente, che era una suora, il perché della nostra condizione. La risposta, sorprendente (ma non più di tanto), fu che dato che dio nella sua onniscienza aveva “visto” che noi eravamo incamminati (sic!) su una cattiva strada, si era premunito di “fermarci” attraverso l’handicap. In questo modo ci era chiaro che noi eravamo intrinsecamente malvagi e quindi stavamo pagando una colpa supposta, un reato presunto, e quindi siamo stati condannati ancor prima di commettere il reato. Strano modo di fare prevenzione! Lascio all’immaginazione del lettore le possibili conseguenze che ne possono derivare su una mente di un bambino.
Sono decine gli episodi che potrei riferire, ma per rimanere all’attualità riporto una testimonianza riferitami da una persona partecipante ai gruppi di auto-mutuo-aiuto per disabili; questi raccontava un episodio in cui una famiglia con un bambino gravemente disabile veniva “consolata” da un prete con le seguenti parole “Voi dovete essere orgogliosi del fatto che dio vi abbia mandato un dono così grande!!”. C’è da farsi venire dei seri dubbi teologici sulla bontà infinità del dio cristiano!
Il tema di un contatto diretto con una dimensione sovrumana, trascendente lo si rileva/va anche dal fatto che si ritiene/va che la condizione di disabilità porta di necessità ad essere “più vicini a dio”; messaggio questo che viene/veniva reiterato continuamente anche nei contesti sociali più disparati. Ma questo tipo di credenza è più diffusa di quanto non si pensi; scrive infatti, M. Bacchiega in Abstracta:

“Presso gli arabi un’antica credenza popolare, tuttora viva, ritiene che un’andatura claudicante sia la conseguenza positiva di un contatto con lo spirito (corsivo mio). Zoppo era anche il dio Egiziano Ptah – e Harpocrate, fratello del dio Horus, era nato "debole agli arti inferiori” In una storia antica Zeus appare mutilato dal drago Tifone che gli aveva tagliato i tendini. Ma zoppicare ha un preciso significato: camminare con un solo piede, saltellare, inciampare, è universalmente riconosciuto come il simbolo di un’asimmetria probabile causa di caduta (corsivo mio). Con la caduta si verifica un coinvolgimento più intenso con la terra, – Madre divina e un contatto più completo con le sue profondità includendo il mondo dei morti. La camminata asimmetrica irregolare dell’uomo con un piede deforme rientra nel quadro del camminare ‘diverso’, del camminare ‘altro’ che – come il passo strascicato del vecchio – ha già contatto con il mondo sotterraneo delle ombre. Il significato preciso dello zoppicare è riferito, quindi, al morire."

E anche T. G. Gallino nel suo libro “La ferita e il re” dice: "Un altro modo maschile e mitico di mostrarsi ciclici, non drammatico come la morte o la scomparsa annuale, ma ugualmente vistoso e ‘magico’ è stato quello di camminare zoppicando. L’andatura da zoppi in un mondo in cui il camminare era un evento piano e senza scosse, poteva dare una sensazione di ciclicità e di periodicità che differenziava dai comuni mortali (corsivo mio) e ricordava inconsciamente certi fenomeni cosmici (si pensi ad esempio al movimento ritmico delle onde del mare, o anche al muoversi cadenzato delle ali degli uccelli, ora verso l’alto ora verso il basso). L’uomo che zoppicava appariva, in modo alterno, alto o basso. Ora più vicino al cielo, ora più vicino alla terra. Inoltre si appoggiava spesso ad un bastone, che gli conferiva simbolicamente il potere del comando e lo faceva diventare, come nell’enigma che la Sfinge aveva posto ad Edipo, l’unico ‘animale al mondo che cammina a tre gambe’ diverso, forse anziano ma anche più saggio e autorevole. Per questo tanti profeti e veggenti maschi sono zoppi, per nascita o per una ferita al piede o all’anca. Il loro procedere ciclico o alternato può evocare infatti, in modo simbolico, la ciclicità femminile. Per nascita (o perché Zeus l’aveva scaraventato dall’Olimpo) era storpio e zoppo il greco Hefesto (Vulcano), capace di costruire armi magiche e meravigliose che rendevano invincibile chi le indossava. Il dio egizio Horus e l’eroe Edipo, che nella vita persero il primo un occhio, il secondo la vista, zoppicavano dalla nascita. Horus era nato ‘incompleto’ e storpio; Edipo, il cui nome significa ‘piede gonfio’, zoppicava per le ferite ai piedi che il padre gli aveva procurato. Anche Giacobbe, come riferisce la Bibbia, venne ferito durante un combattimento. Giacobbe fu ferito mentre lottava con Dio (un uomo o angelo che egli riconoscerà come Dio). E Giacobbe zoppicò per sempre poiché aveva visto, come egli stesso disse, ‘Dio in faccia’”

A quanto pare sembra esserci una corsia preferenziale per i disabili verso le strade della trascendenza. Lo stigma morale ad ogni modo è trasversale, non rappresentativo solo delle istituzioni religiose, in quanto lo si ritrova anche nel “comune sentire” e fa riscontro al tema sopra accennato della divinizzazione del capro espiatorio. Chi porta addosso quindi lo stigma dell’handicap, entra di diritto, in una dimensione mitica, non umana e quindi facilmente incolpabile. Non essendo umano gli si possono attribuire colpe senza per questo farsi un senso di colpa. La reificazione annulla le differenze soggettive, ingabbia le persone in identità immobili e immutabili, nega l’individualità ed esalta le differenze in negativo per aumentarne le distanze. Il processo di reificazione non è monopolio di una categoria come quella morale ma, come andremo a vedere, può essere affidato ad altri “professionisti”, nella fattispecie il potere medico, collaborante nel controllo e gestione dello stigma.

Stigma medico
Nel 1795 lo psichiatra Pinel, considerato il padre della psichiatria moderna, entrava alla Salpetriere, un lazzaretto in cui erano ricoverate 7000-8000 donne in condizioni inumane e “Le sottrae alla carità delle confraternite cristiane e li affida per la prima volta alla scienza” L’isteria assurgeva ad un nuovo paradigma: non più “utero mobile” che nel suo movimento arrivava alla testa provocando i tipici sintomi isterici ma “malattia” di tipo neurologico che comportava paralisi di diverso grado. Con Pinel in psichiatria, con Kock (scopritore del bacillo della TBC) e Fleming (scopritore della penicillina) nel campo della medicina, è l’inizio dell’era medica scientifica che sull’onda del positivismo imperante ritiene di spazzare via ogni forma di superstizione e iniziare una nuova era basata sulle prove empiriche e sperimentali. Ed è a partire da questo periodo che eventi considerati naturali vengono medicalizzati: nascita, morte, comportamenti di vita, sessualità, salute e quant’altro ricadono sotto il potere della medicina che ne definisce i termini e ne stabilisce le norme. Diagnosi, prognosi, terapia sono il nuovo modello della trimurti che scandisce i passaggi e i ritmi dell’esistenza.
La medicalizzazione di ogni aspetto ha portato I. Illich (Nemesi medica, 1976) a coniare il termine di “iatrogenesi” (clinica, sociale, culturale), cioè fonte essa stessa di disagio e di malattia. Nell’introduzione al suo testo Illich scrive:

“La corporazione medica è diventata una grande minaccia per la salute. L’effetto inabilitante prodotto dalla gestione professionale della medicina ha raggiunto le proporzioni di un’epidemia. Il nome di questa nuova epidemia, iatrogenesi, viene da iatros, l’equivalente greco di ‘medico’, e genesis, che vuol dire ‘origine’.
Era inevitabile dunque che anche la “categoria” disabili venisse presa in consegna dal potere medico in sostituzione (a volte in contiguità) di quello religioso e ne andasse a definire in modo differente i diversi aspetti.
Questo aspetto di presa in carico delle diverse categorie devianti viene così descritto da Illich:

“Qualunque società, per essere stabile, ha bisogno di registrare la devianza. Gli individui dall’aria strana o dal contegno eccentrico costituiscono un fattore di sovversione fino a quando le caratteristiche che li accomunano non abbiano ricevuto una designazione formale e la loro condotta sconcertante non sia stata sistemata in una casella riconosciuta. Una volta ricevuto un nome e un ruolo, gli anormali che spaventavano e disturbavano sono domati e diventano semplici eccezioni prevedibili, che si possono trattare con riguardo, evitare, reprimere o espellere. Nella maggioranza delle società ci sono alcune persone incaricate di assegnare ruoli agli individui che non rientrano nella regola; di solito esse hanno una particolare competenza in merito alla natura della devianza e a seconda della norma sociale prevalente sono loro a decidere se il deviante è posseduto da un demonio, dominato da un dio, intossicato da un veleno, punito per i suoi peccati o vittima di un sortilegio scagliato da una strega.”

L’handicap nell’ottica medica si svincola dalla connotazione di tipo morale e diventa dis-funzionale rispetto alle varie richieste produttive e adattative. Vengono quindi stabiliti i criteri per una riabilitazione tesa a minimizzare gli effetti dell’handicap sulla socializzazione e sull’integrazione.
Il potere medico nell’ambito della disabilità è totalmente pervasivo: sono medici che stabiliscono e certificano percentualmente il grado di disabilità; sono medici che stabiliscono le “residue capacità lavorative” e quindi condizionano la persona disabile nel mercato del lavoro; sono medici che determinano le eventuali provvidenze economiche spettanti alla persona disabile condizionandone quindi la sua autonomia; sono medici quelli che sanciscono il grado di riabilitazione e di cure creando ricorsivamente una dipendenza. L’handicap diventa una “malattia” senza la possibilità di una restituitio ad integrum, ed essendo cronica resta vincolata ad una prognosi senza risoluzione ed in perenne terapia. Il disabile quindi è un paziente perennis che migra da un istituto all’altro, da un medico all’altro, da una terapia all’altra senza soluzione di continuità restando dipendente e assoggettato alla diagnosi iniziale.
Il potere medico in questo caso è totalmente discrezionale e insindacabile in quanto si ammanta della “conoscenza” di ciò che è sano/malato, funzionale/disfunzionale, abile/disabile.
In sostanza questo potere agisce come elemento che “normalizza” la persona disabile, inserendola nei vari circuiti sociali e medicalizzando la disabilità cerca di togliere gli aspetti perturbanti che ne derivano dall’incontro con chi, proprio per il suo aspetto Altro, possa creare inquietudine, sospetto, ansia, paura.

Alterità/diversità
“Io è un altro” scriveva Rimbaud nelle sue lettere ponendo in modo poetico il tema dell’alterità e dell’identità e della loro inevitabile contrapposizione. Scrive a questo proposito Remotti (Contro l’identità, 1996): Vi è tensione tra identità e alterità: l’identità si costruisce a scapito dell’alterità, riducendo drasticamente le potenzialità alternative; è interesse perciò dell’identità schiacciare, far scomparire all’orizzonte l’alterità”

In questo modo sembrerebbe che la formazione dell’identità si attui per contrasto in un processo continuo di differenziazione verso l’alterità. Raggiunto un certo, e necessario, grado di coesione l’identità dovrebbe riconoscere l’alterità come una possibilità informativa (la famosa batesoniana “differenza che crea una differenza”) in grado di ampliare le possibilità comunicative e rendere l’identità stessa non un processo definitivo e conclusivo, ma una successione continua di pluralità in cui l’alterità fa parte integrante dell’identità stessa.
E’ sempre Remotti che scrive magistralmente:

“Infine, ci si può spingere a riconoscere non solo l’esistenza dell’alterità, non solo la sua inevitabilità, ma anche il suo essere ‘interno’ all’identità, alla sua genesi, alla sua formazione. L’alterità è presente non solo ai margini, al di là dei confini, ma nel nocciolo stesso dell’identità. Si ammette allora che l’alterità è coessenziale non semplicemente perchè è inevitabile (perchè non se ne può fare a meno), ma perchè l’identità (ciò che ‘noi’ crediamo essere la nostra identità, ciò in cui maggiormente ci identifichiamo) è fatta anche di alterità. Si riconosce, in questo modo, che costruire l’identità non comporta soltanto un ridurre, un tagliar via la molteplicità, un emarginare l’alterità; significa anche un far ricorso, un utilizzare, un introdurre, un incorporare dunque (che lo si voglia o no, che lo si dica o meno) l’alterità nei processi formativi e metabolici dell’identità." (corsivo nell’originale)

Il riconoscere che l’alterità fa parte integrante dell’identità fa compiere un salto logico per quanto riguarda la visione dell’Altro, del “diverso” che non diventa più una minaccia per l’identità, ma consentirebbe invece di diventare scoperta e affermazione della stessa e, contemporaneamente, valorizzazione delle differenze.
Restando nel campo dell’handicap, quest’ultimo non verrebbe più ostracizzato e marginalizzato, ma riconosciuto come uno degli eventi che si inscrivono nella biografia di una persona senza che questo diventi l’appartenenza ad una categoria dei “diversi” come quella dei disabili.
Il diverso, il disabile in questo caso, non diventerebbe più il facile collettore di proiezioni individuali e collettive, ma svincolato da pregiudizi e da dimensioni più o meno trascendenti, gli si riconoscerebbe la sua completa soggettività e progettualità. Allora anche il termine “diverso”, con un gioco di inversione, lo si potrebbe cambiare in “verso/di”, connotandolo come apertura, progetto, in cui, accettando le rispettive differenze, si possano tracciare sentieri di comunanza e reciproca accettazione.

Bibliografia
Andreoli V., “Un secolo di follia”, Rizzoli, Milano, 1991
Bacchiega M., in Abstracta nr. 47, aprile 1990
Bocchi G., Ceruti M., “Origini di storie”, Feltrinelli, Milano, 1993
Gallino T.G., “La ferita e il re”, Raffaello Cortina, Torino, 1986
Goffman E., “Stigma, L’identità negata” Laterza, Bari, 1963
Illich I., “Nemesi medica”, Red Edizioni, Como, 1991
Remoti F., “Contro l’identità”, Laterza, Roma-Bari, 1996
Rimbaud A., “Opere”, Feltrinelli, Milano 1988