A nasce nel 1957. Dal 1973 al 1981 frequenta il CAP, Centro di Addestramento Professionale, presso l’Opera dell’Immacolata.
A ventiquattro anni arriva la possibilità dell’inserimento nel mondo reale del lavoro. È un’azienda alimentare a rendersi disponibile per l’inserimento di A. L’esperimento parte e va a buon fine. Tanto da durare per undici anni. A vive con i genitori, che si prendono cura di lui e lo accompagnano al lavoro. E tutto procede bene fino a quando l’azienda che dà lavoro ad A non si trasferisce. L’esperienza, per quanto positiva finisce. È l’anno 1992. A trentacinque anni A finisce nel limbo. Vive in casa con i genitori, fino alla morte di quest’ultimi. Per dieci anni. Fino al 2002. Poi fa rientro nel Centro di lavoro protetto. Oggi A è un adulto di 47 anni, con un ritardo psichico superiore ai 2/3. La definizione tecnica recita così. È tornato da dove era partito per il suo viaggio verso l’integrazione. Restano le domande. Perché per dieci anni, dopo il trasferimento dell’azienda che lo impiegava, A è rimasto a casa con i genitori? Perché nessun altro inserimento lavorativo è stato reso possibile?
La storia di B è simile. Una formazione durata sei anni, e dieci anni di lavoro in una fabbrica di oggettistica. Poi arriva il solito problema logistico, il solito trasferimento dell’azienda datore di lavoro. Non ci si può più far carico del trasporto casa-lavoro del disabile, non ci si riesce a inserire all’interno dei programmi di convenzione comunale. Dal 1989 partono per B dieci anni in casa con i genitori. Il rientro presso il Centro di lavoro protetto si impone nel 1999, per l’acutizzarsi di alcuni comportamenti ossessivi. Oggi B ha 56 anni.
C è nata nel 1952. L’iter della formazione è particolarmente lungo: quindici anni. Finalmente, è il 1985, un’azienda di confezioni decide per l’assunzione di C. Fino al 1997, quando C viene messa in cassa integrazione. L’anno dopo rientra nell’ambito del lavoro protetto.