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Cosa dice la legge

La legge 68/1999 ribadisce e rimodula la normativa che regola il diritto al lavoro e l’assunzione per le persone disabili. Sostituisce la legge 482/1968. Le differenze d’impostazione tra i due dispositivi sono tangibili.
La prima diversità, la più evidente, consiste nel fatto che viene dimezzata la percentuale di personale disabile che le aziende debbono obbligatoriamente collocare al loro interno. Si passa dalla percentuale del 15% a quella del 7%. Allo tempo stesso viene sancito l’obbligo di assunzione anche per le piccole imprese, quelle con un numero di dipendenti che va dalle 15 alle 35 unità. Ma la vera differenza è l’introduzione del collocamento mirato, tentativo di mitigare il concetto di obbligatorietà previsto per gli imprenditori. Per questo vengono introdotti incentivi di natura fiscale, e bonus di altro genere, che più avanti individueremo e analizzeremo con maggiore precisione.
L’articolo 2 della legge introduce il concetto di collocamento mirato, ovvero la concretizzazione del tentativo di porre l’uomo giusto al posto giusto.
“Per collocamento mirato dei disabili si intende quella serie di strumenti tecnici e di supporto che permettono di valutare adeguatamente le persone con disabilità nelle loro capacità lavorative e di inserirle nel posto adatto, attraverso analisi di posti di lavoro, forme di sostegno, azioni positive e soluzioni dei problemi connessi con gli ambienti, gli strumenti e le relazioni interpersonali sui luoghi di lavoro e di relazione.”
Proprio per elevare le probabilità di buon esito di ogni avviamento al lavoro è prevista l’assunzione nominativa, una via che la 482/68 rendeva di più difficile attuazione. Il datore di lavoro, oggi, può scegliere direttamente dalle liste di collocamento e indicare il nome della persona disabile da prendere in carico. La legge in sé è fin troppo bene articolata, ma non è difficile coglierne nella realtà alcuni aspetti che rimangono disattesi e inapplicati.
Guardiamo all’art. 3, esso indica le quote di riserva che le aziende pubbliche e private sono tenute a destinare alle persone disabili. Si va dal 7%, per quelle imprese che occupano più di 50 dipendenti, a decrescere, fino all’obbligo di avviamento per un solo lavoratore disabile in aziende che occupano da 15 a 35 dipendenti.
Sono moltissimi i datori di lavoro interessati. Tra gli altri i partiti politici e le organizzazioni sindacali, le forze di polizia, della protezione civile e della difesa nazionale. E anche se in questi casi la quota di riserva deve essere calcolata sul solo personale amministrativo, qui siamo di fronte ad un valido tentativo verso condizioni di reale integrazione.
Le note positive però a nostro avviso si fermano qui. E non parliamo tanto del dispositivo legislativo in sé, quanto di quel corollario di atti formali che avrebbero dovuto contribuire a renderlo veramente operativo.
Per il pubblico impiego la legge 68/1999 attendeva a distanza di 120 giorni dalla pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale due decreti. Il primo, della Presidenza del Consiglio, doveva stabilire quali fossero quelle mansioni che, “in relazione all’attività svolta dalle amministrazioni pubbliche e dagli enti pubblici non economici, non consentono l’occupazione di lavoratori disabili, o la consentono in misura ridotta. Il predetto decreto determina altresì la misura dell’eventuale riduzione”.
Il secondo decreto doveva essere invece emanato dal Ministero del lavoro per regolamentare i criteri di esonero parziale dagli obblighi occupazionali per le aziende pubbliche e private. Dei due decreti, soltanto il secondo, quello relativo all’esonero, è stato emanato. Del primo, che svincola la reale applicabilità della legge rispetto alle pastoie rappresentate dal blocco delle assunzioni nel pubblico impiego, non c’è ancora traccia.
Nel settore pubblico la legge così come concepita dal legislatore resta per ora pressoché inapplicabile, se escludiamo alcuni interventi pilota, portati avanti per buon senso e volontà di singoli operatori.
Con l’art. 6, viene istituito il Comitato Tecnico, un’entità con la funzione di rendere praticabile il collocamento mirato. Composto da “funzionari e esperti del settore sociale e medico legale… con particolare riferimento alla materia delle inabilità”, il Comitato Tecnico ha il compito di preottimizzare il match tra lavoratore disabile e azienda, studiando in base agli elementi anamnestici in suo possesso, una forma di collocamento quanto più rispondente alle reciproche esigenze dei soggetti coinvolti. Segnaliamo però la parte finale del comma 2, che recita: “Agli oneri per il funzionamento del comitato tecnico si provvede mediante riduzione dell’autorizzazione di spesa per il funzionamento della commissione di cui al comma 1.” Insomma si dice sì a nuovi strumenti, ma di fatto non si forniscono adeguate risorse economiche, se non distraendole da altri tipi di iniziative.
Se uno dei passaggi più discussi di questa legge ha riguardato l’articolo 12, l’entrata in scena della riforma Biagi sul mercato del lavoro ne amplifica ancora le valenze discriminative. Secondo l’art. 12, gli attori in scena sono tre: un disabile, un datore di lavoro “normale”, una cooperativa sociale o in alternativa un disabile libero professionista.
Cosa dovrebbe accadere? È previsto che l’azienda assuma direttamente il disabile. Che poi verrà distaccato presso la cooperativa sociale (di gruppo B) o il libero professionista disabile. Gli oneri retributivi, previdenziali e assistenziali sono a carico di questi due ultimi soggetti. In cambio del “favore” ricevuto, l’azienda di cui il disabile è di fatto dipendente si impegna a fornire commesse alla cooperativa per un importo almeno pari a quello sostenuto per soddisfare gli oneri dovuti nei confronti del lavoratore. Ora, questo meccanismo poteva essere articolato in modi differenti. Il datore di lavoro reale, l’azienda può utilizzarlo in un’accezione positiva nel caso in cui per quel lavoratore disabile, non ci sia alcuna possibilità di collocamento o reintegro nel posto di lavoro originario. Ma l’art. 12 può anche diventare una sorta di comodo e legale “scarica-barile”.
Con la riforma Biagi le cose peggiorano. Le imprese che conferiscono commesse alle cooperative sono esentate dall’assunzione di disabili. L’esenzione viene valutata in funzione del volume delle commesse. Per le aziende più piccole, quelle con un numero di dipendenti dai 15 ai 35, il limite di esenzione addirittura scompare.
Le conseguenze sono facilmente intuibili. La logica dell’integrazione lavorativa e del collocamento per persone con disabilità tende ad essere progressivamente smantellata, creando sacche di lavoro “protetto” ingessate, asfittiche, non più comunicanti con la realtà del lavoro “vero”. Attraverso la mercificazione della forza lavoro si chiude la porta in faccia ai diritti dei lavoratori disabili.
Qualcosa di positivo
L’art. 13 prevede per otto anni la fiscalizzazione degli oneri previdenziali e assistenziali per i disabili intellettivi o psichici, senza alcun vincolo riguardante la percentuale invalidante. Stessa cosa accade per chi abbia una riduzione della capacità lavorativa superiore al 79%. Segno questo che il legislatore ben conosce le problematiche legate al collocamento di quella tipologia di disabilità.
Rimborsi forfettari sono poi previsti per le spese sostenute dall’azienda per la modifica del posto di lavoro, per l’approntamento di tecnologie che consentano il telelavoro, e per la rimozione di barriere architettoniche.
Giungiamo all’articolo 14; con esso viene indicata l’istituzione di un Fondo regionale destinato al finanziamento dei programmi di inserimento lavorativo e dei relativi servizi.
Comma 3: “Al fondo sono destinati gli importi derivanti dalla irrogazione delle sanzioni amministrative previste dalla presente legge e i contributi versati dai datori di lavoro… , nonché il contributo di fondazioni, enti di natura privati, e soggetti comunque interessati.”Le sanzioni. La 482/68 prevedeva pene pecuniarie dall’importo risibile. Nel 1985 la mancata assunzione veniva punita con una ammenda da 15.000 a 150.000 lire sempre che venisse sporta denuncia dal lavoratore.
Con la legge 68/99 le sanzioni diventano più corpose. Un milione di vecchie lire per le imprese private e gli enti pubblici economici che certifichino in ritardo agli organi competenti la loro condizione in rapporto alla disponibilità all’assunzione di lavoratori disabili. E 50.000 lire per ogni giorno di ulteriore ritardo rispetto alla data di certificazione prevista dal legislatore.Per la mancata assunzione la sanzione amministrativa da versare al Fondo Regionale è di lire 100.000 per ogni lavoratore, e per ogni giorno di ritardo. Un tassametro che corre veloce e che invita pressante a mettersi in regola.
Come sempre ci accompagna un ma. Riguarda la rarefazione dei controlli che dovrebbero garantire l’applicazione dei diversi articoli. Questo accade per il semplice motivo che i servizi ispettivi sono alle dipendenze del Ministero del Lavoro, mentre l’operatività del collocamento è affidata alla Provincia. È evidente la mancanza di un filo diretto, che permetta una verifica immediata delle responsabilità delle aziende inadempienti.
Domanda e offerta
Il numero dei posti di lavoro offerti dalle aziende è superiore alle richieste contenute nella lista provinciale per il collocamento dei disabili. Si tratta di un curioso paradosso, apparentemente inspiegabile. A prima vista tutti i discorsi fatti fin’ora cadono nel nulla. I problemi risolti e la totalità dei disabili impiegati con successo. Non è così. Le aziende private spesso trovano escamotage fantasiosi per non dire no e non dire sì. Uno è quello di richiedere mansioni ad elevato valore aggiunto, come marketing manager, Edp project leader, o Direttore di produzione. Ruoli che difficilmente un disabile è in grado di ricoprire. Resta così una disponibilità formale dell’azienda, che non incorre nelle sanzioni di legge, e allo stesso tempo elude i suoi obblighi. Ma non si tratta del solo modo di aggirare la legge. La riuscita di un inserimento lavorativo è determinata dall’ambiente e dalle modalità di accoglienza. La garanzia di adeguatezza di tali modalità è rappresentata dal tutor, garante del buon successo dell’inserimento. Ma per questa figura non è prevista alcuna copertura finanziaria. Ovvero non esiste nella realtà. E gli inserimenti lavorativi spesso falliscono.




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