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Autore: admin

La vita affettiva e sessuale delle persone con disabilità

Limitazioni eteroimposte e nuovi immaginari possibili

Introduzione
Nel periodo marzo-maggio 2005 stata condotta una ricerca di tipo qualitativo al fine di indagare come la vita affettiva e sessuale delle persone con disabilità, che è da ritenersi uno fra i tanti indicatori di adultità (Demetrio, 2002) viene percepita e rappresentata nella mente degli altri. L’importanza di questa rappresentazione risiede nel fatto che, basandosi sugli assunti teorici proposti da Moscovici (1984), Berger e Luckmann (1966) e rintracciabili nella teoria del costruttivismo radicale (Glaserfeld, 1998), ogni diritto, per passare dall’astratta enunciazione all’interno di documenti ufficiali (nel caso del diritto alla vita affettiva e sessuale per le per persone con disabilità si fa riferimento alle Regole standard ONU – 1992) alla pratica quotidiana, deve essere inserito negli universi consensuali socialmente costruiti e difesi, e circolare nella società a mezzo delle rappresentazioni sociali. In questo senso, assume particolare importanza la percezione e la rappresentazione dei temi della sessualità e dell’affettività coniugati al tema della disabilità, attualmente circolante nella società.

Materiali e metodi
La ricerca tende ad evidenziare la presenza eventuale di uno scollamento tra le posizioni dichiarate e le resistenze inconsce che determinano atteggiamenti e comportamenti non coincidenti con le affermazioni di principio alle quali si manifesta di aderire. Per questo motivo sono stati utilizzati due strumenti: il questionario narrativo e l’intervista semistrutturata. Il primo reattivo, ambiguo, mira a far emergere istanze inconsce, mentre il secondo, decisamente manifesto, sonda le dichiarazioni pubbliche e razionali relativamente all’argomento indagato.
La prospettiva psicodinamica che ha guidato lo studio ha imposto adattamenti significativi nella ricerca qualitativa. Gli strumenti di indagine sono stati costruiti ad hoc, su riferimenti teorici psicodinamici (Bion, 1962), psicosociali (Ash, 1955) e narratologici (Greimas, 1966; Greimas, 1970; Todorov, 1966). Il questionario narrativo propone un lavoro di attorializzazione dei ruoli attanziali presenti in un testo costruito con specifiche peculiarità, al fine di sollecitare la proiezione di contenuti inconsci sia nella fase di attribuzione dei ruoli ad 8 identità date (due delle quali contraddistinte dal genere e dalla caratteristica “è Down”, altre due contraddistinte dal genere e dalla caratteristica “non è Down”, le restanti quattro definite solo per genere), sia nell’attribuzione di motivazioni all’agire degli attori così definiti. Si rititene che l’attribuzione del ruolo di protagonista, o comunque di ruoli sociali attivi, soprattutto se all’interno di coppie miste, sia indice di maggior apertura nei confronti dell’argomento indagato, in quanto implica il riconoscimento dell’adultità della persona con disabilità e, di conseguenza, facilita il riconoscimento del diritto a vivere appieno la sfera affettiva e sessuale. È stata scelta l’etichetta Down in quanto essa veicola universalmente importanti immagini di diversità sia fisica che mentale.
L’intervista semistrutturata, costruita al fine di indagare le posizioni razionali e dipendenti dall’appartenenza categoriale degli intervistati circa l’argomento indagato, propone un passaggio, attuato nella progressione dei 5 stimoli somministrati, dalla concezione della vita sessuale come puramente istintuale (domanda 1, 2 e 3; formulate dal ricercatore), al considerare le sfere affettiva e sessuale come congiunte (domanda 4: richiesta di commento ad un’affermazione di Papa Giovanni Paolo II, gennaio 2004), ma secondo una enunciazione astratta, fino ad arrivare all’ultima domanda (la quinta: richiesta di commento ai punti 2 e 3 della norma 9, “Vita familiare e integrità della persona”, delle REGOLE STANDARD ONU, 20/12/1993) che propone la congiunzione dei due temi e l’esplcitazione concreta delle loro conseguenze, ovvero la formazione della famiglia e la genitorialità.
I dati sono stati analizzati a partire dalla teoria bioniana di verbalizzazione del pensiero (Bion, 1962), ovvero la parola come generata da immagini mentali originate da emozioni sottostanti. Il lavoro di analisi, definita analisi profonda, è consistito nella ricerca degli impliciti narrativi (questionari) e dei nuclei di significato (interviste) che potessero consentire l’accesso alle immagini mentali. Quando molto esplicite si sono rilevate anche le emozioni alla base di tali immagini.
Nella ricerca sono stati coinvolti soggetti che hanno modo di rappresentarsi la persona con disabilità da vertici di osservazione diversi in funzione del ruolo che essi assumono nella relazione e, specularmene, del ruolo assunto dalla persona con disabilità. Si è scelto di contattare i genitori, gli operatori, gruppo ulteriormente suddiviso in operatori di CSE o strutture postr-obbligo e operatori di inserimento lavorativo, e i colleghi di lavoro di persone con disabilità, suddivisi in lavoratori di cooperative sociali o di strutture non protette, per un totale di 36 soggetti. La prima possibile osservazione riguardo al campione è la rilevazione della sottorappresentazione della componente maschile, che è addirittura assente nella categoria “operatori”. Questo dato potrebbe essere letto come in accordo con la rappresentazione infantilizzante ancor oggi diffusa riguardo alla disabilità: la disabilità, così come l’infanzia, è una “cosa da donne”.
Non si è potuto procedere ad una selezione a metodo random del campione in quanto le difficoltà incontrate nel trovare disponibilità a rispondere agli stimoli proposti hanno imposto il reperimento di un soggetto garante per ogni categoria, pratica particolarmente necessaria per quanto riguarda la penetrazioni nei luoghi di lavoro non protetti.
L’ipotesi era che il ruolo lavorativo condiviso potesse, in un circolo virtuoso di rispecchiamenti, favorire il riconoscimento di una più vasta gamma di possibilità esistenziali per la persona con disabilità.
Per quanto riguarda i questionari narrativi vi è stata una prima rilevazione dell’attorializzazione degli attanti. Entrambi gli stimoli, questionari e interviste, sono stati trattati mediante analisi profonda per rilevare le immagini emergenti. Queste ultime hanno subito un primo confronto intracategoriale, per far emergere l’eventuale scollamento fra il riconoscimento razionale del diritto e atteggiamenti che ne ostacolino l’attuazione, motivati da resistenze inconsce.
Le immagini emergenti sono state poi successivamente esplose per permettere il confronto intercategoriale.

Risultati
L’assegnazione attanziali si distribuisce in modo molto diverso nelle tre popolazioni che costituiscono il campione della ricerca. La creazione di coppie miste, indice di maggior apertura nei confronti dell’argomento trattato, riguarda solo il 7% degli operatori, a fronte di un 55% dei genitori e di un 75% dei lavoratori. La differenza più significativa riguarda il dato degli operatori in rapporto alle altre due categorie considerate.
Gli impliciti narrativi rintracciati nei questionari illustrano in modo esemplare l’approccio delle diverse popolazioni:
– nella categoria degli operatori l’implicito maggiormente presente riguarda la gestione, ed investe tutti gli aspetti della vita delle persone con disabilità e di chi interagisce con esse, quindi anche la sfera affettiva e sessuale. Viene dipinta una immagine di dipendenza, gli universi con disabilità/senza disabilità appaiono separati, così come vengono create due realtà tra le quali sussistono separazioni nette e rigidi controlli doganali;
– per i genitori invece l’implicito è quello dell’impegno personale. L’immagine dipinta quella della fatica, della paura del futuro, ma anche di un’autonomia, seppur parziale, delle persone con disabilità, e comunque di una tensione verso la contaminazione delle due realtà, che rimangono però parzialmente separate;
– per quanto riguarda i lavoratori, la realtà appare contaminata (è questo l’implicito esemplare della categoria). I due universi (con e senza disabilità) appaiono separati, ma inseriti in un’unica realtà. Viene accordata la possibilità di accedere a ruoli sociali attivi.
Per quanto riguarda i nuclei di significato rintracciati nelle interviste a mezzo dell’analisi profonda, si può notare che i nuclei maggiormente rappresentati per categoria sono, per quanto riguarda gli operatori, la gravità, quindi una sorta di classificazione nosografica che accorda o meno il diritto; lo status di persona è il nucleo maggiormente richiamato dalla popolazione dei genitori; il richiamo ai sentimenti e quindi al loro rispetto è il nucleo che definisce la categoria dei colleghi di lavoro.
I nuclei specifici per categoria, ovvero quelli che compaiono solo in una determinata categoria sono la gestione, concetto più volte richiamato dal campione degli operatori; il sostegno alla famiglia di origine, sottolineato con forza dai genitori; l’uguaglianza, in termine di diritti di cittadinanza e quindi di elargizione di servizi da parte dello Stato, contraddistingue il campione dei lavoratori. Esistono sottili differenze fra i sottogruppi delle due popolazioni, operatori e lavoratori: gli operatori di inserimento lavorativo sono più possibilisti rispetto agli operatori di CSE o strutture post-obbligo; appaiono maggiormente aperti nei confronti dell’argomento indagato i lavoratori delle aziende non protette rispetto a quelli delle cooperative sociali.
I risultati ottenuti sono così schematizzabili:
– Per quanto riguarda gli operatori, la figura emergente a livello inconscio è quella di un bambino che vive in una realtà separata; gli universi con e senza disabilità sono separati e fra essi sussistono rigidi “controlli doganali”. La sessualità è ascritta alla categoria dei sintomi e viene evidenziata la necessità di gestione, sia in riferimento alla sessualità delle persone con disabilità, sia in riferimento a quella di coloro che con esse interagiscono. Vi è uno scollamento significativo dall’immagine dipinta a livello pubblico e razionale, in quanto viene riconosciuto lo status di persona e il diritto ad una vita sessuale. Emerge una condizione di segregazione esistenziale: la disabilità è confinata nel suo universo; questo universo dispone di una sua realtà con regole e norme codificate, dove nulla accade per caso, tutto è programmato, gestito, controllato.
– I genitori presentano, a livello inconscio, l’immagine di una persona sulla soglia dell’età adulta, che però fatica ad entrarvi. Vi sono elementi di contaminazione dei due universi (con e senza disabilità) ed il riconoscimento della possibilità di rivestire ruoli sociali attivi. La sessualità è definita come un doloroso bisogno. Vi è una sovrapposizione, anche se solo parziale, con la posizione razionale e pubblica. Compaiono infatti il riconoscimento del diritto alla vita sessuale, ma anche elementi di preoccupazione per l’impegno personale che la concretizzazione di tale diritto comporterebbe per il genitore stesso, dal momento che lo Stato è percepito come inadempiente. Questa carenza di servizi non provoca nei genitori la rivendicazione del diritto, piuttosto un rassegnato pessimismo.
– L’immagine inconscia, emergente dai questionari narrativi restituiti dai lavoratori, vede la persona con disabilità percepita come adulta ed autonoma, sebbene con elementi di (innegabile) diversità. Gli universi con e senza disabilità appaiono costantemente contaminati ed inseriti in una realtà unica. Dalle risposte date nel secondo reattivo, emerge l’immagine di cittadino adulto e portatore di diritti, spesso misconosciuti, mentre lo stato appare inadempiente. Vi è, in questo caso, una sostanziale sovrapposizione delle due immagini, quindi il diritto riconosciuto a livello razionale non sembra trovare ostacoli inconsci che ne impediscano la concretizzazione nella vita quotidiana. La contaminazione possibile fra i due mondi facilita la comparsa di possibilità esistenziali molteplici e amplificate per gli appartenenti ad entrambi gli universi. La realtà pensata dai lavoratori appare unica, contaminata e contaminante. Le differenze che creano mondi separati rimangono inalterate, ma non sono tali da giustificare una esclusione dalla realtà della vita quotidiana. Le carenze di servizi supportivi, servizi che i lavoratori percepiscono come necessari perché le persone con disabilità possano vivere appieno la propria sfera affettiva e sessuale, inducono a sottolineare l’inadempienza dello Stato, non come una realtà ineluttabile, ma come una colpevole assenza che deve essere corretta. Nelle risposte fornite dai lavoratori, il diritto non può essere misconosciuto a causa delle carenze: chi si deve adeguare è l’istituzione, non la persona. In altre parole, per i colleghi di lavoro, non è pensabile porre limitazioni esistenziali alle persone con disabilità in forza di una società non responsiva.

Discussione
Considerando i risultati ottenuti alla luce del modello di sviluppo della sessualità umana di Veglia (2003; 2004), possiamo collocare la percezione della sessualità delle persone con disabilità in dimensioni diverse per le tre popolazioni che costituiscono il campione della ricerca.
– Gli operatori interpretano la sessualità delle persone con disabilità come appartenente alla dimensione ludica, quasi sempre scissa dalla componente affettiva considerata, per queste persone, sostanzialmente asessuata. Spesso la vita sessuale della persona con disabilità viene privata della componente relazionale e relegata alla sola modalità autoerotica;
– Quest’ultimo dato è condiviso con la categoria dei genitori, e richiama una dimensione tendenzialmente infantilizzante della persona con disabilità, anche se, nella mente dei genitori, affettività e sessualità sembrano avvicinarsi, consentendo l’accesso alla dimensione semantica della sessualità;
– I colleghi di lavoro interpretano la vita sessuale ed affettiva della persona con disabilità come unite o divise secondo parametri di normalità, questo permette di collocare la percezione della vita sessuale come ancorata alla dimensione narrativa. Compaiono anche aperture possibiliste verso la dimensione procreativa.
Queste immagini che si formano nella mente degli altri assumono particolare importanza anche in considerazione del fatto che, come propone Federici (2002), è probabile che l’identità sessuale si formi assumendo caratteristiche che sono funzione dell’immagine identitaria che viene restituita dall’ambiente sociale di riferimento.
Non proporre la restituzione di un’immagine positiva rispetto alla sfera affettiva e sessuale potrebbe dunque avere ripercussioni non solo sulle possibilità esistenziali accordate alle persone con disabilità, ma anche sulla struttura della loro identità sessuale profonda (Federici, 2002).
La popolazione degli operatori evidenzia, attraverso le risposte fornite, la percezione di una sessualità perlopiù istintuale, l’idea di una vita affettiva turbata da emozioni e manifestazioni sproporzionate, la difficoltà di pensare una relazionalità effettiva della persona con disabilità all’interno della coppia. Da questa immagine, che sottolinea una sostanziale immaturità, scaturisce la più volte richiamata necessità di controllo e di gestione. La persona con disabilità deve quindi necessariamente ricevere un permesso per poter vivere la propria dimensione affettiva e sessuale.
La ricerca condotta mette in luce aspetti che consentono di evidenziare quanto il ruolo degli intervistati nei confronti delle persone con disabilità e, viceversa il ruolo delle persone con disabilità nei confronti degli intervistati, incida sulle risposte date.
Questa visione mette in crisi l’idea che l’adultità sia collegata meccanicamente con l’integrità dei processi cognitivi o del materiale genetico. L’adultità insomma, in questa prospettiva, non è condizionata dalle categorie dell’intelligenza, ma semmai da quelle della maturazione affettiva e relazionale. Ed è proprio in forza di questo approccio all’adultità che diventa possibile, anche per le persone con disabilità mentale, essere pensate adulte e, in forza di ciò, diventarlo.

Il ruolo (lavorativo): un passaporto per la realtà di tutti
I risultati della ricerca condotta portano a indirizzare l’attenzione, oltre a quanto emerso rispetto alla vita affettiva e sessuale, anche su due aspetti determinanti che possono indirizzare il percorso evolutivo: il ruolo e la rêverie professionale.
Il ruolo adulto non può essere assunto in modo astorico, ma deve essere il naturale esito di un percorso di crescita e apprendimento rappresentato a partire dall’immaginario di un futuro possibile nella mente degli operatori. Il ruolo adulto, assunto e ratificato ha per la persona con disabilità un contenuto di vitale importanza: permette di entrare nel mondo degli altri, i «normali», di vivere una vita piena di significati, condivisi e intimi, di sentirsi cittadino con dei diritti e vederseli riconosciuti , compreso il diritto di pretendere le strutture supportive necessarie perché anche le persone con disabilità possano, con tutte le cautele del caso, decidere come impostare la loro vita sentimentale.
Ciò che emerge con maggiore forza dalla ricerca condotta è che il ruolo lavorativo può essere considerato una sorta di passaporto esistenziale per le persone con disabilità.
Lavorare infatti significa acquisire competenze in grado di modificare l’identità e lo stile relazionale. Imparare a lavorare significa, in ultima istanza, assumere il ruolo di lavoratore, riconoscere gli altri nel loro ruolo di colleghi, introiettare le regole e l’organizzazione sociale che presiedono all’organizzazione del mondo del lavoro.
Questi nuovi apprendimenti avvicinano chi si rapporta alla persona con disabilità ad un’immagine adulta di quest’ultima e, facendo questo, sostengono l’evoluzione della persona con disabilità verso stili relazionali più maturi, in un circolo virtuoso che si autopotenzia. In altre parole il ruolo lavorativo aiuta a crescere, questo sviluppo viene colto e rimandato alla persona che lo intraprende che, in forza dell’immagine di sé che le viene restituita adotta stili relazionali e comportamenti adulti, il che fa evolvere ulteriormente in senso positivo l’immagine che essa dà di sé a chi la circonda.
L’importanza di questo gioco di rispecchiamenti risiede nel fatto che il comportamento interattivo delle persone si modula anche sulla base della rappresentazione dell’altro che esse si costruiscono; da ciò si può dedurre che i soggetti che hanno una rappresentazione più adulta della persona con disabilità attuino nei suoi confronti, e si attendano da quest’ultima, comportamenti più adulti. Essere pensati in un determinato modo induce le persone oggetto di quest’immagine ad adeguarsi a tale idea . Ne consegue che essere pensati adulti induce ad essere adulti, essere pensati dipendenti, in questa prospettiva teorica, induce ad adeguarsi a tale immagine.
In forza di quanto emerso dalla ricerca ci si può chiedere come possano avere successo programmi educativi, terapeutici e riabilitativi che, come primo fra tutti gli obiettivi, hanno quello dell’autonomia, quando vengono attuati partendo da una rappresentazione infantilizzante e dipendente dei soggetti verso i quali sono diretti.
L’immagine che gli operatori hanno della persona con disabilità emergente dalla ricerca, sebbene quest’ultima non fosse finalizzata a tale rilevazione, sottolinea costantemente idee di dipendenza, incapacità decisionale, puerilità.
Probabilmente, a partire da queste immagini mentali, è difficile proporre, alla persona con disabilità la condivisione di un percorso educativo che amplifichi realmente le sue possibilità esistenziali.
In accordo con i dati emersi dalla ricerca condotta e con quanto teorizzato da Lepri e da Montobbio (1999; 2000; 2004) e da Montobbio e Navone (2003), si ritiene che il passaporto necessario alle persone con disabilità per oltrepassare la frontiera fra il mondo della «disabilità» e quello della «non disabilità» siano i ruoli sociali attivi, e in particolare quello lavorativo. Appare allora del tutto evidente quale sia l’importanza di impostare programmi educativi che, fin dalle prime fasi della vita sociale del bambino con disabilità, accordino una primaria importanza agli aspetti relazionali dell’integrazione rispetto a quelli didattici. Ciò è possibile attribuendo al bambino con disabilità, insieme ai suoi compagni, il ruolo sociale attivo appropriato nel contesto in cui si trova, e cioè il ruolo di alunno: ciò significa accordargli tutti i diritti (e sono tanti) che questo comporta, ma anche tutti i doveri, adattando gli uni e gli altri alle sue capacità cognitive e non alla sua etichetta diagnostica. L’obiettivo principe da perseguire nell’esperienza scolastica sarà quindi l’integrazione reale nel gruppo dei pari, integrazione che, ovviamente, passa anche attraverso gli apprendimenti, ma che non si limita a questi. Infatti è importante ricordare quanto l’esperienza di far parte attiva di un gruppo determini quel fondamentale autorispecchiamento che ha effetti positivi sulla percezione di sé come persona integrata e completa. E questa azione psicologica del ruolo, cioè quella di rafforzare il senso identitario, concorre a determinare un percorso evolutivo possibile e reale dall’infanzia all’età adulta e anziana, permettendo una vera socializzazione, grazie all’attuazione di stili relazionali appropriati in ogni fase della vita.
Il «progetto di vita» deve essere allora lo strumento di lavoro quotidiano di insegnanti ed educatori che vogliano mirare la propria azione ad aumentare e potenziare le possibilità esistenziali delle persone che vengono affidate alla loro professionalità. È necessario, non solo auspicabile, che gli operatori pensino in prospettiva adulti i loro bambini, immaginino per i loro ragazzi un futuro possibile, attivino cioè quella fondamentale rêverie professionale che consentirà alle persone con disabilità, oggi bambine ma domani adulte, di vivere tutte le loro possibilità esistenziali, sebbene diverse da quelle del mondo della «normalità».

La rêverie professionale
Il processo di formazione dell’identità personale è quindi determinato dalla rêverie che si incontra nelle figure dei caregiver, tipicamente i genitori: Bion sottolinea infatti la primaria importanza della rêverie materna, ossia della capacità di porsi in un equilibrio costante tra “capacità negativa” e l’individuazione del “fatto selezionato”, nella costruzione della funzione alfa del bambino. E il senso di soggettività è diretta conseguenza dell’attività della funzione alfa.
Mead evidenzia, anche rifacendosi al concetto di “looking glass self” di Cooley, l’importanza dei processi di rispecchiamento nella costruzione di quella fertile dialettica tra Io e Me che dà luogo all’espressione creativa del Sé.
Accogliendo questa prospettiva teorica, appare del tutto evidente che, nella costruzione dell’identità sociale di ogni persona, assumono rilevanza fondamentale le relazioni che, nel procedere dello sviluppo, verranno ad instaurarsi con educatori, insegnanti e operatori.
Non solo, ma è fatto ormai comprovato (Rosenthal 1972), che l’aspettativa della figura autorevole di riferimento, aspettativa che rientra in ciò che si è definito “immaginario”, influenzi i risultati di un qualsiasi percorso di apprendimento.
Quello che accade nella mente di operatori ed insegnanti, i pensieri con i quali pensano i loro studenti/utenti, non possono quindi essere fatti privati, ma diventano elementi di fondamentale importanza nei processi di apprendimento e di crescita delle persone con le quali e per le quali questi stessi insegnanti e operatori lavorano.
Si può definire questo immaginario rêverie professionale in quanto la si ritiene un elemento di professionalità la cui importanza e gestione possono, e devono, essere apprese. Questa non è una disposizione innata come quella materna, ma piuttosto dovrebbe essere una tappa nel percorso di formazione di chi intende dedicarsi a professioni
Costruire la rêverie professionale per gli operatori che, a vario titolo, saranno chiamati ad operare con persone con disabilità significa introdurre nei protocolli formativi la consapevolezza della fondamentale importanza che ha il vissuto dell’operatore stesso nei confronti della disabilità in generale ed in particolare delle persone con disabilità con le quali interagisce più o meno quotidianamente.
Un operatore dovrebbe essere formato ad interrogarsi quotidianamente sulle emozioni che prova e sulle immagini che popolano la sua mente nell’incontro con la diversità, poiché la consapevolezza, e non la negazione, porta alla capacità di trasformare anche aspetti potenzialmente negativi in una risorsa professionale.
Gli operatori, nel corso della loro formazione, dovrebbero quindi essere portati a riflettere riguardo alle percezioni e alle rappresentazioni, che nelle loro menti si formano, dei soggetti con disabilità, non solo e non tanto nel contesto che condividono con essi, ma soprattutto nei loro contesti di appartenenza primaria, ovvero la famiglia, le amicizie, le associazioni che frequentano e tutte le altre possibili situazioni di vita quotidiana. Gli operatori quindi, siano essi educatori, insegnanti, psicologi, terapeuti, devono imparare a immaginare (sognare) le persone (e con le persone) con le quali e per le quali lavorano nei loro contesti di vita al fine di attuare progetti dotati di senso e significato, che conducano le persone con disabilità, come qualsiasi altro essere umano, alla maturità e alla reale integrazione sociale. È infatti questa imprescindibile riflessione sul proprio ruolo che può mettere al riparo dal rischio di programmi educativi senza un futuro praticabile.
Un operatore che approccia il proprio lavoro avendo nel proprio repertorio di competenze una solida rêverie professionale sarà quindi in grado di attivarla sia nella costruzione di Progetti di Vita che realmente conducano alla vita nella realtà di tutti, sia nell’interazione quotidiana con le persone con disabilità.

BIBLIOGRAFIA
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(*) insegnante di sostegno in ruolo nella Scuola Primaria, collabora, per attività didattica e di ricerca, con la cattedra di Psicologia Dinamica dell’Università degli Studi di Parma
vanessabozuffi@tin.it

I rientri: dal posto di lavoro in azienda ai laboratori protetti

A nasce nel 1957. Dal 1973 al 1981 frequenta il CAP, Centro di Addestramento Professionale, presso l’Opera dell’Immacolata.
A ventiquattro anni arriva la possibilità dell’inserimento nel mondo reale del lavoro. È un’azienda alimentare a rendersi disponibile per l’inserimento di A. L’esperimento parte e va a buon fine. Tanto da durare per undici anni. A vive con i genitori, che si prendono cura di lui e lo accompagnano al lavoro. E tutto procede bene fino a quando l’azienda che dà lavoro ad A non si trasferisce. L’esperienza, per quanto positiva finisce. È l’anno 1992. A trentacinque anni A finisce nel limbo. Vive in casa con i genitori, fino alla morte di quest’ultimi. Per dieci anni. Fino al 2002. Poi fa rientro nel Centro di lavoro protetto. Oggi A è un adulto di 47 anni, con un ritardo psichico superiore ai 2/3. La definizione tecnica recita così. È tornato da dove era partito per il suo viaggio verso l’integrazione. Restano le domande. Perché per dieci anni, dopo il trasferimento dell’azienda che lo impiegava, A è rimasto a casa con i genitori? Perché nessun altro inserimento lavorativo è stato reso possibile?

La storia di B è simile. Una formazione durata sei anni, e dieci anni di lavoro in una fabbrica di oggettistica. Poi arriva il solito problema logistico, il solito trasferimento dell’azienda datore di lavoro. Non ci si può più far carico del trasporto casa-lavoro del disabile, non ci si riesce a inserire all’interno dei programmi di convenzione comunale. Dal 1989 partono per B dieci anni in casa con i genitori. Il rientro presso il Centro di lavoro protetto si impone nel 1999, per l’acutizzarsi di alcuni comportamenti ossessivi. Oggi B ha 56 anni.  

C è nata nel 1952. L’iter della formazione è particolarmente lungo: quindici anni. Finalmente, è il 1985, un’azienda di confezioni decide per l’assunzione di C. Fino al 1997, quando C viene messa in cassa integrazione. L’anno dopo rientra nell’ambito del lavoro protetto.

Tra centri professionali e laboratori protetti

Il mancato inserimento lavorativo, o il non concludere l’iter scolastico, possono dipendere da diversi fattori. Vi possono concorrere cause esterne, o problematiche legate alla gravità dell’handicap. Se il soggetto diversamente abile giunge a questo punto, viene preso in carico dall’Ausl, che tra le varie soluzioni a sua disposizione può scegliere di avviarlo verso i corsi di formazione professionale, fino al raggiungimento del diciottesimo anno di età, e poi di inserirlo in un Centro di lavoro protetto.
I corsi di formazione professionale conducono gli allievi che vi partecipano su un cammino fatto di esperienze cognitive e di relazioni interpersonali al fine di svilupparne le capacità di autonomia e di interrelazione. I corsi dovrebbero preparare al lavoro, all’inserimento nella fabbrica, o in qualsiasi altra struttura produttiva.
I centri di lavoro protetto sono invece dedicati a chi, disabile, pur avendo concluso il percorso formativo, obbligatorio fino al diciottesimo anno di età, non è riuscito ad inserirsi in una azienda.  Ma non solo.
All’interno del tessuto sociale e produttivo un centro di lavoro protetto ha diverse funzioni. Può rappresentare lo strumento per il recupero e il conseguimento di maggiori abilità da spendere nel mondo lavorativo, o farsi carico di una funzione di ammortizzatore, in grado di alleggerire i problemi dei familiari della persona diversamente abile. Altrimenti possiamo intenderlo anche come una camera di decompressione, viste le difficoltà oggettive che un disabile incontra nel collocamento all’interno delle aziende del mondo del lavoro "normale". 
Per capire come funzionano ne abbiamo visitato uno, gestito dall’Opera dell’Immacolata di Bologna.

L’Opera, diretta da don Saverio Aquilano, ora fondazione come statuto giuridico, ha una storia antica. Nasce nel 1845. Le origini la vedono impegnata nel dare aiuto ai giovani diseredati. Continua così la sua funzione sociale fino al 1957, quando nasce il Comitato bolognese formazione professionale giovani lavoratori, una libera associazione che vede al suo interno figure come Luigi Pedrazzi e Giuseppe Dossetti. Il comitato promuove la formazione al lavoro per le classi disagiate, e collabora con l’Opera Pia, proprietaria degli stabili dove vengono tenuti i corsi. Una sinergia tra chi ha il capitale e chi ha le idee.
Nel 1968 (è l’anno del varo delle leggi 482/68 per il collocamento al lavoro, e della 118/68 per la formazione professionale dei disabili) l’Opera decide di affrontare il problema delle persone con deficit mentale. Un’attività portata avanti fino ai nostri giorni.

Due sono i rami d’attività: il Centro di lavoro protetto, e il Centro di formazione professionale.  
Confermando il frazionamento, che francamente appare eccessivo, tra le competenze delle strutture pubbliche nei riguardi delle problematiche legate all’handicap, il Centro di lavoro protetto riceve i finanziamenti necessari al suo funzionamento dall’Ausl, mentre l’attività della formazione è a carico della Provincia.
L’obbiettivo ultimo per i due rami d’attività è quello dell’inserimento nel mondo produttivo vero e proprio.
"Il lavoro ha finalità formative, migliora la sicurezza, la stima di sé, la capacità di essere autonomi. Questa è la proposta centrale". Così afferma Walter Baldassarri, direttore dei Laboratori protetti dell’Opera. Al loro interno, conto terzi per aziende dell’hinterland, vengono effettuati lavori di confezionamento, montaggio, prevedendo anche l’uso di macchine utensili. "Lavoro vero", tiene a precisare Baldassarri. Con tempi di consegna da rispettare, e controlli per la qualità del prodotto. È prevista anche una forma di retribuzione, che all’Opera chiamano indennità di presenza. Il denaro incassato dalle commesse viene redistribuito secondo un principio egualitario basato sul numero delle presenze sul posto di lavoro. Ogni disabile incassa annualmente un migliaio di euro.   
Per la Oma Bargellini vengono assemblate prese elettriche, per una azienda di Ponte Ronca vengono montate valvole antiriflusso, per la Italfarad vengono confezionati carburatori. L’età media per i disabili mentali dell’Opera è indirizzata verso l’alto. Si va dai trent’anni ai sessanta. E non potrebbe essere diversamente. I più giovani seguono ancora il percorso della formazione, o vengono inseriti in azienda attraverso borse lavoro, mentre per i casi più gravi è prevista la frequenza in centri diurni. 
Complessivamente sono assegnati al centro 120 disabili. Il rapporto con gli educatori è di uno a dieci. Altri 17 operatori assolvono a compiti di accompagnamento, o contribuiscono a dare vita agli atelier di teatro, ceramica, informatica e cucina. 
Dalle 8.30 del mattino, fino alle 17 circa del pomeriggio, per cinque giorni alla settimana, i momenti di lavoro si alternano all’integrazione formativa attraverso la frequenza negli atelier.
Quattordici utenti frequentano il laboratorio di ceramica, mentre sono in tredici quelli che si trasformano in attori all’interno dell’atelier di teatro, realizzato in collaborazione con la compagnia Camelot. Entrambi gli atelier hanno frequenti momenti di contatto e confronto con il mondo esterno. Niente pietismo, insomma, ma il tentativo apparentemente riuscito di offrire al pubblico un prodotto artistico, compiuto sia tecnicamente che nei contenuti.   

Entrare nei laboratori dell’Opera di via Decumana e di via del Carrozzaio, rimanda ad una dimensione di officina artigiana anni ’80. Macchine utensili un poco antiquate ma efficienti, gruppi di lavoro raccolti intorno a isole di produzione fatte di tavoli da lavoro attaccati gli uni agli altri. Si mettono insieme prese elettriche, o si assemblano sifoni. L’arrivo del "giornalista" è accolto con interesse. Strette di mano e baci sulle guance vengono riservate al visitatore. C’è aria di cordialità, e di famiglia. Allo stesso tempo, come ci fa notare Emma, nome di fantasia per una operatrice, stiamo entrando in contatto con persone, affette sì da deficit mentale, ma in maniera lieve. Ovvero siamo in contatto con individui che si rendono conto della loro condizione di handicap. E spesso ne soffrono. L’entrata dello straniero rappresenta la metafora dell’ingresso del mondo esterno nella loro vita. Accende speranze, rinfocola i sogni sepolti nel fondo del cassetto. Non è una forzatura fare il parallelo con la routine che appartiene alla vita dei "normali", anche loro sempre alla ricerca di novità che rendano un senso alla realtà del vivere. Anche qui è lo stesso. Una pulsione che ci viene confermata, anche se in maniera empirica, dal desiderio di molti utenti, di andare a spendere la pausa pranzo nelle mense delle aziende "vere". Come a volersi disegnare un’identità di lavoratore meno ai margini possibile.
Nulla da eccepire sulla qualità dei centri visitati, ma gli interrogativi restano. Quali sono i criteri che regolano la collocabilità dei “diversamente abili”? Qui ne abbiamo visti alcuni lavorare egregiamente, con buon controllo motorio, e rapidità esecutiva nelle mansioni assegnate. E, come confermato dalle biografie di alcuni di loro, all’interno del centro sono presenti anche figure di ritorno, reduci da inserimenti aziendali magari riusciti, e poi conclusi per cause diverse: il trasferimento dell’azienda o la sua chiusura; l’impossibilità di assicurare il trasporto del lavoratore sul luogo di produzione; l’aggravamento della condizione di handicap del disabile. Qualche volta sono le famiglie stesse a preferire il collocamento all’interno dei Centri di lavoro protetto, piuttosto che in fabbrica. Per evitare "noie", o perché per pregiudizio culturale credono troppo poco alle possibilità di recupero del congiunto.        
Dal 1968 al 1998 (fonte interna) l’Opera dell’Immacolata ha inserito nel tessuto produttivo bolognese 300 lavoratori con deficit mentale lieve. Le borse lavoro, attivate dall’Opera per il 2004 sono 2.

Cosa dice la legge

La legge 68/1999 ribadisce e rimodula la normativa che regola il diritto al lavoro e l’assunzione per le persone disabili. Sostituisce la legge 482/1968. Le differenze d’impostazione tra i due dispositivi sono tangibili.
La prima diversità, la più evidente, consiste nel fatto che viene dimezzata la percentuale di personale disabile che le aziende debbono obbligatoriamente collocare al loro interno. Si passa dalla percentuale del 15% a quella del 7%. Allo tempo stesso viene sancito l’obbligo di assunzione anche per le piccole imprese, quelle con un numero di dipendenti che va dalle 15 alle 35 unità. Ma la vera differenza è l’introduzione del collocamento mirato, tentativo di mitigare il concetto di obbligatorietà previsto per gli imprenditori. Per questo vengono introdotti incentivi di natura fiscale, e bonus di altro genere, che più avanti individueremo e analizzeremo con maggiore precisione.
L’articolo 2 della legge introduce il concetto di collocamento mirato, ovvero la concretizzazione del tentativo di porre l’uomo giusto al posto giusto.
“Per collocamento mirato dei disabili si intende quella serie di strumenti tecnici e di supporto che permettono di valutare adeguatamente le persone con disabilità nelle loro capacità lavorative e di inserirle nel posto adatto, attraverso analisi di posti di lavoro, forme di sostegno, azioni positive e soluzioni dei problemi connessi con gli ambienti, gli strumenti e le relazioni interpersonali sui luoghi di lavoro e di relazione.”
Proprio per elevare le probabilità di buon esito di ogni avviamento al lavoro è prevista l’assunzione nominativa, una via che la 482/68 rendeva di più difficile attuazione. Il datore di lavoro, oggi, può scegliere direttamente dalle liste di collocamento e indicare il nome della persona disabile da prendere in carico. La legge in sé è fin troppo bene articolata, ma non è difficile coglierne nella realtà alcuni aspetti che rimangono disattesi e inapplicati.
Guardiamo all’art. 3, esso indica le quote di riserva che le aziende pubbliche e private sono tenute a destinare alle persone disabili. Si va dal 7%, per quelle imprese che occupano più di 50 dipendenti, a decrescere, fino all’obbligo di avviamento per un solo lavoratore disabile in aziende che occupano da 15 a 35 dipendenti.
Sono moltissimi i datori di lavoro interessati. Tra gli altri i partiti politici e le organizzazioni sindacali, le forze di polizia, della protezione civile e della difesa nazionale. E anche se in questi casi la quota di riserva deve essere calcolata sul solo personale amministrativo, qui siamo di fronte ad un valido tentativo verso condizioni di reale integrazione.
Le note positive però a nostro avviso si fermano qui. E non parliamo tanto del dispositivo legislativo in sé, quanto di quel corollario di atti formali che avrebbero dovuto contribuire a renderlo veramente operativo.
Per il pubblico impiego la legge 68/1999 attendeva a distanza di 120 giorni dalla pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale due decreti. Il primo, della Presidenza del Consiglio, doveva stabilire quali fossero quelle mansioni che, “in relazione all’attività svolta dalle amministrazioni pubbliche e dagli enti pubblici non economici, non consentono l’occupazione di lavoratori disabili, o la consentono in misura ridotta. Il predetto decreto determina altresì la misura dell’eventuale riduzione”.
Il secondo decreto doveva essere invece emanato dal Ministero del lavoro per regolamentare i criteri di esonero parziale dagli obblighi occupazionali per le aziende pubbliche e private. Dei due decreti, soltanto il secondo, quello relativo all’esonero, è stato emanato. Del primo, che svincola la reale applicabilità della legge rispetto alle pastoie rappresentate dal blocco delle assunzioni nel pubblico impiego, non c’è ancora traccia.
Nel settore pubblico la legge così come concepita dal legislatore resta per ora pressoché inapplicabile, se escludiamo alcuni interventi pilota, portati avanti per buon senso e volontà di singoli operatori.
Con l’art. 6, viene istituito il Comitato Tecnico, un’entità con la funzione di rendere praticabile il collocamento mirato. Composto da “funzionari e esperti del settore sociale e medico legale… con particolare riferimento alla materia delle inabilità”, il Comitato Tecnico ha il compito di preottimizzare il match tra lavoratore disabile e azienda, studiando in base agli elementi anamnestici in suo possesso, una forma di collocamento quanto più rispondente alle reciproche esigenze dei soggetti coinvolti. Segnaliamo però la parte finale del comma 2, che recita: “Agli oneri per il funzionamento del comitato tecnico si provvede mediante riduzione dell’autorizzazione di spesa per il funzionamento della commissione di cui al comma 1.” Insomma si dice sì a nuovi strumenti, ma di fatto non si forniscono adeguate risorse economiche, se non distraendole da altri tipi di iniziative.
Se uno dei passaggi più discussi di questa legge ha riguardato l’articolo 12, l’entrata in scena della riforma Biagi sul mercato del lavoro ne amplifica ancora le valenze discriminative. Secondo l’art. 12, gli attori in scena sono tre: un disabile, un datore di lavoro “normale”, una cooperativa sociale o in alternativa un disabile libero professionista.
Cosa dovrebbe accadere? È previsto che l’azienda assuma direttamente il disabile. Che poi verrà distaccato presso la cooperativa sociale (di gruppo B) o il libero professionista disabile. Gli oneri retributivi, previdenziali e assistenziali sono a carico di questi due ultimi soggetti. In cambio del “favore” ricevuto, l’azienda di cui il disabile è di fatto dipendente si impegna a fornire commesse alla cooperativa per un importo almeno pari a quello sostenuto per soddisfare gli oneri dovuti nei confronti del lavoratore. Ora, questo meccanismo poteva essere articolato in modi differenti. Il datore di lavoro reale, l’azienda può utilizzarlo in un’accezione positiva nel caso in cui per quel lavoratore disabile, non ci sia alcuna possibilità di collocamento o reintegro nel posto di lavoro originario. Ma l’art. 12 può anche diventare una sorta di comodo e legale “scarica-barile”.
Con la riforma Biagi le cose peggiorano. Le imprese che conferiscono commesse alle cooperative sono esentate dall’assunzione di disabili. L’esenzione viene valutata in funzione del volume delle commesse. Per le aziende più piccole, quelle con un numero di dipendenti dai 15 ai 35, il limite di esenzione addirittura scompare.
Le conseguenze sono facilmente intuibili. La logica dell’integrazione lavorativa e del collocamento per persone con disabilità tende ad essere progressivamente smantellata, creando sacche di lavoro “protetto” ingessate, asfittiche, non più comunicanti con la realtà del lavoro “vero”. Attraverso la mercificazione della forza lavoro si chiude la porta in faccia ai diritti dei lavoratori disabili.
Qualcosa di positivo
L’art. 13 prevede per otto anni la fiscalizzazione degli oneri previdenziali e assistenziali per i disabili intellettivi o psichici, senza alcun vincolo riguardante la percentuale invalidante. Stessa cosa accade per chi abbia una riduzione della capacità lavorativa superiore al 79%. Segno questo che il legislatore ben conosce le problematiche legate al collocamento di quella tipologia di disabilità.
Rimborsi forfettari sono poi previsti per le spese sostenute dall’azienda per la modifica del posto di lavoro, per l’approntamento di tecnologie che consentano il telelavoro, e per la rimozione di barriere architettoniche.
Giungiamo all’articolo 14; con esso viene indicata l’istituzione di un Fondo regionale destinato al finanziamento dei programmi di inserimento lavorativo e dei relativi servizi.
Comma 3: “Al fondo sono destinati gli importi derivanti dalla irrogazione delle sanzioni amministrative previste dalla presente legge e i contributi versati dai datori di lavoro… , nonché il contributo di fondazioni, enti di natura privati, e soggetti comunque interessati.”Le sanzioni. La 482/68 prevedeva pene pecuniarie dall’importo risibile. Nel 1985 la mancata assunzione veniva punita con una ammenda da 15.000 a 150.000 lire sempre che venisse sporta denuncia dal lavoratore.
Con la legge 68/99 le sanzioni diventano più corpose. Un milione di vecchie lire per le imprese private e gli enti pubblici economici che certifichino in ritardo agli organi competenti la loro condizione in rapporto alla disponibilità all’assunzione di lavoratori disabili. E 50.000 lire per ogni giorno di ulteriore ritardo rispetto alla data di certificazione prevista dal legislatore.Per la mancata assunzione la sanzione amministrativa da versare al Fondo Regionale è di lire 100.000 per ogni lavoratore, e per ogni giorno di ritardo. Un tassametro che corre veloce e che invita pressante a mettersi in regola.
Come sempre ci accompagna un ma. Riguarda la rarefazione dei controlli che dovrebbero garantire l’applicazione dei diversi articoli. Questo accade per il semplice motivo che i servizi ispettivi sono alle dipendenze del Ministero del Lavoro, mentre l’operatività del collocamento è affidata alla Provincia. È evidente la mancanza di un filo diretto, che permetta una verifica immediata delle responsabilità delle aziende inadempienti.
Domanda e offerta
Il numero dei posti di lavoro offerti dalle aziende è superiore alle richieste contenute nella lista provinciale per il collocamento dei disabili. Si tratta di un curioso paradosso, apparentemente inspiegabile. A prima vista tutti i discorsi fatti fin’ora cadono nel nulla. I problemi risolti e la totalità dei disabili impiegati con successo. Non è così. Le aziende private spesso trovano escamotage fantasiosi per non dire no e non dire sì. Uno è quello di richiedere mansioni ad elevato valore aggiunto, come marketing manager, Edp project leader, o Direttore di produzione. Ruoli che difficilmente un disabile è in grado di ricoprire. Resta così una disponibilità formale dell’azienda, che non incorre nelle sanzioni di legge, e allo stesso tempo elude i suoi obblighi. Ma non si tratta del solo modo di aggirare la legge. La riuscita di un inserimento lavorativo è determinata dall’ambiente e dalle modalità di accoglienza. La garanzia di adeguatezza di tali modalità è rappresentata dal tutor, garante del buon successo dell’inserimento. Ma per questa figura non è prevista alcuna copertura finanziaria. Ovvero non esiste nella realtà. E gli inserimenti lavorativi spesso falliscono.

Lo stato delle cose

Una nuova legge sulla regolamentazione per il diritto al lavoro dei disabili, la 68 del 1999, ha sostituito ormai da cinque anni la “storica” legge 482 del 1968. Qualcosa è cambiato? Il legislatore ha scelto di passare da una logica di diritto impositivo ad un’altra più avanzata che prevede il principio del collocamento mirato come spina dorsale del nuovo dispositivo. Che cosa è accaduto dal varo della nuova legge fino ad oggi? Ne parliamo con Roberto Alvisi, esperto dell’Agenzia E.R. Lavoro e presidente dell’UILDM, Unione italiana lotta alla distrofia muscolare.

Partiamo dall’inizio, le aspettative nei confronti della nuova legge erano alte. Gli impegni sono stati mantenuti?
Vede, nel nostro paese prima di ogni legge c’è stata la carità cattolica. Poi, con la prima guerra mondiale, e il ritorno a casa di centinaia di mutilati e invalidi ha preso corpo anche nello Stato un tipo di approccio che definirei di tipo risarcitorio. Da lì, passiamo per un’altra guerra e arriviamo ai fermenti politici del ’68. Con essi finalmente giungiamo alla logica dei diritti. Questo è un passaggio fondamentale. Il legislatore crede di interpretarlo al meglio esprimendo una normativa che rafforza il diritto attraverso l’impositività dello stesso. Passano 30 anni, i tempi cambiano. Cambia la legge. Passiamo al collocamento mirato. Sembra solo un termine tecnico, e invece, per comprenderlo e applicarlo realmente nel contesto sociale e lavorativo, è richiesto, direi obbligatorio un salto culturale di grosse dimensioni.

Il salto c’è stato? No, non ancora. Per quanto non dobbiamo dimenticare che le attese delle persone disabili e delle loro famiglie erano alte. Chi ha patito fino ad oggi non si accontenta facilmente di palliativi. Può spiegarci cosa è accaduto con l’entrata in vigore della nuova legge? Seccamente va detto che i primi disabili a trovare lavoro sono stati quelli più facili da collocare. Se il grado di disabilità va dal 46% al 100%, i primi ad essere impiegati chi vuole che siano? I meno “gravi”. Questo accade perché c’è una resistenza oggettiva da parte degli imprenditori, oltre ad una carenza cronica di strutture. Insomma una concorrenza di concause negative. Nonostante il principio del collocamento mirato, quando ci si trova di fronte ad un soggetto disabile, prossimo al 100% di invalidità, è necessario porre estrema attenzione nella ricerca di strutture tecniche e aziendali compatibili con quello stato. Ma quello che manca è soprattutto la volontà di far cambiare le cose. Degli imprenditori in primo luogo, che troppo spesso, se possono, mettono in campo ogni strategia possibile per concretizzare una ripulsa nei confronti di un “grave”. Una logica comprensibile. Meglio un soggetto che mi risolve un problema e mi dà un vantaggio, rispetto ad un caso complicato che comporta oneri aggiuntivi. Ancora esiste una dimensione border-line che riguarda quei disabili che i medici dovrebbero definire incollocabili. Questo rappresenta un problema molto delicato. Parlo dei distrofici, degli spastici, di coloro che sono affetti da tetraparesi. Che però con la logica del collocamento mirato, e con l’ausilio dell’informatica e delle nuove tecnologie, possono trovare nicchie di occupabilità assolutamente positive. Impensabili e irrealizzabili fino a pochi anni fa.Ma come funziona il collocamento mirato? E soprattutto, funziona? La legge affida questo istituto alla Provincia. La funzionalità di questi uffici è legata sì ad una legislazione più avanzata, ma di fatto spesso è affidata alle stesse persone che erano lì prima del 1999. Perciò, se son bravi tirano, se meno bravi involontariamente frenano. E, attenzione, parliamo di una regione come l’Emilia Romagna, dove la realtà è davvero meno peggio che altrove. Cosa c’è che non va? Vede, quello che finalmente dovrebbero comprendere i normodotati è che dentro l’handicap stesso c’è una persona, con le proprie emozioni, la propria intelligenza e le proprie sofferenze. Ed è sempre così. Quale che sia il livello di disabilità. Se partissimo da questo troppo disconosciuto presupposto sarebbe molto più facile tenere insieme diritto e realtà. In concreto, sarebbe necessario iniziare a realizzare dei centri preposti alla creazione dei presupposti necessari all’inserimento mirato, dove poter monitorare compiutamente la persona disabile nelle sue propensioni e attitudini, così da individuare il luogo lavorativo più adatto alla riuscita dell’inserimento. Compiuta questa pre-istruttoria nei termini descritti, si dovrebbe entrare (purtroppo dobbiamo continuare ad usare il condizionale) nel merito del collocamento lavorativo vero e proprio, andando a verificare i contesti delle persone e delle imprese. Qui entra in gioco l’istituto del “tutoring”. Che dovrebbe concretizzarsi attraverso la presenza costante di un operatore che accompagni, sostenga, protegga e affianchi l’inserimento lavorativo del disabile. Non per tre giorni striminziti, ma fino a quando la situazione di reciproca conoscenza tra datore di lavoro e lavoratore non si stabilizza positivamente. Purtroppo nell’attuale pratica operativa corrente la figura del “tutor” non esiste.Perché? Perché non ci sono risorse. Nessuno paga. La figura è prevista, ma non è prevista alcuna forma di copertura finanziaria. Finché restiamo nell’ambito della formazione si riesce a sopperire a questo problema con i finanziamenti provenienti dall’Unione Europea, ma dopo le cose non vanno più così. A regime ordinario, in ambito lavorativo la figura del tutor è “appoggiata” lì, senza che siano previsti strumenti in grado di renderla operativa per davvero. Ma non si deve dimenticare come questo ruolo risulti indispensabile per tutti i disabili gravi. Per alcuni di loro è indispensabile soltanto nella fase di inserimento. Per altri quel tipo di sostegno è necessario tout-court. Oltre la mancata presenza del tutor, esistono altri ostacoli all’inserimento lavorativo dei disabili. Quali sono? L’altro problema grosso è rappresentato dal trasporto: casa-lavoro e viceversa. È un altro degli snodi critici. Anche qui l’asino cade sul versante dei costi. Proviamo ad inquadrare la situazione. Paradossalmente, o il disabile possiede una sua automobile con autista personale; oppure provate a salire su di un autobus con la carrozzina: è impossibile. Rimane la strada delle convenzioni con le associazioni di assistenza, o con le cooperative di pubblico noleggio, iniziative magari in parte supportate dal contributo del fondo comunale. Ma poi, arrivati di fronte l’azienda, sei lì, e spesso ci rimani. Chi ti porta in ufficio, chi ti porta in bagno? L’attuale normativa, insomma, prevede e tutela l’assunzione, ma è carente per il resto dei dispositivi messi in campo. Soprattutto nei confronti dei disabili gravi. Per meglio spiegarsi, quelli che ho definito “restanti motivi” oltre l’assunzione rappresentano invece le cause determinanti al successo del collocamento. Mi riferisco alla mancanza della figura del tutor e al nodo irrisolto del trasporto casa-lavoro. Dal 1999 ad oggi è ragionevole affermare che le cose siano migliorate, ma non a livello delle aspettative di una fascia di disabili, i gravi e i gravissimi, per i quali è necessaria la programmazione e la progettazione di percorsi davvero mirati. L’uomo giusto non va al posto giusto per grazia ricevuta. Far comprendere questo meccanismo significa riuscire ad attuare un passaggio culturale e materiale indispensabile. Altrimenti continuerà a prevalere la logica economicista, per cui all’azienda l’assunzione costa, e se è più onerosa del solito, o della media, si cerca di evitarla. Infine c’è da affrontare il discorso sulle sanzioni. Che sono previste ma non sono applicate. E è difficile far rispettare una legge senza sanzioni.Chi dovrebbe applicare le sanzioni?La legge prevede che il soggetto deputato sia l’Ispettorato del lavoro, sulla base delle segnalazioni degli interessati, degli uffici competenti e di terzi soggetti. Ma l’Ispettorato dipende dal Ministero del lavoro, non dalla Provincia o dalla Regione, che invece sono i soggetti realmente coinvolti dal punto di vista istituzionale. E il Ministero sembra non abbia grande interesse ad occuparsi di questa materia.Per caratteristica politica, o in assoluto? Vede, io dico sempre che è meglio raggiungere un accordo, piuttosto che far sparare il carro armato. È da tener ben presente come per il datore di lavoro non sia difficile dimostrare difficoltà oggettive nella organizzazione del lavoro dell’impresa, a fronte dell’inserimento lavorativo di un disabile grave. E come logica conseguenza chiedere l’esenzione o scegliere di pagare la quota sostitutiva, l’esonero. Per restare nel solco di quella logica economicista che nega i diritti, di cui parlavamo prima. Non dimentichi che una soluzione spesso proposta dai consulenti delle imprese è l’evasione.Della legge? Sì, in quanto non essendo ancora stata impostata una logica di verifica e controllo, l’evasione è per ora il modo per pagare meno. Si sceglie di non assumere sapendo che un controllo difficilmente arriverà. Oppure si chiedono al collocamento soggetti disabili che dovrebbero ricoprire qualifiche di alta fascia, come direttore di produzione, o top manager, o direttore generale, con la consapevolezza da parte dell’azienda che si tratta di figure di fatto irreperibili nelle liste speciali. Così “per legge” il disabile resta a casa. E si tratta di un fenomeno molto diffuso.Qualche dato a conforto di tali affermazioni? Lascio rispondere ai numeri. Nel 1969 i disabili occupati erano 42.000. Nel 1999 si sono ridotti a 23.000. Questa forte compressione è dovuta sia alla marcata automatizzazione e informatizzazione della produzione, ma anche al fatto che i disabili usciti dal mondo del lavoro non venivano reintegrati. Poi dobbiamo considerare che con la nuova legge la percentuale di lavoratori da collocare passa dal 15% al 7%. Infine non dobbiamo dimenticare il sostanzioso contributo dato da elusione e evasione. Qual è lo stato delle cose nel settore pubblico? L’imperativo è riduciamo i costi. Costi quel che costi. L’ultima querelle degna di essere ricordata è quella che riguarda le aziende sanitarie. A fronte del varo della nuova legge il governo doveva decidere cosa fare nella scuola e nella sanità. Ci si aspettava un decreto che non è mai arrivato. Perciò nei settori sanitario e scolastico si aspettano istruzioni. Intanto non si assume. La sola Ausl di Bologna dovrebbe collocare tra i 2 e i 300 disabili. Ma non lo fa, a domanda risponde con altre domande… Dove li colloco? Tra il personale medico? No. Esistono già medici assunti con disabilità, ma sono in quota ai ruoli dei normodotati. Li assumo come infermieri? Alle domande dell’Ausl, mi dico, è risposta realistica immaginare un disabile in carrozzina che faccia l’infermiere in corsia? Le possibilità allora si riducono, e le assunzioni possono essere effettuate tra il personale d’ordine e impiegatizio. Le quote possibili si restringono. Perché il personale d’ordine in buona parte è stato esternalizzato. Gli impiegati invece rappresentano soltanto il 15% della forza lavoro dell’Ausl. E il 7% dei disabili assunti previsto dalla legge diventa un numero sempre più irrisorio. Senza dimenticare che le competenze specifiche del lavoratore sono indispensabili. Ad oggi l’Ufficio Provinciale per il collocamento sta trattando con l’Ausl, su proposta di diverse associazioni, l’assunzione di circa trenta disabili, nonostante il vuoto normativo riguardante i decreti attuativi della legge 68/99, e facendo i conti anche con il blocco delle assunzioni nella pubblica amministrazione. Si tratta in sostanza di una iniziativa autonoma e di buon senso.Una goccia in mezzo al mare? Oltre queste iniziative, per i disabili gravi e gravissimi la situazione resta delicata. Questa condizione oltre il lavoro riguarda la scuola e l’assistenza, tanto da essere stata fatta oggetto di regolamentazione attraverso la legge nazionale 162, non rifinanziata dal governo già da tre anni. Per i disabili gravissimi le difficoltà da affrontare sono oggettivamente superiori. Nella scuola le cose vanno meglio, le figure di assistenza e sostegno sono previste e finanziate, anche attraverso i fondi assistenziali gestiti dai comuni. Ma in ambito lavorativo tutti questi supporti non esistono. E le difficoltà del disabile grave o gravissimo esplodono. Questo calvario per chi è disabile terminerà soltanto quando verrà finalmente applicato il trattamento previsto dalla legge e il collocamento mirato.La parola spetta ora alle aziende… Purtroppo trova riscontro oggettivo un dato generale: è difficile trovare aziende che dicano seccamente no. La risposta più frequente invece è: sì, ma ci sono delle difficoltà. Poi si passa all’interazione successiva, e l’azienda ti dice: se mi trovi quello giusto lo assumo. Accade così che in parecchi casi, posta dieci la quota spettante ad un’impresa, il numero di assunti reali non supera le tre unità. Questo è il vero scandalo. Ovviamente l’ufficio provinciale per il collocamento esercita meno pressione nei confronti di colui che ha già effettuato alcune assunzioni, rispetto a chi non ne ha fatta alcuna. Il cerchio si chiude. Senza per questo dimenticare le difficoltà oggettive prima citate. La città, ad esempio, offre molti posti di natura impiegatizia, ma con necessità di specializzazione; la cintura invece dà disponibilità in ambito manufatturiero, ma con oggettive difficoltà di trasporto. Ma queste difficoltà non debbono servire da giustificazione. Debbono essere fatti progetti, costruiti percorsi, e se negli uffici preposti c’è soltanto un impiegato ad occuparsene, è necessario utilizzare un maggior numero di risorse umane. Poi ricordo un’altra concausa importante, il blocco delle assunzioni negli enti pubblici, che frenano la macchina fino a farle raggiungere velocità prossima allo zero. La mia valutazione complessiva, non come funzionario della Regione ma come cittadino, è che le andature sono molto più lente di quelle che dovrebbero essere. È come se si marciasse sempre con il freno a mano tirato, in una situazione che richiederebbe invece ben altro tipo di mobilitazione. Una considerazione, ad esempio: il comitato tecnico, che affianca l’Ufficio provinciale, non sempre viene messo nelle condizioni di esprimere a pieno le sue potenzialità. Troppo spesso il comitato viene intasato da numeri. E se faccio una riunione a settimana quanti casi posso affrontare? E se ne faccio una al mese? Se riesco ad esaminare cinque o sei casi per seduta, quanti sono in un anno? Faccia lei i conti. A Modena sono efficientisti, e si trovano due volte a settimana. Ma anche lì, se un caso è difficile serve un’intera mattinata per discuterlo. In una ricerca che facemmo nel 1999 venne fuori un’esigenza che considero ancora giusta: ricercare le cause di successo o di insuccesso di un inserimento. Al primo posto va messo il clima aziendale. Poi tutta un’altra infinita serie di concause. Quale, ad esempio, l’eccesso di burocratizzazione: se io impiegato curo una pratica e non la persona che questa rappresenta, non si può dire che non stia lavorando, ma certo il mio operato perde di efficacia. L’affermazione: “dietro a un disabile c’è sempre una persona, è un’osservazione sacrosanta, ma molto spesso la burocrazia non è dello stesso avviso. Troppo spesso il disabile è un numero, così nella sanità, come nella scuola. E le strutture oltre le volontà delle persone che le compongono sono in definitiva striminzite da un punto di vista dimensionale.

Lavorare stanca? Magari…

La difficoltà dell’inserimento lavorativo dei disabili

Introduzione
Non è difficile, quando si parla di handicap, uno scivolone sul pietismo, o peggio, l’assunzione passiva di linee di condotta e comportamenti, condizionati dai trend culturali, sociali e politici del momento.
Oggi nel nostro paese siamo di fronte ad una situazione tipicamente “italiana”. Ci sia perdonata la semplificazione che sa un poco di retorica, ma la coesistenza contraddittoria tra stadi apicali di civiltà e integrazione, e arretratezze culturali, e vetuste logiche risarcitorie e di sommersione del problema handicap, è un dato di fatto. Contraddizione, dunque, tra l’esistente e il desiderato, tra il progettato e il realizzato.
Le leggi che regolano i diritti delle persone disabili nel nostro paese appaiono in teoria avanzatissime per civiltà giuridica. La logica dell’integrazione a parole ha decisamente prevalso, ma poi, senza neanche il bisogno di troppa indagine scopri incresciose vie crucis individuali. Uomini e donne con deficit, e ne leggerete le interviste, che hanno tentato per anni di inserirsi senza successo nel mondo del lavoro. I dati numerici e percentuali, apparentemente freddi, denunciano che in Emilia Romagna su 9580 disabili immediatamente disponibili al lavoro, nel 2001 ne sono stati collocati al lavoro soltanto 2700, e di questi 901 in regime di convenzione.
La riforma Biagi, poi, ha introdotto modifiche tali alla legge 68/99 incaricata di regolare il collocamento dei disabili, tanto da creare una sorta di mercato del lavoro parallelo e avulso da quello reale. Un mercato del lavoro chiuso, qualcuno lo chiama protetto, senza più contatti e possibilità di interscambio con il lavoro “vero”. Una situazione questa, ben conosciuta a livello istituzionale.
Mentre l’industria vede i diritti dei lavoratori disabili come fumo negli occhi, o peggio come una ulteriore tassa da pagare. E che qualche resistenza ci sia da parte dei datori di lavoro, lo dimostrano i dati sul collocamento prima presentati. La mobilità è estremamente bassa, considerando soprattutto un elemento davvero eclatante: la disponibilità di posti di lavoro complessiva è superiore alla domanda!
Le politiche legate all’integrazione rispecchiano, appunto, le tendenze dominanti dell’oggi, che vedono nello smantellamento del welfare, e nell’abbattimento della spesa pubblica una delle soluzioni alla stagnazione economica. Sotterrare Keynes è diventato un imperativo irrinunciabile.
Tutto questo si traduce per le persone disabili nel ritorno ad una logica monetarizzante e risarcitoria, che per i suoi stessi intrinseci meccanismi nega l’integrazione della persona. Il disabile allora si blandisce attraverso pseudo-diritti forse acquisiti, ma esigibili soltanto in un mondo parallelo, dove non si crea disturbo alle logiche del profitto, e sì delle belle apparenze. Dove troppo spesso, questo vale per tutti, viene dimenticata la dignità della persona.
Non è poi possibile non cogliere paradossi e contraddizioni in sé esilaranti, se non toccassero diritti e dolore di persone in carne e ossa. Per cui, come è possibile leggere nel rapporto del 2003, se siete cacciatori (avete letto bene! cacciatori… con lo schioppo) invalidi o disabili, “la Provincia… può autorizzare nuovi appostamenti fissi…”. Mentre rimane impossibile salire in autobus per chi vive in carrozzina. Oppure, suggeriamo, provate a prenotare un taxi nella civilissima Bologna… Abbiamo telefonato. Se la carrozzina è pieghevole nessun problema… soprattutto se siete accompagnati e di stazza non troppo robusta… ma se la carrozzina non accetta di restringersi, allora dovete prenotare un mezzo speciale, dotato di scivolo. Abbiamo chiamato al mattino, siamo stati invitati a ritelefonare al pomeriggio… ci sono molte richieste… chissà se il mezzo sarà disponibile…Questo è lo stato delle cose.
Sul versante scolastico e della formazione la situazione non è migliore. La legge Moratti, da applicare a suon di decreti se sarà, prevede tra l’altro di modificare i parametri per la certificazione che attesta la natura e il grado della disabilità. Può sembrare un dettaglio, ma è partendo da quella certificazione che si stabiliscono le risorse umane e economiche da mettere in campo ai fini del raggiungimento dell’integrazione. E se quei parametri si innalzano, è facile immaginare come le risorse investite si riducano ulteriormente. Non è indispensabile quindi fare discorsi complicati sull’etica, sulla storia e sul pregiudizio, per capire che quanto dal ’68 ad oggi è stato conquistato nel campo dei diritti dei disabili, rischia di venire perso se non viene difeso con forza.
È soprattutto necessario fare chiaramente intendere che non si tratta di battaglie a favore di una minoranza, ma di un dovere di difesa di valori civili e etici che riguarda tutti gli individui. L’handicap non è soltanto quello derivato dal deficit fisico e mentale. In condizione di svantaggio si trova anche chi è senza lavoro, senza casa, senza permesso di soggiorno grazie a leggi inique. Banalmente, siete in condizioni di handicap se state reclusi in carcere, o malati in ospedale.
L’economia, che a detta di alcuni si autoregola, vorrebbe mangiarseli vivi i disabili. O farli scomparire…

1985, qualche tempo fa

Dagli atti della Commissione di inchiesta sulla P2 risulta che Licio Gelli trattò con Attilio Monti l’acquisto di quote azionarie de "La Nazione", de "il Resto del Carlino", e della Società Officine Grafiche…
Il Presidente della Repubblica è Sandro Pertini. Si va verso il referendum sulla scala mobile. Confindustria avverte: "Qualunque sia l’esito (del referendum) sarà disdetta la scala mobile". I socialisti al governo tentano una controriforma per ridimensionare la legge Basaglia, ma non riescono ad attuarla per una intrinseca debolezza numerica. Solo il 6% della spesa per l’assistenza psichiatrica è indirizzato verso i nuovi servizi. Molti sono i manicomi solo formalmente aperti, ma in realtà ancora coatti all’esterno. Corre l’anno 1985. L’Unità dalle pagine locali di Bologna dà notizia di un convegno in città sull’inserimento "degli invalidi nella scuola, nel lavoro e nei servizi sociali". Abbiamo ritrovato gli atti di quella manifestazione organizzata dall’A.N.M.I.C. il 23 marzo del 1985.
Non sono tutte rose e fiori.
In Emilia-Romagna sono 60.000 gli invalidi civili e i disabili. Dalla relazione di Agostino Bravaccini emerge una situazione di regressione nel campo dei diritti acquisiti. Alcuni dati: se si è titolari di pensione I.N.P.S. viene revocata quella d’invalidità; viene ripristinato il pagamento del ticket sanitario; è soppresso il congedo lavorativo per cure mediche.
Si comincia a parlare di riforma della 482/68 sul collocamento obbligatorio, mentre per la legge quadro è  lontano il varo (la 104 arriverà nel 1992). Un invalido civile totalmente inabile è costretto a vivere con una pensione di lire 204.000.
Oggi, anno 2004, l’importo di questa stessa indennità è diventato di circa euro 218,65. Le cose non sembrano andare tanto meglio.
Sul versante scolastico, nel 1985 il ministro della Pubblica Istruzione, on. Falcucci, presenta un progetto di riforma ignorando letteralmente i disabili e le loro esigenze. Esiste una legge, la 517/77 che all’articolo 2 parla di "servizi di sostegno nella scuola media", ma "non viene giustamente e  adeguatamente applicata".
Tornando invece a parlare di lavoro, scopriamo che dal collocamento obbligatorio sono esclusi coloro che sono affetti da malattie psichiche, e che nel computo delle percentuali di obbligo vengono inseriti anche gli invalidi già occupati.
In Emilia-Romagna si registra un altro dato negativo, rappresentato dalla diminuzione dell’occupazione
dei disabili rispetto al 1983 e al 1984. Sono aumentati gli iscritti alla lista del collocamento, passando da 6.393 a 7.653 occupati, con un incremento del 19.7%. Ma i lavoratori occupati appartenenti alle liste protette sono diminuiti, passando dai 38.407 del 1° semestre 1983, ai 36.485 del 1° semestre 1984. (decremento del 5%). Sono in flessione anche gli avviamenti, e le assunzioni dirette da parte delle aziende, che passano da 1.816 a 1.276 unità. Complessivamente i posti riservati alle categorie protette, e non coperti presso Enti pubblici e aziende private passano così dai 16.667 dell’83 al 17.869 dell’84. In particolare presso gli Enti pubblici il numero di posti scoperti è di 4.651 unità.
Allora, come oggi, le sanzioni previste per i datori inadempienti agli obblighi di legge sono lievi, e vanno dalle 15.000 alle 150.000 lire, applicate a patto che il lavoratore sporga denuncia all’Ispettorato del Lavoro.
Non vanno meglio le cose sul versante dell’assistenza. Diversi medicinali sono esclusi dal prontuario farmaceutico, mentre per quanto riguarda le protesi si cerca di contenerne le forniture, e il loro pagamento viene imposto ai cittadini invalidi.
Nel 1985 in Italia, il 27.7% delle famiglie è priva completamente di beni reali, e in questa percentuale è compresa l’intera categoria degli invalidi civili. Il reddito medio annuo individuale è di 11.067 lire, mentre il titolare di una pensione d’inabilità, percepisce in un anno soltanto 2.600.000 lire. Per chi è totalmente inabile, l’indennità di accompagnamento è pari a 5.580.000 lire.
Cosa rispondono le istituzioni? L’Assessore Regionale ai Servizi Sociali Riccarda Nicolini nel suo intervento è solidale con la linea di rivendicazioni proposta dall’A.N.M.I.C. Ma non può non riconoscere come troppo spesso la formazione si trasformi in parcheggio a causa della mancanza di concreti sbocchi occupazionali. Nonostante il tentativo di supplire alle carenze della 482, con l’emanazione della L.R. 48, la situazione non si sblocca. Eppure la 48 prevede contributi per l’adeguamento di beni strumentali dedicati all’attività lavorativa delle persone disabili, facilitazioni per quelle imprese che vedono al loro interno almeno 1/3 dei soci disabili. Le aspettative sono state inferiori ai risultati. Unico dato positivo la costituzione di cooperative miste, che ha portato all’inserimento di 400 lavoratori. Ma poco può una legge regionale, quando le carenze rimangono strutturali a livello nazionale.
Il 1985 vedrà scoppiare anche lo scandalo dei falsi invalidi, una situazione poi strumentalizzata dalle forze politiche per attribuire ad una esigua fascia di popolazione inesistenti responsabilità del dissesto economico nazionale. In effetti in Emilia-Romagna gli invalidi censiti sono 174.505, soltanto l’1% della popolazione. Le parole e i dati di Alvido Lambrilli, presidente nazionale di A.N.M.I.C. faranno sgranare gli occhi in altra sede al sottosegretario Giuliano Amato, che incredulo chiederà conferma al Ministero degli Interni, della veridicità di quei numeri.      
Ancora, già nel 1985 emergeva prepotente la frammentazione del mondo associazionistico. A Parma le associazioni censite erano 102; a Roma nel solo ambito dell’invalidità civile il numero è di 52 gruppi.
Infine una provocazione e una domanda: se cambiassimo le date, i numeri che contrassegnano le leggi, se scrivessimo 2004 al posto di 1985, i fatti raccontati in questo articolo non vi sembrerebbero di estrema attualità?

Fonti:
l’Unità
Atti del II Convegno Regionale "Inserimento degli invalidi nella scuola, nel lavoro e nei servizi sociali" promosso da A.N.M.I.C. (Associazione nazionale mutilati e invalidi civili) Bologna, 23 Marzo 1985

La storia di Luca

Luca è affetto da tetraparesi spastica. Luca Pieri ha 50 anni. Nel 1983 si laureato in Scienze Politiche con il punteggio di 110. Luca è sposato con Carla, conosciuta 16 anni fa a Rimini ad un convegno sull’handicap. Insieme hanno una figlia di dieci anni, Bianca, ma i ragazzi in casa sono due. Con Luca, Carla e Bianca vive anche Andrea, in condizione di affidamento. Non è la prima esperienza del genere per la famiglia Pieri. Ce ne sono state già altre nel corso degli anni. Carla, la moglie di Luca, lavora come assistente sociale. Tutti insieme abitano a Bologna in una casa piena di oggetti, libri e giochi.  Una storia apparentemente normale, che anzi meglio si è articolata nei suoi sviluppi nel corso del tempo rispetto ad altre vicende legate alla disabilità. La malattia non ha impedito a Luca di costruirsi una rete affetti, di avere dei figli, di studiare. Eppure c’è qualcosa che non ha mai ingranato per Luca: il lavoro.
Nella nostra società il lavoro riveste una funzione identificativa, oltre a generare reddito. Come si legge più avanti l’inserimento nel mondo lavorativo per Luca ha rappresentato e rappresenta ancora uno scoglio pressoché insuperato. La sua ricerca di un posto di lavoro, che come previsto per legge dovrebbe trovare positiva soluzione, di fatto non ha mai avuto successo. I tentativi di inserimento sono falliti, nonostante le competenze professionali che Luca è in grado di mettere a disposizione del datore di lavoro.  

Luca partiamo dalla tua vita scolastica. Quali resistenze hai incontrato?
Le resistenze al fatto che io andassi avanti con gli studi provenivano dai miei genitori, e ci sono state fino all’inizio delle scuole superiori. Poi però vista la mia determinazione sono stato aiutato. In particolare dai miei fratelli.
Fino ad arrivare all’università. Come è stato l’approccio con il sistema?
Mi sono iscritto alla facoltà di Scienze Politiche. Frequentavo per tre giorni a settimana. Avevo scelto i corsi che più mi interessavano. Le altre materie le studiavo a casa. Una cosa che mi sembra importante sottolineare è che con i professori non mai avuto particolari problemi. E ho sempre trovato la loro disponibilità nel rispettare i tempi più lunghi a me necessari per sostenere gli esami.
Luca, nel passaggio dalle scuole superiori verso l’università, hai cercato di lavorare?
Fino alla fine dell’università non mi sono posto il problema del lavoro, almeno inteso come attività retribuita. Ero impegnato come volontario all’interno dell’Aias (Associazione italiana assistenza spastici).
Dopo esserti laureato con ottimo punteggio, si presenta il problema di inserirsi nel mondo del lavoro. Cosa fai, come ti muovi?
Intanto, era abbastanza chiara la consapevolezza, che se era stato relativamente semplice studiare, sarebbe stato molto più difficile trovare una occupazione stabile, riconosciuta e retribuita.
Mi sono iscritto al collocamento obbligatorio, e partendo da quella iscrizione ho fatto una serie di tentativi di inserimento lavorativi in diverse aziende bolognesi. Come la Sasib, per citarne una. Questi tentativi sono abortiti sul nascere. Le aziende mi offrivano soldi per rinunciare al mio posto di lavoro.
Sotto che forma, in che modo ti offrivano denaro? Uno stipendio per stare a casa?
La maniera più diffusa era quella di offrire un indennizzo per la mancata assunzione. Di questo non ero proprio contento, tanto che una volta tentai di fare causa all’azienda che non voleva prendermi in carico. Il pretore ha dato ragione all’azienda!
Con che motivazioni?
Semplicemente: non era possibile trovare una mansione a me adeguata.
Qualche esperienza positiva?
Interessante invece è stata l’esperienza con la casa editrice Il Mulino. Lì c’erano delle difficoltà oggettive di collocamento in azienda, però da parte de Il Mulino c’è stata una disponibilità significativa per realizzare una collaborazione improntata sul lavoro a domicilio. Mi venivano dati dei testi da correggere, materiale cartaceo da trasformare in file e da mettere a punto. Erano traduzioni a cui dare anche una certa forma grafica.
Questa esperienza continua ancora?
No, purtroppo per un periodo non mi è stato possibile lavorare, e quando mi sono ristabilito, quel tipo di collaborazione non era più praticabile.
Cosa fai a questo punto?
C’è l’esperienza in Comune. Lì ero stato assunto con un contratto a termine di 45 giorni per ritirare le dichiarazioni dei redditi. Ma si trattava di una mansione che non potevo assolvere, e sono stato incaricato di inserire dei dati in un archivio elettronico.
Ti è stato rinnovato il contratto?
No, ma questa consapevolezza era mia già all’inizio di quella esperienza.
Attualmente sono in borsa-lavoro in collaborazione con la Virtual Coop. Cerco notizie sul web, e poi le trasferisco sul sito della cooperativa.
Luca, mi sembra di capire che tu abbia una elevata competenza di natura informatica?
Diciamo che me la cavo con tempi paurosamente lunghi dato che per comandare la tastiera al posto del mouse uso un diverso sistema.
Oltre alle specificità legali, ci sono altri problemi, per trovare un lavoro?
Un problema serio riguarda l’assistenza personale sul luogo di lavoro. Un’esperienza interessante in questo senso l’ho vissuta presso la Camera del Lavoro. Non è scontato, in un luogo di lavoro, trovare la disponibilità dei colleghi ad aiutarti a mangiare o ad andare in bagno.
Oggi da dove proviene il tuo reddito?
Da una pensione di stato in primo luogo, dall’indennità di accompagnamento poi, e infine da borse-lavoro e consulenze.
Che genere di consulenz? Cosa dovrei scrivere sul tuo biglietto da visita? Dottor Luca Pieri, laureato in Scienze Politiche e… che altre qualifiche aggiungeresti?
Potrei occuparmi della pubblicazione di testi, di informazione legata alla disabilità, e in questo senso ho fatto parecchie esperienze di consulenza.
Sei ancora iscritto alle liste di collocamento? Arrivano offerte di lavoro?
Per ora no, ma sono in borsa lavoro.
Come sintetizzeresti il tuo impatto con il mondo del lavoro?
Dal mio punto di vista si è trattato del vero scoglio della integrazione del disabile.
Cosa si può fare? Le leggi che attualmente regolano il mercato del lavoro sono adeguate?
Da un punto di formale queste leggi sono abbastanza adeguate, ma manca una cultura condivisa.
Rispetto al collocamento di un disabile in azienda ci sono delle reali pregiudiziali. Il disabile è percepito come un costo, o peggio come un danno all’immagine dell’azienda. Nei vari tentativi di avviamento ho provato spesso questa sensazione. Non c’era neanche la disponibilità a studiare soluzioni.
Raccontami il primo giorno in azienda…
No. Preferisco raccontarti il primo contatto tra me e l’azienda. Era ancora in vigore la legge 482/68. L’ufficio di collocamento mandava una lettera di collocamento a me e una all’azienda. Naturalmente l’azienda non si faceva viva. Dopo un certo periodo di tempo ero io a telefonare. Generalmente si prendeva un appuntamento con il capo del personale. Andavo da solo o con un operatore. La dinamica era sempre la stessa. Il primo incontro era a senso unico: io parlavo e la controparte rispondeva ponendo argomentazioni di carattere negativo.
Raccontavo quello che potevo fare. In particolare ponevo l’attenzione su quelle mansioni impiegatizie che prevedevano l’uso del computer. Seguiva un secondo o un terzo incontro dove l’azienda continuava a rispondere negativamente alle mie richieste.
Ma cosa ti dicevano: nonostante la legge lo preveda lei non può lavorare con noi? E con quali motivazioni sostenevano questa tesi?
Rispondevano affermando che era impossibile trovare una mansione adeguata…
Ma tu non raccontavi che lavoravi già con il computer? Non descrivevi le passate collaborazioni?
Sì, ma non bastava.
Poi, dopo il rifiuto cosa facevi?
Una volta ho fatto una causa, altre volte ho trovato un accordo economico con l’azienda, più spesso chiedevo una mediazione da parte della CGIL, ma anche con il sindacato non si riusciva ad entrare.
Quanti sono stati i tuoi tentativi di inserimento?
Una decina, nell’arco di vent’anni.
Una storia che dura da parecchio. Sei ancora in cerca?
Diciamo che la motivazione è un poco calata.
Finora abbiamo parlato del tuo collocamento nel versante privato. Non hai mai provato nelle strutture pubbliche?
Avrò fatto almeno venti concorsi pubblici. Uno all’anno da quando mi sono laureato. Ma non ho mai superato la prova scritta. Questo risultato può essere interpretato in due modi: o la mia valutazione scolastica non rispondeva alla realtà, e questo solo in parte può essere vero. Oppure il mio compito veniva subito identificato, e classificato volutamente in maniera insufficiente.

Sitografia

http://www.provincia.bologna.it/handicap/index.html
Informazioni, nell’ambito della scuola, della formazione e del lavoro a cura della Provincia di Bologna.

http://www.handylex.org/ /> Leggi e disposizioni in tema di handycap.  

http://www.emiliaromagnasociale.it/wcm/emiliaromagnasociale/home/disabili.htm
La Regione Emilia-Romagna dà informazioni su contributi e normative. Il sito contiene  inoltre un’agenda di appuntamenti per le iniziative legate all’handicap. Vi sono contenuti gli atti della conferenza regionale sulla disabilità.

http://www.scuolaer.it/page.asp?IDCategoria=133&IDSezione=413
Informazioni sulla scuola in Emilia-Romagna. Riflessioni e informazioni sulle nuove tecnologie legate all’integrazione dei diversamente abili.

http://www.asphi.it/
E’ il sito dell’Associazione per lo sviluppo di progetti informatici per gli handicappati.

http://www.bandieragialla.it
Contiene contributi sulle problematiche legate all’handicap, news, approfondimenti. In particolare contiene informazioni su reti solidali e volontariato.

http://www.disabili.com/
Un giornale online sul mondo dei diversamente abili. Con la possibilità di costruire pagine personali.

http://www.istruzione.it
Il sito del Ministero dell’Istruzione.

http://www.edscuola.it/
Leggi e regolamenti riferiti alla scuola.

http://www.siva.it
Informazioni e valutazione sugli ausili ai disabili.

http://www.edubo.it/edubo/home/home.htm
Portale educational della Provincia di Bologna.

http://www.europalavoro.it/
Sito del Fondo sociale europeo.

http://www.ausl.bologna.it/ausl/
Sito dell’Ausl bolognese.

http://www.handicapincifre.it/
A cura dell’Istat e del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, contiene informazioni statistiche sulla disabilità.

http://www.superabile.it/
Portale Inail sulla disabilità. Informazioni e notizie.

http://www.ausilioteca.org/
Informazioni e supporto per gli ausili ai disabili. Un servizio gestito da Aias in convenzione con l’Ausl di Bologna.

http://www.cerpa.org
Il sito del Centro europeo di ricerca e promozione della disabilità.

http://www.integrazioni.it/
Sull’integrazione scolastica e l’inserimento nel mondo del lavoro. A cura della Regione Emilia-Romagna.

www.accaparlante.it
Oltre alle numerose informazioni sulle opportunità offerte in termini di servizi, associazionismo e formazione, mette a disposizione un esauriente archivio che censisce le riviste specializzate nel settore dell’handicap.

www.amicidiluca.it
Il sito della "Casa dei Risvegli Luca De Nigris". Concrete prospettive per un risveglio dal coma.

Agenzie di stampa sociali, per aggiornamenti su quanto che succede nel mondo dell’handicap

www.redattoresociale.it
(a pagamento)

Dati regionali, provinciali, nazionali

Presentiamo qui i dati regionali e provinciali riguardanti il collocamento al lavoro dei disabili, e le cifre rappresentative per la scuola e la formazione.
Al 31/12/2001 i disabili, uomini e donne in Emilia-Romagna, complessivamente iscritti al collocamento sono 16.986. Di questi, sono immediatamente disponibili al lavoro 9.580.
Il maggior numero di essi risiede nelle province di Bologna e di Modena.
I posti di lavoro disponibili nei prospetti presentati da aziende private e pubbliche sono 12.968. La maggiore disponibilità è nel settore privato, con 11.048 posti.
Complessivamente i disabili già occupati in Emilia-Romagna al 31/12/2000 sono 21.863.
Una situazione che appare a prima vista sostanzialmente in equilibrio. L’offerta supera addirittura la richiesta, se osserviamo i dati riguardanti le persone disabili che si dichiarano immediatamente disponibili al lavoro.
Ma se partendo da questi numeri andiamo a vederne altri, quelli che descrivono i collocamenti effettivi, la situazione appare invece in condizione di stallo.
In Emilia-Romagna al 31 dicembre 2000 le assunzioni effettuate con criterio numerico sono state soltanto 137; quelle nominative (collocamento mirato) 1.868; quelle nominative per convenzione 258.
Al 31 dicembre 2001 assistiamo ad una leggera crescita di questi dati: i disabili assunti con criterio numerico sono stati 194; per indicazione nominativa 1.698; per convenzione 901.
Complessivamente nel 2000 sono stati assunti 2.263 disabili; nel 2001 le assunzioni sono state invece 2.700.
Lo strumento della convenzione è stato quello che di fatto ha portato all’incremento numerico registrato. Dopo l’assimilazione da parte di aziende e amministrazione pubblica delle nuove linee guida indicate dalla legge 68/99, tali convenzioni diventano concretamente operative. Dal  2000 al 2001 assistiamo ad un incremento numerico pari a 643 nuove stipule. Va però sottolineato l’aspetto peggiorativo riguardante l’incremento delle convenzioni, che vanno a creare una sorta di mercato del lavoro "protetto", paralello a quello "normale", e con questo non comunicante. Tale negatività è stata poi rafforzata dall’introduzione della "riforma Biagi" sul mercato del lavoro (art. 14). Questa tende ancora di più a smantellare gli ammortizzatori previsti dalla 68/99, e contenuti negli art. 11 e 12.
Queste considerazioni non riguardano direttamente i dati in esame che sono precedenti all’introduzione della"riforma Biagi", ma rafforzano la convinzione dell’esistenza di un trend d’esclusione dei disabili dal mondo del lavoro, concretizzatosi già in anticipo rispetto alla nuova riforma.    
Un’altra considerazione da fare riguarda la scarsa percentuale di mobilità delle liste di collocamento. Nel 2001gli iscritti su base regionale sono 16.986, coloro che si dichiarano immediatamente disponibili al lavoro 9.580. Coloro che iscritti a questa lista hanno trovato lavoro sono soltanto 2.700. Nonostante la disponibilità di 12.968 posti di lavoro. 

Dati provinciali

Nella provincia di Bologna gli iscritti al collocamento sono 3.247 al 31 dicembre 2002.
Nell’anno 2003 sono stati avviati al lavoro, con contratti di apprendistato, formazione lavoro, tempo determinato e tempo indeterminato 941 disabili. Di questi 458 sono stati assunti in condizione di convenzione. I dati si sovrappongono nelle percentuali a quelli regionali. Dal 2000 al 2003 cresce il numero delle convenzioni, passando dalle 52 del 2000, alle 458 del 2003.
Rimane sostanzialmente invariato il numero degli iscritti al collocamento: 3.312 nel 2000; 3171 nel 2001; 3247 nel 2002.
Cogliamo una discrepanza tra i dati forniti dal rapporto del 2003 su "I servizi della provincia di Bologna per le persone con disabilità", e quelli della 1a Conferenza Regionale sulle politiche dell’handicap.
Secondo la provincia di Bologna sono 728 gli avviamenti al lavoro effettuati nell’anno 2000, mentre i dati regionali riducono tale numero a 517, indicando in 382 gli occupati dopo 12 mesi. Qual è il dato reale?  

Sveglia Hanno Buddenbrook, è ora di andare a scuola!

L’orologio a sveglia scattò e si mise a strepitare coscienzioso e spietato.
Era un rumore roco, fesso, più un gracidio che uno scampanellio, giacché lo svegliarono era vecchio e logoro; ma durò a lungo, terribilmente a lungo, perché la carica era completa.
Hanno Buddenbrook si destò spaventato. Come ogni mattina, allo scatto improvviso di quella sveglia maligna e fedele. Lì sul comodino, a un palmo dal suo orecchio, le viscere gli si torsero per la rabbia e la disperazione. In apparenza però rimase calmo, non si mosse, e si limitò a spalancare gli occhi, strappato a qualche confuso sogno mattutino.
Nella camera fredda il buio era assoluto; egli non distingueva alcun oggetto, e non poteva vedere le lancette dell’orologio. Ma sapeva che erano le sei, perché la sera prima aveva messo la sveglia su quell’ora….la sera prima…. Mentre stava supino e immobile, con i nervi tesi, lottando per risolversi ad accendere la luce e a scendere dal letto, gli ritornò a poco a poco nella coscienza tutto ciò che lo aveva penetrato la sera prima….
Era domenica, e poiché aveva dovuto lasciarsi malmenare dal signor Brecht per parecchi giorni di seguito, sua madre in compenso l’aveva portato con sé al  teatro Civico, a sentire il Lohengrin. Aveva vissuto tutta la settimana nella lieta attesa di quella serata. Peccato che prima di una simile festa dovessero sempre accumularsi tante cose spiacevoli, guastando fino all’ultimo momento la libera e gioiosa prospettiva. Ma finalmente il sabato anche le ore di scuola erano terminate, e il trapano aveva ronzato per l’ultima volta nella sua bocca dolorante…. Tutto era passato e superato, perché egli aveva risolutamente rinviato i compiti al di là della domenica sera. Che cos’era lunedì? Sarebbe mai arrivato? Non si crede al lunedì quando alla domenica sera si deve andare al Lohengrin…..Si sarebbe alzato presto lunedì mattina per sbrigare quelle stupidaggini, e basta! E in tanto se n’era andato attorno libero e leggero, covando quella gioia in cuore, aveva fantasticato al pianoforte e dimenticato ogni contrarietà.
Poi la felicità s’era avverata. Era scesa su di lui, consacrazione e delizia, con i suoi brividi segreti, i suoi palpiti, i suoi singhiozzi che scuotono improvvisi l’anima, tutta la sua ebrezza estatica e insaziabile…. Certo nel preludio i violini mediocri dell’orchestra avevano stonato alquanto, e quell’uomo grasso e tronfio dalla barba rossiccia era arrivato nella navicella un pò a balzelloni. Nel palco vicino poi c’era il tutore, il signor Stephan Kistenmarker, e aveva brontolato contro quei divertimenti che distoglievano il ragazzo dai suoi doveri. Ma la dolce, trasfigurata magnificenza dei suoni che udiva lo sollevò al di sopra di tali miserie….
Poi era venuta la fine. La gioia canora e sfolgorante era ammutolita e spenta; con la testa in fiamme, ritrovandosi in camera sua, si era reso conto che appena un paio d’ore di sonno lo separavano dalla grigia realtà quotidiana. Allora aveva vinto una di quelle crisi di sconforto che conosceva tanto bene. Aveva sentito quanto male ci possa fare la bellezza, come possa gettarci nella vergogna e nella struggente disperazione, e annientare tuttavia in noi anche il coraggio e la capacità di vivere la vita comune. Si era sentito cosi terribilmente disperato e oppresso da un peso cosi immane, che come tante altre volte aveva pensato che non potevano essere soltanto i crucci personali ad opprimerlo: fin dal principio un carico aveva gravato sulla sua anima, e l’avrebbe schiacciato un giorno o l’altro.
Poi aveva messo la sveglia e aveva dormito come un sasso, come si dorme quando non si vorrebbe svegliarsi più. E adesso il lunedì era venuto, erano le sei, e lui non aveva preparato una sola lezione!
(Tratto dal romanzo I Buddenbrock di Thomas Mann)

Il personaggio di Hanno, l’ultimo dei Buddenbrock, lo si trova solo nella parte finale del romanzo e si muove soprattutto in un ambito scolastico. La sua è un’esperienza decisamente angosciante scandita dalla  campanella che separa un’ora di lezione dall’altra. E ogni ora è una lenta attraversata in una giungla piena di insidie, con l’orecchio teso ad ascoltare i nomi degli studenti che saranno interrogati. Ma il nostro brano non parla di questo, si colloca prima, al mattino, quando Hanno si sta per svegliare e acquista poco a poco consapevolezza di ciò che lo attende. Vive il difficile passaggio dalla domenica pomeriggio al mattino successivo, quando il giorno di festa declina e il nostro (dico nostro perchè tutti noi lo abbiamo provato) stato d’animo muta. La spensieratezza se ne va e si deve ricominciare una settimana di impegni, interrogazioni, voti e valutazioni continue sulla propria persona; 7 vali, 4 non vali niente, 6 vali pochino…
Nel caso di Hanno (ma è così solo per lui?) esiste un’aggravante, ama la musica, non la scuola, ama l’arte, ama ciò che comunque è lontanissimo (o gli sembra che sia) da quello che studia a scuola. Domenica sera è uscito, con la sua impenetrabile madre, a sentire il Lohengrin, questo gli ha impedito di preparare le lezioni del giorno dopo; sono il giorno dopo, appunto, il presente è ascoltare Wagner al teatro civico e poi “ Non si crede al lunedì quando alla domenica sera si deve andare al Lohengrin”. Qui sta la sua (la nostra) differenza; si cerca di scegliere ciò che piace (in questo caso la poesia e la musica) ma la realtà (scolastica) impone i propri programmi, le proprie misure. Hanno vorrebbe misurarsi con l’arte piuttosto che con le materie scolastiche e questa è una   condizione diffusissima nelle nostre scuole. Sempre più gli insegnanti descrivono la situazione di studenti, magari capaci, ma completamente disinteressati, o meglio interessati solo “alla loro musica e ai loro videogiochi”. Questa situazione di disagio (per studenti, genitori, insegnanti) aumenta nel passaggio alle scuole medie e ancora di più nelle superiori. Anche se gli interessi culturali di Hanno sono più sofisticati, il risultato è lo stesso: il disinteresse. A questo punto una domanda: “come può la scuola integrare anche questi studenti? Come può arginare un impoverimento culturale di cui ne è reponsabile solo in minima parte? Intanto Hanno non vuole abbandonare le sue coperte che sono calde e morbide, fuori c’è il freddo invernale e la scuola con le sue campanelle.

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la follia nell’età classica – o in Romania, oggi: gli istituti psichiatrici in un Paese prossimo membro UE

La Romania, insieme alla vicina Bulgaria, dovrebbe diventare membro dell’Unione Europea a inizio 2007, dopo la firma del trattato di adesione il 25 aprile 2005. Sul tema della salute mentale, tuttavia, sembra esistere un abisso tra gli standard condivisi e praticati nell’Europa occidentale e quelli di questo Paese candidato. E questo non tanto sul piano dei risultati, il che sarebbe forse comprensibile considerando il divario economico con un Paese che già ai tempi del COMECON era tra i più poveri del blocco orientale, quanto, almeno all’apparenza, a livello di impostazione delle politiche sociali mirate al deficit mentale.

Il caso di Poiana Mare
Una temporanea luce internazionale sulla Romania è stata gettata dopo la tragedia avvenuta nei primi mesi del 2004 in un ospedale di Poiana Mare, nel sud-ovest del Paese. Tra gennaio e febbraio 2004, non meno di 17 pazienti di un istituto psichiatrico sono deceduti per denutrizione e ipotermia, e ispezioni di una ONG locale hanno accertato 83 decessi per gli stessi motivi nel 2003. Va rilevato che un rapporto datato 19 febbraio 1998, a cura del Comitato per la Prevenzione della Tortura del Consiglio d’Europa, aveva già collegato alla denutrizione ben 25 decessi avvenuti a Poiana Mare nel 1995, invitando le autorità rumene a prendere adeguate misure per migliorare le condizioni di vita nell’ospedale psichiatrico; un funzionario del Ministero della Sanità si impegnò a chiudere l’ospedale e a trasferire i pazienti in strutture più idonee, ma tale promessa non divenne mai realtà.
Amnesty International è stata negli ultimi anni l’associazione più attiva nel denunciare le gravi mancanze del sistema psichiatrico rumeno. Il “caso Poiana Mare” nacque da una sua segnalazione di azione urgente del 20 febbraio 2004, che riportava la notizia dei decessi sulla base delle informazioni raccolte dal CRJ, una ONG rumena per i diritti umani. Nei giorni seguenti i quotidiani nazionali rumeni fornirono ulteriori dettagli: il personale sanitario curò i molti pazienti affetti da pidocchi solo dopo un’ispezione ministeriale; il riscaldamento non era funzionante, mentre la temperatura esterna era di 7 gradi sotto zero; una paziente schizofrenica partorì nell’ospedale senza assistenza e senza che i dottori sapessero nemmeno che era incinta. Un’associazione rumena di pazienti parlò di “genocidio sanitario”. Un paio di teste (i direttori dell’ospedale e del distretto sanitario locale) saltarono, fu avviata un’inchiesta penale sui decessi – poi archiviata senza incriminazioni, una preannunciata visita del Ministro della Sanità trovò condizioni tutto sommato decenti, furono comminate sanzioni (presto cancellate) al personale medico e infermieristico, e le richieste di chiusura dell’ospedale psichiatrico caddero nel vuoto.
Il 19 maggio 2004 Amnesty sospese l’appello urgente, impegnandosi a una campagna con altri mezzi, in particolare la pubblicazione di un memorandum al governo rumeno (4 maggio 2004) sul sistema psichiatrico, cui le autorità governative risposero senza smentire le violazioni dei diritti umani citate ma impegnandosi a migliorare la situazione. Una serie di misure fu adottata dal governo in maggio, ma solo per i 6 ospedali psichiatrici ad alta sicurezza gestiti direttamente dal Ministero della Sanità. Secondo il rapporto annuale 2004 di Amnesty sulla Romania, l’impegno governativo a migliorare le norme sulla salute mentale, previsto per novembre 2004, non era stato mantenuto alla fine dello stesso anno, e in ogni caso le visite di osservatori locali non avevano riscontrato miglioramenti in molti ospedali psichiatrici. Nel marzo 2005 una delegazione di Amnesty in visita al governo rumeno, cambiato dopo le elezioni di fine 2004, ha raccolto segnali più incoraggianti per una riforma dell’assistenza psichiatrica nazionale, ma restano molti dubbi sui miglioramenti concreti da attendersi, anche per la scarsità di risorse apertamente confessata dallo stesso governo.

L’internamento secondo Foucault
Fin qui, tuttavia, il caso di Poiana Mare potrebbe essere inquadrato come il riflesso di una società con un diffuso stato di povertà, dove di conseguenza anche strutture pubbliche risentono delle difficoltà economiche al punto da non riuscire a garantire la salute dei propri pazienti. Del resto, un elemento mai smentito è che le risorse garantite all’ospedale per cibo, riscaldamento e medicinali fossero regolarmente inferiori a quelle necessarie per quel numero di pazienti. Il caso della Romania risulterebbe anche meno scandaloso di quelli che periodicamente la cronaca italiana porta alla ribalta, con case di riposo in cui gli anziani sono tenuti in condizioni inumane, in quanto il contesto sociale in cui queste ultime si collocano è quello di un relativo benessere diffuso.
Tuttavia, come spesso avviene, il diavolo si nasconde nei dettagli. Nel citato rapporto di Amnesty si può anche leggere che “molte persone internate in reparti e ospedali psichiatrici non avevano apparentemente bisogno di alcun trattamento psichiatrico. Molti giovani sono stati inseriti negli istituti solo perché privi di una famiglia e in assenza di programmi specifici per il loro reinserimento nelle comunità di appartenenza”. Lo stesso ospedale di Poiana Mare nasce non come istituzione medica, bensì come centro di internamento per dissidenti del regime di Ceausescu, sia pure etichettati ad arte come “folli”; e proprio a Poiana Mare coesistevano un reparto per malati mentali e uno per persone affette da tubercolosi, ed è attestato un caso di decesso per AIDS non trattato medicalmente.
Queste informazioni richiamano alla memoria le analisi di Michel Foucault su come si è costituita storicamente l’esperienza della malattia mentale, in particolare in Storia della follia nell’età classica. Foucault, in quella che era la sua tesi di dottorato del 1961, descrive come verso la metà del ’600 la follia, in precedenza vissuta entro la società in virtù del suo ambiguo legame al sacro ed elogiata nel più famoso testo di Erasmo da Rotterdam, diventa oggetto di internamento e netta separazione dal corpo sociale. Ma soprattutto, Foucault rileva che la “sragione”, per come viene costituendosi in quel momento storico, non include solo quelli che oggi potremmo individuare come “malati mentali”, ma anche paralitici, mendicanti, indigenti, criminali e libertini – una folla che oggi ci appare del tutto eterogenea, ma che proprio il “grande internamento” istituisce come aliena alla società nel momento in cui la rinchiude in strutture impenetrabili di lavoro forzato. La specificità della follia e il dominio del suo trattamento medico emerge solo verso la fine del ’700, anche se Foucault si impegna a smontare il mito che vede il passaggio cruciale nella “liberazione dei folli dalle catene”, che la leggenda attribuisce al medico Pinel nell’ospedale di Bicêtre nel 1793 (e in realtà opera probabile, in termini più limitati, di un suo successore).
Certo, tre secoli non sono passati invano. Nel ’600 l’associazione tra follia e altre “assenze di ragione” più etiche che cliniche veniva creata quasi dal nulla dall’internamento; ciò che pare avvenire in Romania oggi (e sicuramente è avvenuto con Ceausescu) pare, all’opposto, lo sfruttamento del carattere totalizzante del manicomio per tentare una rieducazione forzata di individui “pericolosi”, qualunque cosa ciò significhi per chi prende tale decisione. L’istituzionalizzazione di persone senza alcun deficit mentale potrebbe però rispondere anche alla necessità di non rendere visibile il loro disagio alla cittadinanza, tramite un’esclusione non per la, ma dalla società. In questo caso, Poiana Mare risponderebbe a una logica sociale non diversa da quella che le autorità di polizia del XVII secolo seguivano internando chi mendicava o praticava costumi non in linea con la morale dominante (segregazione che in alcuni periodi ha riguardato l’1% della popolazione).
Per queste ragioni, ciò che è avvenuto in un’oscura località della Romania ci tocca più di quanto parrebbe. Perché frutto, oltre che di povertà, di una cultura che richiederà molto tempo per modificarsi, anche dopo i miglioramenti economici che auspicabilmente porterà l’adesione all’UE; e perché segno di un’esclusione che in passato ha toccato tutte le categorie di handicap, e il cui superamento è frutto di una decisione di politica socio-culturale che, come sempre, non è mai definitiva.

In viaggio verso la persona

Il Centro Documentazione Handicap di Bologna (CDH), nato nel 1982, ha posto da sempre grande attenzione all’autonomia della persona disabile e al concetto di mobilità ed è stato quindi naturale per il Centro pensare al turismo accessibile e senza barriere e alla conseguente produzione di strumenti d’informazione e formazione che hanno accompagnato e affiancato questo settore. Certo ce ne siamo occupati sempre alla nostra maniera cercando di tenere intrecciati il contenuto – turismo, vacanze, mobilità – con una riflessione di taglio culturale che aiutasse a capire, noi per primi,  che cosa vuole significare l’attenzione ai temi del viaggio e della vacanza nei confronti della costruzione di un’identità piena della persona disabile, costruzione che implica sempre lo smantellamento di stereotipi e l’apertura  di nuove aree di interesse, quali appunto quelle di cui ci stiamo occupando, giudicate non più accessorie ma strutturali per un cambiamento di segno anche sociale.
Il turismo accessibile, allora, ci ha interessato e ci interessa come fattore di “inclusione sociale”: il viaggio, la vacanza, al di là dei diversi modi di realizzarla, rappresenta per tutti uno stacco della quotidianità che può aprirsi a occasioni di conoscenza di altri luoghi e stili di vita. Per la persona disabile esiste un valore aggiunto che va preso in considerazione; viaggiare, spostarsi, vivere un’occasione di vacanza sono tutti momenti in cui sperimentare una situazione di vita normale, slegata dai percorsi specialistici che ancora oggi rischiano di invadere molto degli spazi e dei tempi di vita delle persone disabili.

Gli itinerari tematici

Dai primi anni ’90 il CDH ha iniziato a produrre e a realizzare guide turistiche per tutti.
Quando intorno al 1994 vidi la prima guida turistica per tutti realizzata da Viviana Bussadori mi colpì molto l’attenzione, quasi maniacale, data alla descrizione degli spostamenti da un luogo all’altro “… in questo tratto di marciapiede vi consiglio il lato destro che è meno accidentato…” “… la Chiesa di… ha la piazzetta antistante in acciottolato di fiume, per arrivarci si consiglia di utilizzare il passaggio in lastroni che la circonda…”.
Proprio il concetto di itinerario insieme all’idea di mobilità fanno da riferimento nell’impostazione delle guide e itinerari tematici.
Le guide del CDH hanno sempre proposto degli itinerari in cui si è posta particolare attenzione agli spostamenti da un luogo all’altro, studiando e descrivendo il percorso più adatto  a chi si sposta con l’aiuto della carrozzina o ha problemi di mobilità, andando proprio a scoprire ad esempio il passaggio su marciapiedi provvisti di scivoli o la presenza di posti auto riservati in prossimità dei luoghi di visita.
Sono state queste attenzioni agli spostamenti da un luogo all’altro, inserite nelle descrizioni storiche delle città e dei luoghi da visitare, degli itinerari nella natura, nelle descrizioni dei bar e dei punti di ristoro, che mi hanno fatto capire il vero significato di Guida Per Tutti.
Non è un caso che proprio all’interno del Centro le guide sono state utilizzate e consumate da tutte le persone che ci lavorano, anche per proprie vacanze oltre che per lavoro. Colleghi disabili e obiettori di coscienza, amici appena diventati genitori, Gianluca che si è appena rotto una caviglia giocando a calcio ma non vuole rinunciare ad andare a Mantova con la fidanzata.
Pur sapendo quanto sia difficile spostarsi e fare i turisti nelle città, nelle aree verdi e anche nelle località turistiche propriamente dette non sempre è una impresa impossibile, soprattutto se si parte con uno strumento informativo che aiuti la persona, o chi deve organizzare il viaggio, e che la indirizzi immediatamente verso un itinerario il più possibile senza barriere.
Non uno strumento d’informazione che si snatura in sottrazione (una guida per disabili) ma una guida che si arricchisce di informazioni e descrizioni, con un’attenzione e una sensibilità che nasce dall’idea che viaggiare non è arrivare (nel luogo, accessibile o meno) ma che il raggiungere quel luogo è parte integrante, e spesso anche più importante, del viaggiare in posti e luoghi che non si conoscono.
Inalterati tutti gli stilemi propri della Guida, la storia e la gastronomia su tutto, la qualità e l’affidabilità di questi strumenti di comunicazione riguardano l’altra faccia del viaggio, che è proprio l’informazione verificata e mirata. Verificata perché ogni itinerario proposto nelle guide è sempre stato provato in prima persona, scelta questa impegnativa in termini di costi economici e organizzativi, ma garanzia di affidabilità. Mirata all’idea di dare informazioni organizzate lungo un itinerario di viaggio che permette alla persona non solo di disporre di unità di informazioni, magari anche molto complete ma frazionate, ma di averle in collegamento fra loro, collegamento che rende il più possibile concreta e utilizzabile l’idea che “un ambiente, in definitiva, è accessibile se ciascuno può: raggiungere luoghi ed edifici, entrare (e uscire) da questi edifici, utilizzare tutte le strutture”. (Viaggiare, si può) VALERIA: AUTORI E EDITORE SONO IN FONDO, NELLA BIBLIO, VANNO MESSI ANCHE QUI?

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Le Guide per Tutti del CDH

Firenze
Ravenna e Rimini
Garda
Lucca e Pisa
Le Autostrade del Nord – Le Autostrade del Centro e del Sud  1998/1999
Roma     2000
Bologna 2000
Venezia  II edizione 2000
Riviera del Conero
Pienza
Dolomiti II edizione 2001
Palermo   2002

Mantova  2003

 

Formarsi per informare

Realizzare alcune delle guide per tutti del CDH per me è stato, dal punto di vista professionale, un vero e proprio corso di formazione in giornalismo.
Fare una guida turistica è fare informazione.
Acquisire nella mia abitudine lavorativa un occhio particolare all’accoglienza e all’accessibilità di luoghi o eventi ha significato veramente pensare e scrivere per tutti.
Informazione e formazione, dicevamo, è un legame che sarebbe importante superasse i confini di chi, per esperienza professionale o personale, vive o è vicino all’esperienza della disabilità.
Uno degli aspetti che ritengo molto importante è proprio la formazione dei giornalisti. Questo aspetto, in qualche modo, sta emergendo anche in questo periodo di sovraffollamento di iniziative e convegni sul turismo accessibile.
Intendo la formazione dei giornalisti alla fonte, non solo per chi si occupa di turismo o chi si specializza in opere dedicate.
Penso alle scuole di giornalismo, all’Ordine dei giornalisti, agli esami da giornalista professionista; credo sarà importante avviare forme di collaborazione tra chi si occupa di turismo accessibile e queste strutture di formazione. Un’altra barriera potrà essere più facilmente superata quando in questi posti si studieranno anche i testi sull’accessibilità, sulla mobilità, si faranno ricerche sulle guide turistiche per tutti.
Dall’esperienza di lavoro condotta in questi anni dal CDH emergono alcuni punti per una formazione di diverse categorie professionali (dagli operatori dell’informazione agli operatori turistici), coinvolte con differenti livelli di dettaglio e di approfondimento, ovviamente in considerazione delle differenti professionalità.
Questi punti hanno come denominatore comune il taglio culturale, formativo e informativo, la promozione di una cultura sulla persona e sul senso del viaggiare che è, anche, divertimento, rottura degli schemi, conoscenza di sé e degli altri. Si distinguono poi aspetti tecnici e aspetti relazionali.
Gli aspetti tecnici presuppongono la conoscenza del “cliente” e delle sue esigenze in relazione alle varie tipologie di disabilità: ad esempio nello scegliere una struttura alberghiera o un itinerario si deve sapere cosa significa accessibilità e quindi saper interpretare in maniera corretta e critica le informazioni a disposizione, valutarne la reale affidabilità e saper porre le domande giuste sia al cliente sia ai fornitori di servizi.
Gli aspetti relazionali toccano il modo di comportarsi quando si entra in contatto con persone disabili; sono uno snodo fondamentale nella predisposizione di una buona accoglienza e comunicazione.
Di fronte ai meccanismi di difesa che scattano più facilmente nei rapporti occasionali con persone disabili (imbarazzo, evitamento, sostituzione… ), la struttura formativa deve anche essere occasione in cui affrontare il tema dell’immagine mentale e sociale della persona disabile e i meccanismi di discriminazione, spesso sotterranei e non riconosciuti.

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1.         Cultura della diversità
– La promozione di una cultura che mette in primo piano la persona.
– Come cambia l’immagine della persona disabile e ruolo sociale: dal deficit alla diversità, alle diverse abilità.
– I meccanismi di discriminazione.
– Quali disabilità?
– Oltre le barriere: architettoniche, culturali, sociali, di comunicazione.

 

2.         Gli approcci al viaggio e alla vacanza
– Il senso di vacanza.
– Inclusione sociale e potenziale economico (Ricerca Touche Ross).

3.         Mobilità e accessibilità
– Il significato e il sistema complessivo della mobilità.
– L’accessibilità nelle strutture, gli interni, gli spostamenti, il concetto di itinerario.

4.         Informazione e documentazione
– Una buona comunicazione per tutti.
– Informazione e formazione, aggiornamento dei dati.
– Opportunità e risorse della rete telematica – Internet.

 

 

Il viaggio verso la persona

Il tempo libero è da sempre uno dei punti di attenzione di chi professionalmente lavora nel “pianeta handicap”, come veniva definito quel particolare mondo popolato da persone che, certo non erano marziani, ma, proprio perché terminologicamente collocati in un differente oggetto celeste,  sicuramente neanche umani.
Scrive Claudio Imprudente, nel celebre articolo Salve sono un geranio, che per una pianta, un vegetale, un diverso, un abitante del pianeta handicap, servono tre movimenti per farla diventare persona: bisogna sforzarsi di mettersi al suo livello, guardarla dritto negli occhi e instaurare con lei una relazione alla pari. Questi tre movimenti sono necessari anche da parte della persona disabile e così si ottiene una vera reciprocità. L’integrazione non è solo l’accoglienza da parte della normalità del diverso, ma anche il diverso che accoglie la normalità in un cambiamento reciproco. Un modello di approccio mentale e culturale è stato sorpassato, un salto di qualità che è insieme politico e culturale è stato fatto. Politico/culturale certo, ma anche culturale/economico.
Lo “scarto” e lo “sforzo” culturale degli ultimi anni è stato proprio far coincidere e incrociare i movimenti da parte della società e da parte delle persone disabili, spostando l’attenzione, finalmente, sulla persona.
Ecco allora che dal coraggio delle persone disabili, dei loro familiari e da chi in questi anni ha lavorato e si è occupato anche di questo tema si è passati alle possibilità e poi all’appetibilità.
Se la persona disabile viene riconosciuta come una persona a tutto tondo, può essere anche un consumatore di pacchetti turistici con dignità di cliente. Dunque di interesse per il mercato, sempre, e per definizione, alla ricerca di nuovi target.
Tutta l’attenzione al turismo accessibile, così di moda di questi tempi, credo segnali anche questo: il pianeta handicap è popolato da persone. E intorno alle persone ruotano sempre fattori politici/economici/culturali.
La valutazione di reale cambiamento/acquisizione rispetto all’attenzione dichiarata credo passi ancora dal significato del viaggio, non del turista, dalle opportunità per la costruzione di un’immagine e di una identità che è necessaria per ognuno di noi e in ogni momento della nostra vita, bambini, adolescenti, adulti.

Viaggi e miraggi

Turismo per tutti: informazione, esperienze, pensieri

INTRODUZIONE

   Viaggiare è bellissimo.
Il viaggio, sin dagli albori, è sempre stato centrale nella nostra storia, la storia dell’uomo e della donna sulla terra.
Ci è stato raccontato dai poeti, dai cantastorie; la tradizione orale ha pensato ai viaggi e alle avventure in terre sconosciute che affascinano tanto i nonni quanto i bambini, poi la musica, i libri, ora il web, con tutti i mezzi di comunicazione a nostra disposizione nel tempo abbiamo s/parlato di viaggio e viaggi.
Viaggiare lo considero un bene primario dell’uomo e delle donne, proprio come l’acqua e il carbone per intenderci, come l’informazione tra l’altro, cioè quei beni di cui l’umanità ha sempre avuto bisogno per lo sviluppo di qualunque attività.
Anche le rivoluzioni nei campi più diversificati hanno attinto significati e parole proprio da quei significati che ognuno di noi ha del viaggio. Elaborati in prima persona e poi collettivamente.
La scoperta dell’LSD, la droga sintetica degli anni ’60-70, il trip, non a caso chiamata “il viaggio” perché altera la percezione della coscienza, e poi il World Wide Web, la tripla w di Internet, una rete di informazione/i grande come il mondo che puoi navigare.
È proprio qui, nell’intreccio tra beni primari, tra informazione e cultura, movimento mente-corpo, (bisogno di) alterazione della normalità, che si insinua il mio viaggiare è bellissimo.
E questo è un territorio di tutti e di tutte. Di tutte le età e le estrazioni sociali. Di tutti i colori. Di tutti diritto.

 

Viaggiare è inutile.
L’umanità, tranne rare ed elitarie eccezioni, non ha mai viaggiato per piacere, solo per costrizione o per far guerra.
E proprio oggi che il viaggio è così raccontato, pubblicizzato, reso feticcio diviene esperienza impossibile, almeno per chi vive nella parte a occidente del mondo. Spesso diventa solo illusorio, tentativo di cambiare qualcosa di noi cambiando la coreografia intorno.
Il viaggiatore si è fatto turista e sempre più vacanziere. I viaggi, le vacanze diventano obblighi sociali da assolvere non per risposta a un bisogno interno di stacco e straniamento ma per convenzioni sociali che spaccano la nostra, unica, vita in sfere separate e artefatte. Si è persa per noi inevitabilmente l’esperienza globale dell’essere attraversati (più che dell’attraversare) che i viaggiatori mitici riportavano per sempre con sé alla fine di ogni ritorno.
In tempi sempre più rapidi ci spostiamo in luoghi sempre più uguali, da cui pretendiamo risposte e stimoli, non in funzione di una comprensione reale, anche se inevitabilmente relativa, di quei paesi e di quelle popolazioni, ma delle immagini convenzionali a cui operatori turistici e addetti all’informazione ci hanno ormai educato. Gli unici viaggi sono spostamenti, i ricordi sono cartoline, i racconti aneddoti.
Per questo mi ritrovo sempre più spesso a pensare che lasciare l’aria entrare nei pensieri della mia testa  sia oggi l’unico viaggio per cui valga la pena di spendersi.

Di Francesco Ghighi di Paola e Giovanna Di Pasquale

 La lettura    

Chiamatemi Ismaele. Qualche anno fa – non importa sapere con precisione quanti – avendo in tasca poco o punto denaro e, a terra, nulla che mi interessasse in modo particolare, pensai di andarmene per mare, a vedere la parte del mondo ricoperta dalle acque. È uno dei miei sistemi per scacciare la tristezza e regolare la circolazione del sangue. Ogniqualvolta mi accorgo che la ruga attorno alla mia bocca si fa più profonda; ogniqualvolta c’è un umido tedioso novembre nella mia anima; ogniqualvolta mi sorprendo fermo, senza volerlo, davanti alle agenzie delle pompe funebri o dietro a tutti i funerali che incontro; e, specialmente, ogni qualvolta l’insofferenza mi possiede a tal punto che io devo far appello a un saldo principio morale per trattenermi dal discendere in strada e buttar giù metodicamente il cappello in testa ai passanti, giudico allora sia venuto il momento di prendere il mare al più presto possibile.
Herman Melville, Moby Dick, libro primo

 

Giù, giù, giù. Avrebbe mai finito di cadere? “Chissà quanti chilometri è che sto cadendo?” disse a voce alta. “Starò avvicinandomi più o meno al centro della terra. Vediamo un po’: dovrebbe fare un seimila chilometri e qualche di profondità, penso…” (giacché, dovete sapere, Alice aveva imparato molte cose del genere durante le lezioni a scuola, e benché questa non fosse l’occasione più adatta per far sfoggio di cultura, dato che il pubblico era scarsino, tuttavia era sempre il momento buono per fare un po’ di ripasso) “… sì, dovrebbe essere la distanza esatta…ma  allora chissà a quale Latitudine o Longitudine mi trovo!”
(Alice non aveva la minima idea né sulla Latitudine né sulla Longitudine, ma erano pur sempre dei gran bei paroloni da tenere pronti.)
A questo punto riattaccò: “Chissà se sto attraversando tutta la terra! Che numero sbucare fra quella folla di gente che cammina a testa in giù! Tantipodi, se non erro…” (stavolta fu abbastanza contenta che non ci fosse nessuno a ascoltarla, questa parola non le appagava l’orecchio) “… ma dovrò chiedergli il nome del paese, naturalmente. Scusi, signora, qui siamo in Nuova Zelanda o in Australia?” (e mentre parlottava cercò di fare la riverenza – figurati, fare la riverenza intanto che stai precipitando nel vuoto! Credete di esserne capaci voi?) “Penserà che io sia una paesanella ignorante! No, non sarà proprio il caso di far domande: ci sarà pure un cartello stradale da qualche parte”.
Lewis Carroll, Alice nel paese delle meraviglie

 

Sostengo – disse Andrew Stuart – che le probabilità sono a favore del ladro, che non può non essere un uomo abile!
Andiamo, via! – rispose Ralph – non c’è più un solo paese nel quale possa rifugiarsi.
Per esempio!
Dove volete che vada?
Io non lo so – rispose Andrew Stuart – ma, dopo tutto, la Terra è abbastanza vasta.
Lo era una volta… – disse a mezza voce Phileas Fogg. Poi: Sta a voi tagliare, signore – aggiunse presentando le carte a Thomas Flanagan.
La discussione restò sospesa durante il robbie. Ma subito Andrew Stuart la riprendeva  dicendo:
Come, un tempo! Forse che la Terra è diminuita per caso?
Senza dubbio – rispose Gauthier Ralph – Sono dell’opinione del signor Fogg. La Terra è diminuita, giacché la si percorre adesso dieci volte più presto di cento anni fa. Ed è questo che, nel caso di cui ci occupiamo, renderà le ricerche più rapide.
E renderà anche più facile la fuga del ladro!
A voi giocare, signor Stuart – disse Phileas Fogg.
Ma l’incredulo Stuart non era convinto e, a partita finita:
Bisognerà convenire – riprese – che avete trovato un modo ameno per dire che la Terra è diminuita! E così, siccome se ne fa adesso il giro in tre mesi…
In ottanta giorni solamente – rispose Phileas Fogg.
Jules Verne, Il giro del mondo in ottanta giorni

 

Dissi che avrei provveduto io a fare i bagagli.
Mi vanto alquanto della mia abilità nel riporre la roba. Fare i bagagli è una delle tante cose nelle quali sento di essere più esperto di qualsiasi altra persona al mondo (e mi sorprende, a volte, constatare quanto siano numerose tali cose). Convinsi George e Harris della mia capacità e dissi loro che sarebbe stato preferibile se avessero lasciato fare soltanto a me.
Essi accettarono la proposta con una prontezza che ebbe dell’incredibile. George caricò la pipa e si allungò sulla poltrona; Harris, dal canto suo, appoggiò le gambe al tavolo e accese un sigaro.
Questo non corrispondeva affatto alle mie intenzioni naturalmente…
In ogni modo modo, non dissi niente e cominciai a metter via ogni cosa. Il lavoro risultò essere molto più lungo di quanto avessi creduto; ma finalmente terminai di riempire la valigia, e vi sedetti su, e strinsi le cinghie.
– Non ce li metti gli stivali? – domandò Harris.
Mi guardai attorno e constatai che li avevo dimenticati. Ecco com’è Harris. Si era ben guardato dal pronunciare una parola prima che io avessi chiuso la valigia e stretto le cinghie, naturalmente. E George rise, con una di quelle sue risatine esasperanti, insensate, simili al raglio  di un somaro, che mi rendono furente.
Riaprii la valigia e vi ficcai dentro gli stivali; poi, proprio mentre stavo per richiuderla, mi balenò nella mente un’idea orribile. Avevo ricordato di metterci lo spazzolino da denti? Non so come sia, ma non riesco mai a ricordare se ho già messo nella valigia lo spazzolino da denti. Lo spazzolino da denti è un oggetto che mi ossessiona quando viaggio, e che mi infelicita l’esistenza. Sogno di non averlo messo nella valigia, mi sveglio di soprassalto, madido di freddo sudore, e salto giù dal letto e dò la caccia allo spazzolino. Poi, al mattino dopo, lo metto nella valigia prima di essermene servito, e devo riaprire la valigia per prenderlo; e, naturalmente, è sempre l’ultimo oggetto che vi trovo; in seguito, rifaccio la valigia e dimentico lo spazzolino da denti, e devo salire di corsa al primo piano all’ultimo momento per prenderlo, e sono costretto a portarlo alla stazione avvolto nel fazzoletto.
Naturalmente ora dovetti togliere dalla valigia ogni maledetto oggetto, e naturalmente non riuscii a  trovare lo spazzolino. Frugai dappertutto fino a ridurre ogni cosa nello stesso stato in cui doveva essersi trovata prima che il mondo venisse creato, quando regnava il caos. Naturalmente, trovai almeno diciotto volte gli spazzolini da denti di George e di Harris, ma non riuscii a trovare il mio.
Rimisi tutto nella valigia, un oggetto per volta, scrollandolo prima a mezz’aria e finalmente trovai lo spazzolino dentro uno stivale.
Riempii allora di nuovo, e richiusi, la valigia.

Jerome K. Jerome, Tre uomini in barca (per non parlar del cane)

La spiritualità nelle persone con disabilità

“Beati quelli che pur non avendo visto crederanno!”  (Gv. 20, 29)

Questa è l’ultima frase del Cristo risorto nel Vangelo secondo Giovanni: è la sua promessa finale, che riassume in

sé l’insegnamento di Gesù, la Sua «Buona Notizia» a tutti gli uomini. In questa frase è racchiusa anche la questione della spiritualità della persona cosiddetta disabile. È una promessa, ma è anche una sfida: infatti questa frase è rivolta a Tommaso, cioè al discepolo che aveva detto: “Se non vedo non credo”. Gesù non condanna questa mancanza di fede, ma invita ogni credente a rendere più autonoma e adulta la sua fiducia nella Resurrezione e afferma che in questo sta la vera beatitudine. Giovanni non riporta il discorso della montagna, dove Gesù aveva proclamato le otto Beatitudini (Mt. 5, 1-12), ma in un certo senso le riassume tutte in questa frase finale.
Le Beatitudini presenti in Matteo e in Luca rappresentano il cuore del messaggio cristiano: sono il ribaltamento totale della logica di questo mondo.
Giovanni, fin dal prologo, presenta la lotta fra le tenebre e la luce, tra il kosmos e il logos che entra in esso per cambiarlo, per rovesciare dall’interno la sua logica, per liberare l’umanità dal
“principe di questo mondo”. Quindi sarebbe strano che in questo contesto mancasse ogni riferimento al discorso più rivoluzionario mai pronunciato da Cristo.
“Beati i poveri in spirito”, alla lettera i “mendicanti dello spirito”, quelli che, essendone privi, lo cercano, lo desiderano. Non è una povertà passiva di chi semplicemente prende atto della sua situazione, ma la felicità di chi lotta, di chi crede, e proprio perché non ha questo bene lo cerca.
Così, le altre Beatitudini sono altrettante sfide che Gesù lancia in ogni tempo partendo proprio dalle persone che, secondo la mentalità comune, non potrebbero neanche raccoglierle. La condizione di povertà o di disabilità non viene assolutizzata da Cristo nel senso letterale della parola, non è sciolta e messa da parte come una condizione a sé, ma viene presa come immagine più evidente della condizione umana. Ad esempio, al termine della discussione con i Giudei conseguente alla guarigione del cieco nato, Gesù dice: “Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: Noi vediamo, il vostro peccato rimane”. (Gv. 9, 41). La situazione di cecità fisica di un uomo diventa per Cristo paradigmatica di quella umana.
D’altra parte, da tutta la Sacra Scrittura non emerge una categoria dell’handicap. Questa può sembrare una banalità: la Bibbia è stata composta nel corso di migliaia di anni e i suoi ultimi libri risalgono a circa 20 secoli fa. La “categoria handicap” è un prodotto dell’epoca industriale, nella quale chi non era adatto a produrre era automaticamente considerato disabile. Ma poiché nella Bibbia e negli altri classici della letteratura sono affrontati tutti i temi fondamentali dell’esistenza umana, la mancanza della categoria dell’handicap può significare che nella Weltanschauung divina non esistono persone più disabili di altre.
La Scrittura è ricca di riferimenti a persone che oggi rientrerebbero nella categoria delle disabilità. Pensiamo al celebre passo messianico di Isaia:

  1. “Lo spirito del Signore Dio è su di me

perché il Signore mi ha consacrato con l’unzione;
mi ha mandato a portare il lieto annunzio ai miseri,
a fasciare le piaghe dei cuori spezzati,
a proclamare la libertà degli schiavi,
la scarcerazione dei prigionieri.

  1. a promulgare l’anno di misericordia del Signore  

per consolare tutti gli afflitti” (Isaia 61, 1-2)

che sarà ripreso da Gesù (Luca 4, 18-19). In questi brani i poveri, i ciechi, gli oppressi, i miseri, rappresentano tutto il popolo di Israele. Il Messia viene per tutti e tutto il popolo lo attende come se fosse composto essenzialmente da poveri, ciechi, oppressi, miseri. È interessante anche notare come la lingua ebraica, così povera di termini, ne abbia invece una grande varietà per definire le diverse sfumature dell’emarginazione. Ogni situazione di difficoltà, di debolezza ha un suo vocabolo appropriato e ciò va esattamente contro alle generalizzazioni astratte.

Nella Bibbia ci sono molti appelli alla solidarietà nei confronti dei poveri, ma è interessante notare come la motivazione di questi richiami morali sia il ricordo che il popolo ebraico era stato nella condizione di povertà e di esilio, e che questa condizione non era semplicemente passata, ma continuava ad appartenere all’essere più profondo di quella comunità:

‘’ Non molesterai il forestiero né lo opprimerai,
perché voi siete stati forestieri nel Paese d’Egitto’’ (Esodo 22, 20).