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Autore: admin

Quando il web è una barriera

Se qualche volta avete delle difficoltà nella lettura di un sito web, se non riuscite a trovare l’informazione che cercate ma sapete che è lì e, ancora, se non riuscite più a orientarvi nella navigazione, non date solo la colpa alla vostra scarsa dimestichezza con l’informatica; spesso l’errore sta a monte, nella progettazione del sito. Progettare bene un sito significa proprio dare la possibilità a chiunque, anche a chi sa solo accendere un computer e dirigere il mouse verso l’icona del programma, di poter raggiungere le informazioni che si desiderano. Un sito ben fatto deve essere usabile e accessibile: se con usabilità si indica la capacità di costruire siti facilmente navigabili e ben strutturati, con il termine accessibilità ci si riferisce al grado di difficoltà che una persona con deficit può incontrare nell’uso di internet.

Usabili e accessibili

Un sito è usabile quando un navigatore riesce a fare facilmente tre cose: riesce a trovare le informazioni ricercate perdendo poco tempo; riesce a orientarsi nel sito e ritornare alla home page; riesce a scaricare da internet il materiale che vuole senza dover aspettare troppo.
Ci soffermiamo ora sul concetto di accessibilità, argomento che riguarda da vicino le persone che hanno un deficit. Il tema dell’accessibilità da parte dei disabili ai siti web è un tema che, al di fuori di certi ambienti, non è molto conosciuto ma che è, ciononostante, molto importante. È importante perché stiamo andando verso un tipo di società in cui l’esclusione dalle nuove tecnologie di comunicazione significa l’esclusione della persona stessa da una soddisfacente vita sociale e lavorativa. È importante perché rendere un sito più accessibile a una persona disabile significa renderlo migliore per tutti gli altri.

Disabilità sensoriali e motorie? No problems

I siti web si stanno sempre più caratterizzando per l’utilizzo crescente di elementi multimediali (video, audio e animazioni); questo può comportare dei problemi per quelle persone che hanno deficit sensoriali. Un non vedente di fronte a una galleria fotografica o a un video dell’eruzione dell’Etna che informazioni ne può dedurre? Ecco allora che il progettista e il redattore delle pagine web devono pensare a un contenuto fruibile il più possibile da tutti. Ritornando al nostro esempio, un file audio che commenti il video o un testo che spieghi le immagini proposte potrebbero risolvere il problema. Teniamo presente che anche gli ipovedenti (molto più numerosi dei ciechi) e i daltonici possono confondersi ma anche in questo caso, la scelta di un carattere dal corpo più grande, o la decisione di non caratterizzare un sito solo attraverso l’uso del colore, possono facilitare la comprensione a queste persone. Un discorso simile vale anche per chi ha un deficit uditivo e non può sentire, in parte o del tutto, i file audio; la sottotitolazione di ogni “parlato” o la sua spiegazione riassuntiva possono ovviare al problema.
I disabili motori non hanno particolari difficoltà nell’usare il web (una volta che hanno risolto i loro problemi relativi all’hardware e al software nell’utilizzo del computer) tranne nel caso in cui debbano compiere movimenti molto precisi con il mouse.
In ogni modo, tutte le varie difficoltà possono essere risolte tecnicamente, il problema semmai è quello culturale per cui si progettano siti e pagine web pensando a un utente medio indifferenziato. Paradossalmente una delle caratteristiche del digitale è proprio la sua flessibilità, la sua adattabilità; approfittiamone dunque.
Farlo subito costa oltretutto molto meno che farlo dopo; pensate alle nostre città e a come è difficile e costoso adattare gli edifici perché non abbiano più barriere architettoniche e pensate invece come diventa più funzionale ed economico progettare fin dall’inizio le case a misura di tutti! Lo stesso discorso vale per le tecnologie: progettarle fin da ora accessibili a tutti, significa evitare di farlo con maggior fatica successivamente.

I disabili intellettivi, i dimenticati

Molti, anche fra chi di queste cose si occupa, ignorano che una delle barriere più diffuse è rappresentata dalla difficoltà dei contenuti veicolati da internet, che sono indecifrabili da parte di persone che hanno un deficit cognitivo (ma sono difficili da interpretare anche per gli anziani o per gli immigrati che non conoscono bene la nostra lingua).
Ci troviamo di fronte a un mezzo di comunicazione nuovo, che come tale possiede alcune regole proprie da imparare. Se questa difficoltà è concreta e occorre una certa abitudine nell’uso degli ipertesti (come s’impara a guidare una macchina così si deve imparare a navigare in un ipertesto, come è di fatto un sito web), chi ne fa il progetto dovrebbe avere l’accortezza di essere semplice e chiaro nella disposizione degli elementi che compongono la pagina web. Un lettore dovrebbe sempre sapere in che punto si trova del sito, come può tornare alla pagina di partenza e come può trovare le informazioni che cerca nel modo più immediato. Anche per quanto riguarda la scrittura valgono le regole della semplicità e della brevità. Costruendo un sito in questo modo si fa un servizio a tutti, lo ripeto, non solo alle persone con deficit cognitivo. Una rara iniziativa che va in questo senso è rappresentata da “Dueparole”, prima rivista (ideata da Tullio De Mauro) e poi sito (www.dueparole.it) che, con un linguaggio elementare e comprensibile a una larga maggioranza di cittadini, informa sui principali fatti italiani e internazionali.

Il digital divide

Il 70% circa dell’umanità non sa nemmeno cosa sia internet; solo il 5% (o forse già il 6%) ha accesso alla rete; il 97% dei siti web, il 95% dei server e l’88% degli utenti si trova nei paesi industrializzati, con una posizione degli Stati Uniti dominante. Il divario tecnologico che separa i paesi poveri da quelli ricchi sta aumentando di anno in anno.
Si parla tanto di rivoluzione digitale e di società dell’informazione ma di fatto questo fenomeno interessa solo una parte minoritaria dell’umanità: che senso ha parlare di nuove tecnologie in posti dove non arriva nemmeno l’energia elettrica o dove non è possibile acquistare un computer?
Questo è il cosiddetto “digital divide”, il divario tecnologico, un’altra barriera che separa la parte ricca dell’umanità da quella povera.

Alcuni dati

Ma continuiamo con i dati che leggiamo su un sito specificatamente dedicato (www.gandalf.it): “La ‘globalità’ della diffusione delle nuove tecnologie è molto relativa. Una grande parte del mondo è ancora isolata dall’internet. Anche all’interno di ciascuna delle zone geografiche ci sono forti concentrazioni. Il 96% della rete nel Nord America è negli Stati Uniti. Il 98% della rete in Oceania è in due paesi: Australia e Nuova Zelanda. Il 68% dell’internet dell’Asia è in Giappone (circa il 20% nell’area etnica cinese). L’88% dell’Africa in Sudafrica, l’86% dell’America centro-meridionale in Brasile e Argentina. Solo in Europa nessun paese ha più del 14% del totale; ma anche nel nostro continente rimangono forti squilibri”.
Eh già, perché il digital divide non colpisce solo alcuni paesi ma questo tipo di divario esiste anche all’interno di ogni realtà nazionale; è chiaro che la parte della popolazione non alfabetizzata informaticamente non potrà mai avere accesso a questo risorsa per il semplice fatto che non la sa usare. Molti anziani si trovano spesso in questa situazione, i disabili, ma anche le fasce della popolazione di recente immigrazione; nel nostro paese esiste anche un divario tra nord e sud in fatto di usi e consumi delle nuove tecnologie. I disabili stessi possono esseri soggetti al digital divide soprattutto quando non hanno gli ausili necessari per usare il computer e per entrare in internet.
Il problema è così evidente che nessuna autorità sia nazionale che sovranazionale può più ignorarlo, perché è oramai chiaro che lo sviluppo o è per tutti o il delicato equilibrio mondiale è destinato a essere messo continuamente in crisi.

L’ONU e l’UE si mobilitano

La necessità di attuare delle vere e proprie politiche di “inclusione  digitale” ha portato alla creazione a Okinawa nel luglio del 2000 da parte dei G8 (con questo termine si indicano gli 8 paesi più ricchi e industrializzati del mondo) della “Digital Opportunity Task Force” (www.dotforce.org), con lo scopo di analizzare e descrivere le linee di intervento sul digital divide.  Anche l’ONU ha creato un organismo analogo nel marzo del 2001, la “ICT Task Force” (www.unicttaskforce.org). Alla tristemente famosa riunione dei G8 a Genova nel 2001 viene accettato il “Genoa Action Plan” prodotto dalla Dot Force, in cui si chiariscono quali saranno le future linee di intervento mondiali sul digital divide. I partecipanti al tavolo sono  istituzioni governative, rappresentanti del mondo industriale e ONG. Sì ONG, perché da tempo oramai anche il mondo del volontariato si è specificamente dedicato a questo problema, rendendosi conto che accanto ai bisogni primari (accesso all’acqua, alimentazione, salute…) anche il tema dello sviluppo tecnologico è basilare. Alisei, una ONG italiana, ha costruito un sito (www.digital-divide.it) proprio dedicato al tema, mentre in lingua inglese esiste bridges.org (www.bridges.org).
Ricordiamo che a Ginevra, dal 10 al 12 dicembre del 2003, si è svolto il WSIS (The World Summit on the Information Society), ovvero la prima fase della conferenza mondiale dell’ONU sulla Società dell’informazione(www.wsisgeneva2003.org); la seconda fase si terrà invece a Tunisi nel 2005.

La centralità del giocattolo nello sviluppo del bambino

 Laura Pozzi*
*del Centro Internazionale Ludoteche di Firenze, che pubblica il periodico “La Ludoteca”

È opinione condivisa ritenere il giocattolo oggetto di fondamentale importanza per lo sviluppo integrale della persona, capace di offrire stimoli e di assumere molteplici configurazioni strettamente intrecciate con lo sviluppo delle risorse affettive, fisiche e cognitive del bambino; quindi i giocattoli devono possedere questa caratteristica fondamentale: dare la possibilità di fare nuove esperienze.
Si comprende, allora, come sia importante non trascurare elementi come le proporzioni, il colore, il realismo e la fantasia delle forme, a partire dalle quali il bambino costruisce un rapporto strettamente personale con il giocattolo, esprimendo la propria creatività e la propria corporeità.
Grazie alla versatilità e alle caratteristiche polisensoriali che lo contraddistinguono, il giocattolo riesce a stimolare la mente e il corpo del bambino il quale, a sua volta, gli conferisce significati e funzioni in base alle sue necessità; in primo luogo il bisogno di giocare ma anche necessità più profonde legate all’esplorazione di sé e del mondo circostante.
Ecco quindi che, al di là della prospettiva ludica, al giocattolo vanno  riconosciuti i compiti fondamentali di favorire l’acquisizione di conoscenze del proprio io e del mondo, di sviluppare capacità fisiche, psichiche, sociali, affettive, morali e di abituare a un comportamento autonomo attraverso l’affinamento, il coordinamento e lo sviluppo delle diverse funzioni; nonché, in una prospettiva terapeutica, di aiutare il bambino a liberarsi dalle proprie angosce e trovare una condizione di equilibrio e di sicurezza.
Il giocattolo esercita quindi un’importante influenza sullo sviluppo del bambino, uno sviluppo che viene delineato secondo standard di crescita “normali”, caratterizzati dal progressivo incremento dei gradi di complessità dell’attività ludica; già lo psicologo Piaget indicava nei suoi studi il passaggio dal gioco presimbolico a quello simbolico, in cui il bambino attribuisce un significato a un oggetto indipendentemente dal correlarlo a un’azione concreta, come una delle principali testimonianze della crescita.
Ma cosa succede quando il bambino è portatore di un deficit fisico o psichico che non gli permette di assorbire e rielaborare quelle stimolazioni provenienti dall’esterno?
Quale significato e quale ruolo può avere ora il giocattolo?
In questo caso il giocattolo deve essere in grado di rispondere a bisogni speciali all’interno di un progetto educativo e terapeutico specificamente indirizzato, dove l’obiettivo fondamentale della crescita sia raggiungibile colmando le carenze e superando gli ostacoli.

Giocattolo e autismo

Un caso di psicosi infantile che disturba lo sviluppo e incide negativamente sulla maturazione delle abilità sociali è l’autismo, che provoca specifiche disfunzioni dei processi cognitivi e del pensiero simbolico, con grave danno alla formazione delle capacità di rappresentazione e concettualizzazione.
Da qui derivano gravi carenze che si manifestano anche nella situazione ludica: il bambino presenta abitudini forzate, impegnandosi in giochi prolungati nel tempo ma ripetitivi e ossessivi; mostra predilezione per oggetti meccanici o a incastro, duri, con superfici lisce e che ruotano, come trottole, trenini, automobiline, con i quali il bambino sembra instaurare un profondo rapporto affettivo ma che in realtà usa per creare intorno a sé un ambiente in cui sentirsi sicuro. Questo “comportamento di frontiera” limita notevolmente il gioco sociodrammatico e di conseguenza influenza negativamente lo sviluppo delle capacità sociali e affettive.
In questo contesto, il gioco e i giocattoli possono essere impiegati per individuare strategie volte a rendere possibile lo sviluppo delle capacità deficitarie: infatti, attraverso attività  sociodrammatiche e di finzione come il “role playing”e  l’utilizzo di giocattoli “per essere qualcun altro”( bambole, vestiti per il travestimento…), il bambino autistico può acquisire le competenze per aprirsi al mondo esterno e interagire con gli altri.

Giocattolo e riduzione dell’handicap

Anche nel caso della cecità, studi svolti presso l’Università del Michigan hanno dimostrato che alcune tipologie di giocattoli possono prestarsi come valido supporto, stimolando i bambini all’esplorazione dell’ambiente e degli oggetti a loro circostanti.
Occorrere pensare e “adattare” materiali ludici alle esigenze speciali dei bambini ciechi, coinvolgendo e sfruttando gli altri sensi. Ad esempio, proponendo giocattoli con similarità olfattive alle persone e a oggetti conosciuti; oppure proponendo giocattoli in grado di produrre interessanti effetti tattili o sonori quando toccati: grazie a questi stimoli sensoriali, si aiuta il bambino ad avere controllo manuale sulle cause e sugli effetti delle proprie azioni e lo si motiva a giocare con una maggiore varietà di strumenti ludici, quindi, ad ampliare le esperienze funzionali alla crescita. Di conseguenza, a partire dalle condizioni specifiche di sviluppo, dalle reali differenze e necessità, il giocattolo si pone come strumento educativo-terapeutico all’interno di una prospettiva di riduzione dell’handicap.
Per comprendere e far emergere le abilità dei bambini con ritardo mentale ma anche in situazione di profondo deficit fisico o disabilità multipla, allo scopo di pianificare interventi educativi adeguati, si possono utilizzare giocattoli che producono feedback motori o sensoriali (fantocci a molla, aeroplanini, tamburelli…)  per stimolare l’azione corporea e le capacità cognitive, così come per incrementare l’attività di manipolazione e l’attenzione visiva, ma anche per ridurre la ripetizione di comportamenti impersonali e stereotipati: la presenza percettibile del giocattolo consente infatti al bambino di manifestare un comportamento diverso da quello tenuto abitualmente, mettendolo innanzi tutto a contatto con una realtà “altra” rispetto il proprio corpo, quindi di aprirsi all’ambiente esterno; ma anche di stabilire ritmi alle proprie azioni, quindi di imparare a controllarle.
L’utilizzo di giocattoli  che producono effetti visivi e uditivi  o che prevedono attività sensomotorie può svolgere una funzione stimolante e terapeutica anche nel caso della sindrome di Down.
Ad esempio, ampliare le impugnature di un giocattolo, come sonagli, palette per la sabbia…, è funzionale alla conformazione palmare della mano di un bambino con sindrome di Down, che ne limita notevolmente la gestualità; oppure se i bambini con sindrome di Down non si mostrano propensi ad animare un pupazzo si può proporre un giocattolo che, oltre a essere fabbricato con materiali particolarmente gradevoli, sia dotato di un dispositivo elettronico che rimandi al bambino un feedback sonoro, gratificante e stimolante.

Conclusioni

Nel contesto rassicurante della situazione ludica, i giocattoli possono essere strumenti educativi rivolti anche a bambini in situazione di deficit. Se si struttura un contesto di gioco attento alle difficoltà individuali, idoneo ai bisogni del bambino, quindi “facilitatore” delle sue azioni,  è possibile promuovere comportamenti inattesi e capacità altrimenti impedite: in questo senso i giocattoli e i materiali ludici devono corrispondere le richieste particolari del bambino, per porlo nelle condizioni di sperimentare, esplorare e giocare.
Quindi, pensare a giocattoli “adattati” vuol dire cercare gli strumenti necessari alla riuscita degli obiettivi pedagogici e di riduzione dell’handicap, nonché la tutela contro fissazioni o regressioni non auspicabili.

Essere madre disabile: paure, difficoltà, soluzioni

Enrica Nardi*
*architetto, lavora al progetto di ricerca, in corso di svolgimento per conto del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca (COFIN 2003), dal titolo Linee guida per la progettazione di case di maternità destinate a un’utenza allargata (Responsabile scientifico Prof. Paolo Felli, Università degli Studi di Firenze, Facoltà di Architettura)

Una donna disabile che decide di diventare madre incontra maggiori difficoltà rispetto a una donna normodotata che voglia seguire lo stesso percorso. In un dossier della rivista francese “Faire face” vengono citati, tra gli ostacoli da superare, il non sentirsi capace di assumere il ruolo di madre (sensazione talvolta alimentata dalle opinioni di persone vicine), la paura di trasmettere la propria malattia, l’assenza di modelli di donne disabili che, diventate madri, possano costituire un esempio.
Da uno studio condotto da Collu e Balit è emerso che per le donne con problemi di udito, la difficoltà di accesso all’informazione è un ostacolo considerevole. Non sempre infatti è possibile un’omogenea e diffusa conoscenza sull’assistenza sanitaria, sulla prevenzione, sui metodi di pianificazione familiare, sugli aspetti legati alla maternità, alla gravidanza, alla difesa dalle violenze: l’informazione spesso non è disponibile attraverso l’utilizzo della lingua dei segni o tecnologie quali computer, sottotitoli, videocassette, ecc.
Montanari, in una propria ricerca relativa ai primi approcci e allo sviluppo della comunicazione tra una coppia di persone con problemi di udito e il loro bambino, ha rilevato – circa il periodo del parto – un certo disagio della madre per l’assenza di comunicazione con il personale ospedaliero, per essere stata privata della vicinanza dei familiari in sala travaglio, per non aver ricevuto, dopo il parto, informazioni sull’allattamento e l’accudimento del bambino. Durante il periodo del puerperio, la stessa ricerca ha evidenziato una difficoltà della donna nell’interagire con il neonato, unita a un senso di inadeguatezza sul proprio ruolo di madre, dovuto all’indifferenza mostrata dal neonato a stimolazioni acustiche. A differenza delle madri udenti che possono stabilire un contatto con il proprio bambino anche attraverso la voce, le mamme con problemi di udito hanno difficoltà a cogliere le eventuali reazioni del figlio alle stimolazioni sonore, perché non possono utilizzare la stessa modalità. Anche nel grembo materno, il bambino di una donna non udente, seppure udente, non è abituato a sentirne la voce; forse è anche per questo motivo che, una volta nato, non reagisce a voce e suoni che provengono dalla madre, che non riconosce.
Per le donne con problemi di vista che si accingono a diventare madri, Edith Thoueille, responsabile del centro “Protection Maternelle et Infantile” di Parigi, organizza corsi e attività utilizzando mezzi di comunicazione alternativi alla vista. Durante gli incontri commenta immagini video e descrive quanto va saputo; permette alle future madri di apprendere il contenuto di articoli importanti attraverso l’ascolto di audiocassette. Per esigenze specifiche quali fare il bagno al bambino, medicarlo, riempire un biberon, propone soluzioni pratiche come l’utilizzo di una piccola vasca da incastrare in modo solido ai bordi di quella di casa, di siringhe con tacche sul pistone, di termometri vocali, di bilance vocali per misurare il neonato o la quantità di latte in polvere e acqua per preparare il biberon. Indica inoltre gli indumenti più pratici o gli oggetti più facili da utilizzare per accudire il bambino; se necessario si reca a domicilio per dare consigli su come organizzare gli spazi per fruirne nel modo più comodo e sicuro.
Se orientarsi e muoversi autonomamente negli ambienti ospedalieri può essere difficoltoso per le persone normodotate, per chi ha problemi di vista ciò costituisce davvero un problema. Poter frequentare il luogo del parto prima dell’evento dà a una partoriente non vedente un vantaggio indiscutibile. Inoltre, le stesse caratteristiche degli ambienti possono essere di aiuto, se pensate tenendo conto di segnali non solo visivi ma anche acustici, tattili, cinestetici, termo-igrometrici; l’autonomia di utenti ipovedenti è poi agevolata in ambienti ben illuminati, in cui il contrasto tra “figura” e fondo è ben definito e dotati di una segnaletica adeguata.
Per quanto riguarda il puerperio, Thoueille sostiene che, pur non potendo utilizzare la vista, le madri non vedenti possono essere soggetti tutt’altro che passivi nell’allattamento, perché possono avvalersi – se sostenute e incoraggiate in questo – di altre risorse quali lo sguardo, il sorriso, la voce, il modo di tenere in braccio il neonato, di toccarlo, di porgergli il seno o il biberon. Martin aggiunge che l’utilizzo di lettini con le sponde molto alte o di box con dispositivi sonori permette alle donne con problemi di vista di prendersi cura dei propri figli in modo sicuro. Un altro accessorio utile è il marsupio, che consente alla madre di trasportare il bambino, mantenendo libere le mani.
Per le donne con problemi motori diventa fondamentale – allo scopo di prevenire situazioni problematiche – prestare una particolare attenzione ai cambiamenti fisici dovuti alla gravidanza. Ad esempio, un eccessivo aumento di peso può diminuire l’autonomia, mentre la stitichezza e i problemi di circolazione possono essere accentuati dalla posizione sempre seduta. Ancora, dover urinare di frequente può essere un problema in assenza di servizi igienici idonei. Secondo il report del seminario “La sessualità tra desideri e incontro”, tenutosi a Roma nell’ambito della manifestazione Handylab 2002, la dottoressa Renée Mask dell’Unità spinale di Perugia sottolinea la necessità che la gravidanza di una donna con disabilità motorie sia seguita da più specialisti – ginecologo, urologo, paraplegista, ostetrica – nonché l’importanza del precoce coinvolgimento e della preparazione del personale che l’assisterà.
Anche una donna con problemi motori che si accinge a diventare madre deve scontrarsi con la difficoltà di fruizione dei luoghi. Ad esempio, recarsi in un ambulatorio per una visita ginecologica può essere un problema per gli spazi e gli arredi non adeguati: basti pensare alla difficoltà di salire da sola su una poltrona ginecologica e di tenere i piedi nelle staffe, o semplicemente di doversi muovere in modo autonomo nelle salette per i colloqui, dalla superficie generalmente così ridotta da rendere non agevoli le manovre di una sedia a ruote azionata elettricamente. Da testimonianze riportate in alcune pubblicazioni a cura della “Mission Handicap de l’Assistence Publique-Hôpitaux de Paris” si apprende che, pur avendo ricevuto un’adeguata assistenza durante la gravidanza, alcune donne disabili motorie hanno sperimentato, al momento del parto, l’inaccessibilità dei reparti di maternità in cui stanze, servizi igienici, spazi per la cura dei bambini, generalmente non sono pensati considerando l’ingombro e gli spazi di manovra di una sedia a ruote.
L’accudimento del bambino può invece essere agevolato se si dispone di ausili tecnici. A questo proposito il centro di rieducazione funzionale “Lucie Bruneau”, uno dei più grandi del Québec, ha dato l’avvio al progetto Parents Plus per sostenere i genitori motulesi, in particolare affetti da paraplegia o da quadriplegia. Tale progetto prevede: un servizio di consulenza in ergoterapia fin dalla gravidanza; l’assistenza di operatori per individuare soluzioni a bisogni specifici; il prestito di attrezzature e mobili adattati (lettini soprelevati con porta laterale, vaschette su piccole ruote regolabili in altezza, sedie alte adattate, ecc.); la consulenza di un esperto in ergoterapia durante i primi anni di crescita del bambino.
Queste attenzioni, che possono sembrare di secondaria importanza in un mondo che sembra dimenticare gli aspetti della disabilità, stanno in realtà diventando sempre più importanti. A tale proposito Susan Vincelli, ergoterapeuta curatrice del progetto Parents Plus, sottolinea come alla fine degli anni Novanta in Canada, ma anche negli Stati Uniti, siano aumentate le persone disabili che sono diventate genitori. La ragione di questo è da ricercare, secondo Vincelli, nel fatto che “le persone che vivono con una minorazione fisica rivendicano da molto tempo il loro spazio nella società. Desiderano ed esigono una piena partecipazione sociale. Gli operatori sanitari fanno anche loro il proprio percorso. Meno paternalisti e più aperti, appoggiano e consigliano questa clientela di futuri genitori”.

Il volo dei tucani

Pio Campo*
*educatore a Vila Esperança – Goias (Brasile)

Credo che  molti abbiano assistito al film “Il pianista”. Non so se  sia piaciuto o meno. Su  di me ha avuto un effetto “apnea”. Per tutta la sua durata ho creduto di non poter respirare e  mi ha accompagnato il pensiero fisso che  quell’orrore faceva parte di una storia non troppo lontana da me. Ripensando alla mia vita ho creduto di poter minimizzare i problemi che mi accompagnano se paragonati allo scandalo vergognoso che una guerra rappresenta. Ma poi, conversando coi miei compagni di vita, siamo giunti alla conclusione che, in realtà, le guerre nascono all’interno di ogni nostro atteggiamento di chiusura; nodi che creiamo nello spazio che ci circonda, negli affetti malati, nel non fluire di sentimenti di pace. Credo che questo ci responsabilizzi in prima persona sugli eventi bellici che flagellano il mondo e che corriamo il rischio di vivere con una distanza che ci salva dallo spavento di sentirci in qualche modo partecipi. E penso anche che sarebbe opportuno se i Bush sparsi nel mondo avessero la possibilità di incontrare, almeno una volta nella vita, un pianista che facesse riflettere sulle conseguenze di un nodo ben dato intorno al cuore. Noi tutti abbiamo bisogno di note che trasformino l’ambiente in cui viviamo in uno spazio aperto, libero dalla violenza; un campo aperto per l’amore.
Scrivo di Lucas, lo chiamerò così stasera, che è arrivato qui carico dei suoi sei anni di guerra, anni in cui nessun pianista ha suonato per lui. Nel  gruppo della prescuola si distingue per una aggressività disperata. Un giorno, una delle insegnanti della Vila,  mi mostra un po’ frastornata i segni di un morso che Lucas le ha inferto nel braccio, facendolo sanguinare. Non è la prima volta che succede. In qualsiasi momento in cui cerchiamo di stabilire dei limiti, Lucas si ribella e elargisce  aggressioni fisiche ai compagni, insegnanti, a chiunque gli stia vicino. Non è l’unico, ma diciamo che lui si contraddistingue per la frequenza degli attacchi. Niente pare interessarlo e il suo unico vanto è quello di saper dare pugni in pieno viso, senza alcuna remora. Cerchiamo aiuto in un ente pubblico che dovrebbe fornire  assistenza psicologica alle famiglie. Mi dicono che conoscono il suo caso. “Si sa” che Lucas tutti i giorni riceve bastonate e che lo picchiano in pieno volto. Entriamo  in contatto con la madre.
Alta e magra, la pelle scura, un viso segnato da una timidezza dura, qualcosa di strano che disegna i lineamenti con un misto di terrore e tenerezza. Mi ascolta con gli occhi bassi e alla fine le chiedo di raccontarmi un po’ la storia del bambino. È nato sei anni fa nel Mato Grosso da una storia d’amore con un uomo che lavorava la terra in una fazenda. Amore e povertà estrema nutrono i  primi due anni di vita del bambino, ma i vermi prolificano tanto dentro la sua pancia da provocargli una serie di disturbi ogni giorno più violenti. Non ci sono medici né ospedali e lei, la chiameremo Ana, decide di tornare a Goiás, la sua terra natale, per farlo curare. Un viaggio che non so dire, senza soldi, distante. Il padre che amava Lucas e che Lucas amava, si perde nei chilometri che li separano. Mai più lo si rivede, per un motivo così incredibilmente crudo e reale come la mancanza di soldi per il biglietto di autobus. La storia di Ana è la storia di tante donne e uomini che, per  mancanza di mezzi e per situazioni che si dipanano nel corso dell’esistenza, ricreano famiglia e fuggono dalla solitudine e dal dolore. Ana si unisce a un nuovo compagno, ha due figlie con lui. Lui beve e spende tutto in alcol, è violento, duro, arrogante. I fallimenti e le amarezze ricadono sui figli, un circolo senza interruzioni di violenze e fame. Ana mi dice che Lucas dorme tutte le notti in un posto diverso. A volte per terra, a volte sul divano sfondato. Non ha mai avuto un vestito suo, né un giocattolo. Sogna con una stanzetta tutta per lui che vorrà un giorno condividere con la sua fidanzata. Rimango in silenzio, non so cosa dire. Mi pare che galleggiamo entrambi, Ana e io, in un mare senza risposte, senza soluzioni. L’apnea ritorna come un vuoto grigio e mi ricordo delle note, del pianista. Le dico se ha tempo, per dieci minuti al giorno, di prendere in braccio Lucas e di baciarlo e fargli delle tenerezze. Mi guarda coi suoi lineamenti in disordine, forse la proposta sembra banale, strana. L’esperienza dell’amore, del contatto fisico di pace, ha sempre toccato le corde della  mia anima facendola suonare. La sua musica è indimenticabile e marca fedelmente i cambiamenti più profondi della mia esistenza. Le note da piccolo di mia madre, le note di chi mi accompagna nella vita, le note di Maria Fux nella danza, di Pai Marcos che mi guida nel cammino della spiritualità. Tanti nomi che hanno prodotto e producono musica nella mia vita. Mi ricordo di questo e guardo Ana che non sente la musica. Se ne va e so che non ho il potere di imporle i dieci minuti d’amore fra lei e il figlio ma sento che l’intuizione ci può condurre nella direzione di un incontro con Lucas.
Tutti qui alla Vila iniziamo con lui, e con altri piccoli con problemi simili ai suoi, una vera e propria crociata di baci. Lucas resiste all’inizio e mi dice che a lui i baci non piacciono, ma ogni giorno di più cede alla musica del cuore e si abbandona a una tenerezza senza limiti. I morsi scompaiono, le crisi diminuiscono e lentamente appare un bambino coi ricci, gli occhi dolci e neri senza fine, la pelle scura come quella di Ana. Oggi all’uscita di scuola hanno tardato nel venirlo a prendere e mi si è addormentato in braccio, al suono delle note del pianista.
Adesso è pronto a iniziare il suo volo, come i tucani che hanno portato qui quasi un anno fa senza penne, appena nati, sequestrati da non so dove e senza un destino certo che non fosse lo zoologico. Li abbiamo tirati su, in un luogo chiuso per proteggerli dai predatori notturni. Un mese fa li ammiravamo nella bellezza del piumaggio adulto, ma abbiamo aperto le porte della grande gabbia per restituirli gradualmente al cielo al quale appartengono. Ho temuto per un po’ che si facessero fregare, che si facessero male, che morissero. Ma loro volano e volano ogni giorno più in alto. Non se ne vanno mai troppo lontano e non è raro vederli appollaiati alle finestre, assistendo alle lezioni. Sarebbe bello se potessero stare sempre da queste parti, ma so che un giorno il bando passerà e andranno. Mi rallegra la sensazione incredibile di vederli librare alti nel cielo. Non c’è niente di più meraviglioso che assistere al volo di qualcuno, anche se questo comporta distanza e una certa dose di sofferenza. Non so descrivere. I tucani mi parlano, durante i loro voli, di Lucas e dei suoi compagni. Aspettiamo, noi della Vila, che questi bambini si nutrano e crescano. Questa è la nostra funzione con loro. Seminare baci e note musicali, iniziare al volo, stabilire limiti e, a volte, “esser duri ma senza perdere la tenerezza”.
Il volo ci sarà, come per ciascuno di noi.
I tucani non mentono mai. Con le ali spiegate e il becco colorato del colore del sole ci guardano dall’alto e, ci giurerei, oggi li ho visti sorridere.

Informazioni su Vila Esperança
Vila Esperança è una associazione il cui scopo è lavorare sul riscatto e sulla valorizzazione della cultura brasiliana e quindi sulle radici culturali indigene e africane, che sono i due ceppi che compongono, insieme alla razza bianca, la mescolanza che è il popolo brasiliano. Ci sono duecento bambini che frequentano assiduamente la Vila. Quello che colpisce è il suo essere una scuola a cielo aperto, un labirinto di stradine e sentierini che collegano “l’aula di geometria” (una scalinata composta da figure tridimensionali) al tendone del circo, dalla sala cucina al teatro indigeno, e ad altri posti ancora, sempre immersi nella vegetazione, circondati da “totem” e da una grande varietà di animali. La scuola di Vila Esperança è rivolta alla classe povera, ai bambini che vivono nella favela.

Per saperne di più su Vila Esperança contattare:
Casa della Solidarietà – Rete Radiè Resch
Via delle Poggiole 225 – C.P. 74 – 51039 Quarrata (Pistoia)
Tel. 0573/75.05.39-71.85.91-71.71.79 – Fax 0573/71.85.91
e-mail: a.vermigli@rrrquarrata.it
www.rrrquarrata.it/index.htm

L’esperienza di gioco: idee e pratiche di integrazione nel Comune di Forlì

Quali sono i dati caratterizzanti, le problematiche emergenti, gli aspetti che giudicate particolarmente rilevanti per descrivere i tratti principali della vostra realtà?La collaborazione tra Comune di Forlì e la cooperativa CAD è iniziata circa due anni fa come una scelta quasi obbligata. Nel senso che non ci entusiasma l’idea di esternalizzazione come enti pubblici i servizi.
Come operatore mi trovo fortemente d’accordo con la scelta fatta, la  mia esperienza è positiva perché gli anni precedenti non avendo un rapporto stabile con un’associazione o cooperativa in grado di supportare con continuità il processo per l’integrazione scolastica, avevamo ingressi di persone (supplenti) nella sezione discontinui, con la conseguenza di interventi poco efficaci nei confronti dei bambini disabili inseriti.
In questo senso il percorso attivato con la CAD ha significato la possibilità di lavorare con continuità.
In questo momento come Comune abbiamo dieci bambini che sono presenti e iscritti nella scuola dell’infanzia con le insegnanti di sostegno CAD e un insegnante part-time comunale;  nel nido sono due i bambini inseriti e abbiamo due insegnanti di sostegno comunali sempre part-time.
Poi c’è una “galassia”, definiamola in questo modo, di bambini con disagio sociale sempre più accentuata.
C’è una crescita esponenziale di questa situazione, di bambini in difficoltà con cui gli insegnanti devono fare i conti.
Mi pare di poter dire che il rapporto tra Comune e cooperativa CAD sta crescendo, ci misuriamo tutti i giorni sui problemi, stiamo attivando anche percorsi di formazione comune.
(Bruno Lombardi)

Nonostante la nostra cooperativa abbia un’esperienza molto ampia, quasi trent’anni di attività nel settore del lavoro di cura e dell’handicap, questo servizio è stato attivato in tempi recenti e su questo abbiamo bisogno di irrobustirci.
Forse per questo un dato che salta agli occhi è che le nostre educatrici, rispetto alle educatrici comunali, sono più giovani, sia per età anagrafica che per esperienza  professionale. C’è un percorso che bisogna costruire perché c’è un gap sia a livello di esperienza che culturale.
Sia noi che il Comune siamo intenzionati a costruire un percorso insieme e a integrarci. Per noi le insegnanti comunali sono una grossa risorsa proprio nel quotidiano e le nostre educatrici hanno molto da imparare. Dal canto loro possono mettere molta voglia di imparare e motivazione al lavoro, si buttano nelle attività e anche questa è una caratteristica importante.
(Monia Castagnoli)

Quali sono le linee principali, le “parole chiave” attorno a cui avete strutturato le politiche educative che sostengono il lavoro di integrazione nelle strutture educative e scolastiche?L’esperienza comunale sull’integrazione risale a più di trent’anni fa. Allora furono fatte scelte anche forzando la legge, forzando addirittura i rapporti con il personale per cui i bambini furono inseriti nelle strutture educative nell’ottica di un intervento (ed è questo il passaggio chiave) che fosse il più possibile precoce. Un ambientamento precoce in una struttura come il nido è una scelta che in prospettiva paga, paga con diversi tipi di deficit perché le attenzioni che vengono messe in gioco prima al nido poi alla scuola di infanzia (richiesta di relazione, percorsi, attività) danno al bambino con deficit la possibilità di essere aiutato a costruirsi un modo di rapportarsi con se stesso e con il mondo. In questo senso per noi è importante che l’incontro fra l’istituzione nido e scuola dell’infanzia e il bambino avvenga il più possibile.
L’altro problema è capire se, come e quanto siamo pronti, preparati e formati ad affrontare l’incontro e la quotidianità con i bambini disabili (il “deficit” che abbiamo fra le mani).
Per questo l’altra parola chiave è la formazione continua. Per molti aspetti la nostra esperienza trentennale ha costituito una cultura che non avevamo e questo rapporto quotidiano ha costretto moltissimi insegnanti ad imparare. Il Comune ha dato il sostegno della formazione; su questo versante il percorso formativo non si è mai interrotto, sempre avendo cura di analizzare il quotidiano, i casi emblematici che le insegnanti avevano per le mani.
Questo ha creato una cultura forte anche se ci sono delle luci e delle ombre: il rischio nelle relazioni interne (che c’era prima e c’è anche oggi con la CAD) è il rischio potenziale di una sorta di delega  reciproca per cui l’insegnante di sostegno viene caricata di responsabilità che certamente ha ma che vanno gestite in una logica di condivisione, pena la gestione in proprio del bambino da parte dell’insegnante di sostegno. È chiaro, è giusto che un bambino che ha bisogni relazionali deve avere una figura di riferimento forte ma è importante che abbia la possibilità di conoscere ed entrare in relazione con tutte le figure che sono presenti nella sezione. (Bruno Lombardi)

Ripercorrere a ritroso l’esperienza della formazione significa ragionare sull’analisi dei bisogni formativi: quali  sono state delle priorità e le attenzioni ai temi specifici in questi anni?Ci si è incentrati su aspetti salienti della pedagogia, come l’osservazione, che è uno strumento importante per tutti i bambini, è lo strumento di fondo, “obbligato” per l’insegnante di sostegno. Su questi aspetti abbiamo molte volte ragionato. L’osservazione non deve essere fatta una tantum e poi lasciata da parte: l’osservazione deve, se possibile, essere formalizzata e discussa, ripresa per poter vedere i fili conduttori che possono suggerire piste di azione; l’osservazione deve essere utilizzata. In questo senso le insegnanti vanno aiutate e sostenute. La formazione con persone che hanno culture diverse, diverse età ed esperienza può significare trasmissione di saperi e un modo sinergico di lavorare sui problemi.
(Bruno Lombardi)

Un’altra parola chiave che mi viene in mente è la documentazione, fortemente legata all’osservazione. Proprio l’anno scorso che era il primo anno di presa in carico del servizio, abbiamo concordato con il Coordinamento Pedagogico la costruzione e supervisione di una scheda individuale che accompagna il bambino, dove vengono raccolte e formalizzate e condivise le osservazioni e gli obiettivi del PEI. Adesso la stiamo sperimentando per verificarla, aperti a ogni ulteriore adattamento per poterla migliorare.
(Monia Castagnoli)

Nel quadro così caratterizzato per come lo state descrivendo, come definireste oggi lo “stato di salute” della qualità dell’integrazione dei piccoli nelle strutture educative e nelle scuole d’infanzia  della vostra  città?Lo stato lo definirei buono perché questi bambini sono comunque una ricchezza per l’esperienza che fanno i bambini e anche le insegnanti. Dopo di che l’insegnante ha l’onere di dover affrontare anche i problemi, per cui bisogna creare dei meccanismi tali che l’impegno per le insegnanti non sia troppo gravoso e gestibile. Un limite che abbiamo è che non sempre, come pubblica amministrazione,  siamo in grado di ascoltare quello che le insegnanti pongono in termini di interrogativi, di disagi portati e potenziali. Non sempre siamo pronti ad accogliere e riconoscere le difficoltà che le insegnanti portano.
(Bruno Lombardi)

 

Direi che lo stato di salute è tra il discreto e il buono perché c’è un discorso di continuità che la CAD ha garantito in questi ultimi due anni. Su questa base si possono costruire delle cose.
C’è un sodalizio fecondo con queste giovani ragazze della cooperativa. Se forse l’ente locale non ascolta fino in fondo la nostra voce, devo però dare atto che per quanto riguarda le questioni della disabilità il coordinamento è presente. Magari non tutte le istanze possono venir raccolte ma c’è uno sforzo di presenza, c’è un’attenzione a livello di coordinamento.
L’osservazione è il punto cruciale; usare l’osservazione significa poter fare un quadro di ogni bambino, un quadro flessibile costantemente in movimento, da aggiornare per ripartire. Questa dovrebbe essere anche la direzione principale di ogni formazione: un supporto a capire che ogni intervento non è mai definitivo ma si deve continuamente rivedere, rimettere in discussione e ritarare. Questo è il grande valore dell’osservazione; non è stato semplice da imparare, piano piano ci si è costruito questo saper osservare, saper ascoltare che ha permesso di uscire dall’atteggiamento
“ma adesso che cosa faccio?”
(Meris Pedrizzi)

Mi sento di sottolineare la centralità del rapporto tra insegnante di sezione e educatrice: non è semplice ma è necessaria una stretta collaborazione tra insegnanti di sezione e di sostegno.
Anch’io mi collego all’importanza dell’osservazione e della documentazione. L’osservazione del bambino ma anche del contesto è lo strumento principale per capire meglio chi si ha di fronte, una persona con limiti e capacità, per non dare nulla per scontato, per vedere le evoluzioni della situazione. L’osservazione è la base per costruire il mio intervento.
(Lorena Visotti)

Quali sono, a vostro parere, i principali aspetti positivi attivati nel percorso di integrazione sperimentati fino a oggi?Aspetto di positività è che molti bambini con disagio hanno frequentato la scuola di infanzia e l’hanno fatto con interesse e curiosità, vivendo una condizione di benessere. Questo mi sembra un dato di realtà per molti bambini e quindi anche per molte famiglie che hanno vissuto come molto importante il passaggio dalla fase di inserimento a una vera e propria integrazione. Positività è quando un bambino, che vive una situazione anche molto grave, viene volentieri a scuola, manifesta con il sorriso, con il corpo, il piacere di venire nella scuola.
Positivo è quando anche gli altri bambini accettano e cercano il bambino in difficoltà, chiedono di lui e si relazionano con lui. Sono segnali che qualcosa si è mosso, che stiamo lavorando nel verso giusto.
(Meris Pedrizzi)

Il nostro primo obiettivo è quello di far star bene il bambino. Che possa venire serenamente a scuola. Questo alla famiglia fa molto piacere, aiuta a superare le preoccupazioni di lasciare in mano a qualcuno il proprio figlio all’interno di un gruppo allargato.
Quando il bambino è sereno, anche il genitore è più tranquillo e sicuro.
(Lorena Visotti)

La parola chiave benessere (così come autonomia, identità, competenza) è pensata per tutti i bambini. C’è un’attenzione specifica per il bambino con deficit, ma all’interno di un quadro che tende in termini generali ad aumentare le occasioni di benessere (autonomia, identità, competenza) per tutti i bambini. Il fatto che il bambino stia bene, che la famiglia sia serena permette anche all’insegnante di lavorare con più tranquillità e sicurezza. Di mettere in  atto un atteggiamento osservativo che aiuta a “essere” dentro la situazione.
(Bruno Lombardi)

Quali i principali aspetti critici e di difficoltà? E come si potrebbero superare?Per la mia esperienza un elemento delicato è dato dal rapporto con l’AUSL  che è sempre un po’ sul filo del rasoio. Il bambino con disagio va visto nella sua unicità. Noi abbiamo diversi incontri con gli operatori AUSL dove ci sono scambi e confronti sul loro modo di vedere, sui loro progetti. Il difficile è trovare il mio specifico ruolo e lo specifico ruolo della scuola, e mantenerlo, nel rapporto con l’AUSL. La tendenza è quella di dare degli obiettivi piuttosto specifici e c’è un momento critico che è quello della raccolta dei dati e della trasformazione  in un progetto di integrazione. Noi come insegnanti abbiamo bisogno di essere aiutate a sviluppare il piano nostro, che è quello pedagogico, e anche di essere rassicurate su questo.
Un altro aspetto di difficoltà è legato alla presenza sempre numerosa di bambini che vivono un disagio ma che non sono segnalati per questo: è un disagio che loro portano a scuola, nelle sezioni, e con cui fare i conti.
(Meris Pedrizzi)

Aggiungerei che non esiste un protocollo ufficiale di rapporti fra istituzioni; c’è uno scambio e una fiducia reciproci, ma forse la formalizzazione degli impegni aiuterebbe nel definire compiti e responsabilità.
Un limite che talvolta vedo è che le insegnanti possono correre il rischio di fare il mestiere degli altri, di “psicologizzare” il bambino e la sua famiglia: questo può derivare anche dal fatto che molte volte le insegnanti non sono consapevoli del grande valore professionale che hanno e vanno un po’ alla ricerca di altri modelli. Non dobbiamo avere l’ansia dell’errore, ma provare e sperimentare situazioni, proposte, giochi che approfondiscano  il ruolo e la proposta educativa per l’integrazione.
Come coordinamento siamo i referenti maggiori rispetto all’ambito dell’integrazione educativa e in particolare alle famiglie di bambini con deficit. Noi intendiamo fare leva soprattutto sulla formazione (sia insegnanti comunali che provenienti dalle cooperative). L’insegnante non può e non deve essere lasciata da sola.
(Bruno Lombardi)

 

Partecipanti al focus:
Bruno Lombardi, coordinatore pedagogico Comune Forlì
Monia Castagnoli, coordinatrice Cooperativa CAD Forlì
Meris Pedrizzi, insegnante scuola infanzia “Querzoli”
Lorena Visotti, educatrice CAD

Conduttrice: Marina Maselli, pedagogista Context-Bo, consulente Comune di Forlì

Un progetto di accoglienza: il gioco dei nomi

M. ha tre anni, è inserito in una sezione eterogenea di scuola dell’infanzia. Presenta difficoltà di comunicazione e di relazione. Si esprime prevalentemente a gesti. Nel suo repertorio linguistico sono presenti suoni vocalici e sillabici. Produce determinate espressioni interpretabili come approssimazione di parole e frasi, comprensibili a chi lo conosce bene. I rari enunciati spontanei e su sollecitazione risultano ripetitivi ed ecolalici.
Il progetto “Accoglienza” è stato rivolto a tutti i bambini della sezione. Sono state informate dell’esperienza la neuropsichiatra e la logopedista che seguono il bambino, senza venire direttamente coinvolte nel progetto.
L’obiettivo su cui si è lavorato è stato il raggiungimento della capacità di pronunciare il proprio nome e rispondere alla domanda: “Come ti chiami?”
M. percepisce il proprio nome; si volta verso chi lo chiama ma non pronuncia il suo nome. Si mostra schivo a socializzare, soprattutto con i compagni. Gioca da solo, accanto a insegnanti e bambini, il più delle volte con un tamburello e un telefono giocattolo.
Le sue modalità di gioco sono ripetitive; spesso si isola, il contatto di sguardo è sfuggente. L’interlocutore privilegiato è l’adulto: il bambino accetta di stare seduto sulle ginocchia delle insegnanti durante il momento della conversazione e sulla seggiolina durante lo svolgimento di giochi collettivi, ma non partecipa e spesso volge le spalle al gruppo.
Considerato che mostrava interesse per il tamburello e che, tramite questo, era in grado di modificare in positivo determinati comportamenti, gli insegnanti hanno pensato di partire dall’utilizzo di questo oggetto per attivare i giochi di accoglienza/riaccoglienza, rivolti sia ai bambini nuovi arrivati, come M., sia ai bambini già frequentanti. L’intento era quello di veicolare messaggi di “benvenuti” e “bentornati” a tutti, bambini e adulti, e in particolare di incoraggiare, facilitare e gratificare l’avvicinamento di M. al gruppo sezione e viceversa.
A tal scopo l’insegnante di sostegno, in collaborazione con le colleghe curricolari, ha proposto il GIOCO DEI NOMI:
– presentarsi al telefono giocattolo (…pronto, io mi chiamo…): M. porta il ricevitore all’orecchio ma non dice niente;
– concerto dei nomi (scandire a bassa voce e poi a voce molto alta e viceversa i nomi di tutti i bambini): il bambino osserva e sorride timidamente;
– uso del tamburello: percuotere il tamburello con le mani o con il percussore, produrre un suono libero, ognuno il suo suono e far seguire il nome. Pausa. Stare in silenzio per breve tempo, anche a occhi chiusi. Si viene a creare un contesto divertente e distensivo. M. entra nel gioco; percuote il tamburello traendone un suono appena percettibile e sussurra il suo nome. È gioia per tutti. Le insegnanti lo gratificano con un vibrante “Bravo!”. M. sorride apertamente e si autoapplaude.
Considerata la risposta positiva, questo gioco viene inserito nelle attività di routine al mattino. Continuando a valorizzare e vivacizzare l’esperienza (apporto di varianti a carattere psicomotorio, sempre con l’uso di strumenti musicali a percussione, creazione di un piccolo set con gli stessi), il bambino è riuscito a ripetere con pronuncia chiara e a voce alta il suo nome, quello di alcuni compagni e delle insegnanti. Il gruppo lo ha gratificato con abbracci e festosi applausi.

L’esperienza ha avuto luogo nell’anno scolastico 2001/2002 presso la scuola dell’infanzia “A. Frank”, di S. Polo di Torrile (PR), insegnanti Severina Boschi e Guglielmina Da Re, dirigente scolastico Gianni Gaulli.
La documentazione dell’esperienza è stata pubblicata in:
Chiara Dall’Asta (a cura di), Integrazione possibile. Documentazione di esperienze nella scuola,
Collana I quaderni delle esperienze n.1/ nov. 2002 Centro Provinciale di Documentazione per l’Integrazione scolastica, lavorativa, sociale, Parma.

Diario di un incontro

Presentazione

Questa esperienza, vissuta all’asilo nido “Astamblan” di via Guarnaschelli a Piacenza, e descritta dal personale educatore, vuole essere una testimonianza della fattiva collaborazione tra Enti diversi per uno scopo umano e sociale molto alto: connettere il mondo sconosciuto e solitario di due bambini con grave disabilità. Ciò ha voluto dire comunicare con chi ci sta vicino, provare e suscitare emozioni, rivolgere sguardi, comprendersi.
Il racconto che segue è caratterizzato dalla tenacia delle educatrici, dalla riflessione educativa quotidiana e soprattutto dalla ricchezza di suggerimenti professionali che ogni operatore nella sua specificità ha messo a disposizione.
Questo piccolo opuscolo infine è rivolto a chi ha la curiosità e la voglia di mettersi in gioco professionalmente ogni qualvolta incontra sulla propria strada bambini in difficoltà.
Ufficio Infanzia, Servizio Formazione, Comune di Piacenza, ottobre 2002.

Le educatrici: il nostro racconto

 

Primo anno

Come ogni inizio di anno scolastico ci siamo organizzate per accogliere i bambini della nuova sezione lattanti.
Tutto sembrava procedere per il meglio e avevamo cominciato a superare le ansie dell’inserimento. Eravamo arrivate all’inizio di ottobre con dieci bambini già inseriti, ce ne restavano ancora cinque e poi il momento più critico dell’anno sarebbe passato.
A metà ottobre, una telefonata dall’ufficio, del tutto imprevista, ci informa che avremmo dovuto inserire due fratelli gemelli. Tutte e tre ci siamo guardate in viso e le nostre ansie si sono di nuove manifestate: come saranno?
Un’altra telefonata ci informava della riunione con il neuropsichiatra che ci avrebbe spiegato la situazione dei bambini.
Arriva sabato mattina, ore 8.15, noi educatrici siamo sedute nella stanza del neuropsichiatra che, molto tranquillamente, ci illustra la situazione.
Due fratelli gemelli hanno uno sviluppo ritardato rispetto ai bambini della loro età. Provengono da una famiglia disagiata, non in grado di stimolare i bambini. La madre ha qualche problema di relazione con gli altri, è una mamma da prendere con le “mollette”.
Alle ore 10.15 la riunione è finita, noi educatrici ci chiediamo: come facciamo?
Dopo qualche giorno ci siamo riunite, davanti a un’incertezza così forte il nostro stato d’animo era quello di senso di panico, pensavamo di non avere gli strumenti per affrontare la situazione.
Da che parte cominciamo? Tutte e tre ci siamo messe in discussione e abbiamo analizzato le nostre capacità. Dopo qualche riflessione ci siamo messe d’accordo su chi doveva trattare con la madre: la persona più accomodante.
Arriva il fatidico giorno dell’entrata dei bambini al nido; la situazione si è presentata subito più problematica del previsto. Infatti mentre noi eravamo convinte di poter inserire un bambino alla volta e di riuscire ad avere una mediazione con la madre, è avvenuto che i bambini sono rimasti entrambi fino alle ore 15.30 mentre la madre è uscita immediatamente.
Nella sezione si è creata una situazione pesante, non tanto per i bambini inseriti ma per le educatrici che, contrariamente a quanto avviene nell’inserimento, non sapevano nulla delle abitudini alimentari, dei ritmi del sonno, della routine quotidiana dei due bambini. Finalmente arrivano le 15.30, i bambini vanno a casa e noi ci riuniamo per fare il punto della situazione.
Come ci organizziamo? Mettiamo a punto le prime linee di intervento:
Dobbiamo farci conoscere e conoscere i bambini. Come? Decidiamo che è necessario stabilire un rapporto di tipo individuale. Due educatrici si sarebbero occupate di M. e V. e la terza educatrice e l’insegnante d’appoggio degli altri bambini. In alcuni momenti, soprattutto il pasto, abbiamo coinvolto anche personale ausiliario, ma in modo che le due figure di riferimento dei bambini avessero la possibilità di occuparsi solo di loro.
Il nostro intento è quello di far star bene i due bambini al nido, insieme agli altri. A questo scopo abbiamo pensato che un bambino sta bene al nido se si sente circondato d’affetto. Come si fa per dimostrare affetto ai bambini? Si tengono in braccio, si coccolano, ci si fa toccare, ci si parla, si presta attenzione a ogni loro minima risposta: avevamo stabilito un rapporto di contenimento fisico. Nel frattempo ci siamo rese conto che, comunque, il rapporto con la madre doveva esserci. L’educatrice incaricata di tenere rapporti con la madre aveva continuato a mantenere il rapporto privilegiato; la scelta si è dimostrata valida perché la mamma in qualsiasi situazione si riferiva a lei: chiedeva consigli su come vestire, dare le pappe, portare i bambini al nido, in caso di malattia chiedeva quali erano i medicinali, quanto tempo doveva tenerli a casa, raccontava le sue ansie, i suoi problemi. L’educatrice, in pratica, ha sostenuto e mediato l’instaurarsi di una relazione anche con le altre due colleghe.
Quando i bambini hanno manifestato un certo adattamento al nido, ci siamo rese conto che dovevano essere stimolati anche in altri modi. Avevamo notato che facevano fatica a stare seduti, a mantenere la posizione, non prendevano in mano i giochi ed erano sempre molto rigidi, soprattutto. Ci siamo così accordate per mettere a punto un piano di intervento: finora i nostri criteri di valutazione erano sempre rapportati alla normalità, per questo è stato molto difficile capire come comportarsi. Dopo esserci confrontate abbiamo deciso di usare il buon senso dato dalla nostra professionalità, così siamo intervenute.
Per aiutare i bambini a stare seduti abbiamo usato cuscinoni morbidi che, gradualmente abbiamo poi tolto. Quando sono arrivati al nido, i bambini stavano solo coricati in posizione supina; attraverso rotolamenti, manipolazioni varie, abbiamo cercato di portarli dalla posizione coricata a quella seduta. Per combattere la rigidità e l’assenza di prensione (i bambini tenevano i pugni chiusi e non toccavano nulla), abbiamo giocato molto con il corpo sul tappeto: facevamo bicicletta, giocavamo a remare, facevamo la pasta.
Possiamo sottolineare che, pur avendo atteggiamenti diversi sulle modalità di intervento (una educatrice preferiva metterli sul tappeto e manipolarli molto, l’altra si chiedeva se ciò non fosse “scioccante”), siamo sempre riuscite a discutere e a rispettare le une le motivazioni delle altre.
In questi momenti ci siamo rese conto di quanto sia importante cercare occasioni di confronto fra di noi, da cui poter far scaturire armonia e opportunità di crescita.
A fine febbraio siamo riuscite a confrontarci con una persona esperta presente al nido una volta la settimana: la psicomotricista mandata dall’AUSL. La psicomotricista ci rincuorò ritenendo valido il nostro intervento e dandoci alcuni suggerimenti per migliorarlo.
Nel frattempo l’ufficio ci aveva assegnato una quarta educatrice in servizio dalle ore 8.30 alle ore 12.30.
Con il supporto di queste due persone la situazione, in sezione, era cambiata e i bambini se ne sono resi conto. L’accettazione delle persone nuove è avvenuta in modo diverso: l’educatrice è stata accettata gradualmente da tutto il gruppo; la psicomotricista, che veniva una volta la settimana, ha avuto più difficoltà (soprattutto V. ha impiegato più tempo ad accettarla), anche perché faceva lavorare i due fratelli in un gruppo molto piccolo, al massimo di altri due bambini.
La relazione con gli altri bambini è avvenuta lentamente: in un primo momento i bambini manifestavano paura ritirandosi fisicamente su se stessi. Abbiamo perciò preso l’abitudine di dividere in uno o due gruppi l’intera sezione, inserendo un bambino in ciascun gruppo perché c’eravamo accorte che si condizionavano a vicenda. Nella tranquillità del piccolo gruppo i bambini erano facilitati a relazionarsi con gli altri, li guardavano, li toccavano e si lasciavano toccare, addirittura salivano loro sopra perché volevano sentirli fisicamente.
Questa situazione creava qualche problema nel piccolo gruppo, gli altri bambini si sentivano aggrediti. Davanti a questa manifestazione di apparente aggressività abbiamo pensato di usare quello che noi abbiamo definito “metodo dolce”. Questo metodo consiste nel tenerli in braccio accarezzandoli, facendoci toccare e accarezzare guidando le loro mani.
Abbiamo usato anche il momento del pasto come avvio alla socializzazione.
Da un rapporto individuale siamo arrivati a un rapporto un educatore due bambini. Ciò ha consentito ai bambini di accorgersi del compagno. Primo perché erano seduti insieme a tavola, secondo perché il cucchiaio non era uno conseguente all’altro ma c’era il tempo di mettere le mani nel piatto. Da qui è cominciata la manipolazione, si è sviluppata la relazione con gli altri bambini superando così l’apparente aggressività che aveva creato un po’ d’ansia, soprattutto per uno dei due fratelli.
Osservando questi atteggiamenti ci siamo rallegrate perché abbiamo pensato di essere sulla strada giusta: era quasi un anno che aspettavamo i primi risultati.
Infatti ormai eravamo alla fine dell’anno scolastico e i bambini avevano fatto anche altri progressi: riuscivano a passare dalla situazione seduta a quella eretta, sperimentando l’equilibrio e cominciavano a camminare con l’aiuto della mano dell’adulto.
Quello che ci preoccupava maggiormente in questo periodo era l’atteggiamento ripetitivo e la rigidità fisica di uno dei due fratelli. Bisognava ogni volta intervenire in modo da creare situazioni e contesti diversi in cui il bambino imparasse a esprimersi in modo differente.
Un altro problema era quello di non aver ancora raggiunto la fase della lallazione.
Ormai l’anno scolastico era terminato ed eravamo coscienti che questi nostri interrogativi ce li saremmo ritrovati l’anno successivo. Facendo il punto della situazione ci siamo accorte che ci sorprendevamo spesso a osservare i bambini con alterni sentimenti: a volte compiacendoci, a volte demoralizzandoci, comunque sempre valutando il loro progresso e i nostri modi diversi di leggere la realtà della sezione. Grazie a loro erano migliorati il confronto fra di noi, la disponibilità al colloquio con la famiglia e l’atteggiamento anche nei confronti degli altri bambini.

Secondo anno

Sono finite le vacanze estive e inizia il nuovo anno scolastico. Prima di affrontare le problematiche relative alla relazione con i bambini, dobbiamo premettere che il nostro trio, dopo tanti anni, era cambiato: l’educatrice che aveva tenuto i rapporti con la famiglia era stata trasferita per motivi di salute. Ci siamo chieste se questo fatto avrebbe inciso sulla sezione, soprattutto considerando che dovevamo costruire una relazione nuova con un’altra insegnante.
Comunque sono stati ripresi e affrontati gli interrogativi che ci eravamo poste alla fine dell’anno scolastico precedente. Eravamo ansiose di vedere i bambini e il loro comportamento dopo tre mesi di lontananza dal nido. Ci riconosceranno come figure di riferimento? Avranno imparato a parlare a comunicare? Riconosceranno l’ambiente nido?
Il 2 settembre i bambini hanno ricominciato insieme a tutti gli altri. Dopo qualche giorno ci siamo rese conto che non avevano dimenticato nulla di ciò che erano riusciti a conquistare prima di rimanere a casa; tuttavia i problemi restavano sempre tanti: non parlavano, non camminavano, non avevano in pratica fatto nessuna nuova conquista.
Ci siamo rese conto che avremmo dovuto fare velocemente il punto della situazione e trovare delle strategie per affrontare questi problemi, uno alla volta, pur osservandoli nel loro insieme.
Innanzi tutto il primo obiettivo era quello di far loro raggiungere una certa autonomia motoria. Ci siamo confrontate con la psicomotricista e abbiamo operato attraverso:
– l’uso del triciclo, che stimolava i bambini all’equilibrio, alla posizione seduta, al controllo e al coordinamento delle braccia e delle gambe;
– l’uso di giochi da spingere per raggiungere il coordinamento braccia-gambe nello spazio;
– l’uso del pallone come stimolo al movimento del camminare.

Una situazione educativa per loro stimolante, priva di ripetitività, era costituita dalla musica e dal canto.
I loro occhi, spesso assenti, si animavano e l’atteggiamento del corpo era meno rigido, seguivano anche gesti più elementari come il battito delle mani.
Un’altra attività molto coinvolgente per i due bambini è stata il laboratorio di burattini. In particolare l’animazione. Nel momento in cui l’insegnante ha estratto il burattino e lo ha animato, i loro occhi sono diventati particolarmente attenti, cosa che non avevano mai fatto, e il loro sentimento di gioia e di allegria si è manifestato intero per la prima volta.
M. batteva felice le mani, V. muoveva in continuazione tutto il corpo, senza la solida rigidità, e rideva; ambedue non hanno mostrato né paura né diffidenza nei confronti del burattino, anzi si sono avvicinati entusiasti, si sono lasciati toccare e lo hanno toccato.
Tutto questo ci ha entusiasmato e ci ha reso consapevoli del fatto che qualcosa, dentro di loro, si era acceso. Eravamo sulla buona strada? Un altro atteggiamento che ci ha lasciato perplesse era “il non pianto” dei bambini, sia come reazione fisica al dolore fisico, sia come manifestazione di disagio o di richiesta di aiuto.
Ci siamo chieste allora che tipo di rapporti c’erano con gli altri componenti della famiglia; il pianto è una richiesta di relazione, potrebbe essere che il “non pianto” esprima una mancata relazione?
Questa domanda ce la siamo posta perché, parlando con la madre ci siamo rese conto di quanta difficoltà aveva nel rapportarsi e nel relazionarsi con i figli.
Abbiamo allora provato a “intervenire” sulla madre: “Quando esci dalla sezione salutali, quando li prendi in braccio guardali in volto, hanno bisogno di molte coccole”.
Con il passare del tempo questi messaggi sono stati recepiti quasi completamente.
Eravamo però alla fine dell’anno scolastico e, pur essendo piuttosto soddisfatte del percorso fatto, eravamo anche consapevoli di quanta strada restasse ancora da fare.

Terzo anno

I bambini, nonostante abbiano tre anni, resteranno al nido un altro anno, su indicazione dell’équipe medica. I cambiamenti che li aspettano sono molto grandi: cambiano completamente sezione e per circa un mese rimane una sola figura di riferimento dell’anno precedente.
Questa situazione ha portato un grande disagio che V. in particolare manifestava piangendo, alternando al pianto il frequente dondolio o sull’altalena o sul cavallino a dondolo.
Questa situazione dondolio rappresenta per V. motivo di sicurezza e consolazione. M. invece si è subito reinserito al nido come gli altri bambini nell’arco di due o tre giorni.
In questi primi giorni abbiamo lasciato che esplorasse la nuova situazione a modo suo lasciandolo consolare con il dondolio che abbiamo cercato pian piano di limitare.
Da queste prime osservazioni abbiamo pensato che, quest’anno, il nostro intervento dovesse improntarsi innanzi tutto sul consolidamento delle abilità acquisite e poi sullo sviluppo delle potenzialità di ciascun bambino per facilitare il passaggio alla scuola materna.
Anche quest’anno una buona relazione affettiva fra bambini e adulti è la chiave di volta che permette di entrare nel loro mondo.
Con il passare del tempo l’azione di contenimento si manifesta in un doppio fronte: da un lato deve essere stretta nel momento in cui pretendiamo concentrazione e attenzione, dall’altro lato l’azione si deve allargare nel momento in cui i bambini si sentono in difficoltà, non riescono a risolvere da soli una situazione e con lo sguardo, l’atteggiamento corporeo e qualche suono richiamano la nostra attenzione.
Un’attività specifica che ha aiutato i bambini, oltre che a socializzare, a perfezionare le conoscenze tattili, è stato il percorso tattile: il lavoro si è svolto a piccoli gruppi ed è stato ripetuto per alcuni giorni consecutivi.
Inizialmente M. e V. non erano interessati al gioco proposto, solo quando l’educatrice ha pensato di togliere loro le scarpe e le calze e li ha invitati a fare il percorso hanno cominciato a interessarsi gradualmente al gioco, scoprendo le varie sensazioni tattili e dimostrando preferenze per alcune.
Queste attività hanno migliorato, secondo noi, lo stile di relazione fra M. e V. e gli altri bambini, soprattutto M. sta imparando a fare i conti con ciò che sta fuori di sé, sta imparando ad aspettare il proprio turno, sta imparando ad aspettare il piatto nel momento del pasto, sta imparando a uscire insieme agli altri bambini dalla sezione, sta imparando che esistono dei tempi da rispettare. Tutto questo ha comportato e sta comportando un notevole dispendio di energie sia nostre sia sue.

Oramai siamo alla fine dell’anno scolastico e anche alla conclusione di un ciclo fondamentale per i bambini.
Ci rendiamo conto che ora hanno ciascuno una propria personalità e nell’arco dei tre anni hanno sviluppato un proprio percorso di conoscenza e acquisito una propria identità, ponendo le basi per la loro crescita futura.
Questo ciclo è stato fondamentale anche per noi educatrici che, alternando momenti di disagio o sensazioni di incapacità, impegno nella ricerca e nel confronto, abbiamo cercato di raggiungere ciò che è diverso, di crescere sia umanamente che professionalmente, di metterci in discussione e quindi di confrontarci in continuazione fra di noi e con persone al di fuori del nido.
Abbiamo infatti cercato di creare intorno ai bambini e alla loro famiglia una rete di aiuti che comprendevano oltre a noi educatrici anche l’intervento della psicomotricista e del neuropsichiatra, dell’assistente sociale, dell’assistente sanitaria e della pediatra, per tutto ciò che comportava la quotidianità e l’aiuto esterno al nido.
Così, grazie a questi bambini, abbiamo scoperto che lavorare in équipe con persone di altre strutture ci ha fornito l’occasione per confrontarci e conoscere altre realtà che, comunque, erano direttamente partecipi del vissuto dei bambini.
Per noi è stata un’occasione molto stimolante e forse unica.

 

Il diario dell’esperienza educativa è stato realizzato dalle educatrici dell’asilo nido “Astamblam” di via Guarnaschelli, Piacenza: Domenica Bellissimo e Paola Cortimiglia.
Alla realizzazione del percorso educativo hanno partecipato altre educatrici di sezione: Dora Manfrinati, Romina Pavesi e Maria Scali e due educatrici di sostegno, Barbara Gentili e Rosaria Gagliano.
La realizzazione dell’opuscolo è stata curata dall’Ufficio Infanzia del Servizio Formazione del Comune di Piacenza.
Coordinamento pedagogico: Luigi Squeri, Donatella Zanangeli.
Si ringraziano per la fattiva collaborazione:
Dott. P. Vampirelli – Neuropsichiatra dell’AUSL, Dott. M. Polledri – Neuropsichiatra infantile AUSL, L. Poggi – Psicomotricista AUSL, I. Fossati – Assistente sociale AUSL.

Comunicare al di là delle parole

Dice la favola: “E la regina mentre stava ricamando si punse un dito e una goccia di sangue bagnò il bianco lenzuolo. Allora la regina pensò: oh come vorrei avere una bambina con le labbra rosse come il sangue, la pelle bianca come la neve, i capelli neri come l’ebano”.
Sono proprio le fiabe a raccontarci così bene come un bambino nasce prima nei pensieri, poi nel cuore e infine nella pancia.
I desideri, i sogni, le paure e le preoccupazioni formano un’immagine interiore forte e radicata, anche se nascosta e spesso non detta che accompagna tutto il percorso fino alla nascita di un bambino/a.
È il “bambino della notte” che è ospite nei pensieri paterni e materni, ed è con questa immagine formata, costruita, sperata, che ogni bambino quando nasce o come si dice, quasi in contrapposizione, viene alla luce, fa in un certo modo i conti.
Le prime comunicazioni che alimentano la vita mentale e fisica sono presenti in questo periodo dell’attesa, oltre le parole possibili, attesa che accompagna il passare dei giorni e crea lo sfondo per il primo incontro tra il bambino e il mondo che lo accoglierà.
È in quel tempo che il genitore prepara il venire al mondo del proprio figlio tra aspettative e titubanze, tra la curiosità di sapere “come sarà”.
Il centro emotivo della casa si sposta: “Un bambino nasce e noi diventiamo padri e madri. Questo avvenimento è diverso da tutti gli altri perché è veramente irreversibile, senza possibilità di ritorno.
Possiamo cessare di essere marito e moglie ma resteremo sempre genitori”, scrive la psicoanalista Silvia Vegetti Finzi nel libro Il romanzo della famiglia.

Nella nostra società il venire al mondo è accompagnato da un carico di promesse di felicità, spesso enfatizzato, spesso anche esasperato da una difficoltà diffusa crescente e generalizzata a confrontarsi con i termini reali del vivere; vivere è sempre affrontare questa mescolanza di aspetti, attivi e passivi, pulsioni vitali e momenti di sofferenza e difficoltà. È come dire a un nuovo essere: ti aspetta un futuro solo di cose felici quando noi sappiamo che invece ci sarà un alternarsi di momenti di felicità e di disagio.

Quando la nascita però è segnata da un tratto diverso, come la presenza di deficit oppure da elementi di sofferenza evidente o anche di incertezza (situazioni non chiare, confuse, ma che comunque indicano qualcosa che non va), questo messaggio simbolico e culturale cambia dolorosamente di segno e ci si trova davanti alla prefigurazione di un futuro solo difficile. L’immagine del bambino “immaginato” e l’immagine concreta si divaricano e la distanza può diventare davvero pericolosa se i genitori non sono aiutati a vedere oltre il dato fisico, a dare parole al proprio dolore, ad aprirsi alla comunicazione possibile.
Perché è bisogno primario di ogni bambino di essere visto, raccontato, accolto in senso ampio come bambino tutto intero, come persona da subito piena di caratteristiche e modi propri. Ogni bambino, tutti i bambini, in un modo o nell’altro si sottraggono alle tabelle di marcia o alle attese precostituite. Si impongono nel mondo come una presenza nuova e imprevista.

Uno psicologo inglese, il dottor Laing, ha scritto: “Ogni bimbo è un essere nuovo, un profeta potenziale, un nuovo Principe dello spirito, una nuova favilla di luce caduta nelle tenebre esteriori. Chi siamo noi per poter decidere che per lui non ci sono speranze?”.

E ancora Silvia Vegetti Finzi: “Ciascuno nasce già inserito in un sogno altrui, già parlato da altri discorsi. Il nome proprio, ad esempio, esprime le fantasie, i desideri, le ansie, le speranze della famiglia. È la prima eredità che riceviamo dalla società e non è sempre facile accettarla”.

Per un bambino che ha anche dei deficit questo bisogno è ancora più forte; la ricerca di una sua identità personale vera si situa in un percorso che corre fra due gravi rischi: la negazione della sua situazione (“non ha niente, è uguale agli altri”), oppure all’opposto l’assimilazione totale con la sua condizione di deficit, malattia, difficoltà ( rimane “il bambino è il suo deficit, diventa tutto deficit”).

La strada principale per restituire a questi bambini il senso del loro posto nel mondo è quella di contribuire a costruire un’immagine di identità capace di tenere insieme il presente e il possibile, ciò che si vede e ciò che si intuisce, ciò che è definito (e anche definitivo) e ciò che è potenziale.

Claudio Imprudente, del Centro Documentazione Handicap di Bologna ha una tetraparesi spastica che gli impedisce totalmente di camminare o correre, ma non di spostarsi; che gli impedisce totalmente di parlare ma non di comunicare, perché utilizza una lavagnetta trasparente sulla quale sono incollate le lettere dell’alfabeto e attraverso questa lavagnetta Claudio Imprudente ogni giorno incontra persone, lavora nelle scuole e con i bambini, comunica col mondo.
Ancora oggi Claudio Imprudente fa riferimento alla prima informazione reale che la sua famiglia ha avuto di lui, quindi anche la prima immagine data dalla società che si è incontrata/scontrata con il “bambino della notte” e si presenta ai convegni così: “Salve sono un geranio!”, spiegando poi: “Mi presento così facendo memoria di ciò che era stato detto a mia madre al momento della mia nascita dal famoso luminare di turno ‘Signora guardi, suo figlio è vivo ma resterà per sempre un vegetale’ e come vegetale allora ho scelto di essere un geranio”.

Della famiglia di Claudio Imprudente e in particolar modo della sua mamma mi ha sempre colpito la capacità di non fermarsi solo a quello che si vedeva e che si vede, e che è così forte: sua madre non ha mai rinunciato per lui a possibilità future e a capire, anche nel dolore e nella fatica, che c’era un bambino da accogliere, per cui valeva comunque la pena di fare dei pensieri pieni di futuro, anche se in quel momento sembrava più facile negargli questo futuro, soprattutto di fronte alla frase “Suo figlio è vivo ma resterà per sempre un vegetale”.

Il primo importante compito che la scuola dell’infanzia ha nell’incontro con il bambino o la bambina che ha anche dei deficit, che arriva prima nella scuola e poi nella singola sezione, è anche quello di accogliere un bambino nella sua interezza e contribuire a restituirgli un’immagine non monodimensionale ma pluridimensionale.

Scrive Andrea Canevaro, uno degli studiosi che più ha contribuito all’integrazione scolastica, lavorativa e sociale dei bambini e degli adulti con deficit: “Un bambino o una bambina disabile ha bisogno di essere riconosciuto per quello che è, accettando il deficit come un dato irreversibile e che va conosciuto, approfondito il più possibile. Ha bisogno di ridurre le sue difficoltà, trovando le risorse in sé, negli altri, nell’ambiente in cui vive, nei coetanei con cui ha amicizia, gioca, studia. È prima di tutto un bambino o una bambina”.

Nello stesso libro che si intitola Quel bambino là… Scuola dell’infanzia, handicap e integrazione si trova la testimonianza di un insegnante delle Scuole dell’Infanzia del Comune di Ravenna: “Ho conosciuto Dario quando si è presentato insieme ai suoi genitori per il colloquio iniziale al momento del suo inserimento a scuola. Con Sonia, la collega della sezione ho vissuto i tanti dubbi e i pensieri che ci premevano. Primo fra tutti il rapporto con l’insegnante di sostegno: è già faticoso andare d’accordo in due figurarsi in tre, e poi saremmo state in grado di gestire la situazione, ce l’avremmo fatta? Alla fine del percorso posso dire che ho imparato che Dario è un bambino, un bambino Down per mappa cromosomica, ma un bambino. È stato questo scoprirlo bambino, con il suo ritardo psicomotorio, con le sue paure ad affrontare le esperienze, con la sua difficoltà ad organizzare gli apprendimenti ma anche con il suo abbandonarsi fiducioso a chi gli si avvicinava con calore che mi ha aperto gli occhi: c’era Dario nella nostra sezione, non la sindrome di Down.”

Allora questo è il riconoscimento: stiamo incontrando un bambino, una bambina; sembra una situazione scontata, ma non lo è affatto in presenza di deficit e se non si dà per scontato questo riconoscimento, scopriremo che è il presupposto fondamentale per una buona comunicazione e risponderà anche a tutti i nostri dubbi, le nostre fatiche, le nostre domande: faccio bene, faccio male a fare così? Ma questo bambino lo posso toccare? Vorrà farsi coccolare? Mi capirà se parlo? ecc.
Senza negare il deficit possiamo riconoscere e scoprire l’essere bambini nonostante il deficit.

Crediamo e sentiamo di avere bisogno di indicazioni molto tecniche, specialistiche, “speciali” per metterci in relazione con i bambini che hanno anche dei deficit.
Ma quali sono i motivi di questo bisogno così forte di rassicurazione e indicazione? Perché questo bisogno è così forte, al punto che manda in crisi tutte le nostre competenze, le nostre conoscenze abituali, proprio quelle che utilizziamo tutti i giorni nel nostro lavoro e che fanno parte del nostro bagaglio professionale, della nostra professionalità e da cui attingiamo spontaneamente in situazioni “normali”?

Perché facciamo così fatica tutti noi, genitori e insegnanti, tecnici e persone in generale, a porci nei confronti di chi ha un deficit con un atteggiamento educativo che riconosca la possibilità di essere prima di tutto bambini, adolescenti, adulti e poi anche anziani?

Lo psicologo genovese Carlo Lepri, che lavora da anni sull’inserimento lavorativo delle persone adulte disabili, si chiede: “Qual è il motivo vero che ci rende così maldestri? Lo dico partendo da me stesso, perché sono sentimenti ed emozioni che nonostante 25 anni di esperienza io ritrovo ancora nel mio cuore. Come mai facciamo così fatica a essere tranquilli nei rapporti con una persona disabile? Perché diventiamo tutti un po’ maldestri, non siamo più spontanei come normalmente si è nel momento in cui si incontra una persona “normale”? Io credo che questo sia uno dei temi che porta al centro di una complessità psicologica veramente importante.
Questa fatica, questa ‘maldestrezza’ relazionale, che ci coglie nel momento in cui ci confrontiamo con qualcuno che non è conforme, che non è normale, che non rispecchia la nostra normalità, è un’esperienza che bisogna riconoscere per potere gestire”.

Questo è un passaggio importante per tutti noi: riconoscere i nostri stati d’animo significa poterli gestire, non esserne troppo spaventati e quindi poter cominciare a ragionare del perché li viviamo.

Facciamo fatica perché il rapporto con la diversità rimanda e fa scattare dentro di noi una serie di rappresentazioni mentali che sono proprio dentro di noi, profondamente dentro di noi: sono immagini interne ma che hanno anche un risvolto di immagine sociale altrettanto forte.
Faccio un esempio che ci può aiutare a capire e quindi a riconoscere questa maldestrezza, questi timori e paure, a volte rifiuto, che investono tutta la nostra persona, la nostra comunicazione verbale e non verbale, che “agiscono”, anche contro la nostra intenzione, nelle nostre azioni e nei nostri atteggiamenti.

L’esempio riguarda la rappresentazione che “vede” il bambino disabile come “malato”.
Questa rappresentazione è il risultato di un approccio medico, pseudo-scientifico che considera la disabilità come una malattia.
È una rappresentazione che consente una costruzione parziale dell’identità perché se una persona è malata non può confrontarsi pienamente con i ruoli sociali della vita quotidiana.
Infatti ci sono moltissimi disabili che sono in cura perenne, sono in continua riabilitazione: fisioterapia, ippoterapia, musicoterapia, iniziano dalla primissima infanzia e non finiscono più.
Perché se una persona “normale” “va a cavallo”, va solo a cavallo, ma se lo fa una persona “disabile” fa “ippoterapia”, e se io vado in palestra faccio “ginnastica”, ma se lo fa una persona disabile fa la “fisioterapia”?
Allora cosa c’è dietro a questo tipo di atteggiamenti, che ci portano verso la costruzione di una identità di una persona che è sempre in riparazione, che è sempre malata, che deve continuamente fare delle cose per poter stare meglio?

Questa rappresentazione amplifica i meccanismi normali di cura e protezione che noi abbiamo nei confronti di tutti i bambini e però fa sì che per i bambini anche con deficit scattino meccanismi di iperprotezione che spesso durano ben al di là dell’età infantile. Quindi una rappresentazione di un bambino sempre da curare, assistere e proteggere. Che quindi corre il rischio di veder ridotte le proprie possibilità di fare esperienze e intrecciare relazioni in maniera anche casuale, non finalizzate a qualcosa, riconosciute come terapeutiche o di apprendimento, ma semplicemente come vivere anche casualmente le occasioni della vita. Pensiamo a quanto è stato importante il Ruolo della Casualità nella formazione della nostra identità.

Questa rappresentazione, così forte e che corre attraverso gli anni, attraverso le epoche temporali, ha una profonda influenza sui nostri pensieri e sulle nostre emozioni e ci limita nell’immaginare quei bambini là come bambini con un futuro possibile diverso che non sia quello del deficit e della malattia, quindi in cura continua.

Riflette ancora Carlo Lepri: “Se uno è pensato come un bambino e se è rappresentato come un bambino malato, da proteggere difficilmente potrà diventare ‘grande’.
Alla lunga farà il bambino, cioè si adatterà a questa rappresentazione, a questo ruolo che in qualche misura gli altri pensano vada bene per lui. Allora i bambini e le bambine disabili non diventano grandi o fanno fatica a diventare grandi non perché non sono intelligenti o perché hanno difficoltà specifica o di settore, ma perché non sono immaginati dagli altri, da tutti noi, come possibili adulti. Perché non abbiamo dentro la testa questa possibilità, questo immaginario verso l’adultità. La costruzione dell’identità adulta comincia da quando uno è piccolo e comincia dalla capacità di immaginarlo che hanno gli educatori, in senso molto ampio, i genitori, il gruppo familiare, e tutti gli educatori che una persona incontra nella sua vita, gli insegnanti.
Alla capacità che tutte queste persone hanno di immaginare la persona disabile come persona che può diventare adulta, e di lavorare per questo, mi verrebbe da dire usando una bella immagine giapponese: ‘vedendo la foresta prima ancora che ci siano gli alberi’.  E questo se ci pensiamo è quello che è accaduto a ciascuno di noi.
I nostri genitori hanno sognato la nostra crescita, il nostro diventare grandi. Quando un genitore chiede al proprio figlio ‘Cosa vuoi fare da grande’ che cosa gli sta dicendo? Gli sta dicendo ‘Io penso che tu puoi diventare grande, che puoi diventare adulto, che puoi avere un ruolo sociale’. Cioè apre un credito, apre una fiducia. Questa è una cosa che facciamo per i bambini normali, perché non lo facciamo con la stessa naturalezza per i bambini disabili?”.

Si apre un credito dunque, si dà fiducia e questo ci fa capire molto bene i bisogni primari che hanno tutti i bambini e le bambine, soprattutto in un contesto educativo e scolastico come la scuola dell’infanzia, bisogni che sono quelli di avere accanto adulti che li possano immaginare dentro un futuro possibile, che solamente allora è molto probabile che lo diventi.

Questa è responsabilità nostra, non c’entrano le intelligenze di ognuno o gli impedimenti psicomotori; la possibilità di tutti i bambini e le bambine di diventare grandi è legata agli atteggiamenti, alle esperienze, ai rapporti affettivi e a quelli educativi.
Si può diventare adulti anche essendo pochissimo intelligenti. Occorre però incontrare le persone capaci di mettere in atto delle “immagini” e una comunicazione che aiuti a costruire, e prima ad accettare, il percorso di crescita.

In comunicazione non esiste il “migliore”, o il “peggiore”. Esiste soltanto il “personale”: ogni comunicazione, infatti, è personale. E per questo, unica. Diversa.

E la presenza di un deficit-diversità può mettere in crisi qualsiasi struttura della comunicazione, a partire proprio dal linguaggio.
Da sempre per definire le persone che hanno anche dei deficit ci si situa tra un eccesso di attenzione e un eccesso di tecnicismi, spesso per la paura di offendere.

Proprio per la potenzialità del linguaggio di formare pensiero e come stimolo a ribaltare concetti, credo che il fuoco non sia tanto nella parola che cambia (handicappato, persona con bisogni speciali, disabile, persona con deficit, diversamente abile, ecc.) ma si trovi nel significato che la parola ha per ognuno di noi quando la usiamo.
E forse, come nel caso di persone con diverse abilità, si cercano termini e definizioni non tanto per sostituire quelli vecchi ma per sostituirne i significati, o almeno per cercare di indicarne altri, non validi forse in assoluto ma in quanto “stimolatori” di nuove percezioni, di nuove immagini, che con uno scarto linguistico spostano l’attenzione dal deficit alla persona.

Qualche volta la comunicazione, verbale e non verbale, può allontanare piuttosto che avvicinare: la paura di sbagliare, di comportarsi in un modo non appropriato, di ferire anche, portata agli eccessi, rischia di bloccare alla nascita la spontaneità di una qualsiasi relazione e dunque di bloccare anche la capacità di attingere dalla nostra professionalità, dalle nostre capacità dimostrate tutti i giorni con i nostri bambini nelle scuole.

L’incontro con i deficit, o con una forma di “diversità” percepita come tale, ci chiama in causa però ben oltre le parole che usiamo, siamo immersi in una comunicazione profonda (per le parti di noi che vengono chiamate in causa), complessa (per tutti gli elementi di diversa natura che la compongono) e estremamente coinvolgente.

E non si può non comunicare, comunicare è un verbo che non ha il suo opposto: la nostra immagine è informazione. Questa comunicazione può non essere intenzionale, eppure esiste. Generalmente, quando si parla di “comunicare” si pensa subito alle parole: in realtà, non esiste una comunicazione verbale isolata, è sempre accompagnata dalla comunicazione non verbale che può rafforzare le parole che pronunciamo, ma anche renderle ambigue o perfino smentirle. Sono i metalinguaggi, il tono della voce, il nostro sguardo, la gestualità a comunicare per noi, anche ciò che non diciamo.

Una comunicazione metalinguistica che comunica ciò che siamo anche in modo indipendente da ciò che vogliamo. E tale comunicazione fa riferimento ai nostri modelli interiori, coscienti e inconsci, alle nostre emozioni, alle nostre rappresentazioni mentali.
Ed è questo il primo nodo da sciogliere: essere consapevoli che nel nostro modo di comunicare, noi trasmettiamo, in aggiunta a ciò che razionalmente pensiamo, una parte del nostro mondo interiore, delle emozioni che le persone e le situazioni suscitano in noi.
Fare i conti con questo spazio emotivo, saper riconoscere quando siamo attraversati da aspettative e curiosità, da tensioni o preoccupazioni ci permette di evitare il più possibile il rischio di irrigidire o rendere stereotipato il nostro stile comunicativo.

È questo che un insegnante mette in gioco di sé quando si fa carico/incontra un bambino/a anche con dei deficit o in difficoltà: la capacità di ascolto e accoglienza inizia dal riconoscimento di ciò che un incontro di questa natura “muove” nei propri pensieri e nelle proprie immagini mentali ed emotive. 
Occuparsi di un bambino/bambina anche con deficit è un compito impegnativo e forte perché costringe a occuparci di ciò che questo provoca in noi, non solo di ciò che il bambino o la bambina porta nella scuola, in sezione, nel gruppo dei coetanei.
Questo è un grande tema da condividere, che tocca la sfera professionale e quella emotiva, personale: ciò che provoca in noi.
È un compito che tocca il nodo centrale della professionalità dell’insegnante e del ruolo della scuola dell’infanzia.

Altro compito importante che la scuola ha è quello di favorire l’apprendimento e la crescita evolutiva, in senso lato. Il processo di apprendimento però è insieme di ordine cognitivo ed emotivo, questo vuol dire che anche le emozioni che un bambino vive e sente condizionano le sue possibilità di crescere e di apprendere: se sono emozioni difficili, immagini negative, senza un futuro immaginato e possibile, questa crescita sarà rallentata e, nei casi più gravi, del tutto impedita. Ecco come il ruolo delle emozioni personali è sempre fondamentale in un processo d’apprendimento, anche quando sono gli adulti a percorrerlo.

Compito della scuola è permettere anche un’elaborazione collettiva di queste esperienze.
Allora proviamo a dare un senso al perché ci si occupa di bambini e bambine che segnalano e hanno, vivono, dei disagi, dei deficit.
Gli insegnanti se ne occupano non in nome del fatto che sono brave persone (anche se si spera che lo siano) o perché animate da spirito caritatevole. Né perché debbano diventare quasi terapeuti, quindi con il compito di prendere in carico il problema, sanare una situazione o riparare qualcosa di rotto, ma proprio per poter svolgere il ruolo di accompagnamento, supporto alla crescita e allo sviluppo cognitivo ed emotivo che è lo specifico di questa professione.

Giuseppe Pontiggia ha scritto nel libro Nati due volte: “Questi bambini nascono due volte. Devono imparare a muoversi in un mondo che la prima nascita ha reso più difficile. La seconda dipende da noi, da quello che sapremo dare”. E, vorrei aggiungere, potremo dare anche a partire dalla nostra disponibilità ad accettare che l’incontro con un bambino o una bambina che ha anche dei deficit inizia prima dell’incontro fisico, della prima volta che vedo quel bambino là, ma inizia dall’immagine di diversità che abbiamo dentro.

Per questo diventa importante avere spazi e tempi per comunicare tra noi queste immagini, mettersi intorno a un tavolo e avere la possibilità di parlare, di ascoltare, condividere e confrontare le proprie emozioni, la fatica e la gioia: questa è una delle prime strade conoscitive che abbiamo per aiutarci a capire cosa stiamo facendo e perché lo facciamo; quindi anche cosa trasmettiamo con la nostra comunicazione non verbale.
Penso in questo momento a difficoltà o risorse che hanno a che fare con noi come persone e che come persone mettiamo in gioco nell’incontro e nel lavoro con la diversità.
È in questa dimensione che si situa la creazione di momenti di riflessione sulle difficoltà che si incontrano nel gestire quotidianamente la disabilità; fare un lavoro sulle nostre immagini vuol dire cercare di capire che cosa si sta vivendo e avere più chiaro possibile questo quadro emotivo significa anche trovare delle piste concrete operative, nonché elementi arricchenti per altri colleghi.

Suggerisce Gianfranco Staccioli, docente di Tecnologie dell’apprendimento dell’Università di Firenze: “La via d’uscita sembra essere quella di accettare l’idea che la realtà non sta nelle cose, né nella mente che le elabora, ma nell’atto stesso di discuterle e di confrontarsi con il loro significato.
Per far questo occorre da una parte porre in discussione il famoso proverbio ‘vedere per credere’ e cambiarlo in ‘credere per vedere’. Insomma come dice Goodman: ‘La realtà si crea, non si trova’”.

È questo il primo strumento di lavoro per tutti noi che condividiamo spazi, tempi di vita e lavoro con bambini e adulti che hanno anche dei deficit: l’attivazione di una riflessione su quello che si fa e si vive. Molte cose si sanno, poche diventano esperienza vera. Sta in questo passaggio, dal fare quotidiano all’avere un’esperienza di questo fare, la possibilità di un vero apprendimento che non ci lasci ogni volta con la sensazione di non essere adeguati o di stare sulla difensiva.

Per concludere vorrei fare una riflessione su un punto che mi sta molto a cuore, uno fra gli strumenti fondamentali per chi lavora in ambito educativo e scolastico: la documentazione. Forse è anche la meno amata ma dobbiamo fare il possibile per allontanarci dal concetto di documentazione come un’azione inutile, noiosa.

Io penso a una documentazione attiva, e che diventa attiva proprio perché può rimandare alle nostre esperienze, anche e soprattutto emotive, parla di noi, su di noi, delle nostre fatiche, delle nostre difficoltà e degli eventuali piaceri che abbiamo incontrato nelle nostre modalità di lavoro concreto.
Una documentazione costruita giorno dopo giorno, che possa raccontare le situazioni, positive o negative, confuse o particolari, per esempio la prima volta che abbiamo incontrato una bambina o un bambino che ha anche dei deficit o che ha anche altre abilità, nella nostra scuola o nella nostra sezione.
È la possibilità di costruire “un’intelligenza collettiva e reticolare”, da cui attingere, e che si compone delle esperienze e degli scambi con altri nella nostra situazione, strumento ancora più necessario a mio avviso dell’aspettarsi le indicazioni da parte di un’intelligenza superiore, l’esperto che dovrebbe saperne di più. E credo che tutte le istituzioni scolastiche dovrebbero impegnare sempre più risorse e strumenti per favorire questo tipo di documentazione.
Non parlo solo di conoscere i possibili progetti che hanno funzionato, che pure sono importanti anche se difficilmente replicabili in contesti diversi, penso soprattutto a una documentazione chiamata a curiosare, a indagare, a mettere in relazione la propria situazione e a come si è affrontato le situazioni che di volta in volta abbiamo incontrato, il nostro contesto e come le abbiamo vissute noi personalmente, altrimenti si rischia di farle rimanere conoscenze e modalità che sopravvivono solo nella memoria dei protagonisti e poi si disperdono.
Proprio per non dover ricominciare tutto da capo, ogni volta, sapendo e ignorando al tempo stesso, che a pochi chilometri di distanza da noi altri colleghi si sono o si stanno confrontando con difficoltà ed emozioni così simili alle nostre.

Relazione “Comunicare oltre le parole” presentata al Seminario Abilità-Disabilità in Età Evolutiva, Comune di Roma, Dipartimento XI°-III^ U.O, Piano di aggiornamento rivolto al personale docente della Scuola dell’Infanzia del Comune di Roma, 19 marzo 2005, 8° Municipio di Roma.

Filmografia

Tutti i bambini sono uguali, ma tutti sono diversi

 

Il film, realizzato grazie al finanziamento della Mercedes Benz Spa di Roma, s’inserisce all’interno di un progetto complessivo che l’Associazione Italiana Persone Down Sezione di Roma Onlus realizza da diversi anni ed è finalizzato a favorire l’inserimento dei bambini Down nelle scuole dell’infanzia.
Attraverso le storie di Lorenzo, Miriam, Benedetta, Federico, Tommaso e Alice, viene illustrato il percorso educativo di questi bambini nella scuola materna. Genitori, insegnanti e operatori della riabilitazione raccontano le loro esperienze descrivendo gli obiettivi, le strategie e le emozioni che hanno accompagnato la relazione con i bambini.

Ideazione: Rosa Ferri, Anna Scala
Collaborazione Scientifica: Rosa Ferri, Anna Scala, Alessia Carleschi, Cinzia Miccinesi, Maria Citti
Regia: Franco Letti
Disegni: Bruno Bozzetto
Riprese: Piero Saulini
Montaggio: Alessandro Cerquetti
Produzione: A.I.P.D. Sezione di Roma Onlus e Mercedes Benz Spa Roma

Durata: 37’
Anno di produzione: 2004

 

 

Insieme al nido

Il film costituisce parte integrante di una collaborazione tra l’Associazione Italiana Persone Down Sezione di Roma Onlus e l’Assessorato alle politiche per la città delle Bambine e dei Bambini del Comune di Roma, realizzatosi dal 1999 a oggi, e si inserisce all’interno di un progetto più complessivo finalizzato a favorire l’inserimento dei bambini Down negli asili nido del Comune di Roma.
Attraverso le storie di Alice, Edoardo, Federico, Lorenzo e Miriam viene illustrato il percorso educativo che ha permesso a questi bambini di vivere serenamente l’esperienza quotidiana del nido. Le loro storie sono anche indicative della possibilità di allestire un progetto condiviso tra le varie parti interessate (genitori, educatrici, operatori della riabilitazione e Associazione) che diventa così la modalità più idonea per lavorare e crescere insieme.

Ideazione: Rosa Ferri, Anna Scala, Francesca Sauro
Regia: Franco Letti
Disegni: Bruno Bozzetto
Riprese: Piero Saulini
Montaggio: Alessandro Cerquetti
Produzione: Comune di Roma e A.I.P.D. Sezione di Roma Onlus

Durata: 28’
Anno di produzione: 2001

 

L’Associazione Italiana Persone Down Sezione di Roma Onlus è una Associazione di genitori e tutori di persone con sindrome di Down. Vuole essere soprattutto un punto di riferimento per genitori, operatori socio-sanitari e tutti coloro che sono interessati alla sindrome di Down.
Gli scopi principali dell’A.I.P.D. Sezione di Roma Onlus sono: favorire il pieno sviluppo sociale, mentale ed espressivo dei bambini con Sindrome di Down; aiutare le famiglie a confrontarsi e a risolvere i problemi connessi con la nascita del bambino Down, la sua educazione, il suo inserimento nella scuola e nella società.

Le copie dei filmati possono essere richieste a:
Associazione Italiana Persone Down Sezione di Roma Onlus
Viale delle Milizie, 106 – 00192 Roma
Tel. 06/370.02.35
E-mail: aipd.sezionediroma@tiscalinet.it

Riviste

 

 

BAMBINI 2004

 

Mara Manetti, Lucia Merione, “Famiglie con un bambino disabile”
In: n. 2, febbraio, pag. 18

Agostino Frigerio, “Il Piano Personalizzato”
In: n. 3, marzo, pag. 12

Gabriella Bernini, Simona Colpani, “Disabili adulti vanno al Nido”
In: n. 6, giugno, pag. 33

 

INFANZIA 2004

 

Andrea Canevaro, “Difficoltà disprassiche nella crescita e scuola dell’infanzia”
In: n. 1.2, gennaio-febbraio, pag. 18

Laura Desirée Pozzi, “Gioco e handicap: ludoteche e giocattoli speciali”
In: n. 4, aprile, pag. 42

Sandro Bastia, “Sostenere i sostegni”
In: n. 6, giugno, pag. 48

“Esperienze europee di buone pratiche per l’inclusione”. Da un’intervista di Patrizia Pace alla dott.ssa Sandra Lucietto
In: n. 9.10, settembre-ottobre, pag. 53

 

 

 

Bambini, imparate a fare le cose difficili

Nel 2003 l’Assessorato alle Politiche Sociali, immigrazione, progetto Giovani e Cooperazione internazionale della Regione Emilia Romagna ha promosso una ricerca sulla qualità dell’integrazione delle persone disabili nelle strutture educative e scolastiche, condotta dalla Rete dei Centri di Documentazione Integrazione della stessa regione.
Nella prefazione al testo che raccoglie i risultati della ricerca, Bambini, imparate a fare le cose difficili. Alunni disabili e integrazione scolastica di qualità, Andrea Canevaro riflette sul nodo cruciale della costruzione di rapporti fra le famiglie e le strutture educative e scolastiche, rapporti che passano dall’ascolto e scambio di informazioni per aprirsi anche a possibili prospettive di compartecipazione nel/del processo di integrazione.

La ricerca si avvia proprio con un’attenzione alle richieste delle famiglie e quindi alla possibilità che attraverso le famiglie delle persone disabili, e non solo, si legga una domanda e si leggano anche le risorse presenti nelle famiglie. Iniziare una riflessione e una ricerca mettendo al primo posto le famiglie crediamo sia un’indicazione precisa di un modo di intendere l’integrazione. Quest’ultima non si realizza unicamente con le tecniche (vedremo quanto questo aspetto sia presente e necessario e possa essere ancora incrementato), ma richiede anche possibilità di collegamento con le competenze non professionali, con le reti sociali, che iniziano dalle famiglie.
È interessante capire che cosa accade quando un familiare entra in contatto con le strutture educative e che cosa porta come attesa ma anche, purtroppo, come possibile frustrazione.  Potendo registrare solo la voce dei familiari, dovremmo non considerarla un assoluto; dai familiari, però, sappiamo che le prime informazioni sono di grande importanza – non lo scopriamo con questa ricerca, ma lo ribadiamo – e abbiamo l’impressione che sulle prime informazioni ci sia ancora molto da lavorare. È un lavoro che vorremmo si svolgesse all’insegna della nuova classificazione internazionale del Funzionamento della Disabilità e della Salute, ovvero dell’ICF (questo è l’acronimo nella dizione anglofona), come proposta e sostenuta dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, ovvero OMS.
Ci interessa richiamare questo aspetto perché riteniamo che dalle prime informazioni possa nascere una dinamica di valorizzazione delle capacità di funzionamento di un soggetto disabile, e quindi la possibilità di circoscrivere le disabilità secondo i contesti e di non farle diventare l’assoluto di un individuo. Abbiamo questa preoccupazione perché riteniamo che sia difficile – anche se nell’esperienza si registra più spesso di quanto sia nella coscienza – capire che una persona disabile non è tale in assoluto, ma in rapporto ai contesti in cui vive, o le viene richiesto di vivere, e secondo certi stili.
Ed è da quella prima informazione che può nascere il partenariato, ovvero una capacità di viversi come risorsa reciproca da parte dei familiari, degli educatori e delle educatrici, insegnanti e tecnici: risorsa reciproca in un accompagnamento, con la possibilità di raccogliere informazioni valorizzanti e quindi non solo segnali di limiti, di impossibilità e di incapacità ma anche le piccole e grandi scoperte di come poter migliorare quel funzionamento, anche se il termine potrebbe essere criticato perché sembra che si parli di una macchina e invece si parla di individui.
Dalle prime informazioni e dal partenariato bisogna ricavare alcuni elementi che sono leggibili nella ricerca: la possibilità che una famiglia si rivolga al nido e si avvii così una collaborazione con una struttura esterna, è accompagnata da qualcosa che viene chiamato anche in un punto della ricerca senso di colpa. Crediamo che si possa fare una distinzione tra due elementi che possono costituire il senso di colpa: uno riguarda la considerazione di rivolgersi al nido per sottrarsi, in qualche modo, al proprio dovere genitoriale e quindi sentendosi carenti di capacità, di tempo, di forza, di energia per sostenere a pieno il ruolo genitoriale negli anni che precedono la scolarità. L’altro è che, come familiari, ci si domanda quanto sia opportuno rivelare, mostrare, il proprio figlio, o figlia, disabile e quanto invece non sia opportuno risparmiare a quella creatura l’impatto del confronto con i coetanei normali.
C’è in qualcuno anche la speranza che il tempo permetta di aggiustare qualche cosa. La possibilità che ci siano dei sensi di colpa, permette di far procedere il partenariato a partire dall’idea – e l’abbiamo spesso espressa – che nei genitori debba esserci una considerazione di accettazione ma accompagnata da una ribellione all’handicap.
Il concetto di relazione d’aiuto è entrato nella pedagogia della scuola. Alcuni studiosi (Dupuy-Walker e Dupuis, 1991) hanno individuato due punti, esaminando i diversi stili d’aiuto in ambito scolastico:
– i processi che attivano cambiamenti significativi sono realizzati da persone con qualità di comunicazione interpersonale indicati come “condizioni facilitanti”: empatia, calore, autenticità;
– le persone d’aiuto hanno ruoli significativi, come insegnanti non precari, operatori sociali con anni di esperienza, che possono essere decisivi per la crescita della personalità o per il suo deterioramento.
E la relazione d’aiuto si collega al concetto e più ancora alle pratiche di empowerment, come capacità di prendere in mano il proprio destino, di mobilitarsi a partire dalle proprie risorse.
Abbiamo spesso fatto una distinzione tra un deficit, un dato da considerare irreversibile quindi da apprendere lentamente e pazientemente a vivere per tutta una vita, e gli handicap, mancanze, difficoltà, ostacoli che bisogna imparare ad aggirare, a superare, ad abbattere. Su questo crediamo che sia necessario coinvolgere le famiglie. È giusto che le famiglie si ribellino agli handicap. Se la ribellione esiga pazienza o impeto dipenderà dalle situazioni e anche dai temperamenti, dalla cultura, dalle opportunità, da ciò che sta anche attorno a una famiglia; ma sicuramente bisogna cercare di reagire all’handicap, e non accettare.
Quell’accettazione che veniva proclamata molte volte da tecnici, in passato, non la ritroviamo, e questo ci fa molto piacere, nella ricerca che abbiamo la possibilità di leggere. Abbiamo però la necessità di rimarcare quanto viene espresso da alcuni dei familiari e anche dalle educatrici della prima infanzia: molte volte non vi è un vero e proprio modo di stabilire una collaborazione quanto uno scambio di informazioni; viene sottolineato questo aspetto che sembra essere limitato, non sembra uno scambio che porta a una buona cooperazione ma una modalità di stabilire e mantenere delle distanze.
È positivo il fatto che ci sia uno scambio di informazioni, e avremmo potuto anche trovare una denuncia di assenza. Non avendola trovata, speriamo che questo non sia un limite della ricerca ma sia un dato di realtà. Vorremmo però immaginare che al di là di queste indicazioni precise in chiave positiva, vi siano anche le richieste di maggiori informazioni, di una capacità di stabilire dei rapporti di informazione molto più attivi, dinamici e di permettere la costruzione di competenze complesse. Da parte dei familiari come da parte delle educatrici della prima infanzia vi sono le competenze del quotidiano e sono importanti, ed è importante che abbiano la possibilità di avere il partenariato che dicevamo da parte dei tecnici.
La ricerca ci mostra una situazione che francamente ci aspettavamo peggiore; occorre comunque vigilare sempre affinché la difficoltà economica presunta o dichiarata dai servizi non arretri le capacità di collaborazione, non riduca le possibilità di stabilire dei contatti anche solo di informazione. Ma riteniamo che, sulla prima infanzia, il quadro che esce dalla ricerca contenga qualche elemento di rassicurazione.
Scopriamo che ancora è necessario riflettere, operare perché non vi sia una dicotomizzazione tra gli aspetti relazionali e gli aspetti cognitivi. È la possibilità che vi sia, attraverso l’azione dei coetanei in una dinamica di reciprocità, una possibilità di sviluppo di capacità cognitive, imitative, con la possibilità che ci siano stimoli che proprio la vita tra coetanei produce; che ci siano una certa quantità di mediatori, in parte previsti e in parte no: alcuni previsti da chi ha delle responsabilità educative, e altri scoperti ed emersi dal gruppo dei coetanei che vive nella stessa situazione.
Alcuni studiosi (Albanese, Migliorini, Pietrocola, 2000) hanno potuto constatare che la concezione dell’intelligenza degli insegnanti è caratterizzata secondo due ampie prospettive e credenze: innatista e costruttivista.
Interessante è considerare come viene percepito l’errore nelle due prospettive. In quella innatista, l’errore è l’indicatore di un’incompetenza intrinseca dell’allievo. Nella prospettiva costruttivista, è indicatore di una fase superabile del processo di apprendimento. Ne deriva che la prospettiva innatista fa scarso riferimento al concetto di metacognizione; e la prospettiva costruttivista, magari anche senza servirsi del termine metacognizione, ne utilizza le funzioni: la pianificazione, la previsione, la guida, il controllo dei risultati, il mantenimento e la generalizzazione delle strategie.
In linea di massima, è chiaro che la prospettiva costruttivista è più adatta all’integrazione, o sviluppo inclusivo. In questa prospettiva, la ricerca dei mediatori è aperta. “Si può parlare di partecipazione periferica legittimata perché ogni membro della comunità, dal meno esperto e, metaforicamente, periferico al più competente e centrale, gode di uguali diritti di appartenenza a esse, alle sue pratiche, ai suoi discorsi e alle sue risorse umane e tecnologiche. In tali comunità, i costruttivisti sociali individuano, secondo la terminologia di Vygotskij, zone multiple di sviluppo personale, in grado di promuovere i talenti individuali, espliciti e impliciti” (Albanese, Migliorini, Pietrocola, 2000, p. 150).
La possibilità è che ci sia quella fiducia ingenua che porta a dire che tra i bambini c’è sempre un buon rapporto. È vero fino a un certo punto; bambini e bambine risentono e sono condizionati dal clima che gli adulti creano, e se il clima fosse fortemente competitivo e discriminatorio – cosa che non registriamo nella ricerca – ci sarebbe da pensare che i bambini e le bambine siano a loro volta capaci di costruire competitività discriminatoria e quindi emarginazione. Questo non risulta. È un elemento fondamentale per capire quanto i mediatori diventino importanti nella strutturazione di tempo e di spazio. Crediamo quindi che sia necessario capire quanto i rituali, che sono più facili da scoprire nella scuola dell’infanzia che nei percorsi della scuola dell’obbligo e superiore, diventino un modo di ancorare l’integrazione a possibilità di stare assieme finalizzate; non stare assieme senza nessuna meta, ma per imparare, per capirsi, per comunicare, quindi per stabilire anche delle relazioni tecniche con i saperi, che possono essere tecniche incarnate, inserite nella quotidianità della vita.

Tratto da: CDH Bologna e CDH Modena (a cura), Bambini, imparate a fare le cose difficili. Alunni disabili e integrazione scolastica di qualità, Trento, Erickson, 2003.

L’integrazione come opportunità per tutti

Integrazione per me vuol dire…

Crescere in un contesto che ti riconosce e ti accetta come persona e con cui puoi interagire in modo attivo e positivo, stabilendo relazioni e lasciando tracce della tua presenza.

Chi fa riuscire l’integrazione
L’integrazione è il successo di diverse persone e professionalità che sono di fatto coinvolte nel processo di integrazione. Il bambino/a con deficit per è, da subito, al suo ingresso nella scuola dell’infanzia, inserito in una trama di rapporti e relazioni umane chiamate a svolgere il proprio ruolo in modo positivo ed efficace, nella consapevolezza della reciproca interdipendenza:
– il bambino/a con deficit;
– gli altri bambini;
– la famiglia;
– il gruppo dei genitori;
– le istituzioni;
– il coordinamento;
– le insegnanti della sezione;
– gli altri operatori del plesso scolastico frequentato dal bambino, nei loro diversi ruoli professionali;
– la scuola che viene prima è quella che viene dopo.
L’integrazione c’è quando queste componenti si ascoltano e si confrontano in una situazione delicata e complessa quale è quella del bambino/a disabile; l’integrazione non è superare tutti i problemi, ma cercare di farsene carico, ognuno con il proprio ruolo.

Pensando a un bambino disabile o che ha delle difficoltà, sono contento quando…

Sorride e manifesta di venire volentieri a scuola; quando mostra piacere nel fare delle cose; quando scopro un canale per comunicare con lui o lei; quando tutto ciò diventa un patrimonio condiviso dagli altri bambini e in questo caso intendo in modo particolare il gruppo sezione e li arricchisce nelle loro competenze relazionali; sono consapevole che ciò non può avvenire se non con un coinvolgimento della famiglia.

Pensando a un bambino disabile o che ha delle difficoltà, mi riesce difficile…

Confrontarmi con le famiglie e con gli operatori della AUSL, mantenendo chiaro il ruolo della scuola e quello mio di insegnante. Dobbiamo da un lato salvaguardare l’unicità del bambino in difficoltà e dall’altro non perdere mai di vista ciò che ci compete. Il che vuol dire accettare di guardare il bambino anche attraverso altri punti d’osservazione, cercando di scorgere gli elementi utili per elaborare un progetto fortemente tarato sulla propria realtà scolastica. Questo è difficile; è una sfida che continuamente rimanda al ruolo specifico della scuola nel processo più ampio dell’integrazione. Un altro aspetto difficile è quello dell’ansia: pensare di non star facendo abbastanza per quel bambino/a, di non dedicare a lui o lei energie e tempo particolari e/o individuali.

Quale direzione principale può prendere il ruolo educativo per sostenere e favorire l’integrazione reale di un bambino o una bambina disabile nella comunità educativa?
Il ruolo educativo dovrebbe, secondo me, prendere due direzioni fondamentali: quello dell’osservatore attento e quello del “regista” che organizza il contesto in cui opera ed è inserito il bambino disabile.
Il ruolo di osservatore è fondamentale per leggere e interpretare i messaggi che il bambino/a disabile invia. È attraverso un’osservazione attenta e mirata che si esplica grande parte del ruolo dell’educatore con tutti i bambini e le bambine a noi affidati; la lettura dei bisogni, l’attenzione alle strategie comunicative messe in atto, le dinamiche relazionali che si attivano nel contesto, le preferenze e i gusti che ogni bambino manifesta, la relazione specifica con ogni adulto (i genitori, le insegnanti di sostegno e non, il personale ausiliario), la prevalenza di alcuni canali percettivi rispetto ad altri, l’interesse e la curiosità manifestati costituiscono le tracce da osservare per accompagnare ogni bambino nel suo processo di crescita.
Nel caso del bambino con deficit l’osservazione è lo strumento privilegiato, attraverso il quale si cerca di definire e interpretare la sua realtà aiutandolo a collocare se stesso nel contesto e a modificare il contesto per favorirne lo sviluppo.
L’altra direzione, conseguente a quella che ho appena detto, è quella della regia educativa. Il ruolo di regista si esplica attraverso la costante valutazione della funzionalità del contesto in riferimento agli obiettivi condivisi, con la famiglia e con gli operatori della scuola.
A tale fine, fondamentale è lo strumento della programmazione che, a seguito di un’attenta verifica, ripensa al contesto per cogliere gli elementi da rafforzare e quelli eventualmente da modificare, elaborando in questo modo un progetto flessibile e il più possibile adeguato ai bisogni di crescita del bambino/a in difficoltà.

Quali sono gli elementi costanti che caratterizzano in modo positivo ed efficace le buone pratiche educative per l’integrazione di bambini e bambine disabili?
– Tenere sempre presente il bisogno di autostima e di riconoscimento che caratterizzano i bambini e le bambine disabili o comunque in situazioni di disagio;
– creare quindi un contesto favorevole alla comunicazione dentro la sezione e più in generale del plesso scolastico, attivando strategie mirate a evitare l’isolamento o l’esclusione;
– l’organizzazione di spazi, tempi e materiali assumono quindi grande rilievo nell’accoglienza dei bambini/e con deficit e per la successiva graduale acquisizione delle autonomie; lo spazio dovrà essere attrezzato per accogliere le caratteristiche psicomotorie del bimbo con deficit e tenere conto di eventuali ausili e supporti;
– conoscenza approfondita della realtà familiare e sociale in cui il/la bambino/a è inserito/a tramite colloqui individuali, prima della frequenza e durante l’anno o gli anni scolastici; la pratica del colloquio, unitamente alla disponibilità all’ascolto giornaliera sono fondamentali anche per instaurare una relazione di fiducia con la famiglia, che non deve mai sentirsi esclusa e/o prevaricata nella gestione del rapporto col figlio;
– conoscenza di tutti gli operatori che hanno avuto o hanno esperienza del bambino con deficit e della sua famiglia per attivare rapporti di collaborazione mirati all’uso sinergico delle proprie competenze e informazioni; ognuno deve avere il proprio ruolo, ma tutti devono interagire con gli altri proprio per salvaguardare l’unicità del bambino ed evitare inutili e dannose confusioni della famiglia;
– coinvolgimento degli insegnanti di sostegno (quando ci sono) nella programmazione e nella responsabilità globale della sezione, al fine di non rendere esclusivo il suo rapporto col bambino con deficit (anche se in alcune realtà non si può, secondo me escludere un rapporto privilegiato);
– il ruolo dell’insegnante di sostegno deve essere reso chiaro alla famiglia del bambino con deficit e alle altre famiglie fin da subito.

Il bambino disabile e il gruppo dei compagni: quali scambi reciproci sono possibili? Cosa si dà, cosa si riceve?
Il bambino disabile riceve accoglienza e accettazione nelle varie modalità di rapporto; gli altri bambini/e ricevono delle opportunità derivanti dal misurarsi in un rapporto con qualcuno diverso da loro: la capacità di osservare, di fare attenzione a gesti e linguaggi non verbali, la possibilità di prendersi concretamente cura di qualcuno, la possibilità di superare la diffidenza verso la diversità e di assumere atteggiamenti collaborativi. Non a caso ho parlato di opportunità, perché ritengo che nel processo di integrazione non debbano esserci forzature nelle relazioni. Il bambino con deficit può e deve essere aiutato a interagire con gli altri, ma ogni bambino deve essere e sentirsi libero di scegliere di entrare o no in relazione attiva con lui. Penso inoltre che tutto il gruppo sezione sia avvantaggiato dalla presenza di un bambino con deficit nei ritmi e nei tempi di vita e di attività della sezione. Non è un elemento da sottovalutare se si pensa ai ritmi frenetici generalmente subiti da bambini e bambine del nostro tempo. Voglio dire che una maggior attenzione al benessere individuale non può che giovare a tutti, adulti compresi.

Quali sono le preoccupazioni più forti della famiglia di un bambino con deficit e o in difficoltà che entra al nido o alla scuola materna?
Occorre, secondo me distinguere: quando la famiglia non ha ancora accettato il problema del bambino, la preoccupazione più forte è quella di ricevere risposte sulla sua “normalità” e sulla propria adeguatezza a fronteggiare la situazione; in questo caso l’atteggiamento è quasi sempre iperprotettivo e teso a difendere il bambino dagli interventi esterni; quando invece il deficit è conclamato e accettato come tale, la maggiore preoccupazione è quella che il proprio figlio/a non possa venir accettato dai compagni e rischi l’isolamento.

Quali strategie sembrano più efficaci per coinvolgere la famiglia in un percorso di comunicazione e collaborazione positiva?
Valorizzare le risorse della famiglia aiutandola ad acquisire fiducia in se stessa e nel proprio bambino o bambina, valorizzando gli aspetti positivi della crescita e le cose che il bambino sa e sa fare. Accogliere le indicazioni della famiglia come risorse su cui impostare progetti, cercando strumenti ponte fra la realtà della casa e quella della famiglia. È inoltre indispensabile un atteggiamento di disponibilità umana, che non giudica, che non dà ricette, che cerca di contenere l’ansia della famiglia sostenendola laddove c’è bisogno.

Dare voce alla “moltitudine silenziosa”

Lo sento da oltre il muro che ogni suono fa passare,
l’odore quasi povero di roba da mangiare,
lo vedo nella luce che anch’io mi ricordo bene

di lampadina fioca, quella da trenta candele,
fra mobili che non hanno mai visto altri splendori,
giornali vecchi ed angoli di polvere e di odori,
fra i suoni usati e strani dei suoi riti quotidiani:
mangiare, sgomberare, poi lavare piatti e mani.

Lo sento quando torno stanco e tardi alla mattina
aprire la persiana, tirare la tendina
e mentre sto fumando ancora un’altra sigaretta,
andar piano, in pantofole, verso il giorno che lo aspetta
e poi lo incontro ancora quando viene l’ora mia,
mi dà un piacere assurdo la sua antica cortesia:
"
Buon giorno, professore. Come sta la sua signora?
E i gatti? E questo tempo che non si rimette ancora…”

Mi dice cento volte fra la rete dei giardini
di una sua gatta morta, di una lite coi vicini
e mi racconta piano, col suo tono un po’ sommesso,
di quando lui e Bologna eran più giovani di adesso…

Io ascolto e i miei pensieri corron dietro alla sua vita,
a tutti i volti visti dalla lampadina antica,
a quell’odore solito di polvere e di muffa,
a tutte le minestre riscaldate sulla stufa,
a quel tic-tac di sveglia che enfatizza ogni secondo,
a come da quel posto si può mai vedere il mondo,
a un’esistenza andata in tanti giorni uguali e duri,
a come anche la storia sia passata fra quei muri…

Io ascolto e non capisco e tutto attorno mi stupisce
la vita, com’è fatta e come uno la gestisce
e i mille modi e i tempi, poi le possibilità,
le scelte, i cambiamenti, il fato, le necessità
e ancora mi domando se sia stato mai felice,
se un dubbio l’ebbe mai, se solo oggi si assopisce,
se un dubbio l’abbia avuto poche volte oppure spesso,
se è stato sufficiente sopravvivere a se stesso…

Ma poi mi accorgo che probabilmente è solo un tarlo
di uno che ha tanto tempo ed anche il lusso di sprecarlo:
non posso o non so dir per niente se peggiore sia,
a conti fatti, la sua solitudine o la mia…

Diremo forse un giorno: “Ma se stava così bene…”
Avrà il marmo con l’angelo che spezza le catene
coi soldi risparmiati un po’ perché non si sa mai,
un po’ per abitudine: “Eh, son sempre pronti i guai”.
Vedremo visi nuovi, voci dai sorrisi spenti:
”Piacere”, “È mio”, “Son lieto”, “Eravate suoi parenti?”
E a poco a poco andrà via dalla nostra mente piena:
soltanto un’impressione che ricorderemo appena…

Francesco Guccini, Il Pensionato
Da: Via Paolo Fabbri 43, 1976

Sarà che da anni ormai quasi tutte le mattine prendo l’autobus, il numero 37, che passa proprio davanti alla casa dove abita il Pensionato.
Sarà che la memoria è a cerchi concentrici e movimenti sussultori che spingono lontano ciò che è presente e fanno rinvenire ciò che appare collocato in un altro tempo, in un’altra situazione.
Sarà che di passato in queste parole c’è poco e niente.
Così questa canzone orgogliosamente demodè, questa storia senza fronzoli è riapparsa fuori dall’angolo in cui si era riparata e di nuovo mi riprende il piacere di entrare in punta di piedi in quei cortili, di ascoltare le chiacchiere inutili e sommesse, di godermi la malinconia di certi modi di fare, di antichi gesti desueti e gentili. Di ascoltare un racconto fatto delle piccole ovvietà straordinarie della vita di tutti i giorni… "Buon giorno, professore. Come sta la sua signora? E i gatti? E questo tempo che non si rimette ancora… Mi dice cento volte fra la rete dei giardini
di una sua gatta morta, di una lite coi vicini”
. È una voce che rompe la solitudine, è una voce che cerca il dialogo. Dialogo tante volte impossibile tra chi “ha mondo e chi ha tempo”.
Non hai mai notato come quelli che conosciamo hanno o il mondo o il tempo, ma mai entrambi? Quelli che hanno un mondo, un’occupazione, un lavoro, uno spazio in cui mettere la propria vita hanno sempre poco tempo. È la conditio sine qua non di chi ha un suo mondo. Ma le persone che hanno tempo: le vedove sedute sulle panchine dei giardini, i vecchi, le donne i cui figli sono a scuola, anche quelle i cui figli se ne sono andati di casa… tutte queste persone hanno tempo in abbondanza, ma non hanno un mondo loro. O si possiede il mondo o il tempo, mai entrambi”.
(A. Cross, Un delitto per James Joyce, Milano, La Tartaruga Nera, 1986)
Questa ripartizione tra esseri “produttivi” e “improduttivi”, la presenza di fasce di persone che, per motivi differenti, vengono collocate (e si percepiscono) ai margini delle organizzazioni sociali sono tratti che ritroviamo come caratterizzanti questi anni in questa parte del mondo.
Abbiamo letto sempre più spesso e continuiamo a farlo, in contributi scientifici e nelle ricerche sociologiche, di termini come invisibilità sociale, nuove povertà. Sono parole forti che cercano di rendere il senso della marginalità sociale ed esistenziale in cui sono collocate sempre più persone. Allo stesso tempo sono parole astratte che permettono di comunicare in modo immediato fra chi di abitudine frequenta le pagine specialistiche. Come ogni categoria, il loro uso si propone di mettere ordine fra le dinamiche caotiche dell’esistente, in questo senso possono diventare strumenti utili a orientarci. Sono, però, anche sensori di un rischio che tocca ognuno di noi in modo più ampio: il rischio di banalizzare la complessità delle vite, di tutte anche di quelle apparentemente più lineari, di vedere nelle persone solo i tratti unificanti, di cogliere quella dimensione monocorde che toglie vitalità e riduce l’identità a una sorta di stereotipo radicato.
E così per molte donne e uomini, bambine e bambini viene coniata una definizione pesante come “invisibilità sociale”: occupano uno spazio ma non hanno un luogo.
Non so dire se il riconoscimento di sé sia un diritto, certo mi appare sempre più come un bisogno: bisogno di essere guardati e non solo passati dagli sguardi di chi, come noi e con noi, attraversa un pezzo di strada. È un’azione semplice, guardare, e così complicata. Se guardo un’altra persona apro un credito di fiducia, anche momentaneo, permetto anche a lei di guardarmi e, fosse anche per un istante, di comunicare, mettere in comune, con me.
È una cosa difficile mettere in comune. Me ne accorgo ogni volta che distolgo lo sguardo, che cambio marciapiede. È un meccanismo irriflesso, mossa di difesa per fronteggiare disagio, imbarazzo. Per mettermi al riparo dietro una linea invisibile e persistente di separazione.
In una conversazione di qualche tempo fa, diceva Erri De Luca che la letteratura è una sorta di dialogo interiore con la moltitudine silenziosa che abbiamo dentro. Non so a quale statuto testuale
(né mi interessa granché scoprirlo) appartengano le canzoni. So però che sempre canzoni come Il Pensionato danno voce alla “moltitudine silenziosa”, la rendono concreta, vicina, un’altra faccia di noi. Protagonisti di narrazioni in forma di canzone, anche i Pensionati e tanti altri con loro riemergono dall’invisibilità e diventano parte dell’esperienza collettiva.

Specialmente allenatori

Secondo voi quali sono le difficoltà che s’incontrano allenando a una disciplina sportiva una persona disabile o un gruppo di disabili? Questa è una domanda che faccio nei corsi di formazione per diventare istruttori di attività sportive per disabili. Ecco le risposte che mi vengono date: rapporti con i genitori, conoscenza tecnica approfondita della disciplina, conoscenza degli attrezzi e ausili per praticare la disciplina, disponibilità di manuali tecnici, ruolo di educatore-istruttore e problematiche connesse, conoscenza dei singoli atleti e delle loro problematiche e quindi dei loro limiti psico-fisici, allenare contemporaneamente atleti con caratteristiche diverse sia fisiche sia psicologiche, rapporti con i genitori (questo lo scrivo due volte perché è un problema molto grande, che vale doppio, dato l’importante legame dovuto alla situazione di bisogno), problemi di organizzazione dell’attività, trovare collaboratori e strutture adatte, stimolare e motivare gli atleti, organizzare attività con altri gruppi, ecc. Dopo aver scritto questo elenco su una lavagna chiedo invece quali siano le difficoltà nell’allenare un gruppo “normale” e, sorpresa delle sorprese, l’elenco delle difficoltà è molto simile al primo. Questo non vuol dire che sia proprio tutto uguale, sicuramente alcune difficoltà nel caso delle persone con deficit sono amplificate e le conoscenze devono essere maggiormente approfondite (e trovare dei manuali documentativi in proposito è veramente molto più difficile visto che in Italia ce ne sono pochissimi!).
Attualmente esistono innumerevoli realtà che si occupano di formazione: Associazioni, Enti di promozione, Federazioni, Università; capire quali siano quelli più attendibili, più qualificati e più utili non è semplice.
Con la legge 15 luglio 2003 relativa alla costituzione del Comitato Italiano Paralimpico, il C.I.P. diventa l’unico organo di riferimento a livello nazionale: secondo l’art. 2, comma h, del suo statuto (“Compiti, funzioni e finalità del C.I.P.”) il C.I.P. coordina e gestisce l’attività di formazione e aggiornamento dei quadri tecnici e dirigenziali e didattico-corsuale in generale per persone disabili, collaborando specificatamente in tal senso con gli uffici e strutture del C.O.N.I. competenti, con il M.I.U.R. (Ministero dell’Istruzione, Università, Ricerca), gli I.U.S.M. (Istituto Universitario di Scienze Motorie) e le Università.
In verità non è così semplice, ancora siamo lontani da questo, perché attualmente sono poche le realtà dove l’organizzazione formativa ha radici ben salde. Spesso la formazione su attività sportive per disabili è affidata alla volontà degli istruttori di acquisirla. Questi ultimi non provengono certamente dalle facoltà di scienze motorie, mentre più facilmente possono essere amici, obiettori di coscienza, volontari delle Associazioni, istruttori di altre discipline che vengono per caso a contatto con gruppi sportivi o atleti disabili, che magari frequentano lo stesso impianto sportivo e che si allenano l’ora dopo, oppure atleti che a fine carriera diventano tecnici.
Con questo non voglio dire che non ci siano allenatori formati in modo giusto o incapaci, voglio solo dire che fino a oggi ha avuto più peso la volontà rispetto all’organizzazione.
Un buon allenatore deve proporzionare le difficoltà alle capacità dell’atleta, non annoiare mai, stimolare le attività cambiando gli esercizi, essere paziente, conoscere bene le persone con cui ha a che fare, ascoltare tutti e poi decidere da solo, insegnare ed educare attraverso lo sport, ma anche imparare dallo sport. Ricordarsi che dopo lo sport c’è la vita quotidiana, con le sue difficoltà, e un successo nello sport può favorire il superamento di un ostacolo quotidiano, senza scordarsi però che una delusione può fare l’inverso.
Oggi la televisione offre ai nostri atleti, e mi riferisco soprattutto a quelli più giovani, un’immagine carismatica del campione da imitare, che lo porta a identificarsi in lui, allontanandolo dalle problematiche della sua realtà: l’allenatore deve essere lì a “riportarlo sulla terra”.
Questi sono discorsi che valgono per qualsiasi istruttore, sia per disabili che per normali;è per questo che vorrei che non si pensasse a un allenatore speciale, a uno che debba conoscere cose “marziane” per avere a che fare con quelli lì, a corsi speciali da sostenere per stare in palestra o in piscina, o sul prato o sulla pista da sci con quei ragazzi speciali, ma a qualcuno con le giuste conoscenze per fare le cose normalmente come fanno tutti; diverse perché le attività sono diverse (come se un istruttore di ping pong volesse insegnare ai ragazzi ad andare a cavallo).
Mi ricordo che parecchi anni fa, quando ero molto giovane e già allenavo un gruppo di ragazzi in carrozzina, e i miei colleghi mi dicevano: “Ma come fai? Sei bravissimo!”, e io rispondevo che facevo esattamente come loro, ed era veramente così. Non bisogna essere degli sprovveduti, naturalmente, per seguire queste attività, ed è sicuramente importante formarsi a educare con lo sport. Così come è bene che nessuno s’improvvisi allenatore, ma non bisogna pensare che nel caso dei disabili sia più difficile prendere una decisione, o aver paura che questa sia sbagliata; può capitare e comunque nell’incertezza la regola del buon senso è sempre quella più giusta.
Lo sport è un modo positivo per migliorare la nostra vita, e oggi è soprattutto in mano alla televisione e ai giornali, ma per fortuna è anche in mano a coloro che ce lo insegnano. Fatene un buon uso.