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autore: Autore: (a cura di) AILeS

16. AiLeS Associazione per l’Inclusione Lavorativa e Sociale delle persone svantaggiate.

AiLeS è un’associazione per promuovere l’inclusione lavorativa e sociale delle persone svantaggiate, senza distinzioni di condizione personale, età, genere, etnia, religione, cultura e paese di provenienza, che assume come finalità prevalente la progettazione, programmazione, organizzazione, realizzazione di: attività formative-orientative, corsi di formazione professionale, tirocini formativi, borse lavoro, azioni di accompagnamento e di supporto all’apprendimento di competenze relazionali e prestazionali facilitanti l’inserimento occupazionale mirato, con particolare riguardo alle situazioni soggettive di più grave disagio e rischio di emarginazione.
Ne fanno parte:
Accaparlante cooperativa sociale a r.l. Onlus www.accaparlante.it
Anastasis cooperativa www.anastasis.it
Csapsa cooperativa sociale servizi educativi formativi www.csapsa.it
Gavroche associazione di volontariato www.facebook.com/associazione.gavroche
La carovana cooperativa sociale www.lacarovanacoop.com
L’orto cooperativa sociale www.cooperativalorto.com
Piazza Grande cooperativa sociale www.piazzagrande.it
Sea coop cooperativa sociale Onlus www.seacoop.coop
SIC Consorzio di iniziative sociali

6. La prospettiva dell’innovazione sociale partecipata. Il valore delle esperienze sostenute da AILeS

di Walther Orsi, comitato scientifico AILeS

Le ragioni che richiedono un cambiamento
La crisi del welfare, legata a motivazioni economiche, alle difficoltà di garantire equità, universalismo ed efficacia dei servizi, è ormai evidente ai cittadini. Le difficoltà della politica e delle istituzioni nel rispondere a questa crisi spesso sono state gestite attraverso processi di esternalizzazione dei servizi, da parte del pubblico verso il terzo settore. Questo processo ha contribuito a esportare, ma a volte a ‘mimetizzare’, molte contraddizioni e problemi legati a tale crisi. Nel contesto dell’Emilia Romagna, il terzo settore ed in particolare la cooperazione sociale, hanno fornito un contributo molto importante nell’ambito del sistema del welfare, attraverso la gestione di servizi particolarmente complessi e con utenti multiproblematici, in una situazione caratterizzata da risorse limitate e da bisogni sociali crescenti.
La crisi del sistema di welfare è stata gestita soprattutto grazie al prezioso contributo del terzo settore e degli operatori che spesso però ne hanno subito le conseguenze in termini di perdita di motivazione, passione e senso dell’attività professionale.
Nella situazione odierna, in cui alcune forze politiche non sembrano consapevoli del ruolo importante svolto in questi anni dal terzo settore, che anzi viene demonizzato (in particolare le onlus), è fondamentale reagire, riflettendo con la massima onestà e trasparenza sulle ragioni di tale crisi, innanzitutto per comprendere il disagio di chi opera nei servizi, ma anche per sviluppare, insieme agli operatori e ai cittadini, un percorso teso a salvare e a rinnovare il sistema di welfare.
E’ venuto il tempo della consapevolezza del rischio di un progressivo smantellamento del patto fra cittadini-welfare-istituzioni, ma anche del grande patrimonio di motivazioni, valori, risorse umane e sociali su cui si reggono i servizi, il terzo settore ed in particolare la cooperazione sociale.
Questa situazione di crisi può rappresentare però anche l’occasione per un profondo cambiamento dei paradigmi di riferimento. Infatti è entrato in crisi non solo il ruolo del welfare, ma soprattutto il sistema delle relazioni fra sviluppo e welfare, perché non è più credibile che quest’ultimo possa rispondere a tutti gli effetti perversi del sistema economico.
Si rende necessario un nuovo modello che faccia riferimento a: benessere, salute, inclusione sociale. Questi indicatori non possono essere di esclusiva competenza del sistema dei servizi, ma si determinano solo attraverso nuove sinergie e collaborazioni fra un “welfare di comunità” e un ”altro sviluppo”, inteso a livello economico, ma anche sociale, culturale ed etico. Inoltre la costruzione del bene comune e della qualità della vita in un territorio richiede una cittadinanza attiva e una responsabilizzazione dei cittadini nel loro ruolo di imprenditori di welfare.
Il motore del nuovo modello è rappresentato da un’innovazione sociale partecipata, in grado di valorizzare il capitale diffuso di creatività e di invenzione sociale dei cittadini e degli operatori, di promuovere nuove imprenditorialità, di generare lavoro a partire dai bisogni sociali delle persone e delle comunità. Tale modello è centrato sulla necessità di nuove collaborazioni fra istituzioni, imprese profit, terzo settore, per connettere e conciliare le rispettive logiche di riferimento (redistribuzione, scambio, reciprocità).
Questa prospettiva di cambiamento assegna un ruolo chiave al terzo settore perché è in quel contesto che, da sempre, si sperimentano azioni sinergiche fra attori sociali orientati da molteplici logiche di riferimento. In particolare la cooperazione sociale si propone di conciliare la logica dello scambio, propria di un’impresa, con quella redistributiva, propria di chi eroga servizi di welfare, ma anche con quella della reciprocità che si fonda sulla partecipazione, sulla mutualità, sulle relazioni.

Alcune prospettive di lavoro per l’innovazione sociale partecipata
Le criticità che si evidenziano in alcune esperienze sostenute da Ailes non possono nascondere la grande rilevanza di tali progetti che si fondano su un’ampia collaborazione fra gli attori del pubblico, del privato sociale e del profit. Rappresentano una vera e propria esperienza innovativa emblematica che non ha ancora esplicitato e rappresentato tutte le sue potenzialità. Può essere utile riprendere, sinteticamente e per parole chiave, i principali nodi che frenano il processo innovativo: la complessità del sistema delle relazioni fra gli attori coinvolti, la burocratizzazione eccessiva delle procedure che allungano i tempi delle varie fasi dei percorsi di inserimento sociale e lavorativo, l’autoreferenzialità di ciascun attore che lo imprigiona nella propria logica di riferimento, il sistema di valutazione dei risultati, centrato prevalentemente sull’indicatore dell’inserimento lavorativo, che non è in grado di misurare la ricchezza dell’impatto sociale di tutte le azioni sviluppate nell’ambito del progetto.
Per dare ulteriore valore al progetto e alle proposte del partenariato di Bologna, si individuano alcune prospettive di lavoro non solo tese ad affrontare i nodi problematici, ma anche a sviluppare tutte le potenzialità che possono emergere facendo riferimento al modello dell’innovazione sociale partecipata. In tale ottica diventa fondamentale: dare voce ed ascolto agli operatori e ai cittadini, cogliendo tutta la ricchezza del loro ruolo, per valorizzare il loro capitale di creatività, progettualità e invenzione sociale; valorizzare le buone pratiche sociali di cittadinanza attiva; migliorare la comunicazione fra i diversi attori sociali anche per ridurre i condizionamenti della burocratizzazione eccessiva; andare oltre le opportunità lavorative esistenti, per promuovere nuove imprenditorialità, per generare lavoro a partire dai bisogni sociali delle persone, e delle comunità; connettere e conciliare le diverse logiche di riferimento delle istituzioni, delle imprese profit e del terzo settore.
Si elencano, qui di seguito e in forma sintetica, alcune prospettive di lavoro esemplificative che vengono definite anche attraverso l’esplicitazione dei risultati attesi. E’ evidente che per dare maggiore concretezza ai percorsi operativi sarà necessario un ampio coinvolgimento degli attori sociali impegnati nel progetto, per cogliere le priorità, per scegliere quelli da sperimentare, per implementarli in relazione alle risorse disponibili e soprattutto per costruire una co-progettazione condivisa.

Verso una più efficace comunicazione, integrazione istituzionale e condivisione di senso
Principali risultati attesi:

  • condivisione del senso di alcune parole chiave, degli orientamenti per migliorare il lavoro di rete, degli indicatori di efficacia, efficienza e qualità;
  • semplificazione dei processi e riduzione degli adempimenti burocratici;
  • sviluppo di nuove strategie di comunicazione dei risultati ottenuti e del valore del lavoro sociale svolto dagli operatori

Costruzione di un sistema di valutazione dell’impatto sociale degli interventi
Principali risultati attesi:

  • poiché la mission del terzo settore, previsto dalla Riforma, non è solo di produzione di servizi, ma anche di promozione di cittadinanza attiva, inclusione e protezione sociale, partecipazione, è fondamentale dare evidenza ad una valutazione che vada oltre la misurazione dell’input, dell’output, dell’outcome, per misurare l’impatto sociale dell’attività svolta dalla cooperazione sociale;
  • superamento dei sistemi di valutazione derivati dalla cultura delle organizzazioni profit, per la costruzione di uno specifico sistema di valutazione multidimensionale che verifichi il valore aggiunto dell’intervento della cooperazione sociale a livello sociale, culturale, economico, istituzionale, etico;
  • elaborazione di un impianto, di metodologie, strumenti ed esperienze emblematiche di misurazione dell’impatto sociale dell’attività svolta nell’ambito dell’operazione Regione Emilia Romagna FSE Inclusione.

Sviluppo di un percorso condiviso di rilevazione della domanda e delle risorse per nuove attività imprenditoriali e di lavoro. Il ruolo strategico della cooperazione sociale
Principali risultati attesi:

  • valorizzazione e rappresentazione del patrimonio di informazioni, conoscenze, competenze degli operatori delle istituzioni, dei servizi di welfare, del terzo settore, in merito ai nuovi bisogni sociali dei cittadini, in termini di benessere e qualità della vita del territorio, ma anche delle idee, proposte, ipotesi di progetti per sviluppare nuove attività imprenditoriali e lavorative tese a rispondere a tali bisogni;
  • organizzazione di eventi ed occasioni di confronto, approfondimento, condivisione, che prevedano la partecipazione di rappresentanti del mondo produttivo profit, delle istituzioni, del terzo settore, in merito all’individuazione di nuove attività imprenditoriali e lavorative nel territorio. La cooperazione sociale e gli attori che fanno affidamento sul sostegno di AILeS hanno una preziosa esperienza al riguardo che va valorizzata ed implementata;
  • attivazione sperimentale di nuovi percorsi imprenditoriali e lavorativi che prevedano la collaborazione e l’integrazione di istituzioni, imprese profit e terzo settore.

Il lavoro di comunità orientato alla promozione di buone pratiche sociali di cittadinanza attiva
Principali risultati attesi:

  • organizzazione (in collaborazione con il Comune di Bologna, i Quartieri, l’associazionismo e il volontariato), in alcuni contesti territoriali, di incontri aperti alla popolazione sui problemi di maggiore rilevanza sociale. Individuazione dei cittadini che si rendono disponibili per qualche forma di impegno per la cura del bene comune e il miglioramento della qualità della vita;
  • organizzazione di incontri di approfondimento, per area problematica, aperti alla partecipazione dei cittadini che si sono resi disponibili per l’elaborazione di proposte di intervento, idee progettuali e attività tese a fornire risposte concrete e partecipate ai nodi emergenti in ciascuna area, ma anche all’inclusione sociale di persone fragili;
  • coinvolgimento dell’associazionismo e del volontariato per promuovere insieme incontri e seminari di informazione e formazione dei cittadini disponibili in merito a come si sviluppa una buona pratica sociale, come si elabora, gestisce e valuta un progetto di cittadinanza attiva, un patto di collaborazione con il Comune di Bologna ed i Quartieri, come si può prevedere la partecipazione di persone vulnerabili e a rischio di esclusione sociale.

Il valore delle esperienze sostenute da AILeS
Le esperienze sostenute da AILeS, nel territorio bolognese, hanno dimostrato come sia possibile sviluppare sinergie positive fra il contesto delle istituzioni e dei servizi di welfare, le imprese profit e il terzo settore, anche se in presenza di alcuni nodi problematici, da non sottovalutare.
Una breve descrizione di tali più recenti esperienze può consentire di comprendere il valore delle stesse, ma anche le proposte di miglioramento su cui puntare per l’attivazione di un processo di innovazione sociale partecipata.
Dal 2015 sul territorio della Città Metropolitana di Bologna (ex provincia) le azioni inclusive in favore delle persone svantaggiate, finanziate dalla Regione Emilia Romagna con il Fondo Sociale Europeo, nell’ambito della Programmazione 2014- 20, sono state gestite tramite ampi partenariati con la supervisione del Comitato Scientifico di AILeS. Nel biennio 2015-16 si è formato un partenariato con titolarità CSAPSA ricomprendente, oltre alle Associate di AILeS, CEIS Formazione, Demetra, Fondazione Aldini Valeriani, Irecoop, Lavoropiu, Oficina, Rupe Formazione, Consorzio SIC, Consorzio Winner, per la gestione di una Operazione rivolta a 390 persone di nazionalità italiana, o immigrati a rischio di esclusione, tramite attività di accoglienza, orientamento, formazione professionale e inserimento lavorativo con tirocini.
La logica della rete collaborante, estesa anche a organizzazioni di supporto del non profit (ad es.: Caritas, Padre Marella) e l’ottima collaborazione con il Comune di Bologna, lo Sportello Lavoro allo scopo attivato, i Servizi pubblici di welfare e di Politica Attiva del Lavoro dei 7 Distretti Socio Sanitari metropolitani, hanno consentito il raggiungimento di buoni risultati per il miglioramento dell’occupabilità delle persone svantaggiate coinvolte, con il 23% di assunzioni al termine dei percorsi svolti.
Non è mancata la collaborazione, oltre alle cooperative sociali aderenti a Legacoop e a Confcooperative già nel partenariato, delle imprese profit, in particolare PMI, che hanno dato la propria disponibilità ad accogliere tirocinanti, contattate tramite la funzione di scouting svolta dagli enti gestori e dai Centri Risorse Territoriali (CRT) della sezione B di CSAPSA.
I CRT sono composti da persone svantaggiate, appositamente formate e assunte per la ricerca tramite contatto telefonico e tracciamento, in un apposito data base informatizzato, delle disponibilità aziendali per stage/tirocini con possibili sbocchi occupazionali, e hanno svolto un compito prezioso per consolidare il rapporto di collaborazione con il mondo del lavoro ordinario.
Alle aziende presso le quali si sono svolti i tirocini è stata offerta la possibilità di essere ricomprese nell’Albo Metropolitano delle Aziende Inclusive, come riconoscimento del merito distintivo dimostrato sul versante delle buone prassi di responsabilità sociale di impresa.
Gli elementi che hanno deputato a favore del buon andamento e degli esiti qualitativi dell’operazione sono riconducibili, in particolare, alla costruzione di percorsi personalizzati che hanno integrato per ogni persona l’accoglienza orientativa, la formazione professionale in piccoli gruppi di 4/5/6 partecipanti e il tirocinio individuale, con un forte supporto di accompagnamento da parte di personale specializzato e tramite la rete di sostegno degli enti del non profit metropolitano.
Tali condizioni di efficacia sono purtroppo venute meno nella successiva edizione relativa al biennio 2017-18, tuttora in corso, a seguito dell’entrata in vigore delle disposizioni contenute nella LR 14/2015. Essa fa riferimento a finalità del tutto condivisibili (programmazione a livello di distretto, integrazione dei servizi sociali, sanitari, del lavoro nella profilatura delle persone, personalizzazione dei percorsi, coinvolgimento del terzo settore, ecc…), ma ha richiesto un eccesso di procedure e adempimenti. Ne è scaturita una condizione non voluta di “burocratizzazione digitale” che logora le migliori energie profuse da tutti: responsabili e operatori delle istituzioni pubbliche coinvolte, dei servizi territoriali, degli enti gestori e delle imprese collaboranti. Gli stessi partenariati di gestione, formati nei vari distretti socio-sanitari, risultano inibiti e depotenziati nella loro capacità di azione.
Servirebbe una migliore comunicazione e una più stretta condivisione, tra equipe segnalanti e enti gestori, delle informazioni relative alle persone da accogliere e alla configurazione dei progetti personalizzati, oltre ad una maggiore valorizzazione della formazione professionale rispetto alla predominanza dei tirocini.
Questi ultimi strumenti di transizione rischiano di convertirsi da misure attive a meramente passive di politica del lavoro, se non sono adeguatamente preceduti da una buona conoscenza di ogni soggetto, se non vengono integrati con moduli propedeutici, o in alternanza di formazione e da azioni di consistente accompagnamento-sostegno nei contesti aziendali e, parallelamente, nei contesti di vita, nelle reti comunitarie e di prossimità.
Tra le proposte contenute in documenti redatti dal partenariato di Bologna, con la supervisione del Comitato Scientifico di AILeS, si sostiene infatti che: “… alla luce di precedenti esperienze di gestione di azioni inclusive, non ultima l’operazione del biennio 2015/16 sopra richiamata, per favorire una maggiore efficacia dei processi di apprendimento e di possibile esito assuntivo, siano più utili percorsi inclusivi integrati che prevedano, a seguito di almeno 2/meglio 4 ore di accoglienza

  • orientamento individuale, moduli di entità oraria significativa (40-60 ore in gruppi da 6) di formazione permanente, propedeutici, o in alternanza alla realizzazione di tirocini di 3 o 4 mesi, con sostegno nei contesti rafforzato (fino a 4 ore settimanali, rispetto alle 2 di solito previste nei Piani Integrati Territoriali)”.

3. Il patrimonio della cooperazione sociale e la sfida del presente

di Flavia Franzoni, comitato scientifico AILeS

Le trasformazioni del nostro sistema di servizi alla persona (sociali, sanitari ed educativi) e le crescenti difficoltà di un mondo cooperativo diventato bersaglio di molte critiche (per colpa di alcuni abusi e non pochi errori) possono mettere a rischio il patrimonio di esperienze e di valori accumulato dalla cooperazione sociale. Per questo AILeS, insieme ad alcuni dei tanti protagonisti del welfare bolognese, ha avviato una riflessione tesa a delineare una sorta di mappatura di problemi e opportunità con cui ci si dovrà confrontare in futuro. Un impegno che può aiutare a rispondere a un interrogativo che tutti si pongono all’interno e all’esterno del mondo cooperativo: “Quanto i giovani si ritrovano oggi nei valori della cooperazione sociale?”. I punti che seguono danno conto dei contenuti dei primi incontri. In essi è emersa la convinzione che soltanto esaminando problemi come la dimensione associativa e il senso di appartenenza dei soci delle cooperative sociali si può arrivare a parlare di qualità del lavoro, di modalità efficaci del rapporto di collaborazione tra cooperazione e pubblica amministrazione così come della capacità di innovare.

Dimensione associativa e senso di appartenenza alla propria cooperativa e al mondo cooperativo
Per affrontare il tema della dimensione associativa della cooperazione sociale è importante collocarsi all’interno del dibattito sulla cooperazione in generale, una esperienza storica lunga e di grande successo, che ha costituito un importante baluardo di difesa dell’occupazione anche durante la più recente crisi economica (salvo le tragedie del settore edilizio). Nel tempo tuttavia le imprese cooperative, in modo “strisciante” e non sempre consapevole, si stanno trasformando. Le cooperative di produzione e lavoro e di servizi così come le cooperative di consumatori, costrette a confrontarsi con l’internazionalizzazione dei mercati, diventano sempre più grandi e via via rischiano di perdere contatti con i valori fondanti della cooperazione. Trasformazioni  analoghe,  seppure  di  minor  misura,  stanno  avvenendo nelle cooperative sociali. È perciò particolarmente urgente vedere in cosa consiste oggi l’aggiunta della parola “sociale” alla parola “cooperazione”. In questo ci può aiutare un po’ di “storia” delle diverse tipologie di cooperative sociali, prima e dopo la legge quadro 381/1991, “Disciplina delle cooperative sociali”, che codificò due tipologie di cooperative: di tipo A e di tipo B. Ricordo  il  dibattito  precedente  all’approvazione  della  legge  proprio centrato  sulla  ricerca  di  una  tipologizzazione  delle  cooperative  operanti nel settore dei servizi sociali che tenesse conto delle diverse esperienze che si erano andate sviluppando a partire dai primi anni ’70, derivanti dalle   diverse motivazioni che muovevano i soci a fondare le cooperative.
In un primo tempo si ipotizzò che la legge facesse proprio il linguaggio utilizzato correntemente fino a quel momento, che distingueva tra “cooperative di servizi sociali”, “cooperative di solidarietà sociale” e “cooperative integrate”. In Emilia Romagna fu il grande sviluppo del movimento cooperativo l’elemento favorente la nascita di cooperative sociali. In primo luogo nacquero infatti “cooperative di lavoro” tradizionali, operanti nel settore dei servizi alla persona con la finalità prevalente di creare occupazione per i soci. Un primo esempio in Italia fu certamente la cooperativa CADIAI (Cooperativa assistenza domiciliare infermi anziani infanzia), istituita a Bologna nel 1974 per iniziativa di ventisette soci, tutte donne, provenienti dal lavoro domestico o da precari lavori di assistenza. L’iniziativa venne stimolata da una particolare circostanza: a seguito di un rapporto di collaborazione dell’Ospedale Ortopedico Rizzoli con la Libia, che prevedeva una serie di interventi chirurgici a cittadini libici, fu necessario regolamentare il rapporto di lavoro di alcune “badanti” che aiutavano i malati nelle loro lunghe degenze. Nel successivo sviluppo delle attività i clienti furono inizialmente privati, e solo in un secondo tempo la cooperativa iniziò la collaborazione con Enti pubblici indirizzati a una progressiva esternalizzazione dei servizi. Al di là della contingenza che sollecitò la nascita della cooperativa, gli elementi qualificanti del “mettersi a lavorare insieme” in forma cooperativa furono la conquista della garanzia di una maggiore tutela del lavoro, e soprattutto un maggior riconoscimento della professionalità dei soci. Altre cooperative nacquero invece per iniziativa di gruppi di professionisti, laureati o diplomati (medici, educatori, psicologi, assistenti sociali, ecc.) che si proponevano di sperimentare nuove modalità di organizzazione dei servizi e di rapporto con la committenza. In tutti i casi sopra descritti si trattava perciò di “cooperative di servizi sociali” (in questo modo erano appunto definite nel dibattito corrente), la cui attività consisteva nel produrre servizi, ma il cui scopo primario era quello di garantire il lavoro ai soci secondo il principio della mutualità interna. In altri territori prevalsero diverse motivazioni.
Molte cooperative sociali di operatori derivarono anche dallo sviluppo e dalla trasformazione di gruppi di volontariato che avevano trovato nella cooperazione una formula giuridica idonea per la propria organizzazione e per stabilire correttamente rapporti di collaborazione con gli Enti pubblici. La finalità principale era quella di offrire aiuto alle persone in difficoltà (mutualità esterna). I soci erano prevalentemente volontari, ma venivano inclusi anche alcuni operatori retribuiti per consentire una migliore organizzazione ed efficacia degli interventi, soprattutto quando questi riguardavano problematiche gravi e complesse. È per questo tipo di cooperative che si utilizzava la definizione di “cooperative di solidarietà sociale”. Tuttavia nel tempo, e su sollecitazione degli stessi Enti locali che via via andavano richiedendo nuove collaborazioni, anche in queste cooperative andò crescendo il numero dei soci-lavoratori retribuiti, tanto da renderle progressivamente abbastanza simili a quelle precedentemente descritte. Completamente diversa fu l’esperienza delle cosiddette “cooperative integrate” che, operando nei più diversi settori produttivi (artigianale, industriale, agricolo), erano finalizzate all’inserimento lavorativo di persone in difficoltà. Esse nacquero per iniziativa di famigliari di persone con disabilità, malati di mente, tossicodipendenti, ecc. o di operatori per garantire il diritto al lavoro alle persone più svantaggiate, nella convinzione che l’esperienza lavorativa facilitasse l’integrazione sociale e il rispetto di sé. Il legislatore scelse invece di distinguere e utilizzare soltanto due tipologie. Le cooperative di tipo A, i cui soci sono operatori che si occupano della gestione dei servizi socio-sanitari ed educativi e che possono comprendere soci volontari (raggruppando sostanzialmente le prime due tipologie sopra indicate, cioè le cooperative di servizi sociali e le cooperative di solidarietà sociale); e le cooperative di tipo B che, attraverso lo svolgimento di attività diverse, sono finalizzate all’inserimento lavorativo di persone “svantaggiate”. Fu giusto unire le esperienze delle “cooperative di servizi sociali” e di “cooperative di solidarietà sociale” in una unica tipologia (identificata dalla legge come “cooperative di tipo A): i confini non erano infatti più poi così chiari perché le cooperative di solidarietà cominciarono a ingrandirsi e ad avere tanti soci lavoratori. Queste diverse origini hanno tuttavia segnato l’evoluzione delle singole cooperative e comunque segnalano diversità nei riferimenti valoriali e culturali rintracciabili anche oggi. In passato c’è stata forse più attenzione a questa progressiva diversificazione delle caratteristiche delle singole cooperative sociali; una diversificazione che è stata anche una ricchezza. Ricordo una ricerca svolta nel 1997 da Iress/Bologna a Reggio Emilia in cui distinguemmo cooperative con diverse caratterizzazioni:

  • “cooperative agenzie sociali di territorio” (in molti casi di tipo A/B) perché capaci di fertilizzare il territorio rispetto alle tematiche degli “ultimi”, perché  capaci  di  fare  una  lettura  precoce  dei  nuovi  bisogni  del  territorio;
  • “cooperative imprenditoriali a rilevanza sociale”, le più grandi a forte caratterizzazione imprenditoriale che gestivano soprattutto servizi per anziani;
  • “cooperative bracci operativi del pubblico/co-attori di una politica sociale specifica” come ad esempio le cooperative di tipo B, nate dalle iniziative di operatori anche pubblici legati alla nuova psichiatria che inserivano al lavoro pazienti psichiatrici.

Dopo  tanti  anni  di  ulteriori  trasformazioni  il  mondo  così  diversificato della cooperazione sociale dovrebbe essere analizzato con cura. I richiami storici  ci  servono  per  capire  la  derivazione  dei  problemi  che  ancora oggi devono essere affrontati riguardo alle dimensioni e ai modelli organizzativi delle cooperative che consentano la fedeltà ai valori fondativi. Un panorama interessante delle diverse tipologie di cooperative sociali è contenuto nel testo Cooperazione sociale oltre la crisi. La cooperazione sociale Legacoop Emilia Romagna dal 2008 al 2016 in cui sono illustrati i diversi aspetti della nuova cooperazione sociale: cooperative piccole grandi, più o meno specializzate, più orientate a una mutualità interna o a una mutualità esterna, cooperative risultato di fusioni di più cooperative che consentono la costruzione di vere e proprie filiere produttive, cooperative grandi che diventano soci sovventori di cooperative piccole, cooperative che operano sui mercati locali o sul mercato nazionale, ma anche sui mercati internazionali, ecc. Diversità che vanno individuate e su cui è necessario avviare una riflessione. Alcune cooperative di grandissime dimensioni sia in termini di soci e dipendenti che di fatturato di cui non si può negare l’utilità e la dignità, si potrebbero tuttavia definire semplicemente “cooperative di lavoro”, in cui prevale una necessaria cultura aziendalistica (relativa alle relazioni di lavoro, retribuzioni della dirigenza, ecc.) che non sempre facilita il coinvolgimento dei soci nella vita dell’azienda. A volte si aggiunge anche il problema di un sempre maggior numero di lavoratori che non sono soci. Sarebbe interessante analizzare quali modelli organizzativi (e quali dimensioni) sono più adatti ai diversi settori di intervento. Le cooperative di tipo A che operano nel settore dei servizi residenziali e semiresidenziali per anziani non autosufficienti, si trovano ad esempio sempre più spesso in concorrenza con grandi aziende del privato profit e questo le costringe ad aumentare le dimensioni e ad adottare modelli di gestione sempre più capaci di efficienza. Alle cooperative di tipo B sono richiesti nuovi comportamenti aziendali: esse devono strutturarsi a volte crescendo di dimensione attraverso fusioni, e attrezzarsi per essere capaci di partecipare alle gare di appalto bandite dal pubblico che sempre più rinuncia ad attivare la procedura degli affidamenti diretti anche per valori sotto la soglia prevista dalla legislazione europea. Anche per le cooperative sociali così come per la cooperazione in generale andrebbe tuttavia verificata l’efficacia della nuova tendenza “grande è bello” che sta orientando sempre più le scelte istituzionali e aziendali di tutti i settori produttivi alla ricerca di maggior efficienza e che sollecita fusioni e crescite accelerate anche nel settore della cooperazione sociale. Si dovrebbe distinguere e riconoscere tutti questi diversi modi di essere cooperazione nella loro diversa caratteristica “sociale” e i diversi dosaggi della dimensione valoriale in essa contenuti. Una comune cultura cooperativa dovrebbe anche sollecitare collaborazioni tra le diverse componenti del mondo cooperativo, soprattutto con quelle “confinanti”: penso, ad esempio, alle cooperative abitative, in primo luogo quelle a proprietà indivisa, che allargano le risorse abitative a disposizione di fasce di popolazione che non riuscirebbero ad accedere alle case popolari, ma che devono però essere sostenute economicamente nell’accesso alla casa. Tali cooperative potrebbero collaborare e avvalersi della competenza di altre cooperative che hanno sostenuto sperimentazioni di co-housing. Più in generale si dovrebbero promuovere collaborazioni tra le cooperative sociali che si occupano di inserimenti lavorativi di persone fragili con le altre aziende cooperative. In questa cornice le riflessioni del gruppo che ha lavorato sul valore che si attribuisce oggi all’appartenenza cooperativa hanno individuato i fenomeni che possono spezzare il filo di comunicazione con i valori di fondo della cooperazione, legandosi ai “falsi miti del profit”, ma anche a un distorto rapporto “ancillare” con il committente pubblico (tema affrontato anche in un altro gruppo di lavoro).

Garantire un lavoro di qualità e soddisfacente
La cooperazione è certamente un diverso modo di possedere, ma deve essere anche un diverso modo di lavorare. Il gruppo che si è occupato delle condizioni che permettono ai cooperatori sociali di svolgere un lavoro di qualità e di soddisfazione ha elencato diversi indicatori di qualità, dal senso di appartenenza e dal rispetto, al riconoscimento sociale alla chiarezza della mission, alla necessità di una formazione continua. Ha ovviamente toccato il problema delle retribuzioni (sempre troppo basse) degli operatori che tradiscono un non riconoscimento sociale della loro quotidiana azione. Ciò si ricollega però anche alla crisi delle professioni sociali a sua volta collegabile al fatto che il sociale non è più al centro dell’attenzione della politica come era stato negli anni fondativi del nostro sistema di welfare. Gli operatori allora si sentivano agenti del cambiamento. Oggi gli operatori sociali, soprattutto quelli dell’ambito pubblico, sono un po’ ”insofferenti“ alle richieste di adattare il loro modo di lavorare alle continue trasformazioni organizzative e istituzionali attivate nel tentativo di risparmiare risorse, ma anche “sofferenti” perché vedono messe in discussione le finalità stesse del proprio lavoro quando, nello stesso tempo, è invece richiesto loro un maggior impegno. In alcuni casi devono mettere in campo nuove competenze in relazione a nuovi e complessi bisogni delle persone seguite. Non solo gli operatori pubblici ma anche gli operatori delle cooperative sono ad esempio impegnati in processi di accompagnamento complessi e di sostegno all’empowerment delle persone che devono fronteggiare l’impoverimento e il lento scivolare nel disagio. Sono ruoli di mediatore e facilitatore che richiedono competenze nuove. Ho fatto questi pochi cenni al travaglio delle professioni sociali, per evidenziare come sarebbe necessario che la cooperazione sociale, sostenuta dal pubblico, potesse  costantemente  offrire  ai  propri  lavoratori  occasioni  di  formazione e di sostegno alle loro abilità, in particolare alle abilità relazionali. Ciò nella consapevolezza che l’investimento formativo mal si concilia con il lavoro precario.

Come creare innovazione ed innovare
Il gruppo di lavoro che si è occupato di innovazione ha identificato un’innovazione legata a nuovi clienti (welfare aziendale) e a nuovi ambiti di collaborazione (welfare abitativo), così come un’innovazione societaria (relativa  alle  nuove  prospettive  aperte  dalla  legge  sul  non  profit). La prospettiva di poter rivolgersi a un mercato di privati (attivato dal welfare aziendale ma anche dalle crescenti esigenze di famiglie che devono far fronte alla non-autosufficienza di persone anziane) ha comunque portato a chiamare innovazione la possibilità di liberarsi dal rapporto esclusivo con la Pubblica Amministrazione per aprirsi al “mercato “dei beni e servizi più preziosi, cioè quelli di interesse generale; fino a pensare a trasformazioni dell’impresa cooperativa. La concorrenza dovrebbe garantire alle nuove “imprese sociali” autonomia e creatività. Ciò richiede dei soggetti imprenditoriali capaci di investire sulla valorizzazione delle risorse della comunità e capaci di “contagiare” e “ibridare” le società di riferimento e l’intero mondo produttivo. Si è dibattuto sulla proposta di “imprese ibride composte da filiere di soggetti pubblici e privati capaci di riconoscere e generare i beni comuni”. Si fa riferimento alle imprese sociali, alle società benefit, alle cooperative di comunità, all’economia di comunione, ecc. Tutto questo richiede tuttavia un quadro concettuale nuovo che dovrebbe comporre esperienze diverse dalla finanza etica al social business promosso da Yunus. Tutte “parole magiche” su cui si sta ragionando soprattutto in alcuni contesti stranieri diversi dai nostri. Si è posta anche l’attenzione sull’innovazione nel pensare e organizzare i servizi singoli e/o destinati ai nuovi bisogni. A questo proposito è stato osservato che si dovrebbero evidenziare maggiormente le eccellenze realizzate, anche se di piccole dimensioni. Un ambito in cui è necessario sviluppare innovazioni è quello dell’accoglienza agli immigrati. E non soltanto perché si devono riscattare alcuni comportamenti addirittura perseguibili penalmente oltre che sciatterie e affarismo, ma perché questa è la sfida che ci porteremo con noi in un lungo futuro. Una sfida che richiede di essere “scomposta” rispetto ai tanti e diversi problemi che riguardano gli immigrati derivanti dall’appartenere a etnie diverse, dall’avere raggiunto nei loro paesi diversi livelli di istruzione scolastica, dall’età, ecc. In questa fase è essenziale distinguere le diverse modalità di intervento richieste dai centri di prima accoglienza, dai CAS (Centri di Accoglienza Straordinaria) e dagli SPRAR (Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati). Piccole esperienze positive che hanno comportato anche inserimenti lavorativi sono già state realizzate (e descritte nei vari gruppi di lavoro) ma ci aspetta un percorso capace di portare queste esperienze ad affrontare i grandi numeri. Questa nuova sfida richiede tuttavia un ampliamento della mai facile collaborazione con le imprese che possono offrire tirocini e inserimenti lavorativi. Così come si dovrà ricorrere a nuovi strumenti per mobilitare risorse private (finanza etica, ecc.).

Rapporto tra cooperazione e pubblica amministrazione
Il  tema  dei  rapporti  tra  cooperazione  sociale  e  pubblica  amministrazione è sempre stato oggetto di confronti e di valutazioni. Confronti che hanno portato  recentemente  la  Regione  Emilia-Romagna a emanare nuove Linee guida regionali sull’affidamento dei servizi alle cooperative sociali. Il gruppo di lavoro che si è occupato del tema ha soprattutto evidenziato elementi dialettici relativi a stereotipi che, facendo proprio un approccio liberista e aziendalista, forzano la relazione tra meccanismi dei bandi ed esiti in termini non solo di efficienza ma di qualità. Traslando meccanismi concorrenziali adatti al settore dei beni di consumo nel settore dei servizi alla persona, là dove il “consumatore” è una persona fragile di cui si devono tutelare i diritti. E non chiarendo se la concorrenza deve tutelare i consumatori o (cosa non illegittima) la prospettiva di lavoro di più imprese. In generale il gruppo ha sottolineato la necessità di stabilire rapporti di partenariato e perciò di co-progettazione piuttosto che di sub-fornitura. Co-progettazione che viene complicata dal fatto che sempre più la pubblica amministrazione chiede alle cooperative sociali di lavorare esse stesse in partenariato con molte altre imprese e organizzazioni (soprattutto con gli Enti di formazione professionale). Nel corso di una precedente iniziativa promossa da AILeS, Ugo De Ambrogio distinse tra co-progettazione istituzionale, progettuale, gestionale/operativa e finanziaria, sollecitando tuttavia a non soffermarsi troppo sugli aspetti amministrativi. Nel nostro territorio vi sono tuttavia alcune esperienze che hanno tentato di individuare procedimenti amministrativi adeguati alla co-progettazione. Un esempio può essere il percorso proposto da ASP Città di Bologna per l’istituzione dello SPRAR. ASP ha emesso un bando che, pur superando il rapporto tradizionale committenza/fornitore, ha tenuto conto di tutte le normative del codice degli appalti e delle Linee guida dell’Autorità Nazionale Anticorruzione così come delle Linee Guida regionali per l’affidamento dei servizi alle cooperative sociali. Il fine era proprio quello di realizzare una co-progettazione ampia per la realizzazione dello SPRAR che è di competenza del Comune. Una procedura complessa e abbastanza nuova per realizzare, in una prima fase 1350 posti di accoglienza ordinaria e 350 per minori non accompagnati. È stato emesso un primo bando a cui i partecipanti dovevano presentare progetti relativi ai vari “pezzi” dell’intervento, sia per quanto riguarda i posti di accoglienza che per attività trasversali (come la mediazione linguistica e culturale, l’accompagnamento legale, ecc.). I giudicati idonei (da una prima commissione) dovevano partecipare a un tavolo di co-progettazione. Conclusa questa fase si doveva presentare un’offerta vincolante poi giudicata da un’altra commissione diversamente composta. Ciò ha consentito di redigere una graduatoria a scorrimento per i tre anni previsti dal Ministero che arriverà a provvedere all’enorme numero di posti che abbiamo indicato. Tale processo ha comportato non poche difficoltà per i partecipanti anche per la quantità di tempo impiegato, ma ha consentito di sperimentare una collaborazione effettiva fin dalla progettazione degli interventi che dovrebbe facilitare le collaborazioni successive, necessarie per l’adeguatezza dell’intervento complessivo. Ho  provato  a  raccogliere  i  tanti  elementi  emersi  dalla  iniziativa  di AILeS. Una riflessione che ha consentito di far più volte emergere l’interrogativo  sulle  identità:  ”Chi  siamo  noi  cooperative  sociali?”. I temi trattati, cioè l’appartenenza associativa, la qualità del lavoro, la capacità di innovare e le modalità dei rapporti con la Pubblica Amministrazione presentano infatti aspetti diversi in relazione alle diverse tipologie di cooperative. Conseguentemente l’aggettivo “sociale” può assumere significati diversi e indicare diversi risultati. Un buon punto d’avvio per il riconoscimento dei diversi modi in cui si può essere cooperativa sociale (a cui corrispondono diverse mission e perciò dovrebbero corrispondere diversi riconoscimenti da parte della normativa) è quello di tentare di individuare strumenti per misurare l’impatto sociale delle diverse tipologie di cooperative. Il cammino di riflessione di AILeS potrebbe continuare in questa direzione.

2. Cooperazione sociale, accoglienza e inclusione degli ultimi: un percorso di riflessione

di Leonardo Callegari, presidente AILeS

La cornice del presente
Negli ultimi 10 anni la crisi economica e occupazionale, con la pesante contrazione di risorse destinate al nostro welfare, da un lato e il fenomeno migratorio, che ha registrato fino al 2017 un crescente afflusso di richiedenti asilo sulle nostre coste, dall’altro lato, hanno interpellato fortemente la cooperazione sociale assieme ad altre organizzazioni del terzo settore, non ultime le ONG operanti nel salvataggio in mare di migranti, sulle risposte da dare alla moltitudine di persone in condizioni di estremo bisogno, fragili, vulnerabili, a rischio di esclusione ed abbandono. Le difficoltà nell’affrontare adeguatamente tali movimenti da parte della politica e delle istituzioni preposte, sia a livello nazionale che locale, pur con le debite distinzioni di merito, sono risultate evidenti. Si è resa palese l’importanza della collaborazione tra gli attori del pubblico, del privato sociale e del profit più socialmente responsabile per confrontarsi con dinamiche estremamente complesse, non regolabili e men che meno risolvibili da singoli attori o incentivando la competizione tra gli stessi
Per uscire da logiche emergenziali, quando è stato possibile, ha pagato la cooperazione tra le parti, la programmazione e la progettazione condivisa delle azioni da porre in essere, con forte radicamento sui territori e nelle comunità locali, tramite il coinvolgimento e la partecipazione di tutti i soggetti, collettivi e singoli cittadini. Crediamo che la cooperazione in generale, e quella sociale in particolare, abbia fatto la propria parte, anche in controtendenza nell’erigere una barriera alla crisi economica e occupazionale che tuttora ci attraversa, conservando posti di lavoro, incrementandoli, quando molte imprese profit hanno chiuso e/o licenziato.
Certo, non sono mancati casi di distorsione delle finalità solidali proprie della cooperazione sociale, fino agli estremi illegali di Mafia Capitale nella gestione speculativa dei migranti, che hanno prodotto danni incalcolabili alla reputazione delle tantissime realtà imprenditoriali e associative di utilità sociale che hanno profuso e continuano a rendere il loro onesto impegno quotidiano, silenzioso, altruistico in aiuto di chi, nostro connazionale o straniero, ha più bisogno.
Purtroppo, nello strabismo di una certa politica securitaria, oggi imperante e nel crescente allarme creato in una opinione pubblica impaurita dallo spettro della disoccupazione, della povertà e da tutti i “pericolosi disperati che dall’Africa ci invadono”, hanno facile presa le soluzioni demiurgiche e la criminalizzazione non solo degli ultimi, vissuti come minaccia, ma anche di chi cerca di aiutare le stesse persone a rischio di esclusione.
In questo tempo ingrato di inversione dei valori, dove viene scambiata la soluzione con la causa del problema, non è più scontato che chi pratica la solidarietà sia giudicato positivamente. Anzi si deve difendere da giudizi ingenerosi, quando non apertamente da minacce e intimidazioni, che annunciano la messa al bando di intere organizzazioni, tagli di finanziamenti pubblici e la “fine della festa” per coloro che pubblicamente vengono accusati di avvantaggiarsi dei migranti.

Nodi su cui fermarsi
Come realtà del no profit, in particolare come cooperative sociali, ci siamo chiesti non tanto se le semplificazioni e banalità richiamate rispondessero a verità, bensì:

  • quanto le motivazioni originarie dei cooperatori sociali fossero ancora pregnanti nella vita delle rispettive imprese di lavoro associato (la cosiddetta dimensione comunitaria, relazionale, motivazionale interna, non riconducibile o riducibile alle sole, pure essenziali, dimensioni associativa e imprenditoriale);
  • quali finalità e funzioni caratterizzano le cooperative sociali nella nostra realtà metropolitana bolognese e come diversamente si vengono a connotare rispetto a storia costitutiva, sviluppo organizzativo, ambiti prevalenti di impegno;
  • che capacità innovativa è in grado di esprimere la cooperazione sociale. Se dagli anni 60/70 ad oggi, la capacità imprenditoriale è ampiamente dimostrata e difficilmente controvertibile sul piano organizzativo, gestionale, realizzativo di servizi di welfare e di politica attiva del lavoro, come la valutiamo sul piano promozionale, innovativo, progettuale, indispensabile per affrontare sfide inedite e situazioni come quelle richiamate di estrema complessità?

Sappiamo che la cooperazione sociale si è connotata fin dalle sue origini secondo una fondamentale ambivalenza costitutiva e duplicità strutturale che ha posto molte realtà di lavoro associato su una sottile linea di confine tra l’essere organizzazioni democratiche, fondate sulla partecipazione dei membri, dedite a finalità solidali e contemporaneamente la necessità di strutturarsi come imprese in grado di operare con efficienza, oltre che con efficacia, sui “quasi mercati” dei servizi pubblici e sul mercato tout court per la fornitura di beni o servizi volti all’inserimento lavorativo di persone svantaggiate.
Tale duplicità e ambivalenza agisce anche tra la dimensione mutualistica interna, ristretta al patto associativo per le migliori condizioni di lavoro tra i soci, e la dimensione mutualistica allargata, esterna, che accoglie le istanze della comunità di appartenenza e i bisogni delle persone che esprimono la propria richiesta di buona vita. Nel bilanciamento tra le varie anime connotative e dimensionali, oltre che tra i vari piani di azione funzionali, crediamo che la dimensione comunitaria, valoriale, motivazionale, relazionale interna, profonda, se si vuole pre associativa e pre imprenditoriale, delle cooperative sociali mantenga la sua importanza e ove si attenui vada ripresa e ri-alimentata, per preservare le stesse realtà cooperative da sempre possibili rischi involutivi, quali la progressiva istituzionalizzazione sistemica propria di enti gestori e l’assimilazione organizzativa delle regole di mercato senza distinzioni con il profit.
Senza escludere il pericolo della dissolvenza, se vengono meno capacità imprenditoriali, struttura organizzativa e vision strategica, in favore solo di solidarietà troppo corte e ripiegate su se stesse.
Per tenere assieme efficienza imprenditoriale, partecipazione democratica ed efficacia nella risposta da dare ai bisogni, la bussola di una navigazione difficile, soprattutto quando esposta ai marosi delle critiche e accuse infondate, con risorse economiche calanti, deve rimanere tarata sulla qualità delle relazioni, sulla coerenza di comportamenti organizzativi, sulle più estese collaborazioni da tessere in ampie reti e partenariati locali. A partire dal mutuo appoggio tra i membri di ogni compagine cooperativa l’agire eticamente orientato può disporsi all’accoglienza professionale, organizzata e soprattutto empatica, delle persone fragili, vulnerabili ed estendersi alla collaborazione tra tutti gli attori rilevanti per l’inclusione e la coesione sociale nella comunità territoriale di appartenenza, moltiplicando per questa via la propria incisività operativa senza perdere in umanità.
Il legame con il territorio, la relazione tra le persone, co-operatori, cittadini, rappresentanti di altri enti partner, rimane a nostro avviso fondamentale e cartina di tornasole per le verifiche di efficacia e di aderenza dei comportamenti alla mission solidale, che attesa nella stragrande maggioranza delle cooperative sociali, va ovviamente sempre testimoniata e dimostrata, caso per caso, secondo responsabilità circostanziata, con l’onere della prova.

Per forme più avanzate di co-progettazione
Per affrontare le situazioni particolarmente complesse richiamate (povertà, disoccupazione, migrazioni, ecc.), vogliamo ancora insistere sull’importanza di approntare modalità più avanzate di governance e di collaborazione tra le parti, secondo una sistematica condivisione progettuale il più possibile di co-progettazione. Un versante, questo, dove si può esprimere la parte migliore della cooperazione sociale: quella promozionale, progettuale, innovativa, di condivisione piena della responsabilità su andamento ed esiti delle realizzazioni compiute, in un rapporto di partnership meno asimmetrico con il pubblico, non solo gestionale ed esecutivo e certo non meramente di fornitura esternalizzata, come ai tempi delle gare al massimo ribasso e degli affidamenti occasionali, da superare.
Soprattutto quando la politica è afona di proposte che elevano il livello di civiltà del nostro modello di convivenza e le istituzioni non riescono, da sole, a fronteggiare dinamiche societarie imponenti, strutturali, rubricandole a contingenze da scansare, tutt’al più da arginare o respingere, sarebbe anacronistico aspettarsi che la cooperazione svolga un ruolo di controllo di tali emergenze al disciplinato servizio di un contesto in pesante arretramento culturale e valoriale (disoccupati e poveri, infondo, si dice, qualche colpa della loro condizione ce l’hanno e tutti questi migranti che islamizzano la nostra società, ci tolgono lavoro, case e servizi di welfare dovrebbero stare o tornare da dove sono venuti).
E’ invece proprio al cospetto di sfide importanti, di sistema, partendo tuttavia dallo sguardo di ogni persona disperata, senza reddito, casa, lavoro che ciascun cooperatore sociale, con la sua impresa sociale, può capire il bisogno, valorizzare le potenzialità individuali e individuare il sentiero personalizzato per accompagnare il singolo soggetto a ritrovare fiducia in se stesso e cercare di risalire la propria china esistenziale.
E’ accogliendo un migrante capendone il dramma, la sofferenza, le ingiustizie subite e i pericoli ai quali sarebbe esposto in caso di respingimento, senza ridurlo a un numero statistico da contenere, che chi si impegna in una ONG o in una cooperativa sociale può offrire la mano tesa, un rifugio sicuro e congiuntamente provare a costruire “con” quella persona un futuro migliore, anche per la nostra società.
Accogliere una persona in difficoltà incrociandone lo sguardo e cercare di costruire con la stessa una relazione significativa, per includerla senza abbandonarla e isolarla nel contesto comunitario, è quanto di più lontano dal pensare, miseramente, al budget di ricavo economico che quella persona rappresenta, con buona pace della vulgata che denuncia gli eccessivi 35 euro a migrante in tasca agli affaristi della cooperazione o che vengono sperperati da chi senza lavorare vive alle spalle di cittadini operosi, che tengono famiglia e hanno altro a cui pensare.
Il confronto di riflessione e approfondimento, di seguito documentato, che si è avviato tra i cooperatori sociali dell’area metropolitana bolognese, ha voluto riprendere temi, istanze, finalità tra quelli fin qui delineati che a volte l’operatività non consente adeguatamente di mettere a fuoco per misurare quanto ancora certi ideali mantengano la loro forza propositiva e a che grado di maturità e di affidamento è giunta la cooperazione sociale.
Al termine di questo percorso siamo più consapevoli che la “spinta propulsiva” della cooperazione sociale non si è esaurita nella stagione pioneristica degli anni 60/70, ma può, proprio adesso, al cospetto di complessità inedite, riattualizzare ruolo e funzioni promozionali, progettuali, generative di nuovi rapporti e di nuove forme di welfare comunitario; assieme ad altri, certamente, “con” il pubblico, per quanto non solo e, in primis, “con” le stesse persone in condizioni di bisogno: che non sono un problema, ma una risorsa, per tutti, in una società meno diseguale e più giusta.

1. Presentazione

a cura di AILeS, Associazione per l’Inclusione Lavorativa e Sociale delle persone svantaggiate

I contributi e le riflessioni sul senso e l’agire della cooperazione sociale prodotte dalle realtà aderenti ad AILeS-Associazione per l’Inclusione Lavorativa e Sociale delle persone svantaggiate- e raccolte nelle pagine di questo numero nascono in tempi non sospetti, fuori da una sovraesposizione mediatica che ha dilatato l’ombra di “casi” degenerati a tutto il settore e dato voce nel dibattito pubblico a posizioni punitive a prescindere.
La premessa che rinforza i ragionamenti presentati sta nella consapevolezza che la cooperazione è un bene costituzionale. Gli articoli 45 e 118 sanciscono la protezione di queste forme di auto-organizzazione libere e civili da parte dei cittadini.
E’ un patrimonio non solo di chi direttamente vi prende parte o ne fruisce ma di tutta la collettività, capace di fronteggiare meglio di altri la durezza della crisi economica. E’ un patrimonio storico che, dalla forza della propria tradizione, si confronta con le istanze del presente e le sfide del futuro. La cooperazione sociale deve essere capace di ripensarsi e rigenerarsi per poter contribuire a ridisegnare un orizzonte culturale dove trovi posto la dimensione dell’umano oltre che continuare ad essere una fonte di reddito e lavoro.
Per chi opera a contatto diretto con le persone maggiormente fragili e vulnerabili, tenere aperti spazi di riflessione e discussione continua sul proprio operato è esigenza vitale. Il lavoro sociale esprime la sua qualità nella misura in cui è capace di presidiare con costanza ciò che realizza. E questo presidio non si esercita solo con le necessarie funzioni di controllo interno ed esterno ma anche con la costruzione di contesti in cui le esperienze vengono riprese e diventano materia per un confronto schietto e profondo sugli indici di positività che sono capaci di esprimere e soprattutto sugli aspetti deboli, più critici che segnalano aree di standardizzazione e involuzione e quindi bisogno di cambiamento.
Per questi motivi, fin dall’inizio della sua costituzione AILeS ha fatto dell’incontro reciproco e dello scambio di idee e pratiche uno dei suoi tratti distintivi. Negli ultimi due anni in particolare, le realtà aderenti hanno realizzato un percorso di incontri periodici imperniato su alcuni dei nodi tematici ritenuti più utili ad inquadrare oggi l’essere cooperatori sociali, a partire dall’esperienza diretta dei soggetti coinvolti collocata e storicizzata in uno sfondo geografico e sociale come quello del territorio bolognese.
I contenuti su cui il confronto si è focalizzato possono essere collocati in quattro contenitori che rispettivamente hanno a che fare con: la dimensione associativa e senso di appartenenza alla propria cooperativa e al mondo cooperativo; le condizioni interne ed esterne per un lavoro soddisfacente e di qualità; la necessità e la capacità di innovare ed innovarsi; il rapporto fra la cooperazione e la Pubblica Amministrazione soprattutto nella possibilità di realizzare una co-progettazione reale.
Il mondo valoriale di riferimenti, i pezzi del proprio fare, le questioni che quotidianamente si è chiamati ad affrontare, le piste da percorrere: tutto questo si è intrecciato durante gli incontri del gruppo che ha potuto anche contare su voci autorevoli e vicine per dare al materiale trattato una valenza “universalistica” capace speriamo di suscitare un interesse più ampio.