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3. Il patrimonio della cooperazione sociale e la sfida del presente

di Flavia Franzoni, comitato scientifico AILeS

Le trasformazioni del nostro sistema di servizi alla persona (sociali, sanitari ed educativi) e le crescenti difficoltà di un mondo cooperativo diventato bersaglio di molte critiche (per colpa di alcuni abusi e non pochi errori) possono mettere a rischio il patrimonio di esperienze e di valori accumulato dalla cooperazione sociale. Per questo AILeS, insieme ad alcuni dei tanti protagonisti del welfare bolognese, ha avviato una riflessione tesa a delineare una sorta di mappatura di problemi e opportunità con cui ci si dovrà confrontare in futuro. Un impegno che può aiutare a rispondere a un interrogativo che tutti si pongono all’interno e all’esterno del mondo cooperativo: “Quanto i giovani si ritrovano oggi nei valori della cooperazione sociale?”. I punti che seguono danno conto dei contenuti dei primi incontri. In essi è emersa la convinzione che soltanto esaminando problemi come la dimensione associativa e il senso di appartenenza dei soci delle cooperative sociali si può arrivare a parlare di qualità del lavoro, di modalità efficaci del rapporto di collaborazione tra cooperazione e pubblica amministrazione così come della capacità di innovare.

Dimensione associativa e senso di appartenenza alla propria cooperativa e al mondo cooperativo
Per affrontare il tema della dimensione associativa della cooperazione sociale è importante collocarsi all’interno del dibattito sulla cooperazione in generale, una esperienza storica lunga e di grande successo, che ha costituito un importante baluardo di difesa dell’occupazione anche durante la più recente crisi economica (salvo le tragedie del settore edilizio). Nel tempo tuttavia le imprese cooperative, in modo “strisciante” e non sempre consapevole, si stanno trasformando. Le cooperative di produzione e lavoro e di servizi così come le cooperative di consumatori, costrette a confrontarsi con l’internazionalizzazione dei mercati, diventano sempre più grandi e via via rischiano di perdere contatti con i valori fondanti della cooperazione. Trasformazioni  analoghe,  seppure  di  minor  misura,  stanno  avvenendo nelle cooperative sociali. È perciò particolarmente urgente vedere in cosa consiste oggi l’aggiunta della parola “sociale” alla parola “cooperazione”. In questo ci può aiutare un po’ di “storia” delle diverse tipologie di cooperative sociali, prima e dopo la legge quadro 381/1991, “Disciplina delle cooperative sociali”, che codificò due tipologie di cooperative: di tipo A e di tipo B. Ricordo  il  dibattito  precedente  all’approvazione  della  legge  proprio centrato  sulla  ricerca  di  una  tipologizzazione  delle  cooperative  operanti nel settore dei servizi sociali che tenesse conto delle diverse esperienze che si erano andate sviluppando a partire dai primi anni ’70, derivanti dalle   diverse motivazioni che muovevano i soci a fondare le cooperative.
In un primo tempo si ipotizzò che la legge facesse proprio il linguaggio utilizzato correntemente fino a quel momento, che distingueva tra “cooperative di servizi sociali”, “cooperative di solidarietà sociale” e “cooperative integrate”. In Emilia Romagna fu il grande sviluppo del movimento cooperativo l’elemento favorente la nascita di cooperative sociali. In primo luogo nacquero infatti “cooperative di lavoro” tradizionali, operanti nel settore dei servizi alla persona con la finalità prevalente di creare occupazione per i soci. Un primo esempio in Italia fu certamente la cooperativa CADIAI (Cooperativa assistenza domiciliare infermi anziani infanzia), istituita a Bologna nel 1974 per iniziativa di ventisette soci, tutte donne, provenienti dal lavoro domestico o da precari lavori di assistenza. L’iniziativa venne stimolata da una particolare circostanza: a seguito di un rapporto di collaborazione dell’Ospedale Ortopedico Rizzoli con la Libia, che prevedeva una serie di interventi chirurgici a cittadini libici, fu necessario regolamentare il rapporto di lavoro di alcune “badanti” che aiutavano i malati nelle loro lunghe degenze. Nel successivo sviluppo delle attività i clienti furono inizialmente privati, e solo in un secondo tempo la cooperativa iniziò la collaborazione con Enti pubblici indirizzati a una progressiva esternalizzazione dei servizi. Al di là della contingenza che sollecitò la nascita della cooperativa, gli elementi qualificanti del “mettersi a lavorare insieme” in forma cooperativa furono la conquista della garanzia di una maggiore tutela del lavoro, e soprattutto un maggior riconoscimento della professionalità dei soci. Altre cooperative nacquero invece per iniziativa di gruppi di professionisti, laureati o diplomati (medici, educatori, psicologi, assistenti sociali, ecc.) che si proponevano di sperimentare nuove modalità di organizzazione dei servizi e di rapporto con la committenza. In tutti i casi sopra descritti si trattava perciò di “cooperative di servizi sociali” (in questo modo erano appunto definite nel dibattito corrente), la cui attività consisteva nel produrre servizi, ma il cui scopo primario era quello di garantire il lavoro ai soci secondo il principio della mutualità interna. In altri territori prevalsero diverse motivazioni.
Molte cooperative sociali di operatori derivarono anche dallo sviluppo e dalla trasformazione di gruppi di volontariato che avevano trovato nella cooperazione una formula giuridica idonea per la propria organizzazione e per stabilire correttamente rapporti di collaborazione con gli Enti pubblici. La finalità principale era quella di offrire aiuto alle persone in difficoltà (mutualità esterna). I soci erano prevalentemente volontari, ma venivano inclusi anche alcuni operatori retribuiti per consentire una migliore organizzazione ed efficacia degli interventi, soprattutto quando questi riguardavano problematiche gravi e complesse. È per questo tipo di cooperative che si utilizzava la definizione di “cooperative di solidarietà sociale”. Tuttavia nel tempo, e su sollecitazione degli stessi Enti locali che via via andavano richiedendo nuove collaborazioni, anche in queste cooperative andò crescendo il numero dei soci-lavoratori retribuiti, tanto da renderle progressivamente abbastanza simili a quelle precedentemente descritte. Completamente diversa fu l’esperienza delle cosiddette “cooperative integrate” che, operando nei più diversi settori produttivi (artigianale, industriale, agricolo), erano finalizzate all’inserimento lavorativo di persone in difficoltà. Esse nacquero per iniziativa di famigliari di persone con disabilità, malati di mente, tossicodipendenti, ecc. o di operatori per garantire il diritto al lavoro alle persone più svantaggiate, nella convinzione che l’esperienza lavorativa facilitasse l’integrazione sociale e il rispetto di sé. Il legislatore scelse invece di distinguere e utilizzare soltanto due tipologie. Le cooperative di tipo A, i cui soci sono operatori che si occupano della gestione dei servizi socio-sanitari ed educativi e che possono comprendere soci volontari (raggruppando sostanzialmente le prime due tipologie sopra indicate, cioè le cooperative di servizi sociali e le cooperative di solidarietà sociale); e le cooperative di tipo B che, attraverso lo svolgimento di attività diverse, sono finalizzate all’inserimento lavorativo di persone “svantaggiate”. Fu giusto unire le esperienze delle “cooperative di servizi sociali” e di “cooperative di solidarietà sociale” in una unica tipologia (identificata dalla legge come “cooperative di tipo A): i confini non erano infatti più poi così chiari perché le cooperative di solidarietà cominciarono a ingrandirsi e ad avere tanti soci lavoratori. Queste diverse origini hanno tuttavia segnato l’evoluzione delle singole cooperative e comunque segnalano diversità nei riferimenti valoriali e culturali rintracciabili anche oggi. In passato c’è stata forse più attenzione a questa progressiva diversificazione delle caratteristiche delle singole cooperative sociali; una diversificazione che è stata anche una ricchezza. Ricordo una ricerca svolta nel 1997 da Iress/Bologna a Reggio Emilia in cui distinguemmo cooperative con diverse caratterizzazioni:

  • “cooperative agenzie sociali di territorio” (in molti casi di tipo A/B) perché capaci di fertilizzare il territorio rispetto alle tematiche degli “ultimi”, perché  capaci  di  fare  una  lettura  precoce  dei  nuovi  bisogni  del  territorio;
  • “cooperative imprenditoriali a rilevanza sociale”, le più grandi a forte caratterizzazione imprenditoriale che gestivano soprattutto servizi per anziani;
  • “cooperative bracci operativi del pubblico/co-attori di una politica sociale specifica” come ad esempio le cooperative di tipo B, nate dalle iniziative di operatori anche pubblici legati alla nuova psichiatria che inserivano al lavoro pazienti psichiatrici.

Dopo  tanti  anni  di  ulteriori  trasformazioni  il  mondo  così  diversificato della cooperazione sociale dovrebbe essere analizzato con cura. I richiami storici  ci  servono  per  capire  la  derivazione  dei  problemi  che  ancora oggi devono essere affrontati riguardo alle dimensioni e ai modelli organizzativi delle cooperative che consentano la fedeltà ai valori fondativi. Un panorama interessante delle diverse tipologie di cooperative sociali è contenuto nel testo Cooperazione sociale oltre la crisi. La cooperazione sociale Legacoop Emilia Romagna dal 2008 al 2016 in cui sono illustrati i diversi aspetti della nuova cooperazione sociale: cooperative piccole grandi, più o meno specializzate, più orientate a una mutualità interna o a una mutualità esterna, cooperative risultato di fusioni di più cooperative che consentono la costruzione di vere e proprie filiere produttive, cooperative grandi che diventano soci sovventori di cooperative piccole, cooperative che operano sui mercati locali o sul mercato nazionale, ma anche sui mercati internazionali, ecc. Diversità che vanno individuate e su cui è necessario avviare una riflessione. Alcune cooperative di grandissime dimensioni sia in termini di soci e dipendenti che di fatturato di cui non si può negare l’utilità e la dignità, si potrebbero tuttavia definire semplicemente “cooperative di lavoro”, in cui prevale una necessaria cultura aziendalistica (relativa alle relazioni di lavoro, retribuzioni della dirigenza, ecc.) che non sempre facilita il coinvolgimento dei soci nella vita dell’azienda. A volte si aggiunge anche il problema di un sempre maggior numero di lavoratori che non sono soci. Sarebbe interessante analizzare quali modelli organizzativi (e quali dimensioni) sono più adatti ai diversi settori di intervento. Le cooperative di tipo A che operano nel settore dei servizi residenziali e semiresidenziali per anziani non autosufficienti, si trovano ad esempio sempre più spesso in concorrenza con grandi aziende del privato profit e questo le costringe ad aumentare le dimensioni e ad adottare modelli di gestione sempre più capaci di efficienza. Alle cooperative di tipo B sono richiesti nuovi comportamenti aziendali: esse devono strutturarsi a volte crescendo di dimensione attraverso fusioni, e attrezzarsi per essere capaci di partecipare alle gare di appalto bandite dal pubblico che sempre più rinuncia ad attivare la procedura degli affidamenti diretti anche per valori sotto la soglia prevista dalla legislazione europea. Anche per le cooperative sociali così come per la cooperazione in generale andrebbe tuttavia verificata l’efficacia della nuova tendenza “grande è bello” che sta orientando sempre più le scelte istituzionali e aziendali di tutti i settori produttivi alla ricerca di maggior efficienza e che sollecita fusioni e crescite accelerate anche nel settore della cooperazione sociale. Si dovrebbe distinguere e riconoscere tutti questi diversi modi di essere cooperazione nella loro diversa caratteristica “sociale” e i diversi dosaggi della dimensione valoriale in essa contenuti. Una comune cultura cooperativa dovrebbe anche sollecitare collaborazioni tra le diverse componenti del mondo cooperativo, soprattutto con quelle “confinanti”: penso, ad esempio, alle cooperative abitative, in primo luogo quelle a proprietà indivisa, che allargano le risorse abitative a disposizione di fasce di popolazione che non riuscirebbero ad accedere alle case popolari, ma che devono però essere sostenute economicamente nell’accesso alla casa. Tali cooperative potrebbero collaborare e avvalersi della competenza di altre cooperative che hanno sostenuto sperimentazioni di co-housing. Più in generale si dovrebbero promuovere collaborazioni tra le cooperative sociali che si occupano di inserimenti lavorativi di persone fragili con le altre aziende cooperative. In questa cornice le riflessioni del gruppo che ha lavorato sul valore che si attribuisce oggi all’appartenenza cooperativa hanno individuato i fenomeni che possono spezzare il filo di comunicazione con i valori di fondo della cooperazione, legandosi ai “falsi miti del profit”, ma anche a un distorto rapporto “ancillare” con il committente pubblico (tema affrontato anche in un altro gruppo di lavoro).

Garantire un lavoro di qualità e soddisfacente
La cooperazione è certamente un diverso modo di possedere, ma deve essere anche un diverso modo di lavorare. Il gruppo che si è occupato delle condizioni che permettono ai cooperatori sociali di svolgere un lavoro di qualità e di soddisfazione ha elencato diversi indicatori di qualità, dal senso di appartenenza e dal rispetto, al riconoscimento sociale alla chiarezza della mission, alla necessità di una formazione continua. Ha ovviamente toccato il problema delle retribuzioni (sempre troppo basse) degli operatori che tradiscono un non riconoscimento sociale della loro quotidiana azione. Ciò si ricollega però anche alla crisi delle professioni sociali a sua volta collegabile al fatto che il sociale non è più al centro dell’attenzione della politica come era stato negli anni fondativi del nostro sistema di welfare. Gli operatori allora si sentivano agenti del cambiamento. Oggi gli operatori sociali, soprattutto quelli dell’ambito pubblico, sono un po’ ”insofferenti“ alle richieste di adattare il loro modo di lavorare alle continue trasformazioni organizzative e istituzionali attivate nel tentativo di risparmiare risorse, ma anche “sofferenti” perché vedono messe in discussione le finalità stesse del proprio lavoro quando, nello stesso tempo, è invece richiesto loro un maggior impegno. In alcuni casi devono mettere in campo nuove competenze in relazione a nuovi e complessi bisogni delle persone seguite. Non solo gli operatori pubblici ma anche gli operatori delle cooperative sono ad esempio impegnati in processi di accompagnamento complessi e di sostegno all’empowerment delle persone che devono fronteggiare l’impoverimento e il lento scivolare nel disagio. Sono ruoli di mediatore e facilitatore che richiedono competenze nuove. Ho fatto questi pochi cenni al travaglio delle professioni sociali, per evidenziare come sarebbe necessario che la cooperazione sociale, sostenuta dal pubblico, potesse  costantemente  offrire  ai  propri  lavoratori  occasioni  di  formazione e di sostegno alle loro abilità, in particolare alle abilità relazionali. Ciò nella consapevolezza che l’investimento formativo mal si concilia con il lavoro precario.

Come creare innovazione ed innovare
Il gruppo di lavoro che si è occupato di innovazione ha identificato un’innovazione legata a nuovi clienti (welfare aziendale) e a nuovi ambiti di collaborazione (welfare abitativo), così come un’innovazione societaria (relativa  alle  nuove  prospettive  aperte  dalla  legge  sul  non  profit). La prospettiva di poter rivolgersi a un mercato di privati (attivato dal welfare aziendale ma anche dalle crescenti esigenze di famiglie che devono far fronte alla non-autosufficienza di persone anziane) ha comunque portato a chiamare innovazione la possibilità di liberarsi dal rapporto esclusivo con la Pubblica Amministrazione per aprirsi al “mercato “dei beni e servizi più preziosi, cioè quelli di interesse generale; fino a pensare a trasformazioni dell’impresa cooperativa. La concorrenza dovrebbe garantire alle nuove “imprese sociali” autonomia e creatività. Ciò richiede dei soggetti imprenditoriali capaci di investire sulla valorizzazione delle risorse della comunità e capaci di “contagiare” e “ibridare” le società di riferimento e l’intero mondo produttivo. Si è dibattuto sulla proposta di “imprese ibride composte da filiere di soggetti pubblici e privati capaci di riconoscere e generare i beni comuni”. Si fa riferimento alle imprese sociali, alle società benefit, alle cooperative di comunità, all’economia di comunione, ecc. Tutto questo richiede tuttavia un quadro concettuale nuovo che dovrebbe comporre esperienze diverse dalla finanza etica al social business promosso da Yunus. Tutte “parole magiche” su cui si sta ragionando soprattutto in alcuni contesti stranieri diversi dai nostri. Si è posta anche l’attenzione sull’innovazione nel pensare e organizzare i servizi singoli e/o destinati ai nuovi bisogni. A questo proposito è stato osservato che si dovrebbero evidenziare maggiormente le eccellenze realizzate, anche se di piccole dimensioni. Un ambito in cui è necessario sviluppare innovazioni è quello dell’accoglienza agli immigrati. E non soltanto perché si devono riscattare alcuni comportamenti addirittura perseguibili penalmente oltre che sciatterie e affarismo, ma perché questa è la sfida che ci porteremo con noi in un lungo futuro. Una sfida che richiede di essere “scomposta” rispetto ai tanti e diversi problemi che riguardano gli immigrati derivanti dall’appartenere a etnie diverse, dall’avere raggiunto nei loro paesi diversi livelli di istruzione scolastica, dall’età, ecc. In questa fase è essenziale distinguere le diverse modalità di intervento richieste dai centri di prima accoglienza, dai CAS (Centri di Accoglienza Straordinaria) e dagli SPRAR (Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati). Piccole esperienze positive che hanno comportato anche inserimenti lavorativi sono già state realizzate (e descritte nei vari gruppi di lavoro) ma ci aspetta un percorso capace di portare queste esperienze ad affrontare i grandi numeri. Questa nuova sfida richiede tuttavia un ampliamento della mai facile collaborazione con le imprese che possono offrire tirocini e inserimenti lavorativi. Così come si dovrà ricorrere a nuovi strumenti per mobilitare risorse private (finanza etica, ecc.).

Rapporto tra cooperazione e pubblica amministrazione
Il  tema  dei  rapporti  tra  cooperazione  sociale  e  pubblica  amministrazione è sempre stato oggetto di confronti e di valutazioni. Confronti che hanno portato  recentemente  la  Regione  Emilia-Romagna a emanare nuove Linee guida regionali sull’affidamento dei servizi alle cooperative sociali. Il gruppo di lavoro che si è occupato del tema ha soprattutto evidenziato elementi dialettici relativi a stereotipi che, facendo proprio un approccio liberista e aziendalista, forzano la relazione tra meccanismi dei bandi ed esiti in termini non solo di efficienza ma di qualità. Traslando meccanismi concorrenziali adatti al settore dei beni di consumo nel settore dei servizi alla persona, là dove il “consumatore” è una persona fragile di cui si devono tutelare i diritti. E non chiarendo se la concorrenza deve tutelare i consumatori o (cosa non illegittima) la prospettiva di lavoro di più imprese. In generale il gruppo ha sottolineato la necessità di stabilire rapporti di partenariato e perciò di co-progettazione piuttosto che di sub-fornitura. Co-progettazione che viene complicata dal fatto che sempre più la pubblica amministrazione chiede alle cooperative sociali di lavorare esse stesse in partenariato con molte altre imprese e organizzazioni (soprattutto con gli Enti di formazione professionale). Nel corso di una precedente iniziativa promossa da AILeS, Ugo De Ambrogio distinse tra co-progettazione istituzionale, progettuale, gestionale/operativa e finanziaria, sollecitando tuttavia a non soffermarsi troppo sugli aspetti amministrativi. Nel nostro territorio vi sono tuttavia alcune esperienze che hanno tentato di individuare procedimenti amministrativi adeguati alla co-progettazione. Un esempio può essere il percorso proposto da ASP Città di Bologna per l’istituzione dello SPRAR. ASP ha emesso un bando che, pur superando il rapporto tradizionale committenza/fornitore, ha tenuto conto di tutte le normative del codice degli appalti e delle Linee guida dell’Autorità Nazionale Anticorruzione così come delle Linee Guida regionali per l’affidamento dei servizi alle cooperative sociali. Il fine era proprio quello di realizzare una co-progettazione ampia per la realizzazione dello SPRAR che è di competenza del Comune. Una procedura complessa e abbastanza nuova per realizzare, in una prima fase 1350 posti di accoglienza ordinaria e 350 per minori non accompagnati. È stato emesso un primo bando a cui i partecipanti dovevano presentare progetti relativi ai vari “pezzi” dell’intervento, sia per quanto riguarda i posti di accoglienza che per attività trasversali (come la mediazione linguistica e culturale, l’accompagnamento legale, ecc.). I giudicati idonei (da una prima commissione) dovevano partecipare a un tavolo di co-progettazione. Conclusa questa fase si doveva presentare un’offerta vincolante poi giudicata da un’altra commissione diversamente composta. Ciò ha consentito di redigere una graduatoria a scorrimento per i tre anni previsti dal Ministero che arriverà a provvedere all’enorme numero di posti che abbiamo indicato. Tale processo ha comportato non poche difficoltà per i partecipanti anche per la quantità di tempo impiegato, ma ha consentito di sperimentare una collaborazione effettiva fin dalla progettazione degli interventi che dovrebbe facilitare le collaborazioni successive, necessarie per l’adeguatezza dell’intervento complessivo. Ho  provato  a  raccogliere  i  tanti  elementi  emersi  dalla  iniziativa  di AILeS. Una riflessione che ha consentito di far più volte emergere l’interrogativo  sulle  identità:  ”Chi  siamo  noi  cooperative  sociali?”. I temi trattati, cioè l’appartenenza associativa, la qualità del lavoro, la capacità di innovare e le modalità dei rapporti con la Pubblica Amministrazione presentano infatti aspetti diversi in relazione alle diverse tipologie di cooperative. Conseguentemente l’aggettivo “sociale” può assumere significati diversi e indicare diversi risultati. Un buon punto d’avvio per il riconoscimento dei diversi modi in cui si può essere cooperativa sociale (a cui corrispondono diverse mission e perciò dovrebbero corrispondere diversi riconoscimenti da parte della normativa) è quello di tentare di individuare strumenti per misurare l’impatto sociale delle diverse tipologie di cooperative. Il cammino di riflessione di AILeS potrebbe continuare in questa direzione.



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