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autore: Autore: a cura di Annalisa Brunelli e Giovanna Di Pasquale

3. Il Condominio Solidale

Marco Frigerio del Condominio solidale di Bruzzano (MI) e Maurizio della comunità psichiatrica “Mizar” raccontano la storia di una convivenza possibile:quella fra un gruppo di famiglie che condivide l’esperienza di un condominio solidale e quella di una residenza psichiatrica.

La casa
Marco: Alla fine degli anni ’70, nella periferia all’estremo nord di Milano, è stato costruito un complesso di tre palazzine da tre piani più mansarda ciascuna con un grande portico al piano terra che occupa la superficie di tutte e tre le palazzine, uno spazio comune molto grande con mensa e dei balconi che girano tutt’intorno. In quella zona poco raggiungibile, praticamente fuori dalla città, difficilmente qualcuno avrebbe potuto mettere degli uffici e infatti queste palazzine, abbandonate per anni, sono poi state occupate. Nel giro di una ventina d’anni è stato portato via tutto (porte, sanitari, rame) e sono rimaste solo le mura mentre gli abitanti venivano definiti dai vicini dei palazzi intorno “gentaccia”, che accendeva il fuoco per scaldarsi e illuminare, che entrava scavalcando tutte le sere… insomma c’era un giro un po’ strano. La gente aveva paura e faceva pressione sul Comune perché risolvesse la situazione. Si è fatta viva una Fondazione che ha provato a realizzare questo progetto: unire un condominio solidale con una comunità psichiatrica.
I percorsi delle famiglie e della comunità Mizar sono stati abbastanza diversi: loro avevano dei finanziamenti per la ristrutturazione e non ci hanno messo tanto, mentre noi ci abbiamo messo undici anni a ristrutturare tutto, lo abbiamo fatto man mano che avevamo i soldi, lavorando noi. Il nostro percorso è stato molto più lento e graduale ma forse è stato un bene anche per la comunità Mizar che ha potuto veder crescere pian piano la realtà vicino.

Le famiglie
Marco: Il nostro condominio solidale parte dall’esperienza di Villapizzone a Milano ed è legato a un circuito di condomini solidali abbastanza strutturato che in Italia ha una trentina di comunità.
Siamo sette nuclei familiari, tra single e famiglie vere e proprie, e il nostro scopo è quello di fare al meglio le famiglie mettendoci nelle condizioni di aprirsi e aver delle cose da offrire. Se sto bene mi apro agli altri, l’apertura porta sempre una sorta di ricchezza se consideriamo l’altra persona una ricchezza.
Non ci sono grosse regole all’interno del condominio solidale se non tre punti fermi cui facciamo riferimento: l’apertura verso l’esterno, l’accoglienza e la condivisione.
Apertura:queste case non sono nostre, ci sono state affidate per questo progetto ma ce le potrebbero richiedere in qualsiasi momento, noi le abbiamo ristrutturate, le abbiamo rese abitabili ma non è nostra proprietà. Sono case grandi, forse troppo per i nuclei familiari che ci vivono ma sono case che ci invitano ad aprirci: avere un tavolo da dieci persone in casa, visto che noi siamo solo in quattro, è un invito all’apertura. Anche gli spazi comuni sono stati pensati come posti per tutti, a disposizione di tutto il quartiere, di chi può averne bisogno per feste, riunioni, preghiere, tutte quelle iniziative che non trovano posto nelle case ma anche semplicemente per giocare: nel condominio di fronte al nostro non è possibile nemmeno sostare a parlare nel portico perché quelli che ci abitano si lamentano del rumore. Non è stato facile far capire alla gente del quartiere che, in caso di pioggia, si può venire a giocare sotto il nostro portico perché tanto il cancello è aperto. La prima famiglia che si è avvicinata e ha osato venire sotto il nostro portico è stata una famiglia serba!
Per noi, apertura vuol dire apertura non solo di spazi ma anche di tempi perché bisogna tener in ordine gli spazi per fare in modo che siano accoglienti e questo lo facciamo noi ma anche le persone che arrivano; non si chiede un affitto del portico, del salone, si chiede semplicemente una mano per tenerlo in ordine, deve diventare un posto per tutti; chi non vuole o non può pulire lascia un’offerta.
Questo è quello che tentiamo di vivere come apertura.
Accoglienza:le nostre case sono abbastanza grandi per poter accogliere altre persone, in casa nostra vivono persone che si sono aggiunte nel tempo per svariati bisogni, che arrivano, che vanno via dopo un anno o dopo qualche mese oppure arrivano e non vanno via più, se non riescono a riprendere l’autonomia restano in casa e diventano parte della famiglia. Ogni famiglia può decidere chi, se e quando accogliere, visto che uno dei nostri scopi è che la famiglia faccia la famiglia: per esempio per noi, che abbiamo avuto due bambini che non hanno mai dormito per i primi tre anni di vita, è stato difficile in quel periodo pensare di poter accogliere altre persone in casa. Ci siamo sentiti liberi in un momento che per noi era abbastanza difficile. Appena i bambini hanno cominciato a dormire abbiamo riaperto la nostra casa a persone che avevano bisogno.
Condivisione:fra i nuclei familiari che abitano nel condominio solidale è importantissima. Per riuscire a fare questa cosa e riuscire a stare in piedi facendosi carico di altre persone che difficilmente riuscirebbero a trovare un’alternativa, senza grossi aiuti da parte dei servizi sociali, devi fare gruppo, quindi la condivisione fra noi famiglie e anche all’interno di tutto lo stabile e con la comunità Mizar è sempre stata importante per riuscire a darci supporto. Mi piace pensare che sono lì non tanto per realizzare i miei desideri, i miei sogni ma per provare ad aiutare l’altra persona a realizzare i propri. Io so che posso pensare ai bisogni dell’altra persona, perché posso contare sul fatto che ci sono altre sei famiglie che pensano anche ai miei di bisogni. Posso contare su più teste che possono darmi una mano.
Questo implica anche una dimensione emotiva perché se la famiglia dei miei vicini sta bene sto molto meglio anch’io, riesco a mettere più entusiasmo nella vita insieme, se sta male stiamo tutti un po’ male, e questo è vero anche in relazione alla comunità Mizar: se stanno bene loro stiamo bene anche noi, siamo contenti, se hanno qualche difficoltà, stiamo male anche noi, ci sentiamo un po’ più tirati.
Si sente il clima vivendo gomito a gomito.
Maurizio: Noi abbiamo quindici ospiti, più una decina negli appartamenti di residenzialità leggera, e per farli vivere in modo dignitoso ruotano intorno a loro una quindicina di persone, dagli assistenti Oss agli educatori, poi il cuoco, la lavandaia. In questo mondo che gira intorno a queste persone noi consideriamo le famiglie come parte integrante non perché abbiano momenti fissi ma perché sono i nostri occhi, sull’ospite che va in giro e non sai dov’è, sugli operatori qualcuno bravissimo qualcuno meno, è una presenza reale, costante; non so se amicizia è il termine giusto, c’è una solidarietà spiccia per quello che ti serve e quello che si può fare.

La convivenza con Mizar
Marco: La convivenza con la comunità psichiatrica non è regolata da alcun impegno ufficiale da parte nostra, noi siamo solo i vicini di casa: il tentativo che questo progetto voleva portare avanti era di poter inserire persone con una disabilità psichiatrica abbastanza grave in un contesto normale. Il manicomio di Milano che è a un tiro di schioppo dalle nostre case è sempre stato una specie di grande e bellissimo parco in cui le persone stavano chiuse, nessuno le vedeva. La sfida è stata quella di inserirli in un contesto sociale urbano con la possibilità di avere relazioni normali con persone considerate normali.
I vicini di casa che prima avevano paura della gentaccia che aveva occupato il condominio si sono trovati di fronte persone non proprio comuni. Si è detto addirittura che il valore delle case vicine era deprezzato, penalizzato dalla presenza di persone bizzarre. Tuttora ci sono dei rapporti un po’ tesi con alcuni vicini.
Maurizio: Anche dopo l’approvazione della legge Basaglia, queste persone sono rimaste in ambito psichiatrico, fino al 2001 quando abbiamo avuto l’occasione di andare in questo condominio che abbiamo fatto nascere insieme alle famiglie.
L’impatto sul quartiere è stato a dir poco devastante e, finito lo scandalo, rimane ancora una grande diffidenza. Noi, oltre a questo, abbiamo anche degli appartamenti di residenzialità leggera, alcuni all’interno del condominio, altri esterni. In uno di questi appartamenti esterni, la prima telefonata del vicino di casa scocciatissimo perché non era riuscito a dormire, è avvenuta un mese prima dell’entrata
in casa dei nostri ospiti. Questo per dire quanto l’ambiente in cui viviamo noi e i nostri ospiti è fondamentale. I nostri ospiti per la prima volta hanno avuto in mano una chiave, quella di accesso al condominio, e questo per loro è di un’importanza incredibile. Piccoli gesti di normalità in un contesto davvero privilegiato.
Marco: Rispetto alla comunità Mizar a noi piace pensare di essere liberi di esserci e non esserci così come per le persone che accogliamo nelle nostre case, e quindi l’iniziativa nello stare insieme, nell’essere buoni vicini viene lasciata al desiderio nostro di esserci. Se il nostro desiderio venisse codificato in impegno fisso, dopo un po’ penso che mi peserebbe. Mi pesa molto di meno se penso di esserci perché mi piace, questo mese riesco a esserci di più perché ho meno impegni o i bambini non sono malati, il mese prossimo magari ci sarò un po’ di meno; ormai sono otto anni che abito lì e lasciare questa iniziativa alla nostra voglia di esserci è una cosa che mi fa mantenere un entusiasmo sempre uguale all’inizio, non mi sento vincolato, lo faccio perché mi fa piacere.
Mi capita di perdere il treno e arrivare al lavoro con mezz’ora di ritardo perché mi fermo a parlare con un ospite di Mizar e fermarsi a parlare con loro è un’esperienza che può portarti via dai tre secondi alla mezz’ora quando hanno voglia di raccontarsi e non ti mollano più. Questo mi piace perché, soprattutto in un ambiente come quello di Milano, lasciare che un minimo di lentezza nei ritmi venga gestita non da me ma dalle relazioni con le persone che incontro, chiunque esse siano, è una cosa che mi dà molto di più di quello che potrei guadagnare lavorando quella mezzora in più.
Mi piace vedere che i miei bambini non hanno paura nel relazionarsi con le persone che abitano a Mizar, ci sono cresciuti e, passata la fase normale di paure di tutti i bambini, le vivono solo come persone strane. Quando al parchetto arrivano gli ospiti di Mizar le altre mamme tendono ad allontanarli dai propri figli. Il fatto che i miei non abbiano paura ma vadano loro incontro è per me un segno molto importante di come i miei figli considereranno la diversità da grandi e questo fa parte dello stile di accoglienza che noi abbiamo. È importante anche come i bambini possono accogliere le persone ospiti di Mizar: ci sono alcuni ospiti che si pongono in maniera abbastanza dura nei confronti degli altri, se saluti Renato quando è di cattivo umore ti risponde male, ma di fronte a un bambino che gli parla incredibilmente Renato si trasforma in un nonno. Nemmeno gli educatori di Mizar riescono a spiegarselo, è un comportamento abbastanza inusuale: quello che i bambini riescono a trasmettere a queste persone li rende assolutamente invulnerabili.
Maurizio: Di Mizar fanno parte due comunità psichiatriche a media e ad alta protezione, che accolgono gli ultimi ospiti dell’ospedale psichiatrico storico di Milano, parliamo di persone che hanno 20-30 anche 40 anni di ospedale psichiatrico alle spalle, per alcuni di loro parliamo di ospedale psichiatrico degli anni ’70, quindi posti davvero difficili da pensare oggi. Sono persone con gravi compromissioni di tipo psichiatrico e in questo senso le esperienze anche banali diventano davvero importanti, davvero rare. Quando i bambini del condominio si avvicinano e invece di scappare li abbracciano per molte di queste persone è la prima volta: si vedono abbracciati dal bambino e non è mai capitato nella loro vita.
Marco: Naturalmente, l’accoglienza non è sempre facilissima: quando d’estate le finestre sono tutte aperte e qualche ospite urla e canta dal balcone mentre i bambini dormono non sempre si riesce a pensare “che bello che canta!”. D’altra parte quando poi i bambini dopo la nanna giocano sotto al portico e urlano fino all’ora di cena, sono loro che devono subire.
Ci siamo dati un appuntamento fisso tra noi famiglie, il mercoledì: ognuno porta qualcosa e si mangia insieme sotto il portico, è un momento conviviale ma parliamo anche di cose tecniche, pratiche, della gestione del condominio, fino a mezzanotte, mezzanotte e mezza si chiacchiera e si parla. È un momento interessante da vivere insieme ed è aperto a chiunque, agli amici, agli amichetti dei nostri figli, agli ospiti di Mizar. È bello viverlo anche assieme a loro che magari all’inizio si presentavano la sera sbagliata ma adesso quando arrivano, siamo contenti e se non arrivano pensiamo che è perché hanno qualcos’altro da fare ma sanno che ci siamo.
Maurizio: Le cene che si fanno il mercoledì prevedono anche la partecipazione di alcuni dei nostri ospiti, quasi sempre funziona tutto ma sono comunque ospiti psichiatrici; insieme alle famiglie abbiamo parlato dei comportamenti problematici e li abbiamo risolti senza che nessuno rimanesse traumatizzato da comportamenti particolari. Noi abbiamo avuto degli ospiti che per la prima volta nella loro vita sono stati invitati a cena e per una settimana non si è parlato d’altro.
Marco: È bello che nella nostra testa ma soprattutto nel nostro cuore ci sia la voglia di tener sempre in mente che ci sono anche loro e quando ti viene voglia e c’è lo spazio nella tua vita li inviti, li coinvolgi, condividi con loro.
Per esempio, Antonio del nostro condominio ama molto il cinema e spesso invita Stefano di Mizar ad andare con lui ma sono più le volte che deve seguirlo perché va in bagno e non torna più oppure esce e va a casa… Quindi Antonio, quando c’è un film di cui non è particolarmente ansioso di vedere il finale invita Stefano ma quando c’è un film di cui non può perdere niente ci va da solo. Lasciamo alla nostra iniziativa lo spazio e il tempo da condividere con loro.
Maurizio: All’interno del condominio solidale dire che siamo di casa è dire poco, con grandi possibilità di normalità che vanno dal condividere spazi, condividere tempi ma anche condividere cose più concrete. Per esempio, quando abbiamo dovuto far uscire dalla comunità ad alta protezione una persona con grosse problematiche per la quale non c’era nessuna comunità pronta ad accoglierla, l’hanno accolta le famiglie, così, da un giorno all’altro, con una semplicità e con una vicinanza non pensabile in altri contesti.
Quando muore uno dei nostri ospiti, la chiesa è piena: ci siamo noi, gli ospiti ma anche le famiglie del condominio, gli operatori e gli ex operatori e anche il quartiere, adesso i negozi abbassano le serrande quando passa un funerale, in segno di vicinanza. Invece al funerale classico di un ospite dell’ex Paolo Pini ci sono la bara, il prete e nessun parente.
Marco: Mizar ogni anno organizza una settimana di vacanza con tutti gli ospiti, cui partecipiamo anche noi famiglie che invece organizziamo dei week end invernali al mare cui invitiamo anche alcuni ospiti di Mizar. Il primo anno di vacanza pensavamo che avremmo dovuto adattarci ma alla fine l’adattamento è stato veramente minimo, i ritmi loro sono esattamente quelli di una famiglia con bambini piccoli, abbiamo gli stessi tempi quindi il condividere una settimana al mare con loro per noi è come stare con altre famiglie, con persone che conosciamo, che abbiamo piacere di frequentare e che non ci impongono nessun cambiamento rispetto a quello che noi faremmo come famiglie. Questa esperienza della vacanza ci permette di entrare un po’ più in contatto, vivendo proprio insieme a loro si scoprono tante cose interessanti. Questa è una delle cose che ci piace di più condividere con Mizar.

Associazione Comunità Famiglia (ACF)
Nella sua forma attuale, l’Associazione è stata fondata nel 1988, ma l’idea di un organismo di volontariato che promuovesse esperienze di vita comunitaria tra famiglie o gruppi, aperto a varie forme di solidarietà e socializzazione, nasce nel 1978 con la prima comunità di Villapizzone, a Milano.
Attualmente ACF conta dieci comunità familiari residenziali, localizzate soprattutto in Lombardia. Negli ultimi anni sono inoltre nati decine di gruppi di condivisione, con centinaia di famiglie coinvolte alla ricerca di un’occasione di mutuo-aiuto nel percorso verso la propria realizzazione di famiglia.
Dal 1995 ACF è iscritta all’albo regionale del volontariato quale “organizzazione di volontariato per l’autopromozione della famiglia e della persona”. L’Associazione collabora con altri soggetti – Fondazione I Care, Diocesi, Caritas, Banca Etica, enti pubblici e privati – per progetti comuni.
Le comunità familiari sono essenzialmente formate da famiglie che vivono vicine, ciascuna con una sua identità e autonomia abitativa, ma tutte ispirate ai valori della sobrietà, della condivisione dei beni, della tolleranza, del rispetto delle diversità, dell’accoglienza.
Questo permette di offrire ad altre persone, in cerca di “senso” e/o in difficoltà, il calore di un contesto familiare vero, in cui crescere e ritrovare fiducia e dignità. Il modello di comunità proposto dall’Associazione è incentrato sull’autopromozione della persona, e la comunità di famiglie o condominio solidale ne è il principale strumento.
La principale fonte di sostegno quotidiano delle comunità proviene dalle attività lavorative dei propri membri, nelle cooperative di lavoro gestite interamente da associati o, all’esterno, come lavoratori dipendenti o autonomi; altre persone si dedicano interamente al lavoro domestico di accoglienza, di servizio alla comunità e all’Associazione.
Tutte le risorse confluiscono in una cassa comune, da cui ogni famiglia preleva mensilmente, in totale autogestione e sulla base della reciproca fiducia, un assegno in bianco per i propri bisogni.

Condominio solidale di Bruzzano
via Urbino 9 – 20161 Milano
tel. 02/66.22.65.61
bruzzano.solidale@tiscali.it

Mizar 1 e 2
Alla fine del 1998, la Regione Lombardia con le ASL e le unità Operative Psichiatriche ha dovuto affrontare il problema della chiusura degli ex ospedali psichiatrici e ha cominciato a pensare alla realizzazione di strutture residenziali che potessero accogliere gli ultimi degenti dell’ex-ospedale psichiatrico “Paolo Pini”. La Caritas Ambrosiana, tramite la cooperativa Farsi Prossimo, si è resa disponibile e, nel 1999, sono state aperte Mizar 1 e Mizar 2, due Comunità Protette a Media assistenza collocate all’interno del “Condominio Solidale” che opera con persone che vivono la marginalità sociale in varie realtà cittadine e provinciali.
Nel condominio di via Urbino sono state attivate su due piani due strutture comunitarie a impronta familiare (Mizar 1 e Mizar 2), una di otto posti e l’altra di sette posti. Le due comunità non vogliono solo rispondere ai bisogni di residenzialità dei pazienti a lungo istituzionalizzati, ma soprattutto cercano di spostare l’attenzione dalla malattia alla cura, intesa come intervento di riabilitazione sociale che si manifesta nel miglioramento delle condizioni di vita e di graduale integrazione nel tessuto sociale nonché nella riappropriazione della propria cittadinanza, favorendo anche l’integrazione con i vari attori coinvolti: utenti, familiari, privato sociale, volontariato, territorio, servizi pubblici.
La retta è a totale carico del Sistema Sanitario Regionale e le prestazioni offerte sono organicamente inserite nel Progetto Terapeutico Riabilitativo, concordato con la persona interessata e i Centri Psicosociali (CPS) dei Dipartimenti di Salute Mentale pubblici. Gli obiettivi sono perseguiti tramite il lavoro di un’équipe multidisciplinare composta da medico psichiatra, coordinatore, assistente sociale, educatori professionali, infermieri professionali,  operatori socio sanitari. E’ contemplato l’inserimento nelle attività delle Comunità di giovani del servizio civile, tirocinanti e volontari.

Comunità Protetta Media assistenza Mizar 1 e 2
via Urbino 9 – 20161 Milano
tel. 02/646.02.33
fax 02/646.02.33
mizar@filodiariannacoop.it

4. Il valore e il senso di appartenenza cooperativo oggi

A cura di Annalisa Brunelli, Giovanna Di Pasquale, Accaparlante Coop. Sociale

Qual è oggi il valore che attribuiamo come cooperatori sociali al senso di appartenenza cooperativo? Trovare oggi una risposta a questa domanda di fondo, implica prendere in considerazione tutte le dimensioni che strutturano valori e identità della cooperazione sociale. Da quella associativa a quella più prettamente aziendale fino alla valenza comunitaria, che va considerata una matrice originaria tra le maggiori anche se spesso latente.
Serve, ora più che mai, un’analisi e riflessione sulla situazione attuale e sul ruolo culturale-politico che la cooperazione, alla luce della propria storia, può svolgere per generare lavoro quanto l’attuale grave disoccupazione richiede e per promuovere e tutelare diritti, ancora e sempre esposti a indebolimento e minacce (basti pensare ai migranti e alle persone più fragili).
Una riflessione che si orienti verso la necessità di fare riemergere e manifestare in modi visibili i caratteri mutualistici e di reciproco appoggio che sono alla base della storia cooperativa, per non spezzare il filo che lega la cooperazione ai suoi valori di fondo, ancor più importanti oggi nell’evitare il rischio di involuzioni, di una mutazione genetica.
E’ un processo riflessivo che va innescato o potenziato, un processo che provi a tenere insieme l’assetto interno con un orizzonte esterno.
Questo significa chiedersi in modo esplicito quanto il senso profondo di appartenenza e le dimensioni relazionali e motivazionali siano presenti nell’esperienza della cooperazione sociale, sia nelle realtà più contenute per dimensione che nei gruppi di lavoro interni delle organizzazioni cooperative più grandi.
E ancora, implica riguardare al patto di coerenza che deve esserci tra la forte coesione fra i soci secondo valori solidali, di reciprocità e mutuo soccorso anche nelle situazioni di difficoltà, e la mission esterna, di sostegno alle persone maggiormente in difficoltà, inclusiva, non speculativa, senza deviazioni strumentali.

Attualizzare le radici
C’è un filo rosso che collega le esperienze cooperative bracciantili di inizio secolo che hanno generato occupazione e maggiori tutele per lavoratori poveri altrimenti sfruttati, con il nascere e lo svilupparsi della cooperazione sociale dagli anni 70, che si è fatta portatrice anch’essa di lavoro per i giovani, con una forte carica propulsiva e di promozione di sé. E questo attraverso la sperimentazione e la proposta di soluzioni nuove e non solo la gestione esternalizzata di molti dei servizi che hanno costruito il nostro sistema di welfare.
Lavorare nella cooperazione sociale è stata, in quel periodo, una scelta di valore culturale, finanche politica, per quanto anche allora, come oggi, ha rappresentato innanzitutto una opportunità di impiego e di un diverso modo di lavorare, pur a condizioni retributive non sempre soddisfacenti.
La cooperazione sociale nel suo percorso storico ha incontrato il tema dell’aziendalizzazione del modello di protezione socio-sanitaria che ha comportato scelte organizzative secondo razionalità aziendale, collocandola spesso nella stretta tra richiesta di servizi, a condizioni economiche progressivamente restrittive, e la necessità di non disperdere il valore professionale e qualitativo del lavoro svolto e dei servizi resi.
Offrire servizi realizzati nel modo migliore possibile ad un costo minore, accessibile, ha certamente comportato un assottigliamento della qualità soggettivamente percepita del lavoro svolto e anche una erosione del senso, del significato dell’impegno reso da tanti co-operatori.
Vi è consapevolezza diffusa tra i lavoratori di questo settore del senso di precarietà e del livello di retribuzione inadeguata legati alla discontinuità delle commesse e alle condizioni spesso penalizzanti dei bandi di gara. Paiono, a questo riguardo, ingenerosi e paradossali i giudizi che vengono espressi nei confronti delle cooperative sociali dalle aree del dissenso sociale, una sorta di pregiudizio che le vede collegate con trattamento privilegiato alle pubbliche amministrazioni e al potere politico, rispetto ad altre espressioni più o meno organizzate dell’associazionismo di base o ad altri soggetti.
Evitare di subire il condizionamento a volte troppo forte delle istituzioni, significa anche non contribuire a creare una nuova categoria di poveri costituita proprio dai lavoratori delle cooperative. Questo stato dei fatti è immediatamente percepibile quando ci sono situazioni di convivenza nei medesimi servizi a parità di professionalità e funzioni svolte di lavoratori del pubblico impiego e di lavoratori delle cooperative a regimi contrattuali e retributivi esageratamente dissimili.
La condizione di fragilità professionale e valoriale è ancora più accentuata e può spezzare quando si assiste:

  • ad un uso indiscriminato dei tirocini, sostitutivi di personale regolarmente assunto;
  • alla stabilizzazione contrattuale di operatori di sesso maschile, contro la reiterazione di contratti a tempo determinato di operatrici, con evidente discriminazione di genere;
  • alla cautela nel partecipare a manifestazioni indette per garantire diritti (di operatori e utenti) per compiacere la pubblica amministrazione di riferimento, dalla quale dipendono le commesse;
  • alla sottovalutazione delle competenze progettuali delle cooperative sociali, consegnate ad un ruolo di semplici fornitori di servizi;

E’ necessario allora uno sforzo della cooperazione sociale per riaffermare la propria identità, il proprio valore, le proprie peculiarità nei confronti delle istituzioni preposte e nei confronti delle aggregazioni ed espressioni di società civile, puntando ad una forma di identità aperta, inclusiva, non chiusa, riattivando energie e motivazioni che consentano di riprendere il motto “si può fare”, anche di fronte a sfide difficili.
Il ruolo della cooperazione non può essere subalterno alla pubblica amministrazione; occorre andare oltre all’identificazione come semplice fornitore di prestazioni, per attivare reali coinvolgimenti partecipativi nella progettazione dei servizi, quando invece ci sono le competenze per condividere partenariati con le istituzioni preposte ai servizi di welfare e delle politiche attive del lavoro, assieme alle altre realtà del terzo settore e del profit più socialmente responsabile, in un determinato territorio. Bisogna quindi riaffermare anche il ruolo politico della cooperazione sociale, aprendosi a contaminazioni positive e meticciamenti con le altre espressioni organizzate animate da analoghi valori di riferimento e intendimenti, per dare voce, risposta ai bisogni e ricostruire nelle comunità il tessuto sociale di una convivenza solidale. Il ruolo culturale e politico della cooperazione sociale per un welfare comunitario, interconnesso, di prossimità, comunque vicino e non distante, né burocratico, per chi ha più bisogno.
Ancora, bisogna disporsi ad una progettualità innovativa, e per progettare innovando, bisogna ritrovare o rigenerare il sostrato motivazionale che assieme a contesti cooperativi essi stessi inclusivi, per i co-operatori, possano offrire coesione, appartenenza, identità.
Con una identità forte di cooperatori motivati, che condividono con gli altri membri della compagine associativa un altrettanto forte senso di appartenenza si rendono disponibili le migliori condizioni per confrontarsi anche con compiti gravosi, quasi impossibili e con l’incertezza che è il segno del nostro tempo e della nostra società liquida, senza paura di perdersi.
Si evita cosi, il rischio di essere attratti da falsi miti del profit, diventandone la brutta copia e perdendo il senso del lavoro cooperativo e il suo valore aggiunto, fondamentale quando si opera per e soprattutto con le persone. Offrire una alternativa ad un mondo conformato del lavoro che spesso non valorizza le persone, i lavoratori, in nome del profitto, è ancora un compito importante della cooperazione in generale e di quella sociale in particolare. Anche e soprattutto per i giovani che si avvicinano al nostro mondo abbiamo il dovere di offrire un contenitore con dei valori da condividere, per i quali impegnarsi e realizzarsi.
Su questi aspetti torna evidente la correlazione tra condizioni interne che riguarda il benessere dei co-operatori e la mission solidale in favore dei fruitori esterni.

 Quale “carretto” vogliamo avere dietro nel nostro muoverci?
Se si vuole riuscire a reggere la sfida di conciliare l’esigenza di essere sul mercato con l’intento mutualistico e solidale della cooperazione sociale occorre tenere insieme la dimensione della qualità gestionale con quella progettuale e relazionale rendendo espliciti una serie di indicatori di qualità e soddisfazione misurabili e leggibili sia all’interno delle cooperative che dall’esterno.
La ricerca di questi indicatori tiene conto del fatto che la cooperazione sociale ha radici e storia alle spalle ma questo non deve diventare un peso nell’affrontare lo scenario contemporaneo ma una possibilità di rinnovamento e rigenerazione.
La ricerca di questi indicatori ruota attorno ad alcune parole chiave che costituiscono il perimetro delle questioni cruciali intorno a cui si gioca la differenza fra una cooperazione di qualità rispettosa e coerente con i suoi valori fondati ma capace di rigiocarli e rilanciarli per il futuro.
Il rispetto: è il valore essenziale e fondante di ogni possibile modo di declinare e interpretare il lavoro cooperativo.
L’investimento personale e motivazionale: quando il livello dell’investimento personale e motivazionale è carente produce una visione del lavoro cooperativo normalizzata e assimilabile a tanti altri contesti professionali.
La dimensione e il senso di appartenenza: la dimensione è un variabile importante per costruire il senso di appartenenza. La dimensione ridotta rafforza la conoscenza personale e definisce un gruppo investito affettivamente. Quando la dimensione aumenta diventa indispensabile trovare forme di organizzazione per gruppi più piccoli dove si possano recuperare vicinanza e investimento relazionale.
La variabile del tempo: quando le modalità di lavoro interno e/o i rapporti con committenza e clienti impongono tempi troppo scadenzati, pianificati, esiti già predisposti, la ricerca di qualità si affatica e “soffre”.
La selezione del personale: chi viene oggi a lavorare in cooperativa lo fa tenendo conto del fatto che si tratta di un lavoro che deve tenere alto il livello di guardia rispetto alla connotazione umana, relazionale oltre che tecnica. Per mantenere alta la qualità delle azioni occorrono professionalità trasversali, complementari e un giusto mix di mescolanza di profili.
La forte intenzionalità imprenditoriale: significa innanzitutto che la cooperativa sociale deve avere intenzione e consapevolezza del suo essere impresa.
La chiarezza della mission: tenere strettamente unito il “bene” economico con l’etica delle scelte e la cura delle relazioni.
Un bilancio sano: positivo, chiaro, trasparente è indicatore essenziale per la qualità del nostro lavoro.
La tangibilità dei buoni risultati economici: il riscontro è dato dal restituire ai soci lavoratori in modo tangibile e concreto i buoni risultati economici, ovviamente quando ci sono.
Il valore sociale dato dalle persone: è centrale e deve restare tale, la consapevolezza che il nostro valore sociale sono le persone e che per trasmettere il benessere fuori occorre agire per il benessere all’interno.
L’autonomia nelle scelte: è questa autonomia, non contrapposta all’inserimento in reti e accordi, che permette indipendenza di giudizio e celerità nelle scelte.
La curiosità: un indicatore di qualità importante è dato dalla curiosità di fare cose nuove, sperimentarsi in modalità ed ambiti non tradizionali, spezzare gli automatismi e la routinizzazione degli interventi.
L’investimento nella formazione continua: per mantenere e rafforzare un atteggiamento esplorativo, curioso, aperto, l’investimento nella formazione continua si pone come un altro indicatore di qualità del nostro lavoro che deve essere presente.
Il riconoscimento sociale: questo indicatore è sia in indicatore della nostra capacità di essere riconosciuti come “portatori” di qualità che uno degli obiettivi che ci prefiggiamo. Per fare questo è indispensabile sia attivarsi verso l’esterno portando le nostre Cooperative fuori dalle nostre sedi e dai servizi che essere credibili dal punto di vista della proposta culturale che ci caratterizza.

1. Il gioco come esperienza vitale

di Giovanna Di Pasquale

Fra le attività praticate almeno qualche volta nel corso della vita, in qualsiasi parte del globo o in qualsiasi epoca storica ci si trovi, possiamo senz’altro mettere il gioco in cima all’elenco.
Ma il gioco, il giocare, i giocattoli sono davvero accessibili a tutti? Permettono una reale inclusione? Cosa intendiamo con questo termine? Sono molte le domande che ci possiamo fare per capire meglio il legame fra il gioco, come primaria attività umana, i giocattoli e la dimensione inclusiva attraverso la quale le persone, anche quelle con disabilità, vivono l’appartenenza a un contesto comune e integrato.
Con questa monografia vorremmo portare un contributo alla riflessione che parte proprio da queste domande.
Gioco e inclusione: se ci fermassimo al solo significato etimologico di queste parole potremmo rischiare di rimanere spaesati dall’apparente distanza che le caratterizza. Il termine inclusione rimanda all’azione di rinchiudere, chiudere dentro. Con il gioco, invece, ci spostiamo sul significato di scherzo, beffa, illusione. Qualcosa che diverge dalla realtà, la trasgredisce e quindi la reinterpreta. L’abbinamento di questi termini, gioco e inclusione, richiede allora una diversa e maggiormente contemporanea interpretazione.
Includere non può voler dire portare dentro uno spazio chiuso o determinato ma costruire legami che riconoscano la specificità e la differenza di identità. La politica inclusiva ci interroga sempre sui confini della nostra storia. “Inclusione – scrive il filosofo Jürgen Habermas – qui non significa accaparramento assimilatorio né chiusura contro il diverso. Inclusione dell’altro significa piuttosto che i confini della comunità sono aperti a tutti”.
Per trovare elementi di continuità con questa accezione del termine inclusione, tra le tante definizioni sul gioco riprendiamo due tra gli aggettivi utilizzati dal sociologo francese Roger Caillois che ci sembrano maggiormente coerenti: gioco come attività libera e gioco come attività improduttiva. Attività libera alla quale il giocatore non può essere costretto senza che il gioco perda il suo divertimento e la sua attrazione. Questo vuol dire che ognuno sta nel gioco in modo personale e non codificabile rigidamente. Attività improduttiva poiché, da un punto di vista economico, il bambino non gioca per portare un risultato ma arriva anche a dei risultati che sono nuove creazioni, atti di trasformazione di materiali e situazioni.
La dimensione libera e soggettiva del gioco non significa però che esso non abbia dei principi guida, dei fondamenti che ne ispirano lo sviluppo, ne determinano l’essenza e ne confermano l’importanza come esperienza primaria e vitale per ogni vita. Possiamo riassumere questi principi facendo ricorso ai quattro elementi naturali. Il primo si richiama al principio fisico della terra, ha come parola chiave “baricentro” e sottolinea la funzione che il gioco ha di permettere la consapevolezza di noi stessi, del nostro corpo, dei nostri limiti e delle nostre risorse. Il secondo ci riconduce al principio fisico del fuoco perché ha a che fare con l’“energia” necessaria a mobilitarsi per il gioco, energia che diventa slancio e rimanda al piacere che scaturisce dall’esperienza ludica. Il terzo principio è legato all’acqua e implica “complicità”, ha a che fare con la fiducia e l’affidamento dunque una condizione morbida, di adattamento reciproco. Il quarto e ultimo principio simboleggia l’aria e si collega all’improvvisazione perché il gioco è anche lasciarsi andare a quello che viene.
L’atto creativo nasce proprio quando non ci si affida solo a se stessi, territorio conosciuto, ma si incontra l’altro, sconosciuto. Questo incontro, che può anche essere spiazzante, obbliga continuamente ad andare fuori da noi stessi ma restando però sempre in noi stessi, rispondendo a un bisogno di relazione che è sempre alla base del gioco e del giocare.

La logica del design for all e i giochi inclusivi
Quando parliamo di giochi e giocattoli inclusivi intendiamo giochi la cui ideazione si rifà a un’ottica di progettazione e realizzazione vicina alla progettazione for all o Universal Design.
Questo concetto nasce storicamente da un’attenzione alle problematiche connesse con la disabilità: lo si può far risalire alla fine degli anni Quaranta del secolo scorso quando in Europa, in Giappone e negli Stati Uniti rientrarono i veterani della Seconda Guerra Mondiale, in molti casi reduci con mutilazioni di vario genere.
Il termine Universal Design venne coniato nel 1985 dall’architetto Ronald Mace, colpito da poliomielite nel 1950, all’età di 9 anni. Egli definì l’Universal Design come “la progettazione di prodotti e ambienti utilizzabili da tutti, nella maggior estensione possibile, senza necessità di adattamenti o ausili speciali”.
I concetti di base a cui si fa riferimento partono quindi dalla consapevolezza che non esiste il cittadino standard che fruisce in un’unica modalità ma diversi modi e possibilità di usufruire degli ambienti e delle occasioni. Che è come dire che alla base delle comunità non c’è l’omogeneità ma l’eterogeneità. Oggi assistiamo in molti contesti alla realizzazione di pratiche volte a progettare in maniera inclusiva gli spazi e gli ambienti, di modo che siano fruibili da tutti, senza distinzione alcuna superando anche la specifica distinzione evidenziata dalla formula “anche per persone disabili”.
In sintesi le indicazioni che si ricavano dai principi ispiratori del design for all parlano di una progettazione e produzione che porti a un uso equo, utilizzabile da chiunque, flessibile, adatto a diverse abilità e semplice, facile da capire e intuitivo. Altri livelli evidenziati sono dati dalla percettibilità che trasmette le necessarie ed effettive informazioni all’utilizzatore, dalla tolleranza all’errore che minimizza i rischi e le conseguenze negative o accidentali e le azioni non volute, dal contenimento dello sforzo fisico per poter avere un utilizzo efficace con la minima fatica. Infine, un’attenzione mirata viene dedicata alle misure e agli spazi che devono essere sufficienti a rendere lo spazio idoneo per l’accesso e l’uso.

Gioco, giocattoli e disabilità
Questo approccio inclusivo deve marcare anche il rapporto tra gioco e disabilità. Il gioco non è un’attività riabilitativa o riabilitante, è uno spazio libero, di curiosità ed esplorazione di sé e degli altri, strumento essenziale per la crescita e la strutturazione dell’identità.
Già la Convenzione ONU dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza sanciva il diritto al gioco, diritto che la più recente Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità ribadisce enunciando, che “[…] gli Stati Parti prenderanno le appropriate decisioni per assicurare che i bambini con disabilità abbiano eguale accesso alla partecipazione ad attività ludiche, ricreative e di tempo libero, sportive, incluse tutte quelle attività che fanno parte del sistema scolastico” (articolo 30, comma d).
Giocare è un diritto riconosciuto ufficialmente a tutti i bambini, ma diventa un problema quando la difficoltà a muoversi o l’incapacità di vedere oppure ancora la scarsa capacità d’attenzione e concentrazione su di un compito lo compromettono. Come per altre situazioni connotate da povertà, privazione culturale, marginalità sociale, la presenza di una disabilità può diventare motivo di esclusione dal gioco. La difficoltà di accesso, l’iperprotezione della famiglia, la difficoltà a partecipare alle occasioni ricreative formali e informali nei territori, ecco alcuni dei molteplici fattori che ostacolano la traduzione concreta del diritto al gioco in una pratica quotidiana nella vita dei bambini con disabilità.

Indicatori di accessibilità
Molti dei principi che ispirano la progettazione per tutti rendono possibile realizzare giochi e giocattoli inclusivi, così come studi ed esperienze educative consolidate (tra le più note l’approccio montessoriano) hanno evidenziato caratteristiche che diventano dei veri e propri indicatori di accessibilità e inclusività.
Tra queste caratteristiche troviamo il coinvolgimento, in fase di progettazione, dei soggetti interessati e l’ascolto dei bisogni e dei desideri, dei limiti e delle risorse di cui tener conto.
Altro aspetto importante sta nel facilitare l’accesso al gioco per tutti e nel modo più autonomo possibile e insieme agli altri. Per tutti i bambini, e per certi aspetti in misura ancora maggiore per i bambini con disabilità, è necessario poter sperimentare in prima persona, senza l’aiuto diretto e la presenza permanente dell’adulto. Questa possibilità aiuta a sviluppare la capacità del corpo di avere la percezione di sé in relazione al mondo esterno.
Da questo punto di vista gioca una funzione analoga la polisensorialità verso cui i giochi inclusivi devono tendere: diversi canali sensoriali come strade diverse e complementari per poterli usare in modo personalizzato.
La modularità e la qualità nella scelta dei materiali rappresentano altri due aspetti essenziali per interpretare il gioco in modo creativo e libero perché possa diventare cibo per la crescita.
Infine ci preme sottolineare la ricerca della bellezza e dell’attrattività che questi giochi devono avere. I giochi inclusivi non sono solo giochi tecnicamente fruibili da tanti ma anche giochi desiderabili da tutti: non giochi per qualcuno ma giochi condivisi. Giochi che uniscono e che rendono tutti i bambini parte di una comunità.

Consigli di lettura
-C. Riva, Amorgioco. Il bambino la disabilità il gioco, Fatatrac, Casalecchio di Reno (BO), 2005
-N. Gencarelli, Ausili fai da te, Erickson, Trento, 2012

2. Una fotografia, una vita

Intervista a Lesley McIntyre
La fotografia, le foto

Una delle cose più difficili da spiegare è quanto avere una bambina con il grado di disabilità che aveva Molly ha consumato il mio tempo. Circa i tre quarti delle foto stampate nel libro non le avevo mai viste prima della sua morte. Per me fare il libro è stato un viaggio emotivo, una scoperta emotiva.
Ho studiato come fotografa e ho praticato la professione di fotografa per circa otto/nove anni prima che nascesse Molly. Inevitabilmente, poiché la fotografia è la mia passione, non ho smesso di fotografare dopo la nascita di Molly ma ho continuato a farlo e il tema delle mie foto, del mio lavoro, è diventata la nostra vita domestica.

Scattavo queste foto che erano parte di me e nello stesso tempo erano un tentativo di dare un senso a quello che mi succedeva, era la mia passione ed era la dote che avevo prima che nascesse mia figlia. Ovviamente, non avevo idea che avrebbero costituito un libro. È stato un processo molto lento e il libro si è costruito durante diversi anni. La prima casa editrice cui mi sono rivolta è una grossa casa editrice che si chiama Randhom House e l’editor, dal primo momento in cui ha visto le foto che gli ho sottoposto, si è impegnato e ha deciso di pubblicare il libro. Il suo problema è stato come proporre questo tema al settore marketing della sua casa editrice. L’editor mi ha chiesto di scrivere qualcosa e quello che ho scritto è ciò che è realmente andato nell’introduzione del libro. È un tentativo di fare un libro che confonde le aspettative sulla disabilità, è un libro che ha una tendenza, un’attitudine verso la morte e la mortalità.

Il libro stesso è un’elegia a mia figlia, alla mia bambina. Se io fossi stata una poetessa avrei scritto un lungo poema, una lunga poesia, ma il mio dono, il mio talento è quello di essere una fotografa, quindi il libro è il prodotto di queste due gigantesche componenti della mia vita: la mia bambina e la fotografia, la possibilità che la fotografia offre di mostrare, di mettere a nudo l’essere umano. Sarebbe difficile descrivere con le parole la disabilità fisica di mia figlia in modo da darvi un’idea, un’immagine che vi restasse nella mente, mentre la fotografia rende il soggetto più tangibile e demistifica questo problema, anche se so che è un territorio difficile per molte persone.

Solo un quarto delle foto che sono nel libro le ho viste mentre Molly era in vita. Non avevo stampato le foto, non avevo tempo ed è per questo che prima ho detto che per me è stato un viaggio emotivo, di scoperta; poi a posteriori ho realizzato che avevo registrato una vita intera dall’inizio alla fine. Una fotografa, una vita. La fotografia è il dono che ho avuto, e Molly è stata la bambina che ho avuto, e questo è quanto.

Molly
È stato molto difficile perché ho avuto una bambina che sarebbe potuta morire molte volte e abbiamo vissuto con un’enorme intensità questa vita con Molly. Vivi con intensità quando sai che non puoi dare per scontata la vita. Nessuno sa quanto potrà durare la propria vita. Io abito territori difficili: la disabilità, il fatto che mia figlia, la mia unica figlia, sia morta, che io sia stata un genitore single per la maggior parte della vita di Molly… Ma nonostante tutti questi problemi che sono, credo, l’incubo di qualunque genitore, ho sentito che mia figlia mi ha insegnato tantissime cose.
A causa del grado di disabilità che mia figlia aveva, avevamo una relazione simbiotica, eravamo interdipendenti. Quando è morta, per me è stata una perdita enorme. Io non ho avuto una bambina che è passata attraverso i normali passaggi di separazione che un bambino fa dal proprio genitore ma, poiché io sapevo che lei sarebbe morta, ho veramente cercato di prepararmi al meglio. Ogni decisione l’ho presa cercando di pensare “Sto facendo la cosa giusta? Perché poi non voglio avere rimpianti, non voglio rimpiangerla”. Per essere onesta, come ce l’ho fatta, come ho resistito dopo la sua morte in alcuni giorni non lo so, non ne ho la più pallida idea ma quello che so è che amare qualcuno così profondamente, tanto quanto io ho amato lei, non significa morire dopo che lei è morta, che questo amore è capace di sostenermi dopo la sua morte.
È molto difficile per me spiegare. Molly e io ci volevamo molto bene, ci amavamo. Avevo una figlia che sapeva che aveva una madre ossessionata dalla qualità della luce. Diceva “Mamma, ferma la macchina, guarda laggiù, luce giusta!”. Per Molly una mamma con la macchina fotografica era la cosa più familiare.
La prima volta in cui ho avuto un incarico importante e lei era grande abbastanza per capire cosa ciò significasse, siamo andate dritte fuori a festeggiare in un ristorante italiano. Era una bambina buffa e filosofica, sapeva che stava morendo, era coraggiosa e, in un certo senso, lei mi ha insegnato tantissimo e io recentemente ho insegnato a mio padre a morire. Mi ha insegnato come stare vicino a qualcuno che sta morendo e poiché le persone muoiono in continuazione, ed è una cosa normale tanto quanto nascere, io penso che sia molto importante per le persone capire come dare aiuto nel momento finale della vita.
Penso che Molly non abbia saputo fino all’ultimo anno della sua vita di dover morire ma aveva un livello di realismo sulla sua fisicità: lei amava i bambini e ha sempre parlato della volontà di adottare dei bambini ma non ha mai parlato di sé dicendo “Quando io avrò un bambino”. Immagino che lei pensasse che sarebbe riuscita ad andare all’Università. Ha fatto un sacco di disegni sull’appartamento che avrebbe avuto quando fosse stata al college. Ma io penso che nell’ultimo mese lo sapesse… Lei era molto intelligente. Nessun dottore le diceva “Tu migliorerai” quindi lei non si aspettava di tornare di nuovo a scuola. Stava dimagrendo e ho chiesto ai dottori di non pesarla più perché lei sapeva che cosa significava e non c’era niente che lei potesse fare per evitare quello che stava accadendo. Io ho volontariamente portato fuori dall’ospedale mia figlia e l’ho curata a casa, così poteva fare quello che voleva, poteva invitare gli amici a dormire a casa, aveva un gatto, poteva fare quello che voleva ed è stata sempre completamente vigile. Le ho dato la buonanotte, il bacio della buonanotte, fino all’ultima sera: quella notte si è addormentata e non si è più svegliata, e per me quella è una buona morte.
Noi abbiamo trascorso tanto tempo negli ospedali, però Molly non ha mai avuto una diagnosi finale, precisa, ma era controllata, monitorata ogni anno. Non è stato come un’improvvisa disabilità, è stato graduale. Penso che se fosse cresciuta, attraverso la pubertà e l’adolescenza, sarebbe diventato molto più difficile. Era frustrata dal suo corpo, negli ultimi tempi, perché il suo corpo non le rispondeva più, non funzionava più. Era una bambina molto dotata, molto intelligente, amava andare a scuola e aveva voti alti in molte materie, amava la sua vita sociale… Semplicemente era –
fisicamente – non pienamente, completamente sana.
Molly voleva andare alla scuola d’arte per essere onesti. Penso che lei amasse il fatto che io lavoravo, che facevo questo lavoro e dato che io sono nel campo artistico ho degli amici artisti, attori, che scrivono commedie, giornalisti, pittori… Quindi erano tutte professioni che mia figlia conosceva. Quando era piccola, molto piccola, venne da me e mi disse molto seriamente “Dobbiamo accendere la televisione per vedere che cosa sta facendo il Governo”. Era molto coinvolta sui temi ambientali, aveva un amico che viveva in Croazia, durante la guerra nell’ex Jugoslavia. Prima che lei nascesse, sono stata molti anni in Africa, lei guardava le fotografie dei bambini in Ruanda…
La nostra era una casa con una tendenza alla visualità. Ho centinaia di disegni e di dipinti di Molly, lei era molto sicura di sé, poteva fare murales sulle pareti di casa. Vivere nella nostra casa era come lavorare in uno studio d’arte. Poteva usare qualunque materiale per dipingere, gessetto, pennelli, pennello da barba… Perché volevo che lei si sentisse durante la sua vita più realizzata possibile, pienamente conscia delle sue doti.
L’ironia è stata la mia scuola, probabilmente una buona scuola, un buon training, per avere a che fare con una bambina come Molly. Facevo delle grandi sculture come dei tepee, delle tende indiane, appendevo al muro pezzi di stoffa, campanellini, creavo un ambiente per incoraggiare questa bambina a muoversi perché all’inizio della sua vita non era molto interessata a vivere. Penso che nel reparto di terapia intensiva mi guardasse chiedendomi “Allora che cosa c’è di bello nel vivere?”. Io l’ho dovuta in parte convincere a godersi la vita.
In Galles ha incontrato un ragazzino che stava facendo campeggio sulla cima delle scogliere, aveva un fantastico cane nero, suonava la chitarra e cantava una canzone che si chiama The house of rising sun e non so come conoscesse le parole perché è una canzone di un’altra epoca. Insomma, si divertiva con degli amici maschi ma non aveva un boy friend particolare. I ragazzi la facevano ridere.
Ho cercato di usare quello che ho imparato attraverso la nostra vita insieme e a volte mi capita di parlare con delle infermiere che lavorano con bambini che muoiono, che sono molto malati. Lavoro in una Help line che ha sede a Londra che supporta i genitori che hanno perso i figli. Noi rivolgiamo il nostro aiuto non solo a genitori che hanno perso i figli per malattia, in ospedale, ma anche a chi ha perso i figli in battaglie, in guerra.
C’è una donna straordinaria in America, il suo nome è Elizabeth Kubler-Ross che dice “I bambini che stanno morendo sono alcuni dei nostri più grandi maestri”. Questo è quello che io ho provato per mia figlia. Io penso che sarò molto fortunata se mi capiterà di incontrare qualcun altro nella mia vita che mi possa insegnare tanto quanto mi ha insegnato lei.

Le mie “battaglie”
Ho dovuto combattere moltissime battaglie e ho speso molto del mio tempo sfidando le istituzioni per adeguare la legislazione governativa a favore dei bambini come Molly. Volevo che mia figlia andasse in una scuola normale come gli altri bambini e ho trascorso tantissimo tempo lavorando con un avvocato, raccogliendo delle prove, e quello era il mio impegno principale così come essere un genitore.
Molly è riuscita ad andare in una scuola normale, ho dovuto combattere, ho affrontato un processo legale per ottenerlo. Nel Regno Unito è molto difficile: è facile per quanto riguarda la scuola elementare mentre è molto più difficile per quella che è la nostra scuola media, io ho fatto causa e l’ho vinta. Così per due anni lei è andata alla sua scuola pubblica e ha avuto un tempo meraviglioso. Io ho cercato di renderla il più possibile indipendente da me. Prima dell’avvento dei cellulari avevo un cicalino come i medici per poter essere contattata per qualsiasi emergenza. Questo le ha dato la libertà di essere separata da me e questo ha significato che lei era molto sicura di sé a livello della sua vita sociale.
Molly ha fatto delle interviste alla BBC, la televisione britannica, raccontando la lotta che ha fatto per sé ma anche per altri bambini come lei. Ne ho parlato con lei, abbiamo discusso e quando le ho spiegato il motivo del caso legale che affrontavamo, lei è stata d’accordo con le interviste e quindi le ha concesse, ma quando si è stancata non ne ha fatte più e ho dovuto parlare io, si annoiava. Io penso che la sua esperienza alla scuola media sia stata assolutamente fondamentale per come lei ha goduto la sua vita, per come l’ha affrontata. Per me è stata la battaglia più dura da combattere ma non ho mai dubitato dell’importanza di questa battaglia.
Lo stato mi dava un contributo, non molto. Io e Molly abbiamo vissuto in Norvegia per due anni perché il padre di Molly è norvegese e il sistema assistenziale in Norvegia era sostanzialmente più realistico rispetto a quello britannico. Pensiamo a tutte le spese in più che si creano quando si vive con una persona disabile e al fatto che io facevo molta fatica a lavorare… Però bisogna considerare che la Norvegia ha il Pil pro capite più alto in Europa e una popolazione molto ridotta quindi loro si possono permettere questo tipo di aiuto materiale. Ma in Norvegia il mio matrimonio è fallito e quindi ho lasciato la Norvegia come genitore single e sono ritornata nel Regno Unito. Una delle ragioni è che sapevo che avrei dovuto combattere per mia figlia e l’unica lingua che parlo è l’inglese e siccome dovevo parlare per lei…
Una delle ragioni per cui ho lottato così duramente è che sentivo che Molly veniva punita per la sua mappatura genetica e nessuno, nessuno, è responsabile per il proprio corredo genetico. E questo è quello che mi ha mandato avanti.

Il film
Benedetto: Io ho conosciuto Lesley in una maniera molto strana, tramite un articolo di giornale, esattamente “la Repubblica” nell’inserto domenicale di qualche anno fa in cui un articolo di Conchita De Gregorio parlava di questo libro (libro che è stampato, al di là dell’Inghilterra, soltanto in Italia dalla casa editrice Contrasto, specializzata in lavori di carattere fotografico).
Questo articolo, due pagine complete, fitte, corredate da alcune fotografie, raccontava in maniera molto esaustiva e molto intensa la storia di Molly e Lesley, riportando anche alcune frasi che si trovano nel libro. La cosa mi ha affascinato moltissimo, allora ho comperato il libro che mi è piaciuto ancora di più e mi sono messo in contatto con la casa editrice. E lì sono successi alcuni piccoli miracoli che normalmente non succedono. Alla mia richiesta la casa editrice ha risposto dopo un giorno. Io dicevo “Sentite ho apprezzato molto il vostro libro, vorrei mettermi in contatto con Lesley perché io faccio documentari e mi piacerebbe fare un documentario della sua storia”. Mi hanno risposto dicendo “Non le possiamo dare l’indirizzo di Lesley ovviamente, ma ci scriva una lettera e noi gliela inoltriamo e poi sarà lei, se vuole, a mettersi in contatto, a risponderle”. E allora c’è stato il secondo miracolo: Lesley mi ha risposto dopo un giorno ringraziandomi dei complimenti che le facevo (con la sua garbata ironia mi ha detto “Credo bene che ti sia piaciuto, mi ha richiesto vent’anni di vita, spero che ci sia un po’ di profondità in questo lavoro”) e ha accettato di incontrarmi. Il primo giorno che ci siamo visti ci siamo incontrati verso mezzogiorno e ci siamo salutati a mezzanotte, parlando, filmando, girando per Londra…

Lesley:  È strano perché sono circa dieci anni che mia figlia è morta e ogni occasione in cui ne parlo è diversa dalle altre, leggermente diversa. Il film è il lavoro di Benedetto e la ragione per cui ci siamo incontrati è stato una parte del lavoro che ho fatto dopo che è morta mia figlia, che è il libro The time of her life. Quando ci siamo incontrati, ci siamo seduti e abbiamo chiacchierato, discusso, parlato per un giorno intero. La qualità delle domande, il modo in cui comunicavamo, mi faceva sentire sicura e poiché la morte infantile, la morte di un bambino, è un argomento così difficile, ho pensato che potevo provare ad articolare alcune mie emozioni, che potevano riguardare anche altri genitori. Questa è una delle situazioni di maggiore solitudine in cui ci si possa mai trovare ed è anche per questo che ho iniziato a lavorare in una Help line perché i genitori si sentono veramente isolati, come se nessuno comprendesse il loro modo di essere, il loro sentire. Così ho pensato di provare a parlare di questo tema con due persone che avevo incontrato e di cui mi fidavo. Sembra ridicolo ma allo stesso tempo facendo questo lavoro ci siamo molti divertiti.

Benedetto Parisi
Nato a Lecce nel 1945, laureato in Giurisprudenza a Roma, da molti anni vive a Udine dove mette la sua passione e il suo talento di regista a disposizione di temi a carattere sociale. Le sue opere precedenti sono state selezionate a numerosi Festival, tra le quali ricordiamo Integrazione (1998), selezionato al Sacher Festival di Roma e al Torino Film Festival, e Figure di un Mondo Scomparso (2004) selezionato al Festival Alpe Adria e ad Anteprima del cinema indipendente di Bellaria. Da molti anni tiene laboratori e corsi sul linguaggio e la tecnica cinematografica presso scuole, enti pubblici e istituzioni culturali, collaborando in maniera continuativa con il Centro Espressioni Cinematografiche di Udine. Il documentario The time of her life (2007) è stato selezionato alla Rassegna del documentario italiano, al Premio Libero Bizzari 2007 e a Visioni Italiane, Bologna 2008. Ha ricevuto il premio come miglior documentario alla Festa del documentario di Siena “Hai visto mai” 2008, con la seguente motivazione: “È un piccolo film che racconta il dolore, la perdita, la memoria con dolce, profonda, straordinaria serenità e vitalità”.
Il film è reperibile presso l’autore: benepa14@libero.it, tel. 0432/50.91.70.

Lesley McIntyre
Lesley McIntyre, diplomata al Royal College of Art di Londra, lavora come fotografa documentarista. Tra i suoi progetti, uno sulla ricostruzione rurale nei primi anni dell’indipendenza dello Zimbabwe e uno sulle proteste contro l’installazione dei missili a Greenham Common, oltre a vari servizi teatrali tra cui uno per la Royal Court. Negli ultimi anni si è battuta per l’inserimento dei bambini disabili nelle normali classi della scuola pubblica. Il tempo di una vita (edizione italiana, Roma, Contrasto, 2004) è il suo primo libro. Quando Molly, la figlia di Lesley McIntyre, nasce a Londra nel 1984, i medici le diagnosticano una grave anomalia muscolare. Sono convinti che vivrà molto poco e che non potrà mai essere dimessa dall’ospedale. Invece la bambina riesce ad andare a casa e a vivere fino ai quattordici anni. Sarà pienamente consapevole del suo stato per gran parte della sua vita.
Lesley McIntyre ha fotografato sua figlia come una madre qualunque, scattando le prime foto poco dopo la nascita della bambina e le ultime qualche giorno prima che morisse nella sua casa, ma le straordinarie immagini e la precarietà della vita di Molly fanno di questo libro una narrazione estremamente densa di significato.

1. Introduzione

“Ma se l’esperienza si elabora attraverso il racconto, e il racconto ha bisogno di un destinatario, ne consegue che elaborare la mia propria esperienza non dipende solo da me. Dipende dall’esistenza di una comunità fatta di narratori e di destinatari”.
(Paolo Jedlowski, Il racconto come dimora. Heimat e le memorie d’Europa, Torino, Bollati Boringhieri, 2009)

“Il tempo delle nostre vite. Quattro incontri sull’esperienza dei padri e delle madri per un sapere condiviso ”, è il titolo che abbiamo scelto di dare all’iniziativa che nelle pagine di questo numero di “HP-Accaparlante” viene raccontata attraverso le parole dei protagonisti, la loro voce opportunamente adattata a una versione scritta.
La scelta di questo titolo rivela almeno in parte alcune delle considerazioni che ne hanno segnato la preparazione.
Come già abbiamo avuto occasione di sottolineare “l’esperienza del Centro di Documentazione Handicap è stata fin dai suoi inizi caratterizzata dall’attenzione alla raccolta e all’organizzazione di testi prodotti da persone disabili e da familiari, iscrivibili quindi al filone delle autobiografie e delle testimonianze narrative”
Questa attenzione costante per tentare di connettere le piste di studio e approfondimento sulla disabilità originate dal versante accademico e tecnico con quelle nate dalla rielaborazione dell’esperienza personale, nella logica di superare contrapposizioni arricchendo la conoscenza delle realtà attraverso la compresenza di più approcci e punti di vista.
A questa prospettiva di sfondo si è accompagnata nel tempo la volontà di realizzare occasioni dirette, vive, di racconto, ascolto, condivisione di storie.
“Il tempo delle nostre vite” è stata una di queste preziose occasioni.
L’occasione/la possibilità di incontrare una storia dove è presente la disabilità.
Incontrare una madre, un padre, la relazione con il proprio figlio, con la propria figlia, attraverso il ritmo di un racconto che si dipana tra l’avvicendarsi dei giorni quotidiani, le scelte e le direzioni che la vita pone e spesso impone.
Ha significato poter incontrare genitori che hanno scelto di dare visibilità alla propria vicenda, che hanno voluto, per certi versi anche dovuto, riprendere contatto con la materia incandescente, difficile, vitale delle storie per rielaborarla attraverso la scelta di ciò che si desidera offrire di sé a chi è al di fuori rendendola sapere comunicabile.
La rielaborazione è un processo che mette tempo e spazio tra ciò che si vive e ciò che di quell’esperienza fluida e magmatica si deposita nella memoria e nella storia della persona; impone una distanza che ha bisogno, poi, di trovare uno strumento di comunicazione che la possa far uscire da sé.
Ne “Il tempo delle nostre vite” gli strumenti di espressione che i nostri ospiti hanno utilizzato per raccontare sono stati diversificati: i libri, la fotografia, i film.
Scelte queste fortemente legate al percorso biografico di ognuno di loro, espressione dei talenti personali e anche filo di continuità tra il prima e il dopo l’arrivo dei figli, tra il ruolo genitoriale e la vocazione e competenza professionale.
Sono quindi storie, quelle che abbiamo ascoltato durante gli incontri, che si situano in quel versante dell’universo narrativo che possiamo dire della testimonianza, esprimendo in questi casi una grande capacità di portare con sé un valore sociale. La loro forza però, a nostro avviso, va oltre questa specifica funzione per attingere a un’attitudine narrativa potente che le fa emergere con grande qualità e capacità di raggiungere chi ascolta, legge o guarda.
Sono quindi racconti a tutto tondo che, lontanissimi dalla tentazione di ammaestramento, parlano a noi e narrano dei percorsi umani attraverso cui si costruiscono legami e si cerca di tornare a flettersi, riflettere, su ciò che ci è dato vivere.
Mai storie dunque che si ergono a modello, ma ricerca di senso, appunto, dentro cui sta anche l’unicità delle situazioni, non categorizzabili, la comunanza possibile, la consapevolezza degli snodi che la vita chiama tutti ad affrontare.
Ancora, storie che rimangono tenacemente attaccate al proprio specifico, ai tratti singolari e mai del tutto svelati che racchiudono il mistero enigmatico di ogni esistenza.
È proprio non tradendo questo segno personale che crediamo sia stato possibile sperimentare durante il tempo di questi incontri una dimensione di comunità, seppur temporanea, oggi non abituale, quasi che l’interesse delle persone, uscite dalla propria casa quelle sere per venire ad ascoltare le storie di altri, si sia poi in modo reciproco reso disponibile a condividere
i propri racconti, ricordi o almeno pezzetti di essi, portando a un dialogo intenso, per il quale ancora una volta ci sentiamo di esprimere la nostra gratitudine.

“La differenza la fa l’esperienza”: la parola all’Assessore del Comune ospitante
Proviamo a rimescolare un po’ le carte e a metter i padri e le madri in cattedra… Sì in cattedra: dispensatori di saperi derivati dall’esperienza, ahimè spesso troppo tremendamente maestra di vita, e consultiamoli… facendoli anche docere.
Nel mio primo mandato da Assessore (2004–09) ho cercato di impostare i presupposti di questo percorso, anche mediante l’istituzione della Consulta Comunale per il Superamento dell’Handicap, l’apertura dello sportello Informahandicap con uno “Spazio Risorse” che potesse fornire argomenti documenti e sostegno ai cittadini diversamente abili, ai familiari, alle istituzioni compresi gli operatori del settore.
A cavallo tra il vecchio e il nuovo mandato amministrativo (2009 –2014) si è felicemente inserita la proposta di questa rassegna che ci fa riflettere su come, a parità di strumenti, dati e opportunità, la differenza la fa proprio l’esperienza, la relazione, il rapporto di sperata reciprocità a volte vissuto nel dubbio e nella tremebonda incertezza che l’altro (tuo figlio disabile, il tuo compagno, il mondo) siano in grado di comprenderti, di accendere la spina della connessione relazionale con te, comunque intesa.
Allora le Istituzioni studiano il libro della vita di queste persone e umilissimamente imparano condividendo. Sì perché quello che resta e conta è la condivisione attenta e disponibile. Fare da nave scuola per altri, magari non percependolo…
Questa è la sfida degli uomini e delle donne che si sono cimentati nell’avventura di scrivere, riprendere, fotografare, sceneggiare la loro eccezionale storia (in tutte le accezioni del termine).
Un abbraccio grato a Igor “Qualsiasi cosa possano dire queste pagine a chi le leggerà, in fondo, spero riescano a dire dagli occhi del padre che le ha scritte, che uno sguardo che impara è uno sguardo che insegna”; a Lesley “È una storia che trascende tutte le barriere di razza, classe e genere. Qualunque famiglia, in qualunque momento e in qualunque luogo, può trovarsi di fronte alla realtà della disabilità. Spero che, giungendo al punto del volume in cui l’invalidità di Molly appare con tutta la sua evidenza, il lettore si sia già affezionato alla persona contenuta in un involucro tanto delicato”; a Stefano “Scoprire in prima persona che cosa significa vivere con qualcuno che, scomodo al cuore e alla ragione, viene da altri definito ‘matto’”; a Daniela “Nonostante le incertezze scommetto su di te e credo tu possa avere tutto, l’infanzia più serena possibile e la vita adulta che sboccerà”.
Un grazie particolarissimo all’amica Dott.ssa Piera Carlini, compagna dalla prima ora, Responsabile del Servizio Integrazione Sociale Minori del Comune di San Lazzaro.
A tutti gli amici della cooperativa Accaparlante, che hanno pensato, proposto e sostenuto questa esperienza sanlazzarese, va la mia richiesta di proseguire l’impresa iniziata nel lavorare insieme che ha portato, tra l’altro, tanta fraternità e competenza.
Continuiamo a faticare insieme perché il percorso fatto si consolidi e diventi vita condivisa.
Lasciando ciascuno alla lettura e alla meditazione del materiale prezioso, auspico che il percorso di condivisione intrapreso continui, estendendosi anche ai lettori, a vario titolo, della rivista, ai quali chiedo, se lo ritengono, di avviare un dialogo- confronto “Da San Lazzaro di Savena al… Mondo”, per la vita piena della nostra gente.

Maria Cristina Baldacci
Assessore alla Qualità della Salute, Diversabilità e Politiche per la Famiglia
mc.baldacci@comune.sanlazzaro.bo.it