Skip to main content

1. Il gioco come esperienza vitale

di Giovanna Di Pasquale

Fra le attività praticate almeno qualche volta nel corso della vita, in qualsiasi parte del globo o in qualsiasi epoca storica ci si trovi, possiamo senz’altro mettere il gioco in cima all’elenco.
Ma il gioco, il giocare, i giocattoli sono davvero accessibili a tutti? Permettono una reale inclusione? Cosa intendiamo con questo termine? Sono molte le domande che ci possiamo fare per capire meglio il legame fra il gioco, come primaria attività umana, i giocattoli e la dimensione inclusiva attraverso la quale le persone, anche quelle con disabilità, vivono l’appartenenza a un contesto comune e integrato.
Con questa monografia vorremmo portare un contributo alla riflessione che parte proprio da queste domande.
Gioco e inclusione: se ci fermassimo al solo significato etimologico di queste parole potremmo rischiare di rimanere spaesati dall’apparente distanza che le caratterizza. Il termine inclusione rimanda all’azione di rinchiudere, chiudere dentro. Con il gioco, invece, ci spostiamo sul significato di scherzo, beffa, illusione. Qualcosa che diverge dalla realtà, la trasgredisce e quindi la reinterpreta. L’abbinamento di questi termini, gioco e inclusione, richiede allora una diversa e maggiormente contemporanea interpretazione.
Includere non può voler dire portare dentro uno spazio chiuso o determinato ma costruire legami che riconoscano la specificità e la differenza di identità. La politica inclusiva ci interroga sempre sui confini della nostra storia. “Inclusione – scrive il filosofo Jürgen Habermas – qui non significa accaparramento assimilatorio né chiusura contro il diverso. Inclusione dell’altro significa piuttosto che i confini della comunità sono aperti a tutti”.
Per trovare elementi di continuità con questa accezione del termine inclusione, tra le tante definizioni sul gioco riprendiamo due tra gli aggettivi utilizzati dal sociologo francese Roger Caillois che ci sembrano maggiormente coerenti: gioco come attività libera e gioco come attività improduttiva. Attività libera alla quale il giocatore non può essere costretto senza che il gioco perda il suo divertimento e la sua attrazione. Questo vuol dire che ognuno sta nel gioco in modo personale e non codificabile rigidamente. Attività improduttiva poiché, da un punto di vista economico, il bambino non gioca per portare un risultato ma arriva anche a dei risultati che sono nuove creazioni, atti di trasformazione di materiali e situazioni.
La dimensione libera e soggettiva del gioco non significa però che esso non abbia dei principi guida, dei fondamenti che ne ispirano lo sviluppo, ne determinano l’essenza e ne confermano l’importanza come esperienza primaria e vitale per ogni vita. Possiamo riassumere questi principi facendo ricorso ai quattro elementi naturali. Il primo si richiama al principio fisico della terra, ha come parola chiave “baricentro” e sottolinea la funzione che il gioco ha di permettere la consapevolezza di noi stessi, del nostro corpo, dei nostri limiti e delle nostre risorse. Il secondo ci riconduce al principio fisico del fuoco perché ha a che fare con l’“energia” necessaria a mobilitarsi per il gioco, energia che diventa slancio e rimanda al piacere che scaturisce dall’esperienza ludica. Il terzo principio è legato all’acqua e implica “complicità”, ha a che fare con la fiducia e l’affidamento dunque una condizione morbida, di adattamento reciproco. Il quarto e ultimo principio simboleggia l’aria e si collega all’improvvisazione perché il gioco è anche lasciarsi andare a quello che viene.
L’atto creativo nasce proprio quando non ci si affida solo a se stessi, territorio conosciuto, ma si incontra l’altro, sconosciuto. Questo incontro, che può anche essere spiazzante, obbliga continuamente ad andare fuori da noi stessi ma restando però sempre in noi stessi, rispondendo a un bisogno di relazione che è sempre alla base del gioco e del giocare.

La logica del design for all e i giochi inclusivi
Quando parliamo di giochi e giocattoli inclusivi intendiamo giochi la cui ideazione si rifà a un’ottica di progettazione e realizzazione vicina alla progettazione for all o Universal Design.
Questo concetto nasce storicamente da un’attenzione alle problematiche connesse con la disabilità: lo si può far risalire alla fine degli anni Quaranta del secolo scorso quando in Europa, in Giappone e negli Stati Uniti rientrarono i veterani della Seconda Guerra Mondiale, in molti casi reduci con mutilazioni di vario genere.
Il termine Universal Design venne coniato nel 1985 dall’architetto Ronald Mace, colpito da poliomielite nel 1950, all’età di 9 anni. Egli definì l’Universal Design come “la progettazione di prodotti e ambienti utilizzabili da tutti, nella maggior estensione possibile, senza necessità di adattamenti o ausili speciali”.
I concetti di base a cui si fa riferimento partono quindi dalla consapevolezza che non esiste il cittadino standard che fruisce in un’unica modalità ma diversi modi e possibilità di usufruire degli ambienti e delle occasioni. Che è come dire che alla base delle comunità non c’è l’omogeneità ma l’eterogeneità. Oggi assistiamo in molti contesti alla realizzazione di pratiche volte a progettare in maniera inclusiva gli spazi e gli ambienti, di modo che siano fruibili da tutti, senza distinzione alcuna superando anche la specifica distinzione evidenziata dalla formula “anche per persone disabili”.
In sintesi le indicazioni che si ricavano dai principi ispiratori del design for all parlano di una progettazione e produzione che porti a un uso equo, utilizzabile da chiunque, flessibile, adatto a diverse abilità e semplice, facile da capire e intuitivo. Altri livelli evidenziati sono dati dalla percettibilità che trasmette le necessarie ed effettive informazioni all’utilizzatore, dalla tolleranza all’errore che minimizza i rischi e le conseguenze negative o accidentali e le azioni non volute, dal contenimento dello sforzo fisico per poter avere un utilizzo efficace con la minima fatica. Infine, un’attenzione mirata viene dedicata alle misure e agli spazi che devono essere sufficienti a rendere lo spazio idoneo per l’accesso e l’uso.

Gioco, giocattoli e disabilità
Questo approccio inclusivo deve marcare anche il rapporto tra gioco e disabilità. Il gioco non è un’attività riabilitativa o riabilitante, è uno spazio libero, di curiosità ed esplorazione di sé e degli altri, strumento essenziale per la crescita e la strutturazione dell’identità.
Già la Convenzione ONU dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza sanciva il diritto al gioco, diritto che la più recente Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità ribadisce enunciando, che “[…] gli Stati Parti prenderanno le appropriate decisioni per assicurare che i bambini con disabilità abbiano eguale accesso alla partecipazione ad attività ludiche, ricreative e di tempo libero, sportive, incluse tutte quelle attività che fanno parte del sistema scolastico” (articolo 30, comma d).
Giocare è un diritto riconosciuto ufficialmente a tutti i bambini, ma diventa un problema quando la difficoltà a muoversi o l’incapacità di vedere oppure ancora la scarsa capacità d’attenzione e concentrazione su di un compito lo compromettono. Come per altre situazioni connotate da povertà, privazione culturale, marginalità sociale, la presenza di una disabilità può diventare motivo di esclusione dal gioco. La difficoltà di accesso, l’iperprotezione della famiglia, la difficoltà a partecipare alle occasioni ricreative formali e informali nei territori, ecco alcuni dei molteplici fattori che ostacolano la traduzione concreta del diritto al gioco in una pratica quotidiana nella vita dei bambini con disabilità.

Indicatori di accessibilità
Molti dei principi che ispirano la progettazione per tutti rendono possibile realizzare giochi e giocattoli inclusivi, così come studi ed esperienze educative consolidate (tra le più note l’approccio montessoriano) hanno evidenziato caratteristiche che diventano dei veri e propri indicatori di accessibilità e inclusività.
Tra queste caratteristiche troviamo il coinvolgimento, in fase di progettazione, dei soggetti interessati e l’ascolto dei bisogni e dei desideri, dei limiti e delle risorse di cui tener conto.
Altro aspetto importante sta nel facilitare l’accesso al gioco per tutti e nel modo più autonomo possibile e insieme agli altri. Per tutti i bambini, e per certi aspetti in misura ancora maggiore per i bambini con disabilità, è necessario poter sperimentare in prima persona, senza l’aiuto diretto e la presenza permanente dell’adulto. Questa possibilità aiuta a sviluppare la capacità del corpo di avere la percezione di sé in relazione al mondo esterno.
Da questo punto di vista gioca una funzione analoga la polisensorialità verso cui i giochi inclusivi devono tendere: diversi canali sensoriali come strade diverse e complementari per poterli usare in modo personalizzato.
La modularità e la qualità nella scelta dei materiali rappresentano altri due aspetti essenziali per interpretare il gioco in modo creativo e libero perché possa diventare cibo per la crescita.
Infine ci preme sottolineare la ricerca della bellezza e dell’attrattività che questi giochi devono avere. I giochi inclusivi non sono solo giochi tecnicamente fruibili da tanti ma anche giochi desiderabili da tutti: non giochi per qualcuno ma giochi condivisi. Giochi che uniscono e che rendono tutti i bambini parte di una comunità.

Consigli di lettura
-C. Riva, Amorgioco. Il bambino la disabilità il gioco, Fatatrac, Casalecchio di Reno (BO), 2005
-N. Gencarelli, Ausili fai da te, Erickson, Trento, 2012



Categorie:

naviga: