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autore: Autore: Andrea Canevaro

3. Il processo inclusivo e la cooperazione internazionale: riflessioni su un’esperienza in Bosnia Erzegovina

a cura di Andrea Canevaro, docente di Pedagogia Speciale dell’Università di Bologna e delegato del Rettore della stessa Università per gli studenti con bisogni speciali, e M. Luisa Zaghi, coordinatrice del Centro di Documentazione per l’Integrazione con sede a Crespellano (Bologna)

Abbiamo chiesto al prof. Andrea Canevaro e alla dott.ssa Maria Luisa Zaghi di raccontarci il progetto di cooperazione internazionale “Tutela e reinserimento di minori con disabilità fisica e psichica e promozione di imprenditorialità sociale nel territorio della Federazione Bosnia Erzegovina e Repubblica Srpska” realizzato da un partenariato composto dalla ONG italiana EducAid, l’Università di Bologna e le regioni Emilia-Romagna e Marche. Si tratta di un progetto pluriennale che ha operato per aiutare a costruire un sistema educativo basato sull’inclusione dei bambini con disabilità cercando di superare il modello preesistente incentrato sull’educazione separata.

Premessa
Lo Statuto della Carta della Terra, e i suoi Principi, recita: 

1. Rispetta la Terra e la vita, in tutta la sua diversità:

a. riconoscendo che tutti gli esseri viventi sono interdipendenti e che ogni forma di vita è preziosa, indipendentemente dal suo valore per gli esseri umani;

b. affermando la fede nell’intrinseca dignità di tutti gli esseri umani, relativamente alle potenzialità intellettuali, artistiche, etiche e spirituali dell’umanità.

2. Prendi cura della comunità della vita con comprensione, compassione e amore:

a. accettando che il diritto di possedere, gestire, e utilizzare le risorse naturali si accompagna al dovere di impedire il danneggiamento dell’ambiente e di tutelare i diritti dei popoli;

b. affermando che l’aumento della libertà, delle conoscenze e del potere si accompagna all’aumento della responsabilità di promuovere il bene comune.

3. Costruisci società democratiche che siano giuste, partecipate, sostenibili e pacifiche:

a. facendo in modo che le comunità a tutti i livelli garantiscano i diritti umani e le libertà fondamentali e forniscano a tutti l’opportunità di realizzare appieno il proprio potenziale;

b. promuovendo la giustizia sociale ed economica permettendo a tutti uno standard di vita sicuro e dignitoso che sia ecologicamente sostenibile.

4. Tutela l’abbondanza e la bellezza della Terra per le generazioni presenti e future:

a. riconoscendo che la libertà di azione di ciascuna generazione è soggetta alle esigenze delle generazioni future;

b. trasmettendo alle generazioni future valori, tradizioni e istituzioni capaci di sostenere lo sviluppo a lungo termine delle comunità umane e ecologiche della Terra.

Il progetto
Il progetto “Tutela e reinserimento di minori con disabilità fisica e psichica e promozione di imprenditorialità sociale nel territorio della Federazione Bosnia Erzegovina e Repubblica Srpska” ha avuto inizio nel maggio 2005 dopo essere stato approvato dal Ministero degli Affari Esteri italiano e cofinanziato dalle Regioni Emilia-Romagna (capofila) e Marche.
L’idea originale per la parte educativa dello stesso risale al 1998, quando Alfredo Camerini (EducAid) e Andrea Canevaro, dopo vari soggiorni di osservazione e contatti nel territorio della Bosnia Erzegovina, elaborarono un progetto destinato ai minori, vittime dei conflitti armati. Bisogna tener conto che, come in gran parte dell’Europa centrale e orientale, l’approccio bosniaco ai bambini con bisogni speciali era stato guidato dalla tradizione “difettologica”, nata in Unione Sovietica negli anni Venti di questo secolo, con un approccio fondamentalmente medico improntato a una pratica di: valutazione, categorizzazione e intervento. Dal punto di vista educativo questo portava tendenzialmente all’esclusione dei bambini con bisogni speciali dal sistema educativo principale e il loro inserimento in un sistema di scuole speciali.
In Bosnia, con la fine della guerra e il grande numero di bambini traumatizzati psicologicamente e fisicamente, si è reso inevitabilmente necessario modificare questo approccio, favorendo il coinvolgimento di un elevato numero di bambini con difficoltà di apprendimento nel sistema educativo comune. Questo processo ha incontrato ostacoli sia per un sistema burocratico rigido che difficilmente accetta cambiamenti, sia per la presenza di una programmazione didattica che prevede ritmi molto intensi e competitivi; gli insegnanti si sono trovati così in seria difficoltà nel voler seguire con la dovuta attenzione quegli alunni che invece richiedono ritmi di insegnamento più personalizzati. Il sistema delle scuole speciali d’altra parte è risultato sempre più insostenibile anche per l’elevato costo, incompatibile con le risorse di cui il sistema educativo bosniaco dispone.
Negli ultimi anni poi la Bosnia Erzegovina ha visto notevoli mutamenti rispetto alla situazione per cui il progetto era stato pensato: un’importante novità, ad esempio, è stata l’approvazione, nel 2003, della riforma scolastica che indica l’inclusione come prassi da perseguire e promuovere; è un dato fondamentale a cui il lavoro di cooperazione ha potuto fare riferimento.
Il nuovo scenario ha richiesto una revisione del progetto originario acquisendo un’ottica, non più emergenziale, ma di sviluppo, di lotta all’esclusione e all’emarginazione sociale.

La componente educativa
La componente educativa del progetto ha avuto quindi come obiettivo generale lo sviluppo di un sistema basato sull’inclusione dei bambini disabili nelle scuole ordinarie e sulla progressiva riduzione del sistema educativo separato, attraverso la valorizzazione e la diffusione delle buone prassi organizzative.
Le attività hanno riguardato principalmente 50 scuole, in cui sono stati svolti lavori di ristrutturazione per favorirne l’accesso ai bambini con bisogni speciali, a cui è stato fornito materiale didattico e sostegno al lavoro degli insegnanti attraverso la proposta dei PEI (Piani Educativi Individualizzati), e dove sono stati attivati micro-progetti al fine di favorire la creazione di contesti educativi aperti, dinamici, plurali e sensibili alle diversità.
Per far maturare questi percorsi di educazione democratica si sono svolte altre attività esterne alle scuole che hanno coinvolto principalmente insegnanti, operatori sociali, genitori e gli altri soggetti adulti che si prendono cura dei minori con bisogni speciali. Si sono svolte periodicamente formazioni per insegnanti, sia su ciò che è strettamente legato alle specifiche disabilità, sia su possibili percorsi didattici da intraprendere in una classe aperta alla diversità. Per arricchire la formazione degli operatori sono state organizzate numerose visite studio in Italia presso varie scuole e Centri dell’Emilia-Romagna, con cui è stato possibile attivare processi di confronto, per una rielaborazione e presa di coscienza sulle diverse possibilità dell’inclusione.

Cambiamenti in corso
I contatti che abbiamo avuto in questi anni con tutte le istituzioni, dalle Università alle scuole, sono sempre stati improntati a grande cordialità, incontrata un po’ ovunque. Ma lo stile, con il tempo è cambiato: all’inizio era all’insegna dell’attesa (di un conforto, di un dono, di un indirizzo); poi è diventato molto di più all’insegna dello scambio fra pari, tra persone che stanno lavorando su temi che, per loro natura, incoraggiano la collaborazione.
Tale cambiamento non è stato sincronico, perché non tutto cambia in un tempo solo; ad esempio, le informazioni utili per prendere singole decisioni non sono state, a volte, condivise e, di conseguenza, le decisioni stesse non sono emerse da un processo partecipato.

Settori principali di intervento e collaborazione in ambito educativo: uno sguardo sintetico
Le scuole
Dal percorso e dai contatti avuti in questi anni emergono principalmente due elementi:
1) è uscita allo scoperto una molteplicità e una diversità di livelli e di impegni professionali; 2) la prospettiva inclusiva è avviata, pur nella varietà di riferimenti e di condizioni.
Il primo punto significa che si è “aperto” un modello didattico e programmatico che era molto normato (cioè: con regole già decise e che si presentano come stabili) e centralizzato, e che ora rivela le differenze dei singoli insegnanti, sia come singoli che come gruppi.
“Il retaggio del vecchio sistema di categorizzazione – spiega la prof.ssa Jelena Sipka di Baja Luka, in un’intervista a M. Luisa Zaghi in occasione del monitoraggio del progetto (ottobre 2007) – influisce ancora negativamente sull’inclusione. Quando un bambino viene categorizzato diventa lo ‘scemo’ che ha bisogno di un nuovo programma apposito formulato a seconda della categorizzazione. Senza capire le potenzialità, la storia e le possibilità del bambino, il problema nasce dalla strutturazione della lezione frontale. L’inclusione ha sconvolto tutto il sistema scolastico. Inoltre gli insegnanti regolari non capivano cosa vuol dire creare un programma individualizzato e ne chiedevano uno precostituito. Inoltre i professori che hanno bambini con bisogni speciali non hanno alcun riconoscimento economico per il lavoro in più svolto. In più, sono molto legati alla didattica classica e si ritiene che quando un professore ha un gesso e una lavagna non abbia bisogno di altro”.
Di contro, la visita alla scuola di Simin Hann a Tuzla (nel 2005) mostrava un modo di svolgere la didattica interattivo, capace di porsi nei confronti di un gruppo-classe eterogeneo, composto da differenze; mostrava una didattica capace di attivare modi di apprendimento non semplicemente organizzati su una gerarchia con una scala di valori che individua lo scolaro migliore e poi via via tutti gli altri. Si poteva osservare, ad esempio, un’attività di insegnamento della lingua inglese basata su un materiale “povero”: strisce di carta su cui erano disegnate quattro figure con quattro parole in inglese che le definivano. Vi era un gioco – un “bingo” – e l’insegnante nominava una parola che indicava una figura. Chi aveva la figura e la riconosceva sentendo la parola, doveva colorare la figura. Quattro figure colorate realizzavano un “bingo”.
Un’attività di questo tipo permette lo sviluppo di strategie diverse, e valorizza diverse capacità.
Ancora, la visita alla Scuola speciale Mjedenica, sempre nel 2005, a Sarajevo, anche se in quel momento non erano presenti i bambini, rivelava una pluralità di materiali e di organizzazioni diversificate degli spazi, e soprattutto era significativo, accanto a sottolineature della necessità della propria struttura, il bisogno della Direttrice di spiegare continuamente in che modo, anche all’interno della scuola speciale, si sviluppasse la prospettiva inclusiva. Per questo ci è chiaro che ormai ciascuna esperienza/struttura scolastica deve fare i conti con tale prospettiva.
“Nel 2003 la legge quadro nazionale per l’inclusione (confermata nel 2004 da una legge cantonale) ha reso possibile a tutti di frequentare la scuola regolare” – dichiara Azra Jasika, direttrice della scuola di Pasaric, in un’intervista a M. Luisa Zaghi. “Nell’aprile del 2003 alcuni genitori hanno chiesto di iscrivere i loro figli disabili; sono arrivati con i documenti medici, che certificavano il ritardo mentale; per l’esattezza una ragazza era paraplegica e due ragazzi avevano un ritardo mentale. Si è discusso con i genitori spiegando la disponibilità, ma anche la difficoltà ad affrontare la nuova situazione. I genitori hanno accettato il rischio, preferendo comunque lasciare la scuola speciale. Nel 2004, insieme a un’associazione non governativa, hanno fatto pressioni perché fosse attuata la legge regionale; il compito successivo è stato quello di migliorare l’accessibilità perché una ragazza era in sedia a rotelle. In seguito la collega Arianna (psicologa) ha esaminato i bisogni educativi degli alunni disabili con il compito di coordinare gli altri ad accogliere i compagni disabili (abbiamo anche fatto attenzione al numero di alunni per classe).
Importante è stato l’accordo con i genitori. Il primo obiettivo è stato quello di responsabilizzare i compagni più bravi perché fossero d’aiuto alla maestra: anche i genitori dei compagni degli alunni disabili sono stati scelti e poi sensibilizzati. Nella prima riunione con i genitori si è descritto il progetto e ci sono state delle perplessità: le obiezioni sono state soprattutto rispetto a un ragazzino con comportamenti non adeguati a una scuola normale. Il sostegno, ad accettare il ragazzino, c’è stato da parte di una mamma che lavora nel vicino ospedale psichiatrico; poi anche la mamma della ragazza paraplegica ha avuto il coraggio di raccontare la sua esperienza, le sue speranze; alla fine della riunione, tutti i genitori hanno deciso di contribuire a risolvere i problemi della classe.
Il secondo punto è stato creare piani individualizzati per gli alunni disabili ed è stato creato un gruppo di lavoro anche con l’aiuto di un esperto esterno (che lavora nell’ospedale psichiatrico) e che è intervenuto gratuitamente.
In aprile è stato inserito un altro insegnante (senza specializzazione) che ha lavorato sia in classe e anche in un altro spazio.
Tutta la circolazione di informazioni ha fatto sì che si creasse un ambiente inclusivo. La consapevolezza che l’educazione è per tutti è stata diffusa in tutti (anche ai bidelli)”.

Le Università
I contatti con le Università sono stati particolarmente finalizzati al lavoro con le scuole, compresa la ricerca di definire percorsi formativi per gli insegnanti; è stata però anche sottolineata l’importanza di favorire la prospettiva di studenti universitari disabili. E abbiamo trovato realtà attive, sensibili, capaci di capire quanto tali presenze possano rappresentare un valore aggiunto all’integrazione e alla prospettiva inclusiva.
È importante che vi siano esempi di realizzazione di progetti di vita adulta. L’assenza di una legge che sostenga queste possibilità rende, purtroppo, l’impegno dipendente esclusivamente dal volontariato.
Le Università rivelano una varietà di situazioni analoga a quella già indicata per il mondo scolastico. E anche in queste differenze vi sono punti di maggior sintonia con le nostre convinzioni tecniche, scientifiche e i valori etici connessi. Ma nell’ambito universitario vi sono i problemi di ruoli istituzionali che devono essere tenuti nel dovuto conto per procedere nella realizzazione dei progetti. È un problema quando chi ricopre un ruolo rivela un’adesione più formale che sostanziale.
Questo ci obbliga ad avere idee chiare su alcuni punti: 1) le competenze; 2) l’individuazione dei soggetti con bisogni speciali; 3) il passaggio da una didattica fondata sul modello trasmissivo a una didattica fondata sul modello interattivo.
Avendo chiari i riferimenti, possiamo più facilmente impostare le collaborazioni con i docenti universitari, nei progetti di formazione che sono impliciti nello sviluppo della prospettiva inclusiva.
Più volte abbiamo sentito citare i contatti avuti con altre ricerche e altri progetti, che hanno visto attive le Università di Oslo, della Finlandia, di Verona, dell’Austria.
Il collega Nenad Suzić, della Facoltà di Filosofia di Banja Luka e di Tuzla, ha svolto una ricerca che permette di fornire buoni indicatori sulla motivazione. Basandosi su un campione di 530 insegnanti, questa ricerca ha dimostrato che gli insegnanti desiderano studiare l’inclusione. Davanti al quesito che chiedeva se vogliono o no abilitarsi all’inclusione, c’era da aspettarsi una diversità tra le risposte degli intervistati in base al loro sesso, età, anni di servizio e competenza professionale.
La ricerca ha dimostrato che queste differenze non sussistono, che gli insegnanti ritengono di avere poca, ma non sufficiente, conoscenza dell’inclusione e che, inoltre, sentono di aver bisogno di una maggiore qualificazione professionale su questo tema. Oltre a ciò, la ricerca ha mostrato che gli insegnanti pongono una particolare attenzione alla collaborazione con la famiglia: sono disposti a inserire i genitori nei lavori che svolgono all’interno della classe e a istruirli su come progredire nel lavoro educativo con i bambini che hanno bisogni speciali.
Crediamo che questa fase sia importante per segnare il passaggio da rapporti nati per “aiutare” a un sistema aperto di scambi alla pari. È un passaggio che dobbiamo favorire, e questo dipende anche dal nostro modo di percepirci e presentarci.

La società civile
La sorpresa è stata scoprire, in diverse occasioni, che nascono o si rendono più visibili espressioni culturali, impegni sociali, organizzazioni, che per sintesi definiamo “società civile”.
A Sarajevo, nello stesso gruppo di EducAid, vi è Sead Kesevljiakovic, e a casa sua abbiamo potuto vedere l’archivio storico di famiglia, e un piccolo campione di immagini delle tante raccolte in videocassetta e DVD sulla guerra, sulle realtà delle famiglie in quel periodo, sulle pubblicità e i notiziari, con una passione per la ricerca che supera gli steccati. Un esempio molto interessante di un impegno culturale che può fare lievitare il progetto inclusivo, collegandolo con motivi culturali di ampio respiro.
A Sarajevo, la gentilezza dell’Ambasciatore italiano ci permette di avere la lista delle imprese italiane presenti in Bosnia.
Sempre a Sarajevo incontriamo la combattiva Difettologa dell’Associazione Duga, Vassililja Velikovic, che ci ospita a casa sua.
A Simin Hann veniamo a conoscenza che, oltre ad aver messo in rete altre 12 scuole, il gruppo di quella scuola ha in qualche modo ispirato e favorito la nascita di un’associazione che comprende anche cittadini del territorio, e che ha permesso la realizzazione di diverse iniziative, anche di aiuto alla scuola. Ad esempio: un libro-catalogo di proposte didattiche.
Nell’Università di Tuzla scopriamo l’associazione degli studenti universitari disabili. E nella stessa occasione prende la parola una rappresentante di un’altra associazione impegnata nella solidarietà. E tutte queste iniziative sono nate localmente. L’associazione degli studenti universitari disabili ha avuto uno spunto dal contatto con l’Università di Barcellona; ma ha caratteristiche tali da renderla radicata in Tuzla e nella sua Università.
Queste realtà sono di grande importanza, e sicuramente non tutte quelle esistenti sono venute a nostra conoscenza.
Alcuni esempi di impegno civile emergono anche dalle interviste fatte nel 2007: “Abbiamo cercato di influire anche sulla politica fuori della scuola, sui trasporti” – prosegue Azra Jasika, direttrice della scuola di Pasaric, in un’intervista a M. Luisa Zaghi. “Poi abbiamo lanciato un messaggio agli altri: ‘Se lo abbiamo fatto noi, lo potete fare anche voi!’.
La mamma della ragazza disabile ha potuto vedere tutto l’impegno della scuola, nei confronti di tutti i bambini, e gli insegnanti di altre scuole hanno cominciato a chiedere consulenze.
Il secondo ragazzo incluso è molto disponibile a lavorare e c’è stato un cambiamento interessante. Dopo un anno e mezzo è stato iscritto in una scuola speciale (per 2 mesi) per motivi sociali della famiglia. È stato inserito in un gruppo di ragazzi di capacità simili alle sue; ma gli specialisti hanno proposto di farlo tornare nella scuola normale perché il suo rendimento stava visibilmente calando; il ragazzo ha visto la scuola normale come una salvezza ed era molto felice di stare con i suoi compagni e di lavorare con l’insegnante di sostegno; mostrava anche più impegno di prima e chiedeva di più a se stesso.
Anche i genitori si sono convinti che per lui era meglio stare nella scuola di tutti, ma non hanno nascosto le loro difficoltà; allora abbiamo fatto un patto: abbiamo garantito il trasporto, la mensa e i libri gratuitamente e loro si sono impegnati a seguirlo nel tempo extra scuola”. 

La costituzione dei 6 Centri di Innovazione e di Documentazione Educativa come supporto al processo di inclusione scolastica e sociale
Alla sezione B-1.1 (Sviluppo delle Competenze di Pedagogia Speciale e dell’Integrazione nel sistema educativo bosniaco) del Programma originale “Tutela e reinserimento di minori con disabilità fisica e psichica e promozione di imprenditorialità sociale nel territorio della Federazione Bosnia Erzegovina e Repubblica Srpska”, come primo sottotitolo incontriamo “Centri di Innovazione e Documentazione Educativa” che vengono così sinteticamente descritti:
“In questo ambito, si prevede la istituzione di Centri di Innovazione e Documentazione Educativa (CIDE). Questo per rispondere alla necessità di creare strumenti che consentano alle istituzioni educative bosniache di sviluppare percorsi di innovazione pedagogica e di attivare e coordinare la ricerca e la sperimentazione per l’integrazione e l’educazione dei minori con bisogni speciali nella scuola.
I Centri di Documentazione sono strumenti di grande interesse per promuovere lo sviluppo graduale di nuove competenze e di conoscenze e metodologie innovative.
Le attività dei Centri saranno rivolte a uno scambio di informazioni e di esperienze, favorendo così la diffusione delle informazioni, attraverso la produzione e la diffusione di materiali e di documentazione”.
Queste sono le idee originali da cui sono nati i CIDE in Bosnia Erzegovina e i primi passi mossi dall’associazione EducAid per la loro costituzione è stata la visita-studio in Italia nell’aprile 2006 a cui hanno partecipato alcuni referenti dei 6 Istituti Pedagogici coinvolti per visitare i Centri di Documentazione delle Rete dell’Emilia-Romagna.
L’apertura effettiva dei Centri in Bosnia Erzegovina è avvenuta nell’autunno 2006 dopo la sistemazione dei locali e l’acquisto di attrezzature idonee.
L’intento di EducAid è stato fin dall’inizio di dare in gestione i Centri agli Istituti Pedagogici per garantire una sostenibilità futura anche al termine del progetto di cooperazione e per favorire lo sviluppo di politiche cantonali sempre più in direzione inclusiva; per questo motivo, prima delle varie aperture, sono stati firmati i Memorandum of Understanding dagli Istituti e dalla controparte italiana, per regolamentare la gestione degli stessi.

Le funzioni
Le funzioni principali dei Centri sono state definite nei termini seguenti:
– Documentazione e promozione di buone prassi: si sta parlando ovviamente del cuore dei Centri di Documentazione, che hanno come obiettivo quello di raccogliere i lavori attuati, evidenziarne le positività e i fattori organizzativi del contesto che ne hanno favorito la realizzazione, in modo da suscitare ragionamenti e riflessioni per un evolversi continuo delle pratiche educative.
– Formazione: in Bosnia è a carico degli Istituti Pedagogici, ma, soprattutto per quanto riguarda l’inclusione, i CIDE possono contribuire partendo proprio dalla pratica della documentazione e della sua diffusione; di fatto le attività formative (seminari, laboratori, workshop) costituiscono una parte rilevante delle iniziative proposte dai Centri.
– Lavoro di rete e informazione: un ruolo importante è il collegamento che il Centro tesse con e tra le altre realtà locali sensibili all’inclusione, grazie a incontri che offrono spazi di dialogo, e quindi scambio di idee ed esperienze, utili per avviare percorsi di progettazione condivisa. Una parte fondamentale della rete è quella che si va a costituire tra i sei Centri dei diversi Cantoni della Bosnia ottimizzando le risorse e valorizzando le professionalità.
– Ricerca permanente: per dare risposte adeguate ai bisogni che emergono, i Centri svolgono ricerche sul territorio per identificare le situazioni reali nelle scuole e nell’extra-scuola riguardanti le persone disabili e la loro inclusione nei contesti sociali.
Abbiamo potuto constatare in occasione di visite, monitoraggi e seminari, come il ruolo dei Centri sia vissuto come molto importante: come luoghi di incontro e come luoghi di formazione in termini innovativi; da più voci si sottolinea che la formazione universitaria, pur ricca, è soltanto teorica e i Centri potrebbero proprio diventare punti di raccordo tra formazione teorica e pratica e insieme aiutare a produrre documentazione sulle pratiche inclusive, per diffonderle.
“Anche i genitori – dice sempre la prof. Sipka – vengono spesso al Centro, soprattutto per lamentarsi, ma sono ospiti privilegiati”.

Il “valore aggiunto” delle funzioni
Molte iniziative si stanno prendendo nei vari Centri di Documentazione; la Direttrice del Centro di Mostar racconta: “Abbiamo creato un gruppo di pedagogisti che hanno partecipato a sei seminari e al tirocinio e hanno visitato la scuola speciale di Sarajevo.
Ci siamo fermati anche a considerare la terminologia, perché nella nostra prassi si usano termini superati; poi c’è stato un training per l’osservazione delle competenze dei bambini e su come l’insegnante può fare l’osservazione.
C’è stato anche un seminario sui pregiudizi.
Poi sono state proposte esercitazioni su come preparare piani individualizzati e anche laboratori pratici su come migliorare le relazioni con i genitori.
Si è ideato il ‘salotto pedagogico’ per discutere le esperienze delle varie scuole, abbiamo avuto contatti con gli altri Centri di Documentazione con formazioni comuni e ricerche.
I nostri piani per il futuro riguardano prima di tutto il continuare a lavorare sulla formazione con insegnanti della scuola dell’infanzia, elementare e medie (in gennaio è già previsto un seminario di 5 giorni)”.
La direttrice Sipka di Banja Luka sottolinea che “molti insegnanti che sono contrari all’inclusione, lo sono perché non conoscono i problemi e gli strumenti per affrontarli; gli insegnanti che hanno partecipato ai seminari organizzati dal Centro sono stati molto contenti e bisogna creare una rete di consulenza”.
Abbiamo anche potuto constatare come l’impostazione organizzativa dei Centri di Documentazione tenga conto, in prospettiva, della possibilità che ci sia da parte di un soggetto disabile il controllo del proprio percorso di apprendimento, proprio attraverso l’attività di documentazione; e questo è un elemento di grande importanza, che va integrato alla capacità di conoscere l’esistenza originale dei soggetti, tenendo conto delle soglie percettive dei soggetti stessi.

Un modello dinamico
In sintesi, si possono individuare alcuni punti interessanti nella realtà bosniaca: innanzitutto i diversi modi di intendere le stesse parole, come ad esempio il termine inclusione o altri della stessa famiglia significativa. Un collega, docente dell’Università di Sarajevo, presente a una riunione a Banja Luka, lo rilevava come bisogno di raggiungere una maggior chiarezza e punti comuni. Naturalmente tutto ciò all’interno di un processo che impegna le varie parti nel dialogo, oltre che nel confronto con fonti autorevoli. Ma le stesse fonti, pur autorevoli, non possono accorciare il processo secondo un principio di autorità: sarebbe un danno. Certamente, il momento attuale può far vivere ai singoli professionisti (insegnanti, difettologi, docenti universitari…) un senso di grande incertezza, perché manca un modello unico centrale. Ci sono molti modi di reagire: a) cercare una nuova autorità, magari in un’autorevole Università di un altro Paese; b) chiudersi in uno scetticismo individualistico, magari mascherato da qualche dichiarazione opportunistica; c) sentirsi presi dall’avventura scientifico-professionale di costruire una pluralità di modelli, capaci di confrontarsi, e un modello comprensivo e dinamico (meta-modello).
Comprendendo che tutti i comportamenti hanno delle ragioni, e che ogni difesa è umanamente giusta, noi dobbiamo sostenere e aiutare l’ultimo modo che abbiamo indicato.
La situazione attuale è molto dinamica, e contiene posizioni differenziate. Accanto a chi ritiene di avere ancora bisogno di aiuti, di sussidi, di risorse, vi è chi si sente inserito in un sistema di scambi, di confronti, di scoperte e richiami. Non crediamo si debba mantenere una neutralità benevola considerando tutte le posizioni con lo stesso atteggiamento. Questo sarebbe un modo paternalistico, pur dettato da generosità, e riporterebbe le cose al momento dell’assistenza unilaterale. Occorre invece mostrare le preferenze, senza esclusioni di altri; indicare le realtà che consideriamo più valide, mantenendo lo spirito di curiosità, o di interesse, e di accoglienza per tutte le realtà, e valorizzando tutti gli sforzi, tutti gli impegni.
D’altra parte la cooperazione in quanto metodo è in grado di realizzare un processo di conoscenza e di riconoscimento reciproco, in cui le ragioni di chi porta l’aiuto e di chi lo riceve si incontrano in un percorso di crescita comune. È probabile che questo approccio conduca al confronto-conflitto fra le ragioni di chi riceve e di chi porta l’aiuto generando così un conflitto interpersonale (fra diverse persone) o interistituzionale (fra diverse istituzioni o gruppi). Ed è, anche, altrettanto importante la fase del conflitto intrapersonale (all’interno dello stesso individuo).
Queste fasi della cooperazione sono fondamentali perché possono portare a comprendere che il soggetto non è assoluto, e i suoi valori non possono proporsi come assoluti. Ogni soggetto è in rapporto di dipendenza da una dimensione più ampia. Crediamo questo uno dei fondamenti della cooperazione, che si conquista attraverso un processo anche faticoso; è l’ampliamento dell’orizzonte in una riconquista di un senso di appartenenza.

Le sfide
Quindi ci sembra di poter affermare che lo sviluppo del Progetto, in questi anni, ha vinto alcune sfide, rappresentate da altrettanti rischi:
– bisognava evitare che ogni operatore (insegnante, specialista, ma anche genitore, amministratore…), come ogni soggetto istituzionale (scuola, struttura socio-sanitaria, amministrazione locale…) non sentisse più il senso di appartenenza a uno sfondo proprio; e ritenesse che fosse necessario “importare” uno sfondo da altre situazioni, da altri paesi;
– bisognava evitare il pericolo opposto, ovvero il mantenimento di uno “sfondo segreto” da non contaminare e non confessare, sepolto nel passato, e tale da costituire una sorta di doppia coscienza: una formale di facciata, e, nascosta, quella ritenuta vera, del “proprio” sfondo, incompreso e da proteggere;
– bisognava altresì evitare un meticciato improvvisato e confuso, fatto di giustapposizioni frettolose e mal comprese, più dovute a ragioni di cosmesi che a convincimenti.
C’è da ritenere – senza trionfalismi, e con l’umiltà che è anche consapevolezza di quanto siano fragili, sempre, le strutture educative – che le scommesse siano in buona parte vinte. E che il guadagno sia dovuto alla strutturazione dei Centri di Documentazione, che hanno permesso di avere uno spazio di riflessione connesso all’operare. Questo aspetto va sottolineato, perché in gran parte l’esclusione (il contrario dell’inclusione) è al più riflesso condizionato, e mai riflessione e azione che si intrecciano. Le stesse Università, in molte parti del mondo, pretendono di dover tenere le distanze dell’operativo. In questo modo, l’operativo diventa esecutivo, e non può che escludere l’inquietante originalità delle differenze.
Il Progetto quindi si è realizzato affrontando problemi che nessuna delle parti in gioco aveva e ha realmente risolto. Non era più possibile interpretare la parte di chi ha trovato la soluzione e non deve fare altro se non convincere gli altri ad adottarla. Era invece necessario, e sentito come utile, mettersi a lavorare sui problemi ancora da risolvere.

Il futuro: costruire innovazione sostenibile
Il futuro è legato alla promozione dell’inclusione, attivando il territorio con il protagonismo dei soggetti implicati, con l’esercizio della mediazione culturale e con la costruzione di una maggiore tolleranza che significa una capacità di vedere oltre il momento attuale. Noi abbiamo bisogno di far capire e di capire che gli incontri con l’altro – il primo punto richiamava questo – l’incontro con la differenza è inquietante ma è produttivo, è un arricchimento.
Abbiamo bisogno che questo diventi l’elemento costante della nostra produzione di inclusione; e abbiamo bisogno quindi di avere una buona mediazione attraverso i mezzi di comunicazione, sapendo molto bene che i mezzi di comunicazione ci possono giocare degli scherzi terribili perché possono deformare e rendere spettacolarizzazione quello che invece è un serio lavoro di promozione umana.
Ma anche su questo avremmo bisogno di lavorare. Perché non pensare alla formazione di chi deve fornire informazione nel nostro settore? Sappiamo che già altri ci hanno pensato, colleghiamoci, permettiamoci di produrre qualcosa di serio che riguardi l’inserimento sociale e lavorativo e gli echi che può avere nel campo dell’informazione. Non pensiamo unicamente a rubriche di nicchia: pensiamo soprattutto alle informazioni intrecciate, a quelle che entrano nelle orecchie e negli occhi senza che il soggetto abbia capito che si parla di quell’informazione.
Noi sappiamo che sull’informazione c’è molto da lavorare. Molto da lavorare significa che possiamo lavorarci anche noi; non vorremmo delegare ad altri questi aspetti. Se noi abbiamo una consapevolezza di una conoscenza di un settore, se creiamo in noi la maggiore conoscenza delle nuove povertà, delle nuove sofferenze, delle nuove marginalità, abbiamo anche la possibilità – forse anche il dovere – di creare competenza in chi informa implicitamente ed esplicitamente, in tutti i campi, dalla pubblicità all’informazione delle possibilità di prospettiva.
C’è la necessità di costruire innovazione sostenibile. La sostenibilità è un concetto che si ricollega alle pratiche, e comporta l’esaminare quali cambiamenti possono essere realizzati per un certo numero di anni, senza provocare dei rigetti. Ora è chiaro che la sostenibilità non è unicamente l’introdurre una novità efficace ma anche il cambiare il modo di pensare, a volte, alla novità, quindi fare aderire alla novità avendo cura di operare dei processi di cambiamento formativo, culturale, nei soggetti che la adottano.

Alcune parole-chiave
Svolto questo compito per punti vorremmo aggiungere alcune note di riflessione cogliendo gli elementi che sembrano essere propri di una letteratura riflessiva sull’aria del tempo. 

Sicurezza e benessere sociale
Un riferimento molto importante per tanti di noi è Bauman. In particolare in Bauman troviamo una riflessione importante che riguarda il deterioramento della triade certezza/sicurezza collettiva/sicurezza personale. Riflettiamo su questi deterioramenti così diffusi e sulla conseguenza che possono avere nel non collegare il bisogno individuale alla soluzione sociale. Sempre più si fa un discorso e una riflessione con le proposte che ne derivano che riguardano un individuo isolato che vive i suoi problemi come se fossero esclusivi – i suoi – e che quindi cerca le soluzioni che devono essere altrettanto esclusive, le sue.
Questo certamente è anche dovuto al fatto che una certa interpretazione di cause sociali ha deresponsabilizzato il singolo, ma da questo, a cancellare il collegamento tra bisogno individuale e risposta sociale, dovrebbe passarci molto. E invece il cortocircuito a volte è stato immediato, con una grave crisi espressa appunto da Bauman in questa dichiarazione di deterioramento. È saltata – per semplificare le cose – la sicurezza collettiva, o meglio è diventata una sicurezza di categoria, legata unicamente a un proprio ristretto mondo che può coincidere con la collocazione abitativa, il percorso nel traffico e altri elementi di vita quotidiana, cancellando la possibilità che collettiva significhi di tutti.

Superare la sindrome della vittima
Altra cosa è cercare di smontare quell’ingranaggio – come lo abbiamo chiamato – che ha accostato e accosta spesso sofferenza a disabilità. Perché bisogna immaginare che la disabilità sia sempre e solo sofferenza? Perché dobbiamo immaginare o ritenere che laddove si manifesta la disabilità il contorno familiare sia dominato dalla sofferenza?
La sofferenza può esserci, come può esserci lo sgomento, lo sbigottimento di una situazione a cui nessuno è preparato. Ma si può anche scoprire la gioia, che non è un termine sentimentale. Non è un’affermazione dominata da una speranza un po’ gratuita: è un impegno. È la possibilità di capire nella pratica, qualcosa che viene a volte nominato con un termine tecnico o presunto tale: empowerment.
A volte invece, ma più raramente, viene esplorato attraverso un termine che nasce da Paulo Freire in un altro contesto e che richiama la coscienza: coscientizzazione. Tra empowerment e coscientizzazione abbiamo la possibilità di intravedere un percorso che rovescia i termini e da “dolore” fa nascere arricchimento di conoscenze, competenze, ruoli sociali, possibilità di contatti, piste emergenti e possibili nuovi progetti.

Alcune schede: tra operatività e riflessione:

Scheda 1
Come lavora chi è impegnato con persone diverse e non con il presupposto di un gruppo-classe omogeneo?
Con quali pensieri pensiamo che operi?

  • di sbagliare, di paura
    “Quando entro in classe, ho paura. Ce la farò? Ce la farò a tenerli? Sono qui, solo, davanti a 25, 35, 40 persone che non sanno sempre quale è il senso di quello che fanno in questo posto. Non ho scelto i miei alunni, loro non mi hanno scelto, e non si sono scelti fra loro” (B. Defrance, in A. Bentolila, École et modernités, Paris, Nathan, 1999, p. 65).
  • dell’ignoto
    “C’è un rapporto profondo fra educazione e esodo. È d’altra parte quasi la stessa parola. Educazione viene dal latino, e esodo dal greco. Il latino e-ducere vuol dire ‘uscire da’, come l’esodo. Nei due casi, c’è qualcosa dell’ordine dell’estrazione, della messa a distanza. Uscire da se stesso è educare ed educarsi: prendere le distanze da se stesso” (P. Queau, in A. Bentolila, op. cit., p. 79).
    “Abramo partì senza sapere dove andava” (Paolo, Lettera agli Ebrei, 11, 8).
  • della sfida

“Sono professore del liceo Maurice-Utrillo, a Stains, in Seine-Saint-Denis, e abbiamo tutto il pianeta in classe. Dico ai miei ragazzi: i vostri genitori o i vostri nonni hanno varcato le frontiere e gli oceani forse nella speranza di farvi sfuggire alla sorte che è ancora quella di 250 milioni di bambini nel mondo, senza diritto alla scuola.
Li abbiamo davanti, in classe, e abbiamo la grande possibilità, storica e nuova, di poter riflettere alla costruzione di una nuova cittadinanza, non più solo francese o repubblicana, ma planetaria” (B. Defrance, in A. Bentolila, op. cit., p. 61).

Scheda 2
Che rischi sono nel “brodo di cultura” di chi vive un periodo di grandi cambiamenti?
Capacità di conflitto.
Disponibilità al dialogo
Volontà di compromesso
 Immedesimazione nell’altro
 Pazienza.

Vista in profondità, ogni questione controversa presenta tre lati: il tuo, il mio, e quello giusto.
“Voglio chiarire subito che sviluppo sostenibile indica fondamentalmente un processo di consensus building, di costruzione del consenso; cioè: nessuno ci può dire tecnicamente che cos’è ‘sviluppo sostenibile’; il contenuto è sempre e necessariamente il risultato di un processo di negoziazione. Ho notato che in Italia spesso il concetto di negoziazione ha un uso limitato: è l’ultima fase di una trattativa di patteggiamento, in cui in qualche modo si va a una spartizione: tu prendi questo, io prendo questo altro. Nel mutual gains approach, nel consensus building è invece l’intero processo a essere inteso come negoziazione. La negoziazione comincia quindi con la preparazione, con l’analisi degli interessi; non è affatto solo l’ultima fase in cui si divide la torta. La negoziazione allora è un concetto molto più ampio; praticamente ogni comunicazione in cui ci sono degli interessi in gioco inizia a essere una negoziazione”. (I. Koppen, intervista a, Mutuo vantaggio, in “Una città”, Forlì, settembre 2003. Ida Koppen è vice presidente della Sustainability Challange Fondation).

Scheda 4
Le competenze

  • La competenza si trova solo in luoghi speciali?
  • La competenza è solo degli specialisti?
  • La competenza è una dinamica sociale.
  • No la logica della competenza che risarcisce, che compensa. Sì la logica della competenza della costruzione insieme, del dialogo per costruire.
  • Il dialogo esige il riconoscimento dell’altro come soggetto originale.
  • Dalla competenza del professionista alla competenza sociale cui il professionista dà contributo.
  • I contesti competenti

Scheda 5
L’individuazione dei soggetti con bisogni speciali

  • La logica dell’ICF fa scoprire che ci sono contesti, che la discontinuità può essere positiva, che le valutazioni sono l’incontro di tanti testimoni, e non solo di specialisti.
  • I bisogni sono relativi al singolo contesto.
    La dizione di “soggetto con bisogni speciali” deve essere messa in relazione con i microcontesti.

Scheda 6
l passaggio da una didattica fondata sul modello trasmissivo a una didattica fondata sul modello interattivo

  • Il modello trasmissivo è centrato sul sapere, e punta sulla capacità recettiva del soggetto ad acquisire un contenuto esposto sottoforma “dichiarativa”; ha come presupposto la coincidenza e il puntuale incontro fra logica espositiva e logica recettiva; e considera omogeneo e universale il modo di apprendere.
  • Il modello attivo interattivo si fonda sulla didattica della mediazione, e sulla pluralità dei mediatori. Considera importante l’attività del soggetto, le sue rappresentazioni, il ruolo positivo dell’errore, dell’esplorazione, delle procedure mentali. Il ruolo interattivo o dialogico è centrale. Imparare è imparare ad apprendere, con l’aiuto del mediatore più adatto al soggetto.

22. Un orizzonte

di Andrea Canevaro

Caro Accaparlante, o meglio: care e cari Accaparlanti,
la vostra storia è fatta di sfide e non vedo la ragione per non continuare. Le sfide che ancora non si sono risolte sono certo molte. Ne scelgo alcune, pensando che siano nelle vostre corde.
La prima ha un nome tristemente noto. È l’assistenzialismo. Che può far credere che tutto sia dovuto. Che siano gli altri a dover preoccuparsi di noi, di me. Che i diritti non siano in coppia con i doveri. E molti altri “che”. L’assistenzialismo si porta dietro quasi sempre il vittimismo. Se uno è sempre e solo vittima, ci dovrebbe essere il sospetto che ci stia quasi bene, in quella parte. Che, se non ha via d’uscita, e neppure la cerca, ha come conseguenza che esige risarcimenti, ma con l’implicito convincimento che nessuno sarà in grado di risarcire davvero. Ma li chiede. Anzi: li esige. E se può, lo fa in TV, tanto una trasmissione che denunci qualcosa e qualcuno e faccia piangere si trova sempre.
Un’altra sfida è quella dell’autoreferenzialità. Abitiamo il mondo. Che va verso gli 8 miliardi di abitanti. Possiamo fare come se gli altri non ci fossero? È difficile crederlo. Possiamo accorgerci degli altri solo quando fanno danni? È quello che stiamo facendo, con risultati tragici, e con un risultato silenzioso che rischia di non essere avvertito: la scomparsa della verità, sepolta dalle varie corruzioni. La verità è anche sapere che negli altri c’è qualcosa di buono, e non solo male, minacce, eccetera.
L’autoreferenzialità è una implosione continua, un’erosione interna, un’autofagia – cosa vuol dire? Servirsi del vocabolario, prego… – , o, se volete, un verme solitario che fa il parassita dentro il nostro stomaco e riduce la vita a diventare una camera d’aria bucata. È anche un’autolatria – vocabolario? –. Il povero Narciso, amando se stesso riflesso nell’acqua, annegò. Annegò nell’autoreferenzialità.
Ne consegue una terza sfida che chiamiamo fare un progetto. Senza un progetto non si riesce a stare al mondo. Martin Luther King diceva: “Ho un sogno: che un giorno questa nazione si sollevi e viva appieno il vero significato del suo credo.
Riteniamo queste verità di per sé evidenti: che tutti gli uomini sono stati creati uguali”. Ma qualcuno, anonimo, ha detto anche “Se si sogna da soli è solo un sogno, se si sogna insieme è la realtà che comincia”. Avere un sogno e vivere, con gli altri, in un progetto. Che non può accontentarsi di ripetere. Deve scoprire nuovi orizzonti, e combattere le nostalgie. Le nostalgie sono birichine: ti dicono quello che ti fa piacere, e ti nascondono i ricordi spiacevoli. Lo fanno apposta. Per farti star fermo, in loro compagnia. E così la realtà non comincia. Diffidate, care e cari Accaparlanti, delle birichine nostalgie.
Tutti noi abbiamo bisogno di progetto. Un esempio tra tanti. La guerra nella ex Jugoslavia si è conclusa con un accordo che divideva quella comunità in diverse entità statali su base etnico-religiosa. Quanto di più approssimativo si potesse immaginare. Ma l’accordo nasceva nell’ipotesi che il progetto dell’Europa esercitasse un ruolo attivo e superasse la provvisorietà dell’accordo. Il progetto Europa è fermo, e ne soffriamo tutti.
Anche il terrorismo si può vincere con un progetto. Chi vive senza un progetto lo chiede come può, anche con la dinamite.
Abitare un progetto nel mondo. È una sfida che può aiutare a superare il determinismo dello stereotipo. Che segna un destino per chi viene fissato in una categoria, come handicappato, tossico, clandestino… Lo stereotipo determina un destino. Un progetto può mettere in disordine questo determinismo.
Care e cari Accaparlanti, le sfide non mancano, e sono per tutti, non sono sfide riservate a chi ha una disabilità. Ma questa è una caratteristica che è nel vostro DNA, care e cari Accaparlanti: vincere le sfide non solo per noi, ma per tanti e forse per tutti.
Ciao
Andrea Canevaro

4. È sempre difficile essere padre. Qualche volta è più difficile.

di Andrea Canevaro, docente di pedagogia speciale – Università di Bologna

È più difficile se ci si sente in colpa e non si capisce perché.
Se si pensa che tutti gli altri siano colpevoli, perché non capiscono.
Se si fanno confronti e ci sembra di essere sempre perdenti.
Se nonostante tutto ci si sente vincitori, ma gli altri…
E tanti altri “se”.

Nessuno è a parte
Cervo Mite, un indiano del sud del Dakota nato nel 1903 e morto nel 1974, diceva: “Tutti noi dobbiamo imparare a vederci come parte di questa Terra, non come un nemico che viene dall’esterno e cerca di imporre la sua volontà. Noi, che conosciamo il Segreto della Pipa, sappiamo anche che, in quanto parte vivente di questa Terra, non possiamo farle violenza senza ferire anche noi stessi”.
Cervo Mite può dirci qualcosa di utile per la nostra riflessione. Vederci come parte di questa terra significa ragionare sull’appartenenza. Il Segreto della Pipa, per le nazioni indiane, era l’evocazione di un simbolo ma anche di una possibilità concreta, quella di incontrare l’altro e avere un mediatore, la pipa. Un simbolo che collega al respiro del mondo quindi ha una possibilità di non agire unicamente con la propria solitudine ma di aspettare che il respiro del mondo suggerisca. Si potrebbe anche dire “prendere tempo”: invece di scandire immediatamente le nostre idee, avere un oggetto mediatore che ci impegni e ci permetta di aspettare. Non solo aspettare che una decisione già realizzata nel nostro animo, nella nostra testa, cambi, non esista più, sparisca, ma anche, eventualmente, aspettare per trovare il modo per realizzare quella decisione senza ferire. In una altro punto Cervo Mite diceva: “Il fumo della nostra sacra Pipa è il respiro del Grande Spirito. Quando noi sediamo insieme e fumiamo la Pipa formiamo un cerchio, che è senza fine e circonda tutto ciò che esiste sulla Terra”.
Don Lorenzo Milani scriveva in una lettera – che quindi aveva la dimensione del rapporto a due e non di una dichiarazione per tanti – : “Il sacerdote è padre universale? Se così fosse mi spreterei subito. E se avessi scritto un libro con cuore di padre universale non v’avrei commosso. V’ho commosso, convinto, solo perché vi siete accorti che amavo alcune centinaia di creature, ma che le amavo con cuore singolare e non universale”.
Vi è da prendere queste parole con molta delicatezza ma anche con l’attenzione all’irruenza con cui vengono scritte. L’amore ha bisogno di radicarsi, di essere in contesti, non può essere qualcosa di elegantemente – diciamolo così – ideale. Ha bisogno di incarnarsi e di esprimersi in relazioni concrete, fatte di carne e parole.
Due elementi quindi, l’attesa e la relazione al singolare.
Attesa intesa come tempo necessario all’elaborazione, all’ascolto, alla scoperta.
Relazione come strumento e mezzo fondamentale dell’amore. 

Che cosa dire? Si può dire la verità?
Cosa si deve dire a chi cresce come nostro figlio o figlia e ha bisogni speciali?
Far finta di niente? Dire o non dire?
Bonhoeffer scrive: “Colui che pretende di ‘dire la verità’ dappertutto, in ogni momento e a chiunque, è un cinico che esibisce soltanto un morto simulacro della verità, circondandosi dell’aureola di fanatico della verità, che non può aver riguardo per le debolezze umane, costui distrugge la verità vivente tra gli uomini. Egli offende il pudore, profana il mistero, viola la fiducia, tradisce la comunità in cui vive, e sorride con arroganza sulle rovine che ha causato e sulla debolezza umana che ‘non sopporta la verità’. Egli dice che la verità è distruttiva ed esige delle vittime, e si sente come un dio sopra delle deboli creature, ma non sa di essere al servizio di Satana”.
Il teologo ci fa riflettere sulla posizione che possiamo assumere nei confronti della verità. Brandirla come una clava oppure cercare le mediazioni per poterla offrire come una ricerca e come una realtà che salva. Far crescere i bambini e le bambine all’interno della ricerca di verità è importante, affrontarli con una verità che colpisce come un pugno e stordisce con un colpo in testa è quello che Bonhoeffer dice essere un modo arrogante di utilizzare la verità. Ed è questo il punto importante per cui abbiamo bisogno di mediatori e di mediazioni, non per nascondere ma per ricercare, non per opprimere ma per offrire. E allora bisogna trovare i mediatori giusti e condividere questa ricerca con altri, sapendo che non è facile, sapendo che esige anche una sopportazione di sofferenza e di attesa.
Bisogna mettere insieme i tempi di molte persone e farlo con una pazienza che a volte è proprio quella che manca quando si è in una fase di ricostruzione, e si vorrebbe subito affrontare un terreno nuovo, un’aria nuova, una vita nuova. Ma la vita nuova non può che essere costruita tenendo conto che la vecchia non va distrutta ma solo messa in condizioni di essere anch’essa nuova.
Vi è una dimensione orizzontale che facilita il contatto, la costruzione di percorsi e non di un solo percorso. È molto importante avere una rete di percorsi, per evitare l’insuccesso ripetuto. Avere una sola strada e trovarla sbarrata significa rischiare di avere un insuccesso che ripetendosi può creare la sindrome da insuccesso. E oltre alla mediazione nella rete orizzontale, c’è anche l’altra dimensione, verticale, che vuol dire avere una possibilità di trascendere dall’attuale.
Il padre può essere mediatore ma ha anche bisogno di mediazioni. Ha un ruolo di traduttore ma anche lui ha bisogno che gli vengano tradotte le esperienze che sta vivendo.

Indicazioni su cui lavorare
Tre parole: responsabilità, rituali, resilienza. Tre elementi di un’educazione che possono essere: proposte, innovazioni ma, e questo ci sembra più importante, modi di leggere il valore, il positivo che già esiste.
Tre parole che possono aiutarci a passare dalla logica del “se” che ci destina a un’attesa senza impegno a quella del “quando” che presuppone, al contrario, un’accettazione della situazione di partenza e una progettualità condivisa che proponga un orizzonte verso il quale muoversi.
Vorremmo che i padri fossero capaci di assumersi la responsabilità di mettere in movimento una dinamica che favorisca non l’imposizione ma la scelta, non la spavalderia dell’azzardo, ma l’avventura del progetto sostenibile.
Indicazioni per padri, quindi, che, al di là delle specifiche caratteristiche del ruolo o dei bisogni dei loro figli, vogliano vivere il loro ruolo con impegno e motivazione ma anche con prospettive e indicatori di direzione.
Uno studioso che riteniamo importante, Antoine De La Garanderie, sostiene che la motivazione non è un fatto solitario, esige una vita di relazione. Sostiene ancora che gli educatori dovrebbero essere motivati dalla loro ignoranza. Una motivazione, quella del padre, che lo porti ad agire con maggiore intenzionalità e, quindi, una maggiore capacità di efficacia e di riproducibilità nel tempo e nello spazio della sua esperienza.

La responsabilità
Una prima indicazione si riferisce al termine responsabilità che ha una evidente radice nel termine rispondere: rispondere di sé e rispondere agli altri. Educare alla responsabilità lo vogliamo intendere non tanto e non solo come un’assunzione di compiti straordinari, quanto come una necessità di sapere che anche il piccolo gesto della quotidianità ha delle conseguenze di cui dobbiamo assumerci la responsabilità. Un esercizio della responsabilità, quindi, attraverso la quotidianità delle piccole cose che, senza facile retorica, sono i mattoni che ci permettono di costruire un percorso, un movimento che, basato su solide basi, ci permetta di crescere, ognuno nel proprio ruolo.
Chi cresce, si dice, impara a camminare cadendo, ma anche impara a camminare evitando di cadere. Un bambino o una bambina piccola inevitabilmente cadono ma sta agli adulti, che sono in qualche modo responsabili di quella crescita, evitare che vi siano degli elementi di pericolo per cui le cadute diventino una minaccia con conseguenze gravi. Vi è quindi la necessità di predisporre un contesto, e questo esige una prima assunzione di responsabilità, perché vi sia, da parte di chi cresce, una possibilità di assumere le conseguenze dei propri movimenti, certamente quelli corporei, e poi dei propri “movimenti mentali”, dei propri pensieri, delle proprie espressioni, delle proprie scelte, di parole, di strumenti, di azioni da fare. Questa complessità di elementi collega il controllo e la responsabilità.
Il padre in questo ha una maggiore libertà, nel permettere al figlio di correre dei rischi, di scontrarsi, anche fisicamente, con le proprie difficoltà, per sperimentare, per imparare, per apprendere e per accettare. Un rischio, ovviamente, collegato a un contesto protetto, o meglio potremmo dire, adatto all’età e alle singole esigenze di ognuno.
Padre come promotore del rischio controllato ma padre anche come sostegno alla definizione di un progetto. Responsabilità sia nell’evitare il pericolo che nel permettere al figlio di affrontare  le difficoltà che sono alla loro portata.
È interessante trovare, in un altro autore importante della nostra epoca come Frankl, alcune indicazioni che riguardano un atteggiamento di provvisorietà nella vita. Frankl considera tale atteggiamento come tipico di coloro che, vivendo in un periodo bellico, sono costretti a vivere alla giornata. Sembra, però, che anche in un periodo di pace apparente, come nella nostra epoca e nei nostri paesi, vi sia questo stesso senso di provvisorietà, di incertezza del domani, che porta, o si accompagna, a un atteggiamento da Frankl chiamato fatalista, ovvero a un’accettazione di quello che accade. Avere un progetto, pensare e immaginare un futuro, definire un orizzonte di senso contrasta con questo atteggiamento fatalista perché ci spinge a una partecipazione responsabile alla costruzione di chi vogliamo essere.
Fatalità, inoltre, contrasta con accettazione, anzi è una falsa accettazione. Perché accettare significa aprirsi alla possibilità, significa sperimentare possibilità, significa cadere e rialzarsi.

I rituali
La nostra realtà educativa in generale è assai povera di rituali, e in generale tutta l’esperienza educativa è all’insegna di una certa irrisione per quelli che sono i rituali. Certo, vi sono aspetti dell’educazione che hanno rituali propri, ma all’interno di settori specifici: la specificità degli sport, ad esempio, oppure quella dell’educazione nelle religioni. Ma anche in questi casi i rituali portano a essere piuttosto derisi che non compresi per la loro importanza. In particolare, poi, quelli che vengono definiti i riti di passaggio, sono quanto mai confusi. I nostri anni sono contrassegnati da una totale confusione di quelle che sono le tappe di sviluppo e di assunzione di compiti, all’interno di un contesto sociale. Le possibilità di comprendere con esattezza quale è la fase di sviluppo di una persona, attraverso i periodi e i riti che sono connessi ai diversi periodi di sviluppo, è oggi molto più difficile di ieri, perché anche a chi è molto giovane viene chiesta una presenza, o viene indotta una necessità di essere presente, da molte azioni che sono nell’ordine della giornata e della nottata: le stesse scansioni ritmiche del giorno e della notte diventano degli elementi opzionali a seconda delle occasioni, dell’interesse, delle convenienze che il soggetto potrebbe avere.
I riti di passaggio sono confusi, a volte sembrano addirittura scomparsi. È vero che per quanto riguarda la situazione del nostro paese i rituali hanno avuto un periodo, quello del ventennio fascista, contrassegnato da una volontà di controllo e da un’esaltazione delle parate, delle messe in scena. Questo ha provocato indubbiamente una certa seria avversione nei confronti di un modo di intendere i rituali. Ma è anche vero che all’interno della riflessione pedagogica vi sono state due correnti di pensiero: una considerata più progressista, e legata all’éducation nouvelle, che aveva nei confronti dei rituali una certa diffidenza, pensando che avessero una natura essenzialmente conservatrice; l’altra era invece, sempre all’interno dell’educazione attiva, considera i rituali un valore nella definizione dei passaggi di crescita.
Il padre è il punto di riferimento del rito di passaggio. Come un antico capo villaggio conduce il giovane, ormai pronto per entrare nel mondo adulto, ad affrontare tale rito, consapevole delle sue potenzialità e fiducioso nel suo coraggio.
Ancora più importante diventa il ruolo del padre quando il figlio, per la propria condizione di disabilità, mette in crisi i riti di passaggio condivisi dai suoi coetanei. Sia nei tempi che nei modi. La prima uscita da solo, il primo bacio, la prima trasgressione alle regole.
Riti che aiutano a definire un’identità, a sperimentarsi, a varcare i confini.
Riti che, troppo spesso, vengono negati o evitati al giovane con disabilità. Ecco che il padre, allora, può porsi come conduttore, favorendo esperienze rituali che, tenendo conto delle specifiche esigenze, consentano al figlio di sperimentarsi e affrontare prove che lo aiutino a diventare adulto.

La resilienza
La parola resilienza deriva dalla fisica. Il vocabolario Larousse la spiega come una caratteristica meccanica, che definisce la resistenza alla pressione e all’urto di un materiale. La resilienza umana va anche oltre, e viene definita come la capacità di una persona, o di un gruppo sociale, di una famiglia, di una comunità, di un villaggio, di una minoranza etnica, dei rifugiati, e anche di una scuola, a svilupparsi nonostante circostanze difficili, come ad esempio un ambiente sfavorevole o anche ostile. Gli adulti resilienti hanno sviluppato questa capacità dall’infanzia, avendo assorbito il trauma con un senso di competenza e di coscienza che gli consente di aver sviluppato un certo controllo sul proprio destino e sulla propria vita.
Ed è importante tenere memoria di ciò che abbiamo affrontato, elementi importanti e significativi in una prospettiva di apprendimento. Si può anche parlare di una “vaccinazione” che si realizza attraverso i piccoli contrasti dell’esistenza. La persona che cresce può sviluppare una sicurezza interna che, mettendo alla prova, rinforza attraverso la possibilità di interiorizzare quelli che sono gli elementi di sostegno e di fiducia, senza bisogno di averli sempre vicini, sempre evidenti, sempre manifesti; li sente propri, e quindi li rinforza attraverso le prove.
Queste dinamiche sono conosciute ma a volte solo a posteriori, e non è ancora chiaro come produrle, cioè come educare alla resilienza. Gli studiosi insistono su tre grandi insiemi di fattori:
– le caratteristiche della personalità, l’autostima, la riuscita di alcuni compiti… un senso dell’umorismo e la presa di distanza, la capacità di organizzare la propria vita;
– la coesione, il calore del gruppo, l’assenza di discordia o almeno una buona relazione con le figure educative, con un pari del proprio sesso e anche dell’altro sesso;
– i sistemi di sostegni esterni che incoraggiano e appoggiano gli sforzi che chi cresce fa per fronteggiare una situazione.
Questi tre insiemi di fattori possono essere in qualche modo progettati da un ambiente educativo che si faccia carico di questo tipo di elementi, importanti per l’apprendimento. Pensiamo a come oggi ci sia una continua “doccia scozzese” dei ragazzi e delle ragazze, fra la protezione eccessiva che vorrebbe impedire che siano sfiorati dal dolore, dalla sofferenza, e che interpreta dolore e sofferenza qualsiasi cosa, come ad esempio la mancanza di un oggetto; e diventa poi trasmissione dell’incapacità di soffrire per un’attesa, di costruire con fatica.
La “doccia scozzese” è fatta di contrasti: l’abbandono, il lasciar soli, lasciare che chi cresce si trovi improvvisamente in certe ore della giornata a dover decidere da solo, da sola, di tutto, ad esempio come vestirsi, cosa mangiare, come usare i soldi. A volte le avversità condivise con il gruppo di riferimento o con degli adulti sono un fattore che protegge l’individuo molto più che il riparare dalle avversità.
A ben pensarci, in effetti, è meglio condividere la fatica di una difficoltà oppure evitare tale difficoltà? È più utile far sentire la presenza e condividere dubbi e preoccupazioni o scegliere per l’altro evitando dubbi e responsabilità?
Il padre è maggiormente capace di mantenere l’equilibrio tra protezione e sofferenza, tra concessione e attesa, tra sostituzione e menefreghismo.
Un equilibrio necessario alla formazione della resilienza come abilità che permetta di trasformare un ostacolo in un’occasione, una difficoltà in una possibilità.
Se pensiamo al percorso di crescita di un ragazzo o una ragazza, con disabilità o meno, gli ostacoli e le difficoltà sono all’ordine del giorno. Compito della famiglia, come della scuola e degli altri contesti educativi è proprio quello di permettere loro di sviluppare la capacità di crescere nonostante circostanze difficili e, anzi, fare di queste un apprendimento. 

Bibliografia
A. De La Garanderie, La motivation. Son éveil son développement, Bayard éd., Paris, 1996.
K. Recheis, G. Bski (a cura di) Sai che gli alberi parlano? La saggezza degli Indiani di America, Il Punto di incontro edizioni, Vicenza, 1992, p. 15 e p. 44
L. Milani, I care ancora. Inediti. Lettere, appunti e carte varie, EMI, Bologna, 2001 (il volume è curato da G. Pecorini), p. 146.
D. Bonhoeffer, Etica, Bompiani, Milano, 1999, p. 131.
V.E. Frankl, Homo patiens. Soffrire con dignità, Queriniana, Brescia, 1998.
P. Bertolini, La responsabilità educativa, Il Segnalibro, Torino, 1996.
B. Cyrulnik, Un merveilleux maleur, Ed. O. Jacob, Paris, 1999.
IDEM, Playdoyer pour les Enfants, Fond Houtman 1989-1999, Bruxelles, 1999.
B. Cyrulink, E. Malaguti, Costruire la resilienza, Erickson, Trento, 2006.
E. Malaguti, Educarsi alla resilienza, Erickson, Trento, 2006.

La diversità necessaria

Non è sensato che io consideri significativo unicamente ciò che è tale per me. E’ bene che io apprenda anche ciò che è significativo per gli altri… Con la tecnologia moderna l’uomo ha un eccesso di potere…e non può più pensare in termini narcisistici…ha bisogno delle diversità, di rapportarsi ad una realtà plurale”.

Riconoscere la realtà, che è fatta di diversità.

Traduco un testo di Albert Jacquard, e lo propongo come elogio della differenza; differenza che è inserita nella nostra realtà profonda e quotidiana. E’ una realtà talmente presente in noi, da rischiare di non essere avvertita come un elemento fondamentale della nostra vita.

Albert Jacquard scrive: "Quello che ho in comune con tutti gli altri è la possibilità, a partire da ciò che ho ricevuto, di partecipare alla mia propria creazione.Però bisogna che mi si lasci la possibilità.
Grazie, genitori, per l’ovulo e lo spermatozoide che contenevano tutte le indicazioni per costituire la sostanza che mi hanno formato.
Grazie, famiglia, per il cibo, il calore, l’affetto che mi hanno permesso di crescere e di strutturarmi.
Grazie a chi mi ha trasmesso con l’insegnamento le conoscenze lentamente accumulate dall’umanità da quando interroga l’universo.
Grazie a chi mi ha amato, per l’amore insostituibile.
Ma sono io che devo completare l’opera, tocca me posare il trave portante.
Dimenticate quello che avreste voluto che io fossi. Non devo realizzare il sogno che avete fatto per me; sarebbe tradire la mia natura umana. Perché io sia veramente umano, mi dovete un ultimo regalo: la libertà di divenire quello che ho scelto di essere"
(A. Jacquard, Moi et les autres: initiation à la génetique, Senil, Paris, 1983 p. 139).

Questo testo è semplice e profondo nello stesso tempo. Ma non può evitare la problematicità che inevitabilmente accompagna il tema.

La diversità è un intreccio di "dati" e di possibilità. I "dati" possono a loro volta essere combinati fra loro in molti modi. Ed è proprio il campo delle possibilità che è inevitabilmente problematico e irto di rischi.

Tutto è possibile? Evidentemente no ma è proprio evidente? A volte non sembra che lo sia, e certi comportamenti individuali e collettivi smentiscono che sia "evidente" ammettere e riconoscere i limiti alle proprie possibilità.

Da un altro versante, possiamo domandarci se proprio tutti hanno la possibilità di divenire quello che scelgono di essere.

Ci sono condizioni che impediscono le scelte.

E vi sono tante ragioni per temere che altrettante scelte siano falsate da condizionamenti tali da indurre a rinunciare ad ogni scelta originale per seguire l’indotto del consumismo.

Educare alla diversità è un compito difficile. Non bastano le dichiarazioni e l’espressioni di sentimenti e di emozioni. E’ un’educazione ecologica.Ma anche questa parola ha subito il logorio della moda, essendo interpretata in stravaganza massimalista e minimalista.

Come rendere un’apprendimento significativo.

Apprendimento non è necessariamente una parola che porta a scuola. E’ vero che a scuola si dovrebbe realizzare un progetto di apprendimento. Ma l’apprendimento dovrebbe accompagnare tutta la vita. Il passare degli anni vuole che un individuo impari, apprenda a usare diversamente la propria energia. L’alimentazione nelle diverse età e nelle diverse situazioni, esige apprendimento. Nuove tecnologie nei trasporti, nelle comunicazioni; comportano apprendimento.

Chiarito che parli di apprendimento in un senso ampio e non necessariamente scolastico – caso mai: anche scolastico -, mi domando come un apprendimento significativo sia possibile; e quindi come rendere significativo un apprendimento.

Vi è la tendenza a privilegiare una dimensione della significatività enfatizzando la soggettività, o l’oggettività. Apprendere unicamente ciò che è significativo per me. Oppure apprendere solo ciò che è significativo in sé.

Queste due dimensioni sono in antitesi fra loro, e infatti sembrano alternarsi come certe figurine di legno legate fra loro da un meccanismo per cui l’avanzata di una è collegata all’arretramento dell’altra. L’esaltazione delle soggettività è anche sottolineatura della motivazione individuale come fondamentale ragione dell’apprendimento. In questa interpretazione, chi insegna si rapporta esclusivamente alla dimensione del singolo che apprende. Al di là delle intenzioni, buone, vi è una riduzione nell’orizzonte alla relazione duale, con rischi di psicologismo nell’insegnamento – apprendimento, ma con rischi maggiori circa la riduzione narcisistica della realtà e della sua esplorazione. Se interrogo l’universo unicamente per ciò che io stesso ritengo significativo, implicitamente escludo ogni ragione che possa giungere da altri soggetti.

Da questa prospettiva esclusivamente soggettiva può scaturire una posizione che considero paradossale e contraddittoria. L’apprendimento sarebbe significativo in termini individuali; nello stesso tempo ogni individuo, come diversità singola, rappresenterebbe una garanzia di comunicazione, grazie al noto assioma secondo cui comunichiamo in virtù delle differenze, e non vi sarebbe comunicazione possibile se non vi fossero le differenze. Questo è un’assioma, e cioè un’affermazione che è talmente vera da non necessitare di prove dimostrative. Ma l’assunzione delle comunicazioni come elemento che valorizza le differenze non mi convince, perché non dice, non può dire nulla sulla qualità e quindi sui contenuti della comunicazione. Che il mezzo comunicativo sia messaggio è un altro assioma, questa volta d’autore (Mc Luhan): va interpretata come rischio riduttivo. Se il messaggio si riduce al mezzo (e non: è anche il mezzo), la comunicazione può diventare una scatola vuota.

Allora è bene domandarsi se la grande celebrazione della comunicazione possa lì per sé bastare a rendere significativo ogni evento comunicativo. E’una domanda falsamente ingenua. Con molta più furbizia tautologica, le tecniche ed i tecnici della comunicazione si adoperano perché un evento comunicativo sia certamente significativo proprio perché è tale, cioè è fabbricato come tale.

La coppia – costituita dall’assoluta soggettività significativa e dall’assoluta possibilità comunicativa garantita dalla pluralità differenziata dai soggetti – produce un danno ecologico di proporzioni considerevoli. Anche l’assoluta oggettività della significatività (o della significanza, se si preferisce) è dannosa. Posso essere più che convinto del significato oggettivo dell’apprendere a mangiare. Ma questo non basta a far superare una condizione di anoressia attraverso l’alimentazione forzata. Questo può costituire una risorsa per superare una drammatica fase di emergenza.

Ma non è la modalità che in sé favorisce l’apprendimento dell’alimentazione.

Tuttavia vi è qualcosa di utile sia nella significatività soggettiva che in quella oggettiva. Ciascuna deve scrollarsi di dosso la pretesa di rappresentare un valore assoluto ed autosufficiente.

Non è sensato che io consideri significativo unicamente ciò che è tale per me. E’ bene che io apprenda anche ciò che è significativo per altri. In questa prospettiva possono essere ricordati educatori ed educatrici. Cito solo Lorenzo Milani, che non ha mai considerato con troppa benevolenza gli atteggiamenti preoccupati eccessivamente dello stato emotivo di chi apprende e non del progetto. Progettare vuol dire prendere in seria considerazione ciò che è significativo per gli altri. Don Milani ha impegnato le sue energie di educatore sulle parole. E sulle parole, e non solo, lavorò Frainet.

Anche Paulo Freire che potrebbe essere considerato come l’educatore che indica con maggiore forza la necessità di superare la significatività soggettiva senza dimenticarla a favore di quella oggettiva. Paulo Freire è morto a San Paulo il 2 maggio 1997, all’età di 76 anni. I giornali italiani hanno taciuto questo lutto. E i giornali italiani sono molto occupati dalle notizie e dai molti commenti sul come si comunica; pochissimo su cosa si comunica. E’ quindi una conseguenza logica che una tale informazione, che per di più riguardava una tale personalità scientifica e culturale, non apparisse. Il narcisismo di cui è imbevuta gravemente la stampa e la televisione italiana riflette – purtroppo – un’analoga condizione di una società.

Per questo, l’educazione alla diversità – in una prospettiva ecologica – è tanto necessaria quanto difficile ed impegnativa.

E per questo è necessario cercare di individuare le ragioni profonde della diversità e della sua importanza per il futuro del mondo.

Perché il mondo ha bisogno di diversità

Hans Jones – il filosofo tedesco de Il principio responsabilità – ha affrontato il tema del rapporto fra etica e tecnologia moderna. La tecnologia attuale ha effetti a lungo termine, e nello stesso tempo esige da parte del soggetto umano poca energia, poca fatica fisica ed anche cerebrale. L’effetto a lungo termine può produrre un processo dal bene immediato al male risultante dall’accumulo, del "troppo".

Un’altra caratteristica della tecnologia moderna, secondo Jones, è l’inevitabilità dell’applicazione. E questo perché una società come la nostra "ha basato l’intera organizzazione della sua vita, sia nel lavoro che nel tempo libero, sulla continua attualizzazione del suo potenziale tecnologico coordinandone le singole parti" (H. Jones, Tecnica, medicina ed etica. Prassi del principio responsabilità, Einaudi, Torino, 1997, p. 29; ediz. originale 1985). Questa impostazione trasforma le possibilità, e quindi le differenze, in coazione, in obbligo indotto a comportamenti previsti. Jonas considera questi comportamenti indotti assimilati a ciò che davvero è necessario, come lo è il respirare: non è una possibilità tra le altre. Allo stesso modo può venir percepito l’adeguamento tecnologico.

Oltre alle proporzioni globali nello spazio e nel tempo, che l’etica deve assumere in relazione alla tecnologia moderna, secondo Jones è necessario ripensare e superare l’antropocentrismo. E questo è, per la presente riflessione, un punto fondamentale.

"… se lo si intende in modo corretto, l’includere nel bene dell’uomo l’esistenza della verità in quanto tale, e di conseguenza il far rientrare fra i doveri dell’uomo la sua conservazione, va al di là di qualsiasi punto di vista antropocentrico e orientato all’utile. Questa visione ampliata collega il bene dell’uomo al problema della vita nel suo complesso, anziché contrapporlo a essa in modo ostile, e concede alla vita extraumana il suo proprio diritto" (idem, p. 32).

Accosto alle parole di Hans Jones questa riflessione, che dovrebbe essere approfondita: in Europa, all’inizio della diffusione della tecnologia applicata alla produzione e al lavoro come alla vita quotidiana, vi fu un interesse culturale e scientifico per le diversità e le varietà umane. E’ l’interesse per le altre culture. Ed è l’interesse per chi ha una condizione ed esigenze particolari – quelli che oggi chiamiamo handicappati -.

Le parole di Jones contengono le ragioni, da approfondire continuamente, che sostengono la necessità delle diversità. Schematicamente possiamo dire che in epoche pretecnologiche, tale varietà era assicurata dai processi naturali spontanei. Con la tecnologia moderna, il soggetto umano ha un eccesso di potere; e questo dovrebbe imporgli il dovere di una responsabilità cosmica. Pensare in termini che ho definito narcisistici, badando a un utile individuale, è oggi estremamente pericoloso. Abbiamo bisogno delle diversità, e abbiamo bisogno di apprendere a rapportarci ad una realtà plurale, diversificata. E questo è di una importanza vitale.

Arrabbiarsi non basta

“Non mi pare un argomento forte sostenere che, siccome la laurea richiederebbe come livello di assunzione il settimo, questa impedisca comunque l’assunzione di un laureato al sesto… La parte più innovativa di questo corso di laurea è quella rappresentata dal tirocinio che non è un’appendice, ma una parte integrante”.

Non basta arrabbiarsi a questo punto, perché sembra che sia una questione opinabile, per cui c’è chi la pensa in un modo, chi la pensa in un altro e così via.
Qui si tratta di mettere un ordine a partire da alcuni dati che ci sono. L’esistenza di un corso di laurea, che si chiama Corso di Laurea in Scienze dell’Educazione, e che ha un indirizzo che è, per educatori professionali, non è un fatto di pochi intimi che hanno deciso di fare un clab, ma è una cosa, un fatto che ha una legittimazione di governo.
C’è un organo, controllato dal Ministero della Pubblica Istruzione e della Ricerca per l’Università, per cui se nasce una cosa del genere nasce come una proposta carica di un significato anche legale. Mi pare che questo non sia da trascurare.Poi c’è una azione di governo un po’ disordinata, per cui c’è un corso di laurea e, nello stesso tempo in parallelo, nasce un corso di laurea breve presso la Facoltà di Medicina;si tratterà di mettere ordine a queste cose perché non diventino troppo contraddittorie, a partire da un elemento di realtà, che è l’esistenza legale di un corso di laurea; lo sottolineo legale e non arbitraria.Dicevo questo perché a volte mi sembra che il dibattito sia tra opinioni, mentre qui si tratta di dare una struttura più complessa e più ordinata a degli elementi di fatto. Allora, un primo fatto è l’esistenza del corso di laurea a Scienze dell’Educazione.
Un secondo fatto è questo. Qualcuno dice "attenzione perché il titolo ha un valore alto e questo non può funzionare perché i livelli degli educatori non sono corrispondenti alla laurea". Io ribatto che non è vietato assumere ad un livello diverso, indipendente dalla laurea. Ad esempio io conosco, tu conosci e altri conoscono – insieme ne facciamo una bella lista – persone che hanno vinto, con una laurea congruente, allora in Pedagogia, ora sarà in Scienze dell’Educazione, e senza il diploma di scuola superiore richiesto, concorsi pubblici per posti di ruolo all’interno dei nidi.
Come mai allora si dice di no per gli educatori, che questo non si può fare? Parte da una constatazione di abitudini e come qualcuno dice di no altri possono dire, in maniera del tutto legittima, di si. Anzi probabilmente nei precedenti esiste qualche ricorso che da ragione a quello che sto dicendo. Non è una cosa, come qualcunosostiene, che assolutamente non si può, che è incostituzionale. Io ho parlato dei nidi, ma posso dire anche della scuola dell’infanzia, della scuola elementare. Ci sono molte persone che, in possesso del solo titolo di laurea in Pedagogia ora lavorano, assunte dallo Stato, con le funzioni di insegnanti ecc.
Non mi pare un argomento forte sostenere che, siccome la laurea richiederebbe come livello di assunzione il settimo, questa impedisca comunque l’assunzione di un laureato al sesto. E’ piuttosto una questione di abitudini. E’ innegabile che queste ci siano, si tratta di vedere se queste vanno conservate o se invece vanno cambiate.
La terza considerazione che vorrei fare è più nel merito della formazione. La formazione universitaria può essere una cosa ben fatta e può essere una cosa mal fatta. Io ero preoccupato per la laureata o il laureato che poi, per fare l’educatore, deve anche pulire il sedere a qualcuno.
Un laureato studia per fare mansioni di quel tipo? Dipende da come si laurea. Io ho l’impressione che qui abbiamo messo in moto, in maniera impegnata, il corso di laurea e la parte sostanzialmente innovativa è quella del tirocinio, che non èuna appendice appiccicata, è integrata fortemente al percorso formativo. Ci vede impegnati anchecome docenti che andiamo nelle strutture e per me è l’elemento più importante che sto vivendo in questa stagione universitaria. Però io so benissimo che ci sono altri corsi di laurea che invece non fanno le cose sul serio. Quindi bisogna più entrare nel merito. Quando ci sono associazioni, enti locali, che lamentano problemi con il personale educativo io rispondo loro che bisogna entrare più nel merito e richiedere persone realmente formate, che sappiano che pulire il sedere di una persona handicappata è parte importante del proprio lavoro. Io sono sicuro che ci guadagniamo. E’ più un’azione di terzo livello, a cui si arriva una volta che sono state chiarite le prime due, che possiamo anche chiamare "del controllo di qualità", che ci sia cioè una qualità corrispondente alla formazione.

(*) Direttore del Dipartimento di Scienze dell’Educazione dell’università di Bologna

La relazione di aiuto: il caso dell’Albania

Negli ultimi giorni del mese di marzo 1997, la crisi dell’Albania haraggiunto dei livelli tragici. Pochi giorni prima della Pasqua CristianaOccidentale, vi sono stati esodi massicci e uno di questi ha causato unincidente in mare. Sono morte decine e decine di persone: la stampa e latelevisione italiana hanno parlato molto di questo evento, mostrando scene didisperazione, accompagnate da diversi discorsi di uomini con responsabilitàpolitiche.
Da più parti una tale tragedia è stata commentata da una valutazione chespostava l’attenzione dall’Albania all’Italia e riprendeva, utilizzandol’Albania come un pretesto, un dibattito conflittuale fra le parti politicheitaliane. Anche la tragedia del mare, che è costata la vita a bambini e donnesoprattutto, è diventata l’occasione di rimproveri reciproci fra irappresentanti delle diverse opinioni politiche.
Vi è stato poco spazio per un tentativo di comprendere come la tragedia di unpopolo si sia sviluppata in un contesto più ampio, internazionale, che non solol’aveva alimentata, ma non aveva neanche previsto la necessità di preparareun’azione che consentisse alla tragedia di avere delle proporzioni meno ampie emeno profonde.

La relazione di aiuto verso un popolo intero

Nel caso dell’Albania dovrebbe essere molto chiaro che una relazione d’aiutomolto ampia, come quella richiesta da un intero popolo, sia pur piccolo, habisogno di una preparazione e che l’assenza di essa non può essere imputata aisingoli, che si trovano ad avere delle assunzioni di responsabilità nel momentoin cui si verifica l’esplosione della tragedia. Casomai, ai singoli può esserechiesta la necessità di farsi carico di una riflessione operativa, checonsideri anche il passato e le sue colpe. Anche nell’occasione di un incidentepiù piccolo, che colpisca un individuo, si può verificare la stessa dinamica.Molte voci che si levano a difesa ed anche ad attacco sono una possibilità chel’incidente stesso diventi il pretesto per agire drammaticamente, per creare unaserie di tensioni che, di per sé, non hanno quasi nulla da vedere conl’incidente.
Le relazioni d’aiuto possono nascere da situazioni individuali come dasituazioni collettive, possono avere origine da fatti imprevisti e realmenteimprevedibili come da lunghe preparazioni fatte di trascuratezza o di misceleesplosive che hanno certamente delle responsabilità. Nel momento in cui siproducono delle tragedie e quindi scatta la necessità di un aiuto, sembra quasievasivo perdere tempo nella ricerca delle responsabilità. E’ pur vero che moltevolte l’assenza di preparazione e la responsabilità dei disastri sonocollegabili.

Il coraggio di Gino Cervi

Può sembrare poco rispettoso nei confronti di una tragedia come quella delpopolo albanese ricorrere alla trama di un film che ebbe come protagonista Toto’.Si tratta del film di Domenico Paolella "Il coraggio". E’ la storiatragicomica di un personaggio, interpretato da Toto’ che si presenta a casa dicolui che gli ha salvato la vita da quello che riteneva essere un tentativo disuicidio; il salvatore è interpretato da Gino Cervi.
Toto’ si presenta dunque a casa di Gino Cervi e dice: "Siccome mi haisalvato, eccomi: adesso fai in modo che la mia vita abbia un senso, mantienimi.La mia vita è nelle tue mani". Lo sviluppo tragicomico successivo dellacommedia interessa fino ad un certo punto, ma vi è un’analogia con tantesituazioni che si sviluppano, avendo mostrato ad altri quali poteva essere unavita che in qualche modo era stata salvata dal degrado, ma che improvvisamentesi ripresenta a bussare alla porta e dice: "Eccomi qui: mi avete mostratoquale dovrebbe essere la vita, ed io adesso vorrei entrare in quella vita che miavete mostrato. "
In questa riflessione, è trasparente collocare l’uso della televisione, cioèdei grandi mezzi di informazione non solo sui fatti, ma anche sul modo diinterpretarli e di viverli su modelli di vita; per di più la televisione dàun’informazione che usa l’ immagine, quindi è tanto più seduttiva e capace,apparentemente, di aprire degli orizzonti.
La miscela esplosiva di una situazione che ha avuto uno sviluppo tragico èfatta anche di questi elementi: una grande costruzione di tragedia che nellostesso momento rivela una totale incapacità di assumere il ruolo che larelazione d’aiuto vorrebbe.
Questo permette di comprendere che, anche oltre la tragedia che si èsviluppata, c’è una tragica contraddizione che gran parte della popolazionevive: questa può essere riassunta in termini forse, anzi certamente schematici,come ritenere che l’unico modello di sviluppo possibile sia quello martellante,ossessivo, dello sviluppo di mercato e nello stesso tempo di chiedere azioni difreno e di argine a coloro che di questo mercato sentono l’attrattiva evorrebbero entrarvi, in una logica tale da non portare solo la loro presenza diproduttori acquirenti, ma anche i loro bisogni. E allora nascono i risentimentinei confronti di una collettività che dovrebbe nello stesso tempo rinforzare ilmodello di mercato e proteggere coloro che del mercato sarebbero gli uniciprotagonisti legittimi da coloro che ne diventano gli intrusi e quindiinevitabili disturbatori.
In questa situazione, chi opera nel rapporto di aiuto rischia molto di esserenello stesso tempo colui che improvvisa e colui che viene utilizzato o anchestrumentalizzato, con consapevolezza o no, da coloro che ritengono necessariocreare il freno o la barriera. Bisogna aiutare qualcuno perché sia tenutolontano e perché non diventi l’ospite indesiderato.
La confusione che si può creare attorno ad un tragico incidente permette di nonavere più le energie o lo spazio per fare quello che è necessario fare, ossiauna riflessione operativa che permetta di avere una maggiore preparazione allarelazione da aiuto. Ma c’è da domandarsi se vogliamo veramente fare questopasso necessario affinché, nella prossima occasione, non ci ritrovi nellastessa situazione.

La necessità di confermare il proprio benessere

Volendolo fare realmente, bisogna mettere in seria discussione un modo divivere e cercare di capire se è possibile mantenere tutto ciò che già si ha,pur entrando in rapporto con chi presenta dei bisogni immensi, ai quali ènecessario dedicare energie e risorse. Sembra che questa sia l’ultima richiestache molte persone fanno e sia anche un motivo di preoccupazione per quei governiche mostrano un minimo di attitudine a ripensare, in termini di solidarietà, losviluppo economico e sociale.
Immediatamente nasce una voce di protesta nei confronti di quei governi: perchésu certi standard non si deve mettere le mani, si chiamino organizzazione delmercato e del lavoro, si chiamino anche organizzazioni del proprio benesseresociale, quindi anche relativamente a strutture di servizi che devono esseredisponibili unicamente ad accogliere e ad aiutare i cittadini di un certo paesee non sono disponibili a riequilibrarsi in funzione dei bisogni di altri. Ospitio lontani. La condivisione sembra uno dei problemi più complicati da affrontareperché trova immediatamente una seria opposizione nei confronti di coloro chehanno necessità, apparentemente è proprio questa, di difendere livellioccupazionali, organizzazione sociale, benessere. Anzi, di solito, anche incoloro che sembrano più ragionevoli, il modo di pensare si sviluppa attraversola necessità, prima di tutto, di confermare il proprio benessere perché solocosì sembra, che ci sia la possibilità di sviluppare una relazione d’aiuto. Maquesto può essere un modo di pensare molto contraddittorio.
E’ necessario riflettere per prepararsi- preparare le professioni sociali chevanno dai medici agli educatori, uomini e donne, e preparare una riflessione chetocchi anche gli argomenti importanti quali sono le strutture economiche, leorganizzazioni del lavoro, le rappresentanze delle istanze sindacali edorganizzativi.
Micr-realtà e macro-realtà hanno una connessione che non può essere elusa: sead esempio parliamo di formazioni professionali non possiamo pensarle come casiindividuali ed eccezionali, ma dobbiamo rivolgere l’attenzione alle strutture diformazione; già con questo entriamo in una connessione tra micro-realtà emacro sistemi. E le connessioni non si fermano, quindi bisogna fare uno sforzoperché questa continua necessità di collegare non diventi anche unosmarrimento, un modo elusivo di affrontare la realtà.
Crediamo necessario non rivolgerci ad un criterio univoco, ma pensare sempre intermini di pluralità, anche di pluralità concettuale.

Come un viandante

E’ un’immagine forse retorica che può aiutare il senso di una proceduranormativa e di riflessione, è l’immagine di chi cammina, del viandante, chedeve poter capire, nello stesso tempo, com’è il terreno su cui posa i piedi ecome è la prospettiva. Non deve guardare solo la linea dell’orizzonte, ma deveogni tanto guardare dove mette i piedi.
Il suo sguardo si sposta in relazione alle difficoltà del terreno. Questo è inparte ciò che si deve fare, o pensiamo si debba fare, in un percorso diformazione quale è quello che impegna la relazione d’aiuto. Vi sono momenti incui è necessario concentrare tutte le proprie energie sul terreno in cui si èe vi sono altri tempi in cui è altrettanto necessario guardare in che orizzontesiamo collocati, in che direzione stiamo camminando e se stiamo camminando.Questo modo di operare è anche necessario quando vi sono tragedie che sembranomobilitare tutti, senza lasciare spazio ad una riflessione più ampia e capaceanche di ricostruire un minimo di storia. E questo porta a considerare alcunipunti problematici non facili da risolvere.

Riduzione dell’handicap

La qualità del tempo: policromia e monocromia

Immaginiamo la rappresentazione del tempo e della sua qualità con i colori e immaginiamo come possa essere scombinata la vita di una persona, di una famiglia, dalla presenza di un evento inatteso e nei confronti del quale si ritiene di non avere nessuna risorsa, nessuna preparazione, quale può essere la nascita di un bambino o di una bambina con delle esigenze particolari dovute a un deficit.
Questa situazione può rendere la vita, anziché una combinazione di colori, una policromia, perché è fatta di tanti elementi diversi tra loro che si combinano più o meno armoniosamente, una vita che ha solo un colore. Esempio: una vita tutta fatta di dedizione, di oblatività. Questa situazione monocromatica è tanto più evidente quando la situazione di handicap è grave, e gli elementi di quotidianità sono così costantemente bisognosi di una presenza accanto a chi è handicappato, bambino o bambina, da costituire un vincolo e rendere impossibile lo svolgimento di altri compiti talmente marginali da non essere neanche avvertiti come presenze nella vita. Sembra quindi che vi siano delle riduzioni continue delle altre possibilità che vengono allontanate, rese più difficili, sporadiche, acrobatiche, per concentrare tutta la propria vita, la propria esistenza attorno alla vita e all’esistenza di un soggetto. Non è, è evidente, solo l’aspetto materiale di vita quotidiana ma anche l’occupazione della mente. Vi possono essere anche persone, familiari, che svolgono molti compiti professionali ma tutta la loro vita mentale è occupata dalla presenza costante di quel figlio, di quella figlia, se sono genitori, o di quell’individuo, se hanno altri rapporti sia di famiglia, sia di amicizia.

Qualificare il tempo

Questo rende importante capire quanto il tempo vada restituito a una policromia, e rende importante capire quale sia il successo di quelle proposte che occupano, anche materialmente, il tempo delle persone che vivono accanto a una persona handicappata, a un individuo handicappato, uomo o donna, bambino o bambina, ed anche il tempo dell’individuo che ha delle esigenze particolari.
Al di là della comprensione di efficacia, vi sono delle suggestioni potenti che fanno aderire a una proposta, quasi unicamente perché può qualificare il tempo. Ora è quasi evidente che il giudizio relativo a certe proposte può essere anche negativo, ma non raggiunge il nucleo essenziale di quelle stesse proposte. Sembra che vi sia la necessità di qualificare il tempo attraverso una proposta che lo riempia di attività. Se poi vi è anche la speranza che queste attività abbiano un valore abilitativo e terapeutico questo è un valore aggiunto ma non indispensabile.
Abbiamo l’impressione che a volte vi sia una necessità quasi fisiologica di avere qualcosa che impegni il tempo. E allora se questo è un punto di partenza di una riflessione bisogna andare oltre per capire come in presenza di una situazione di handicap sia importante ragionare per restituire al tempo una qualità di policromia: restituire diversi colori.
Certo, non abbiamo con questo la possibilità di essere sicuri che i diversi colori armonizzino tra loro, che siano organizzati in termini unitari e non dividano la vita in termini tali da frantumarla, per cui dobbiamo aggiungere che la policromia va costruita insieme, non può essere dettata dall’esterno ma fatta nascere da un progetto in cui l’individuo che è protagonista sia aiutato certamente, ma faccia delle scelte.
Questo individuo lo vogliamo concretizzare in una figura femminile, e ancora di più in una madre ? ma è un esempio e potremmo sostituirlo benissimo anche con una figura maschile, e forse con un padre. Scegliamo una madre anche per un doveroso riconoscimento che buona parte delle riflessioni sul tempo viene da donne. Personalmente credo di dovere molti meriti a molte donne, ma mi conviene riassumere e attribuire un merito specifico a Matilde Callari Galli che su questa questione del tempo delle donne ha molto riflettuto e aiutato altri a riflettere. Un tempo monocromatico vuol dire, per quella figura che ho scelto come esempio, un tempo tutto dedito alle operazioni quotidiane di assistenza a un figlio, a una figlia, nell’esempio che facciamo è questo.
Già dicevamo della possibilità che questo tempo di dedizione sia qualificato da una proposta, rimane un tempo tutto oblativo, quindi monocromatico, ma almeno organizzato in un percorso, o tale si presenta. Nello stesso modo di proporre, però, vi sono a volte aspetti che vengono sottovalutati, e che riguardano una possibilità che la proposta di un programma intenso, di attività da svolgere quotidianamente, minuto per minuto, sia accompagnata da una spiegazione di quelle che sono le condizioni che quel bambino, quella bambina, vive.
A volte chi è del mestiere, e ha una preparazione tecnica e scientifica, considera quelle spiegazioni molto superficiali se non erronee, e non prende in considerazione l’aspetto che invece noi qui vogliamo esaminare: che in quella proposta vi è anche una valorizzazione del potenziale cognitivo, detto in un gergo che può essere anche fastidioso, della mamma presa nel nostro esempio. Anziché ritenerla una persona senza una preparazione accademica e scientifica, e quindi incapace di comprendere la situazione, quella proposta ha fatto in modo, forse superficialmente, forse erroneamente, ma noi qui vogliamo trascurare questo aspetto, che quella persona fosse apprezzata per la sua possibilità di comprensione anche intellettuale. Entra, in questo aspetto, una considerazione che già può essere sviluppata per la nostra ipotesi di tempo a più colori. Possiamo fare, se siamo capaci, meglio di quella proposta ipotizzata e allusa che fa riferimento a delle spiegazioni o erronee o comunque semplificanti.

I libri per i genitori: libri demagogici

Abbiamo una letteratura che ha alcune scritture, alcuni libri rivolti in particolare ai familiari, ai genitori, alle mamme. Questa letteratura può essere, a grandi linee e schematicamente, divisa in due settori: uno è un settore che chiameremo "demagogico" e l’altro è un settore che chiameremo "dialogico".
Il settore demagogico ha delle semplificazioni eccessive, ha la caratteristica di essere astorico, descrive una situazione di bisogni particolari come se fosse un dato, e non come elemento di una ricerca che ha avuto una sua storia e quindi delle evoluzioni, delle capacità di essere espresso in termini diversi da quelli in cui vengono espressi oggi. E’ a?storico, è a?problematico, è un genere letterario che si configura come semplificatorio, riduttivo, e considera quindi i suoi lettori e le sue lettrici come delle persone incapaci di sostenere il confronto con un’opera in cui vi siano delle parti da approfondire, perché alla prima lettura sono oscure. Deve quindi svolgersi secondo una chiarezza artificiale.

I libri per i genitori: libri dialogici

Una seconda categoria di libri è dialogica. Considera quindi chi legge come persona che può affrontare anche delle difficoltà, può non capire subito, ha bisogno di approfondire, ha bisogno di collocare le conoscenze che riceve in una problematica non sempre precisa, ha bisogno anche di incontrare i dubbi e di non avere delle posizioni trionfalistiche, sicure di sé. Nella categoria demagogica dubbi non ve ne sono, si fa così, quindi la traduzione è: "tuo figlio, tua figlia, è, ed ha bisogno di..", tutto è molto semplice, sicuro, chiaro. Vi è una proposta, ed è quella che funzionerà se tu la saprai far funzionare.
Nell’altra letteratura, anche rivolta a chi è genitore, a chi è mamma, vi è una linea di continuità con la letteratura scientifica che non si indirizza a questi lettori. Vi è quindi una possibilità che quel libro permetta l’inizio di una riflessione più ampia non necessariamente solo in termini scientifici ma anche in termini letterari, poetici, storici, analogici; si può scoprire che la situazione di chi vive attorno a chi ha esigenze particolari può essere analoga ad altre situazioni molto diverse, di altre popolazioni, di usi e costumi, ecc. Vi è la possibilità che il tempo cominci a colorarsi e che accanto a una vita monocromatica, tutta dedita all’assistenza vi sia anche una vita intellettuale, che a sua volta si apra in molte possibilità. Forse si riscopre, o si scopre, qualcosa che permette di avere delle risorse non solo di compensazione.
La compensazione è necessaria: chi ha una sofferenza cerca, ed è umanamente molto giusto, di compensarla con qualche gratificazione, con qualche compensazione, può essere nella religiosità, può essere nell’attività sociale e politica. Non solo, però, compensazioni, non solo, quindi, riequilibrio ma anche sviluppo, possibilità di procedere, di regalarsi delle soddisfazioni non per restaurare l’ordine o per pareggiare i conti, ma per andare avanti.

Sottrarre il dolore

La policromia, la colorazione del tempo è molto importante, e diventa anche un elemento di comprensione di cosa può accadere qualora qualcuno in una posizione di generosità, certamente, sottragga all’altro il dolore, la pena, l’afflizione; anziché entrare per collaborare alla costruzione della policromia vi può essere una assunzione dell’afflizione dell’altro in termini che generosamente sono: "ti tolgo l’afflizione", ma che possono essere letti come: "mi togli l’unica cosa che ho": il vuoto di colore; anziché la monocromia, vi è una monocromia spenta; si spegne anche l’unico colore che c’era, quella dedizione me la prendo io.
Nel rapporto con chi vive la situazione di handicap vi può essere questa generosa proposta di assunzione totale dell’afflizione: può essere rivolta a chi è direttamente protagonista, a chi ha dei bisogni particolari; può essere rivolta a chi è vicino. La policromia è una proposta che serve a tutti, in particolare a chi vive la situazione di handicap, sia perché è handicappato, è handicappata, sia perchè vive accanto. Sottrarre il dolore, sottrarre l’afflizione è una logica molto presente nelle persone generose, ma è una generosità poco costruttiva che rischia di degenerare in assistenzialismo, e nell’assistenzialismo una presenza costante è quella di accentuare i bisogni o moltiplicarli, per costringere l’altro ad occuparsi sempre della situazione. Quindi l’assunzione dell’afflizione non è efficace, perché ve ne è sempre dell’altra.

Policronia

Questa è con tutta evidenza una descrizione schematica; ciascuno la può articolare a seconda delle diverse realtà che vive. In positivo noi dobbiamo riflettere sulla utilità di svolgere una azione che permetta la costruzione di un policromia; la parola "policromia" può essere però anche sostituita dalla parola "policronia", i colori possono essere sostituti dal tempo. Più tempi e non solo un tempo: il tempo dell’assistenza ma anche il tempo dell’intelletto, il tempo della riflessione quindi anche la possibilità che nei più tempi, nei diversi tempi, vi sia un’occupazione di ruoli diversi; in un tempo un soggetto è protagonista, in un altro tempo è spettatore. E questo è un elemento importante perché a volte la vita di chi ha dei bisogni particolari è ancorata a un solo ruolo, sempre spettatore, sempre comparsa, oppure sempre protagonista. Il protagonismo di alcune persone handicappate è evidente, così come è anche evidente, anche se meno imponente, si impone meno, il ruolo di comparsa di tante altre persone handicappate.
Occupare un solo ruolo vuol dire vivere una vita vincolata a una sola posizione e quindi, a rappresentarla in un’immagine, fortemente anchilosata, in cui è più facile che si sviluppino delle piaghe da decubito, in senso figurato e a volte anche in senso reale, ma più spesso in senso figurato. Più spesso di quanto si creda. Diventa una vita che appoggia sempre in un solo punto, mentre la policromia, che diventa in questa descrizione policronia, permettendo lo svilupparsi di diversi colori e in diversi tempi, permette anche di cambiare ruolo, e quindi di avere una rappresentazione di sé variata, e di migliorare l’apprendimento. Il cambiamento di ruolo permette di imparare, cioè di trasportare qualche cosa da una posizione all’altra e alimentare le nostre riserve di apprendimenti.

Appartenenza: la lacerazione dell’appartenenza e la ricostruzione della stessa

La riflessione fatta sulla qualità del tempo può essere rifatta, quasi ripercorsa con lo stesso pensiero, però con un’altra chiave di lettura che è quella dell’appartenenza. "Appartenenza" è un termine che ha una particolare attualità dal momento che, nell’epoca in cui la parola "globalizzazione" è diventata sempre più una realtà, vi sono anche delle forti tendenze a creare delle appartenenze localistiche e quindi a rompere l’appartenenza a una società ampia per individuare nella piccola patria il motivo di appartenenza. In alcuni casi questo ha sviluppato dei frazionamenti tragici, che hanno comportato dei conflitti; la ex Jugoslavia non finisce di vivere questa situazione. Anche dove la condizione non è tragica vi sono rivendicazioni localistiche per attribuire all’appartenenza locale un primato e quindi per essere più portati a riconoscerci in chi abita da tempo in un certo contesto e vedere in chi arriva da lontano un usurpatore, un invasore. Il termine "appartenenza" sta prendendo un posto importante nella nostra riflessione. Vorremmo capire quanto è importante sentirsi parte, e anche quanto è importante sentirsi parte del mondo, non solo di una piccola zona.
L’appartenenza ridotta alla piccola zona facilmente sconfina nella xenofobia e nella conquista o nella difesa di privilegi. Appartenenza al mondo, all’umanità. Vi sono momenti in cui si può vivere una lacerazione dell’appartenenza, oppure si può nascere sentendosi come lacerati rispetto all’appartenenza, ed è questo il caso di persone che noi definiamo handicappate, o delle persone che vivono con lacerazione: si rompe un concetto e una realtà sedimentata, nasco handicappato quindi faccio fatica ad appartenere, ad essere parte di un tutto, non vengo riconosciuto parte e ho bisogno di ricostruire o costruire un’appartenenza, con il rischio di costruirla in una categoria.
La ricostruzione dell’appartenenza o la costruzione dell’appartenenza significa procedere a un riconoscimento di elementi che sono comuni. A volte un eccesso di naturalismo banalizza gli elementi comuni. Trovare il valore simbolico nella respirazione e nel battito del cuore può essere un riscoprire qualcosa che è in tutti ed è tutt’altro che banale, e il valore simbolico è l’elemento aggiunto dell’umanità rispetto alle bestie. Si potrebbe pensare che abbiamo molti elementi in comune con le bestie. Ma il respiro fatto di pieni e di vuoti diventa un ritmo che può avere una sua musicalità, essere sviluppato in una musicalità creativa, e questo il mio cane non lo saprà fare; forse lo saprà riconoscere perché lo educherò a riconoscere il mio fischio che è la modulazione di un ritmo. Da respiro a ritmo vi è un’aggiunta di creatività, di costruzione simbolica a cui il mio cane si adegua e a cui contribuisce passivamente perché forse mi ispira, ma non sa aggiungere altri elementi intellettivi.

L’assenza di parola

Non posso pensare che un soggetto gravemente handicappato sia comparabile al cane perché, come il cane, non parla. L’assenza di parola non lo fa appartenere agli animali che non parlano ma gli consente ancora di essere parte degli animali parlanti, perché ha una potenzialità di accesso al linguaggio che rimane inalterata. I parlanti possono essere anche "insegnanti", ovvero coloro che tra i sordi seguono il linguaggio dei segni. Si può parlare attraverso gli ausilii. La parola non è unicamente quella che si emette vocalmente ma anche quella che si rappresenta.
Non abbiamo nessuna possibilità che il mio cane acceda alla parola se non per addestramento riconoscendo alcune parole; il mio cane sapiente si può esibire in un circo riconoscendo un certo numero di parole, ma è frutto di un addestramento e non è generatore di linguaggio, e non aggiungerà una parola.
Il concetto di appartenenza ha dei risvolti molto pratici e la ricostruzione dell’appartenenza vuol dire ricostruire degli elementi primordiali che permettono di riconoscerci appartenenti al genere umano. Questo può essere un contributo fondamentale che le persone handicappate, che hanno esigenze particolari, possono dare al nostro tempo così bisognoso di "ricapire", o capire, originalmente, che cosa significa appartenenza. Ma così bisognoso anche di vivere l’appartenenza, nella quotidianità, e non solo di capirla nei momenti alti della nostra riflessione.

Un’ esclusione particolare: esclusione in categorie, esclusione mascherata

Già dicevamo come vi può essere un tentativo di superare la lacerazione dell’appartenenza costruendo una appartenenza in una categoria ed escludendo la possibilità di appartenere a qualcosa fuori da quella categoria. Bisogna intendersi: se io fossi un pensionato e mi sentissi appartenente alla categoria dei pensionati questo avrebbe un significato più che tranquillo e componibile nel fatto che io mi sento anche appartenente a un genere umano più ampio.
E’ diverso se io caricassi l’appartenenza alla categoria dei pensionati di un significato di esclusione dall’appartenenza al resto del genere umano, riconoscendomi unicamente in coloro che hanno una certa età, che hanno avuto un’esperienza lavorativa in un certo settore e vivendo ostilmente ogni altro contatto: è un’esclusione. Alcune appartenenze sono costrette a nascere nel segno dell’esclusione. Vi è la possibilità che questa diventi un’appartenenza mascherata e che in realtà tutta una categoria continui ad essere esclusa.

Categorie perseguitate categorie protette

In questo punto della riflessione è necessario fare anche un riferimento a quella discriminazione positiva che consiste nel considerare una certa categoria, ad esempio, gli invalidi, come protetta rispetto agli altri. E’ quasi banale dirlo: nel mondo molte situazioni di protezione hanno consentito una esclusione altrettanto efficace di altre esclusioni violente. In genere le categorie protette, come le riserve indiane, sono state protette dopo essere state perseguitate e quindi sono i resti protetti.
Questo appunto potrebbe permetterci un approfondimento storico che è anche necessario individuare come pista di riflessione e di lavoro. Qui ci preme però ricordare come la categorizzazione sia una maschera, e quindi come tale sempre ricostruita, non tanto identificabile nelle forme che ha assunto in passato quanto riscopribile nelle forme nuove, non sempre individuabili.
Diventa quindi un segnale, o una chiave di lettura, di situazioni che possono anche presentarsi ed essere ispirate a dei criteri di integrazione e quindi alla possibilità e alla speranza che vi sia un’ampia appartenenza.
Abbiamo una serie di dizioni che possono essere elencate, e ciascuno potrebbe trovare che hanno un’esclusione mascherata oppure una possibilità di attuare l’appartenenza. Si pensi alla dizione "laboratorio protetto" che per molti ha significato un avanzamento nella possibilità di integrazione poi, a un certo punto, è stato avvertito invece come un limite ma che in un progetto potrebbe risultare ancora come un percorso, una parte di percorso verso l’appartenenza. Si pensi alla dizione "terzo settore" ispirata a una necessità e a un desiderio di creare delle possibilità di appartenenza ampia, con il rischio, però, che era presente anche nel laboratorio protetto.
Non vi sono proposte garantite a priori rispetto all’esclusione mascherata, quindi a questo tipo di esclusione dall’appartenenza del tutto particolare che esprimiamo nell’espressione semplificata "esclusione in categoria".

La definizione di situazione dì handicap

E’ venuto il momento di capire cosa si dice usando l’espressione "situazione di handicap". Probabilmente in una certa logica sarebbe stato necessario iniziare questa riflessione da questo punto. Quello che ha trattenuto dal seguire un andamento di questo tipo è il non ricadere in una modalità banalizzante. Posta a questo punto della riflessione la definizione "situazione di handicap" dovrebbe essere già più chiara: non si parla unicamente di individuo che ha un deficit ma del contesto in cui abitualmente vive il singolo individuo che ha dei bisogni particolari.
Parlare della situazione di handicap significa prendere in considerazione i diversi soggetti che sono abitualmente collocati in questa situazione, e quindi anche dei familiari. Ancora si può dire che il soggetto deficitario vive la situazione di handicap allo stesso modo di come vivono le situazioni di handicap i suoi familiari e le persone che abitualmente risiedono o vivono con lui o lei. E’ quindi necessario, riducendo l’handicap, affrontare tutta la situazione e non unicamente gli aspetti legati al singolo che ha un deficit. Un processo riabilitativo, ad esempio, può consentire l’applicazione di un trattamento tecnico relativo al soggetto, e deve però anche prendere in considerazione la vita delle altre persone che vivono nel contesto.
Ridurre l’handicap
Questa definizione di "situazione di handicap" permette di rileggere i punti precedenti nella logica di questo intervento, cercando quali sono i modi per ridurre l’handicap. Allora si può riprendere la questione relativa alla qualità del tempo, alla policromia, che sostituisca la monocromia, per capire come questo sia un modo importante per ridurre l’handicap. Si può riprendere il tema dell’appartenenza per capire come questo sia un elemento fondamentale della riduzione dell’handicap ed ancora riprendere l’attenzione alle nuove forme di esclusione nelle appartenenze categoriali per capire come anche questo sia un punto importante nella riduzione dell’handicap. "Riduzione dell’handicap" è accompagnata da una ricerca di comprensione di ciò che è l’elemento dato, cioè il deficit: l’elemento dato non può essere ridotto mentre tutti gli elementi variabili, e sono da scoprire, possono essere ridotti.
Abbiamo già visto come una riduzione dell’handicap che sia operata in termini tali da non consentire la partecipazione a questo sforzo possa rischiare di produrre nuovi handicap.
Migliorare le informazioni
La diminuzione dell’afflizione operata da un agente totalmente esterno può ridurre sì l’afflizione ma provocare risentimento, cioè un nuovo handicap. Ed è questo uno dei punti principali della necessità di collegare ogni intervento tecnico ad una capacità di sviluppare l’attenzione partecipativa, la tensione partecipativa. E’ questa una delle buone ragioni per pensare che una diffusione delle informazioni non possa sostituirsi alla struttura dialogica diffusa sul territorio. Vi possono essere molte buone occasioni perché le tante persone che sono in qualche modo connesse alle situazioni di handicap abbiano un miglioramento delle informazioni. Questo è un compito importante da assumere socialmente.
Questo non toglie la necessità di avere delle buone possibilità di incontro. L’elemento partecipativo non può rimanere legato a dei mezzi freddi, va anche espresso e vissuto attraverso degli incontri umanamente caldi. Su questo bisogna avere una riflessione operativa che comporti un chiarimento sulle professioni che chiamiamo "di aiuto". Ma prima di abbordare quest’ultimo punto della nostra riflessione conviene ancora esaminare l’aspetto della riduzione dell’ handicap legato proprio alla possibilità che vi siano maggiori informazioni diffuse e quindi la possibilità che vi siano delle strutture che chiamiamo Centri di Documentazione, ben organizzati e diffusi in una forma che riteniamo debba essere riferita alla dimensione provinciale.

Studiare il tema del deficit e dell’handicap

Oltre a questo elemento di diffusione dell’informazione è importante sottolineare quanto sia utile, nello specifico della scuola, permettere e favorire la qualità dell’integrazione nel curricolo, vale a dire la possibilità che chi studia studi anche integrando alle aree disciplinari il tema del deficit e dell’handicap e non lo consideri un elemento di benevolenza, un elemento di solidarietà e una sfida cognitiva. Bisogna che chi è a scuola con un compagno, una compagna handicappata abbia la possibilità di conoscere, cioè di studiare, quello che è l’aspetto scientifico, letterario, artistico, relativo alla tematica del deficit ? handicap a partire anche dallo specifico del compagno, della compagna, cercando, è quasi scontato dirlo in questo contesto, di rispettare l’altro e di sviluppare un livello di dignità nei confronti del tema e delle persone che lo vivono con maggiore intensità.

Il quadro delle professioni di aiuto

Abbiamo già fatto riferimento a una necessità di chiarire quelle che sono le professioni definite "di aiuto". Non sono necessariamente le sole professioni che hanno a che fare con il deficit ma riguardano l’arco di vita di ogni individuo. Nelle professioni di aiuto non vi sono unicamente quei ruoli che entrano in contatto con un individuo quando vengono meno delle reti sociali abituali, o quando insorgono dei problemi specifici. Sono professioni di aiuto quelle, e soprattutto quelle, che entrano in rapporto con un bambino, una bambina, al momento che frequenta un nido, una scuola dell’infanzia, un percorso scolastico, una polisportiva, ecc. Quindi le professioni di aiuto sono quelle che permettono di sviluppare la propria crescita e la propria vita per tutto l’arco della stessa. Vi sono poi delle specificità che riguardano i momenti o le situazioni che esigono delle attenzioni particolari.
Questa definizione delle professioni di aiuto, come si può capire, è sufficientemente ampia da comprendere una quantità di professioni sfumata verso quelle che hanno dei ruoli sociali senza avere un mandato specifico di aiuto. E’ quasi evidente che nella vita sociale la possibilità di vivere in una situazione in cui i negozi sono presenti e hanno degli esercenti di una certa qualità umana permette di vivere meglio. La possibilità di avere dei mezzi di trasporto pubblici decenti permette di vivere meglio. Queste, quindi, sono figure sfumate. Tante altre professioni sono anche queste relative a un certo aiuto a una qualità della vita.

Ridefinire il quadro delle professioni di aiuto

Ma il fuoco, cioè il nucleo centrale delle professioni di aiuto, sono quelle che hanno a che fare con il binomio educazione?salute, per tutto l’arco della vita. E queste professioni hanno in questo momento storico un quadro molto poco chiaro: poco chiaro il ruolo degli educatori professionali in rapporto agli insegnanti, poco chiaro il rapporto tra riabilitatori e volontariato.
E’ quindi necessario ridefinire un quadro delle professioni di aiuto in cui sia possibile individuare i percorsi formativi e i collegamenti, le connessioni, fra una professione e l’altra. Questo oltre ad essere un elemento importante per il tema della riduzione dell’ handicap costituisce anche un elemento importante per il controllo e la qualificazione della spesa. Non saremmo molto soddisfatti se ci fosse unicamente il controllo della spesa non accompagnato da una qualificazione della spesa relativamente alle professioni di aiuto. Mancando un quadro è complicato, se non impossibile, avere una definizione della finalità della spesa, e quindi una qualificazione sua progressiva. Investire in un quadro sicuro significa poter poi avere delle progressive riduzioni della spesa o comunque avere vantaggi tali da permettere delle forti economie. E anche questa è una riduzione dell’ handicap perché, lo abbiamo potuto constatare vivendo questo problema, l’assenza del controllo della spesa può portare a delle ondate favorevoli seguite poi da riflusso, e rendere il tutto molto precario.
E’ questo il punto importante della riduzione dell’ handicap legato allo specifico del quadro delle professioni di aiuto: uscire da una sensazione, che non è solo un sentimento ma è anche un dato, di precarietà, di provvisorietà: quello che mi è offerto oggi è incerto che io me lo ritrovi domani.

Un esempio: il Poli Handicap Adulti

Un esempio: nella realtà in cui opero sono presenti delle strutture specifiche che riguardano gli handicappati adulti. Sono state indicate come Poli Handicap Adulti con una sintesi di vocaboli e di dizione che non è perfettamente adeguata alla comprensione di ciò che fanno. Dovrebbe essere Poli per la riduzione dell’handicap in persone adulte, ma diventa molto lungo e allora la sintesi è Polo Handicap Adulti. E questa è una realtà importante perché permette di avere una struttura leggera composta da non molti operatori capaci di connettere i diversi interventi e di seguire per un arco di tempo molto ampio i soggetti che hanno delle esigenze particolari. Ma la sensazione che molte persone che si rivolgono a questi servizi hanno è di avere a che fare con una struttura ai limiti del provvisorio e sicura fino a un certo punto, con operatori che non sono sempre garantiti del prosieguo del loro lavoro. Vi sono a volte cambiamenti dovuti al fatto che il contratto di un operatore scade, o si è passati a regime con dei cambiamenti di personale, cambiamenti che non sono stati bene illustrati e che quindi vengono capiti come conferma di grande provvisorietà.
Il riferimento al tema del quadro delle professioni di aiuto vuol dire rimboccarsi le maniche, per ridurre questo handicap così grande che è la provvisorietà, la precarietà, per dare invece una possibilità progressiva di certezze. Avere delle certezze è uno degli elementi fondamentali della riduzione dell’handicap. Ed è per questo che il punto conclusivo fa riferimento alla parola "quadro", come a qualcosa che ha un insieme, che deve costituire un insieme in cui gli elementi dinamici possono e devono sussistere: elementi di crescita, di maggiore precisazione, di cambiamenti continui, ma all’interno di un quadro che dà sicurezza di certezze.
Concludiamo con un nota inevitabile. Il tema "riduzione dell’handicap" è enorme e quindi abbiamo dovuto per forza scegliere alcuni dei punti su cui svolgere una certa riflessione. Lo abbiamo fatto con la convinzione che siano punti nodali, che non siano esaustivi ma permettano di irrigare un ampio territorio e di arrivare ad elementi più nascosti e forse importanti che a prima vista non si scorgono. Questa è stata la scelta per affrontare un tema così vasto, così importante ed anche, sia detto senza retorica, così appassionante.

Riduzione dell’handicap

Immaginiamo la rappresentazione del tempo e della sua qualità con i colori e immaginiamo come possa essere scombinata la vita di una persona, di una famiglia, dalla presenza di un evento inatteso e nei confronti del quale si ritiene di non avere nessuna risorsa, nessuna preparazione, quale può essere la nascita di un bambino o di una bambina con delle esigenze particolari dovute a un deficit.
Questa situazione può rendere la vita, anziché una combinazione di colori, una policromia, perché è fatta di tanti elementi diversi tra loro che si combinano più o meno armoniosamente, una vita che ha solo un colore. Esempio: una vita tutta fatta di dedizione, di oblatività. Questa situazione monocromatica è tanto più evidente quando la situazione di handicap è grave, e gli elementi di quotidianità sono così costantemente bisognosi di una presenza accanto a chi è handicappato, bambino o bambina, da costituire un vincolo e rendere impossibile lo svolgimento di altri compiti talmente marginali da non essere neanche avvertiti come presenze nella vita. Sembra quindi che vi siano delle riduzioni continue delle altre possibilità che vengono allontanate, rese più difficili, sporadiche, acrobatiche, per concentrare tutta la propria vita, la propria esistenza attorno alla vita e all’esistenza di un soggetto. Non è, è evidente, solo l’aspetto materiale di vita quotidiana ma anche l’occupazione della mente. Vi possono essere anche persone, familiari, che svolgono molti compiti professionali ma tutta la loro vita mentale è occupata dalla presenza costante di quel figlio, di quella figlia, se sono genitori, o di quell’individuo, se hanno altri rapporti sia di famiglia, sia di amicizia.
Qualificare il tempo
Questo rende importante capire quanto il tempo vada restituito a una policromia, e rende importante capire quale sia il successo di quelle proposte che occupano, anche materialmente, il tempo delle persone che vivono accanto a una persona handicappata, a un individuo handicappato, uomo o donna, bambino o bambina, ed anche il tempo dell’individuo che ha delle esigenze particolari.
Al di là della comprensione di efficacia, vi sono delle suggestioni potenti che fanno aderire a una proposta, quasi unicamente perché può qualificare il tempo. Ora è quasi evidente che il giudizio relativo a certe proposte può essere anche negativo, ma non raggiunge il nucleo essenziale di quelle stesse proposte. Sembra che vi sia la necessità di qualificare il tempo attraverso una proposta che lo riempia di attività. Se poi vi è anche la speranza che queste attività abbiano un valore abilitativo e terapeutico questo è un valore aggiunto ma non indispensabile.
Abbiamo l’impressione che a volte vi sia una necessità quasi fisiologica di avere qualcosa che impegni il tempo. E allora se questo è un punto di partenza di una riflessione bisogna andare oltre per capire come in presenza di una situazione di handicap sia importante ragionare per restituire al tempo una qualità di policromia: restituire diversi colori.
Certo, non abbiamo con questo la possibilità di essere sicuri che i diversi colori armonizzino tra loro, che siano organizzati in termini unitari e non dividano la vita in termini tali da frantumarla, per cui dobbiamo aggiungere che la policromia va costruita insieme, non può essere dettata dall’esterno ma fatta nascere da un progetto in cui l’individuo che è protagonista sia aiutato certamente, ma faccia delle scelte.
Questo individuo lo vogliamo concretizzare in una figura femminile, e ancora di più in una madre ? ma è un esempio e potremmo sostituirlo benissimo anche con una figura maschile, e forse con un padre. Scegliamo una madre anche per un doveroso riconoscimento che buona parte delle riflessioni sul tempo viene da donne. Personalmente credo di dovere molti meriti a molte donne, ma mi conviene riassumere e attribuire un merito specifico a Matilde Callari Galli che su questa questione del tempo delle donne ha molto riflettuto e aiutato altri a riflettere. Un tempo monocromatico vuol dire, per quella figura che ho scelto come esempio, un tempo tutto dedito alle operazioni quotidiane di assistenza a un figlio, a una figlia, nell’esempio che facciamo è questo.
Già dicevamo della possibilità che questo tempo di dedizione sia qualificato da una proposta, rimane un tempo tutto oblativo, quindi monocromatico, ma almeno organizzato in un percorso, o tale si presenta. Nello stesso modo di proporre, però, vi sono a volte aspetti che vengono sottovalutati, e che riguardano una possibilità che la proposta di un programma intenso, di attività da svolgere quotidianamente, minuto per minuto, sia accompagnata da una spiegazione di quelle che sono le condizioni che quel bambino, quella bambina, vive.
A volte chi è del mestiere, e ha una preparazione tecnica e scientifica, considera quelle spiegazioni molto superficiali se non erronee, e non prende in considerazione l’aspetto che invece noi qui vogliamo esaminare: che in quella proposta vi è anche una valorizzazione del potenziale cognitivo, detto in un gergo che può essere anche fastidioso, della mamma presa nel nostro esempio. Anziché ritenerla una persona senza una preparazione accademica e scientifica, e quindi incapace di comprendere la situazione, quella proposta ha fatto in modo, forse superficialmente, forse erroneamente, ma noi qui vogliamo trascurare questo aspetto, che quella persona fosse apprezzata per la sua possibilità di comprensione anche intellettuale. Entra, in questo aspetto, una considerazione che già può essere sviluppata per la nostra ipotesi di tempo a più colori. Possiamo fare, se siamo capaci, meglio di quella proposta ipotizzata e allusa che fa riferimento a delle spiegazioni o erronee o comunque semplificanti.
I libri per i genitori: libri demagogici
Abbiamo una letteratura che ha alcune scritture, alcuni libri rivolti in particolare ai familiari, ai genitori, alle mamme. Questa letteratura può essere, a grandi linee e schematicamente, divisa in due settori: uno è un settore che chiameremo “demagogico” e l’altro è un settore che chiameremo “dialogico”.
Il settore demagogico ha delle semplificazioni eccessive, ha la caratteristica di essere astorico, descrive una situazione di bisogni particolari come se fosse un dato, e non come elemento di una ricerca che ha avuto una sua storia e quindi delle evoluzioni, delle capacità di essere espresso in termini diversi da quelli in cui vengono espressi oggi. E’ a?storico, è a?problematico, è un genere letterario che si configura come semplificatorio, riduttivo, e considera quindi i suoi lettori e le sue lettrici come delle persone incapaci di sostenere il confronto con un’opera in cui vi siano delle parti da approfondire, perché alla prima lettura sono oscure. Deve quindi svolgersi secondo una chiarezza artificiale.
I libri per i genitori: libri dialogici
Una seconda categoria di libri è dialogica. Considera quindi chi legge come persona che può affrontare anche delle difficoltà, può non capire subito, ha bisogno di approfondire, ha bisogno di collocare le conoscenze che riceve in una problematica non sempre precisa, ha bisogno anche di incontrare i dubbi e di non avere delle posizioni trionfalistiche, sicure di sé. Nella categoria demagogica dubbi non ve ne sono, si fa così, quindi la traduzione è: “tuo figlio, tua figlia, è, ed ha bisogno di..”, tutto è molto semplice, sicuro, chiaro. Vi è una proposta, ed è quella che funzionerà se tu la saprai far funzionare.
Nell’altra letteratura, anche rivolta a chi è genitore, a chi è mamma, vi è una linea di continuità con la letteratura scientifica che non si indirizza a questi lettori. Vi è quindi una possibilità che quel libro permetta l’inizio di una riflessione più ampia non necessariamente solo in termini scientifici ma anche in termini letterari, poetici, storici, analogici; si può scoprire che la situazione di chi vive attorno a chi ha esigenze particolari può essere analoga ad altre situazioni molto diverse, di altre popolazioni, di usi e costumi, ecc. Vi è la possibilità che il tempo cominci a colorarsi e che accanto a una vita monocromatica, tutta dedita all’assistenza vi sia anche una vita intellettuale, che a sua volta si apra in molte possibilità. Forse si riscopre, o si scopre, qualcosa che permette di avere delle risorse non solo di compensazione.
La compensazione è necessaria: chi ha una sofferenza cerca, ed è umanamente molto giusto, di compensarla con qualche gratificazione, con qualche compensazione, può essere nella religiosità, può essere nell’attività sociale e politica. Non solo, però, compensazioni, non solo, quindi, riequilibrio ma anche sviluppo, possibilità di procedere, di regalarsi delle soddisfazioni non per restaurare l’ordine o per pareggiare i conti, ma per andare avanti.
Sottrarre il dolore
La policromia, la colorazione del tempo è molto importante, e diventa anche un elemento di comprensione di cosa può accadere qualora qualcuno in una posizione di generosità, certamente, sottragga all’altro il dolore, la pena, l’afflizione; anziché entrare per collaborare alla costruzione della policromia vi può essere una assunzione dell’afflizione dell’altro in termini che generosamente sono: “ti tolgo l’afflizione”, ma che possono essere letti come: “mi togli l’unica cosa che ho”: il vuoto di colore; anziché la monocromia, vi è una monocromia spenta; si spegne anche l’unico colore che c’era, quella dedizione me la prendo io.
Nel rapporto con chi vive la situazione di handicap vi può essere questa generosa proposta di assunzione totale dell’afflizione: può essere rivolta a chi è direttamente protagonista, a chi ha dei bisogni particolari; può essere rivolta a chi è vicino. La policromia è una proposta che serve a tutti, in particolare a chi vive la situazione di handicap, sia perché è handicappato, è handicappata, sia perchè vive accanto. Sottrarre il dolore, sottrarre l’afflizione è una logica molto presente nelle persone generose, ma è una generosità poco costruttiva che rischia di degenerare in assistenzialismo, e nell’assistenzialismo una presenza costante è quella di accentuare i bisogni o moltiplicarli, per costringere l’altro ad occuparsi sempre della situazione. Quindi l’assunzione dell’afflizione non è efficace, perché ve ne è sempre dell’altra.
Policronia
Questa è con tutta evidenza una descrizione schematica; ciascuno la può articolare a seconda delle diverse realtà che vive. In positivo noi dobbiamo riflettere sulla utilità di svolgere una azione che permetta la costruzione di un policromia; la parola “policromia” può essere però anche sostituita dalla parola “policronia”, i colori possono essere sostituti dal tempo. Più tempi e non solo un tempo: il tempo dell’assistenza ma anche il tempo dell’intelletto, il tempo della riflessione quindi anche la possibilità che nei più tempi, nei diversi tempi, vi sia un’occupazione di ruoli diversi; in un tempo un soggetto è protagonista, in un altro tempo è spettatore. E questo è un elemento importante perché a volte la vita di chi ha dei bisogni particolari è ancorata a un solo ruolo, sempre spettatore, sempre comparsa, oppure sempre protagonista. Il protagonismo di alcune persone handicappate è evidente, così come è anche evidente, anche se meno imponente, si impone meno, il ruolo di comparsa di tante altre persone handicappate.
Occupare un solo ruolo vuol dire vivere una vita vincolata a una sola posizione e quindi, a rappresentarla in un’immagine, fortemente anchilosata, in cui è più facile che si sviluppino delle piaghe da decubito, in senso figurato e a volte anche in senso reale, ma più spesso in senso figurato. Più spesso di quanto si creda. Diventa una vita che appoggia sempre in un solo punto, mentre la policromia, che diventa in questa descrizione policronia, permettendo lo svilupparsi di diversi colori e in diversi tempi, permette anche di cambiare ruolo, e quindi di avere una rappresentazione di sé variata, e di migliorare l’apprendimento. Il cambiamento di ruolo permette di imparare, cioè di trasportare qualche cosa da una posizione all’altra e alimentare le nostre riserve di apprendimenti.

Appartenenza: la lacerazione dell’appartenenza e la ricostruzione della stessa

La riflessione fatta sulla qualità del tempo può essere rifatta, quasi ripercorsa con lo stesso pensiero, però con un’altra chiave di lettura che è quella dell’appartenenza. “Appartenenza” è un termine che ha una particolare attualità dal momento che, nell’epoca in cui la parola “globalizzazione” è diventata sempre più una realtà, vi sono anche delle forti tendenze a creare delle appartenenze localistiche e quindi a rompere l’appartenenza a una società ampia per individuare nella piccola patria il motivo di appartenenza. In alcuni casi questo ha sviluppato dei frazionamenti tragici, che hanno comportato dei conflitti; la ex Jugoslavia non finisce di vivere questa situazione. Anche dove la condizione non è tragica vi sono rivendicazioni localistiche per attribuire all’appartenenza locale un primato e quindi per essere più portati a riconoscerci in chi abita da tempo in un certo contesto e vedere in chi arriva da lontano un usurpatore, un invasore. Il termine “appartenenza” sta prendendo un posto importante nella nostra riflessione. Vorremmo capire quanto è importante sentirsi parte, e anche quanto è importante sentirsi parte del mondo, non solo di una piccola zona.
L’appartenenza ridotta alla piccola zona facilmente sconfina nella xenofobia e nella conquista o nella difesa di privilegi. Appartenenza al mondo, all’umanità. Vi sono momenti in cui si può vivere una lacerazione dell’appartenenza, oppure si può nascere sentendosi come lacerati rispetto all’appartenenza, ed è questo il caso di persone che noi definiamo handicappate, o delle persone che vivono con lacerazione: si rompe un concetto e una realtà sedimentata, nasco handicappato quindi faccio fatica ad appartenere, ad essere parte di un tutto, non vengo riconosciuto parte e ho bisogno di ricostruire o costruire un’appartenenza, con il rischio di costruirla in una categoria.
La ricostruzione dell’appartenenza o la costruzione dell’appartenenza significa procedere a un riconoscimento di elementi che sono comuni. A volte un eccesso di naturalismo banalizza gli elementi comuni. Trovare il valore simbolico nella respirazione e nel battito del cuore può essere un riscoprire qualcosa che è in tutti ed è tutt’altro che banale, e il valore simbolico è l’elemento aggiunto dell’umanità rispetto alle bestie. Si potrebbe pensare che abbiamo molti elementi in comune con le bestie. Ma il respiro fatto di pieni e di vuoti diventa un ritmo che può avere una sua musicalità, essere sviluppato in una musicalità creativa, e questo il mio cane non lo saprà fare; forse lo saprà riconoscere perché lo educherò a riconoscere il mio fischio che è la modulazione di un ritmo. Da respiro a ritmo vi è un’aggiunta di creatività, di costruzione simbolica a cui il mio cane si adegua e a cui contribuisce passivamente perché forse mi ispira, ma non sa aggiungere altri elementi intellettivi.
L’assenza di parola
Non posso pensare che un soggetto gravemente handicappato sia comparabile al cane perché, come il cane, non parla. L’assenza di parola non lo fa appartenere agli animali che non parlano ma gli consente ancora di essere parte degli animali parlanti, perché ha una potenzialità di accesso al linguaggio che rimane inalterata. I parlanti possono essere anche “insegnanti”, ovvero coloro che tra i sordi seguono il linguaggio dei segni. Si può parlare attraverso gli ausilii. La parola non è unicamente quella che si emette vocalmente ma anche quella che si rappresenta.
Non abbiamo nessuna possibilità che il mio cane acceda alla parola se non per addestramento riconoscendo alcune parole; il mio cane sapiente si può esibire in un circo riconoscendo un certo numero di parole, ma è frutto di un addestramento e non è generatore di linguaggio, e non aggiungerà una parola.
Il concetto di appartenenza ha dei risvolti molto pratici e la ricostruzione dell’appartenenza vuol dire ricostruire degli elementi primordiali che permettono di riconoscerci appartenenti al genere umano. Questo può essere un contributo fondamentale che le persone handicappate, che hanno esigenze particolari, possono dare al nostro tempo così bisognoso di “ricapire”, o capire, originalmente, che cosa significa appartenenza. Ma così bisognoso anche di vivere l’appartenenza, nella quotidianità, e non solo di capirla nei momenti alti della nostra riflessione.

Un’ esclusione particolare: esclusione in categorie, esclusione mascherata

Già dicevamo come vi può essere un tentativo di superare la lacerazione dell’appartenenza costruendo una appartenenza in una categoria ed escludendo la possibilità di appartenere a qualcosa fuori da quella categoria. Bisogna intendersi: se io fossi un pensionato e mi sentissi appartenente alla categoria dei pensionati questo avrebbe un significato più che tranquillo e componibile nel fatto che io mi sento anche appartenente a un genere umano più ampio.
E’ diverso se io caricassi l’appartenenza alla categoria dei pensionati di un significato di esclusione dall’appartenenza al resto del genere umano, riconoscendomi unicamente in coloro che hanno una certa età, che hanno avuto un’esperienza lavorativa in un certo settore e vivendo ostilmente ogni altro contatto: è un’esclusione. Alcune appartenenze sono costrette a nascere nel segno dell’esclusione. Vi è la possibilità che questa diventi un’appartenenza mascherata e che in realtà tutta una categoria continui ad essere esclusa.
Categorie perseguitate categorie protette
In questo punto della riflessione è necessario fare anche un riferimento a quella discriminazione positiva che consiste nel considerare una certa categoria, ad esempio, gli invalidi, come protetta rispetto agli altri. E’ quasi banale dirlo: nel mondo molte situazioni di protezione hanno consentito una esclusione altrettanto efficace di altre esclusioni violente. In genere le categorie protette, come le riserve indiane, sono state protette dopo essere state perseguitate e quindi sono i resti protetti.
Questo appunto potrebbe permetterci un approfondimento storico che è anche necessario individuare come pista di riflessione e di lavoro. Qui ci preme però ricordare come la categorizzazione sia una maschera, e quindi come tale sempre ricostruita, non tanto identificabile nelle forme che ha assunto in passato quanto riscopribile nelle forme nuove, non sempre individuabili.
Diventa quindi un segnale, o una chiave di lettura, di situazioni che possono anche presentarsi ed essere ispirate a dei criteri di integrazione e quindi alla possibilità e alla speranza che vi sia un’ampia appartenenza.
Abbiamo una serie di dizioni che possono essere elencate, e ciascuno potrebbe trovare che hanno un’esclusione mascherata oppure una possibilità di attuare l’appartenenza. Si pensi alla dizione “laboratorio protetto” che per molti ha significato un avanzamento nella possibilità di integrazione poi, a un certo punto, è stato avvertito invece come un limite ma che in un progetto potrebbe risultare ancora come un percorso, una parte di percorso verso l’appartenenza. Si pensi alla dizione “terzo settore” ispirata a una necessità e a un desiderio di creare delle possibilità di appartenenza ampia, con il rischio, però, che era presente anche nel laboratorio protetto.
Non vi sono proposte garantite a priori rispetto all’esclusione mascherata, quindi a questo tipo di esclusione dall’appartenenza del tutto particolare che esprimiamo nell’espressione semplificata “esclusione in categoria”.

La definizione di situazione dì handicap

E’ venuto il momento di capire cosa si dice usando l’espressione “situazione di handicap”. Probabilmente in una certa logica sarebbe stato necessario iniziare questa riflessione da questo punto. Quello che ha trattenuto dal seguire un andamento di questo tipo è il non ricadere in una modalità banalizzante. Posta a questo punto della riflessione la definizione “situazione di handicap” dovrebbe essere già più chiara: non si parla unicamente di individuo che ha un deficit ma del contesto in cui abitualmente vive il singolo individuo che ha dei bisogni particolari.
Parlare della situazione di handicap significa prendere in considerazione i diversi soggetti che sono abitualmente collocati in questa situazione, e quindi anche dei familiari. Ancora si può dire che il soggetto deficitario vive la situazione di handicap allo stesso modo di come vivono le situazioni di handicap i suoi familiari e le persone che abitualmente risiedono o vivono con lui o lei. E’ quindi necessario, riducendo l’handicap, affrontare tutta la situazione e non unicamente gli aspetti legati al singolo che ha un deficit. Un processo riabilitativo, ad esempio, può consentire l’applicazione di un trattamento tecnico relativo al soggetto, e deve però anche prendere in considerazione la vita delle altre persone che vivono nel contesto.
Ridurre l’handicap
Questa definizione di “situazione di handicap” permette di rileggere i punti precedenti nella logica di questo intervento, cercando quali sono i modi per ridurre l’handicap. Allora si può riprendere la questione relativa alla qualità del tempo, alla policromia, che sostituisca la monocromia, per capire come questo sia un modo importante per ridurre l’handicap. Si può riprendere il tema dell’appartenenza per capire come questo sia un elemento fondamentale della riduzione dell’handicap ed ancora riprendere l’attenzione alle nuove forme di esclusione nelle appartenenze categoriali per capire come anche questo sia un punto importante nella riduzione dell’handicap. “Riduzione dell’handicap” è accompagnata da una ricerca di comprensione di ciò che è l’elemento dato, cioè il deficit: l’elemento dato non può essere ridotto mentre tutti gli elementi variabili, e sono da scoprire, possono essere ridotti.
Abbiamo già visto come una riduzione dell’handicap che sia operata in termini tali da non consentire la partecipazione a questo sforzo possa rischiare di produrre nuovi handicap.
Migliorare le informazioni
La diminuzione dell’afflizione operata da un agente totalmente esterno può ridurre sì l’afflizione ma provocare risentimento, cioè un nuovo handicap. Ed è questo uno dei punti principali della necessità di collegare ogni intervento tecnico ad una capacità di sviluppare l’attenzione partecipativa, la tensione partecipativa. E’ questa una delle buone ragioni per pensare che una diffusione delle informazioni non possa sostituirsi alla struttura dialogica diffusa sul territorio. Vi possono essere molte buone occasioni perché le tante persone che sono in qualche modo connesse alle situazioni di handicap abbiano un miglioramento delle informazioni. Questo è un compito importante da assumere socialmente.
Questo non toglie la necessità di avere delle buone possibilità di incontro. L’elemento partecipativo non può rimanere legato a dei mezzi freddi, va anche espresso e vissuto attraverso degli incontri umanamente caldi. Su questo bisogna avere una riflessione operativa che comporti un chiarimento sulle professioni che chiamiamo “di aiuto”. Ma prima di abbordare quest’ultimo punto della nostra riflessione conviene ancora esaminare l’aspetto della riduzione dell’handicap legato proprio alla possibilità che vi siano maggiori informazioni diffuse e quindi la possibilità che vi siano delle strutture che chiamiamo Centri di Documentazione, ben organizzati e diffusi in una forma che riteniamo debba essere riferita alla dimensione provinciale.
Studiare il tema del deficit e dell’handicap
Oltre a questo elemento di diffusione dell’informazione è importante sottolineare quanto sia utile, nello specifico della scuola, permettere e favorire la qualità dell’integrazione nel curricolo, vale a dire la possibilità che chi studia studi anche integrando alle aree disciplinari il tema del deficit e dell’handicap e non lo consideri un elemento di benevolenza, un elemento di solidarietà e una sfida cognitiva. Bisogna che chi è a scuola con un compagno, una compagna handicappata abbia la possibilità di conoscere, cioè di studiare, quello che è l’aspetto scientifico, letterario, artistico, relativo alla tematica del deficit ? handicap a partire anche dallo specifico del compagno, della compagna, cercando, è quasi scontato dirlo in questo contesto, di rispettare l’altro e di sviluppare un livello di dignità nei confronti del tema e delle persone che lo vivono con maggiore intensità.

Il quadro delle professioni di aiuto

Abbiamo già fatto riferimento a una necessità di chiarire quelle che sono le professioni definite “di aiuto”. Non sono necessariamente le sole professioni che hanno a che fare con il deficit ma riguardano l’arco di vita di ogni individuo. Nelle professioni di aiuto non vi sono unicamente quei ruoli che entrano in contatto con un individuo quando vengono meno delle reti sociali abituali, o quando insorgono dei problemi specifici. Sono professioni di aiuto quelle, e soprattutto quelle, che entrano in rapporto con un bambino, una bambina, al momento che frequenta un nido, una scuola dell’infanzia, un percorso scolastico, una polisportiva, ecc. Quindi le professioni di aiuto sono quelle che permettono di sviluppare la propria crescita e la propria vita per tutto l’arco della stessa. Vi sono poi delle specificità che riguardano i momenti o le situazioni che esigono delle attenzioni particolari.
Questa definizione delle professioni di aiuto, come si può capire, è sufficientemente ampia da comprendere una quantità di professioni sfumata verso quelle che hanno dei ruoli sociali senza avere un mandato specifico di aiuto. E’ quasi evidente che nella vita sociale la possibilità di vivere in una situazione in cui i negozi sono presenti e hanno degli esercenti di una certa qualità umana permette di vivere meglio. La possibilità di avere dei mezzi di trasporto pubblici decenti permette di vivere meglio. Queste, quindi, sono figure sfumate. Tante altre professioni sono anche queste relative a un certo aiuto a una qualità della vita.
Ridefinire il quadro delle professioni di aiuto
Ma il fuoco, cioè il nucleo centrale delle professioni di aiuto, sono quelle che hanno a che fare con il binomio educazione?salute, per tutto l’arco della vita. E queste professioni hanno in questo momento storico un quadro molto poco chiaro: poco chiaro il ruolo degli educatori professionali in rapporto agli insegnanti, poco chiaro il rapporto tra riabilitatori e volontariato.
E’ quindi necessario ridefinire un quadro delle professioni di aiuto in cui sia possibile individuare i percorsi formativi e i collegamenti, le connessioni, fra una professione e l’altra. Questo oltre ad essere un elemento importante per il tema della riduzione dell’handicap costituisce anche un elemento importante per il controllo e la qualificazione della spesa. Non saremmo molto soddisfatti se ci fosse unicamente il controllo della spesa non accompagnato da una qualificazione della spesa relativamente alle professioni di aiuto. Mancando un quadro è complicato, se non impossibile, avere una definizione della finalità della spesa, e quindi una qualificazione sua progressiva. Investire in un quadro sicuro significa poter poi avere delle progressive riduzioni della spesa o comunque avere vantaggi tali da permettere delle forti economie. E anche questa è una riduzione dell’handicap perché, lo abbiamo potuto constatare vivendo questo problema, l’assenza del controllo della spesa può portare a delle ondate favorevoli seguite poi da riflusso, e rendere il tutto molto precario.
E’ questo il punto importante della riduzione dell’handicap legato allo specifico del quadro delle professioni di aiuto: uscire da una sensazione, che non è solo un sentimento ma è anche un dato, di precarietà, di provvisorietà: quello che mi è offerto oggi è incerto che io me lo ritrovi domani.
Un esempio: il Poli Handicap Adulti
Un esempio: nella realtà in cui opero sono presenti delle strutture specifiche che riguardano gli handicappati adulti. Sono state indicate come Poli Handicap Adulti con una sintesi di vocaboli e di dizione che non è perfettamente adeguata alla comprensione di ciò che fanno. Dovrebbe essere Poli per la riduzione dell’handicap in persone adulte, ma diventa molto lungo e allora la sintesi è Polo Handicap Adulti. E questa è una realtà importante perché permette di avere una struttura leggera composta da non molti operatori capaci di connettere i diversi interventi e di seguire per un arco di tempo molto ampio i soggetti che hanno delle esigenze particolari. Ma la sensazione che molte persone che si rivolgono a questi servizi hanno è di avere a che fare con una struttura ai limiti del provvisorio e sicura fino a un certo punto, con operatori che non sono sempre garantiti del prosieguo del loro lavoro. Vi sono a volte cambiamenti dovuti al fatto che il contratto di un operatore scade, o si è passati a regime con dei cambiamenti di personale, cambiamenti che non sono stati bene illustrati e che quindi vengono capiti come conferma di grande provvisorietà.
Il riferimento al tema del quadro delle professioni di aiuto vuol dire rimboccarsi le maniche, per ridurre questo handicap così grande che è la provvisorietà, la precarietà, per dare invece una possibilità progressiva di certezze. Avere delle certezze è uno degli elementi fondamentali della riduzione dell’handicap. Ed è per questo che il punto conclusivo fa riferimento alla parola “quadro”, come a qualcosa che ha un insieme, che deve costituire un insieme in cui gli elementi dinamici possono e devono sussistere: elementi di crescita, di maggiore precisazione, di cambiamenti continui, ma all’interno di un quadro che dà sicurezza di certezze.
Concludiamo con un nota inevitabile. Il tema “riduzione dell’handicap” è enorme e quindi abbiamo dovuto per forza scegliere alcuni dei punti su cui svolgere una certa riflessione. Lo abbiamo fatto con la convinzione che siano punti nodali, che non siano esaustivi ma permettano di irrigare un ampio territorio e di arrivare ad elementi più nascosti e forse importanti che a prima vista non si scorgono. Questa è stata la scelta per affrontare un tema così vasto, così importante ed anche, sia detto senza retorica, così appassionante.

La costruzione del “noi”

Si potrebbe dire che per crescere, e per, vivere, abbiamo bisogno di essere ciascuno sé stesso, o, sé stessa, e di poter “abitare” in un “noi”. Per spiegare questa
espressione, possiamo servirci di un semplice apologo.
Un nonno e un nipotino. Potremmo anche variare i generi a piacere, e dire: una nonna e un nipotino, o una nipotina. I due vanno a far legna. Il bambino è piccolo, e il nonno vigoroso. Tornano a casa con il nonno che porta sulle spalle la legna e il nipote. E il bambino dice: abbiamo fatto legna.
Anni dopo, nonno e nipote vanno ancora a far legna. Il nipote è diventato un uomo, e il nonno ha perso forza e vigore. Tornano a casa, e il nipote porta la legna e sorregge il nonno, che dice: abbiamo fatto legna.
Utilizzo questo piccolo apologo per indicare una condizione che permette a soggetti diversi, e ciascuno con la propria identità, di avere uno scenario condiviso, e di poter dire “noi” indipendentemente dalla forza, dal contributo, dal rendimento e da altri fattori. Si potrebbe dire anche che vi è un comune riferimento ad una Gestalt, cioè una percezione di segni secondo una struttura. In questa si confondono elementi di realismo ed elementi di simbolicità.
In questo libro, incontriamo molte storie, accompagnate da riflessioni puntuali ed opportune. Incontriamo la storia di Walid.
E leggiamo che il padre di Walid sia a lungo seduto immobile in una poltrona sgangherata, pensando al suo villaggio in un paese lontano, dove sarebbe rispettato, e dove sicuramente tornerà. Walid non ha quell’immagine in testa. Non può vedere suo padre sullo sfondo del villaggio. Non può vederlo accolto con rispetto dalla sua gente. Lo vede invece affaticato, forse umiliato. Per Walid è più difficile crescere, perché fa fatica a trovare un “noi” in cui “abitare”. Dovrebbe misurare le sue forze da solo. Se avrà la capacità di raccogliere legna e di portarla, bene. Diversamente, potrebbe cercare in molti modi di mascherare le proprie incapacità. Ad esempio, con l’aggressività.
Non esiste unicamente il “noi” famigliare, ci può essere quello degli amici, quello della scuola, quello del lavoro. Ma il “noi” famiglia è importante, anche simbolicamente. Quando è in crisi quel “noi” possono essere in difficoltà anche gli altri “noi”. La scuola, ad esempio, può essere vissuta come competitiva o come del tutto indifferente, e quindi lontana dalla possibilità di costruire un “noi” abitabile.
Un’altra storia leggibile in questo libro riguarda Sandra e Mohamed, persone adulte che costruiscono insieme, anche con fatiche, un “noi” in cui abitare. Si può dunque costruire, con pazienza e sicuramente attraverso difficoltà, quello che è venuto meno. In qualche modo, possiamo vedere in Sandra e Mohamed un percorso che aiuta a capire più profondamente la parola accoglienza, che accompagna comunità. I motivi di un’accoglienza sono, molte volte, materiali: possono essere un tetto sotto cui riparare, un letto in cui dormire, un bagno dove lavarsi… E un aiuto importante ma limitato. Vi sono situazioni in cui questo aiuto si ripete ogni giorno: diventa un’abitudine di sopravvivenza che non può essere sottovalutata, e senza la quale delle stesse situazioni sarebbero disperate. Ma questi aiuti non sono ancora accoglienza. Possono essere il suo avvio. L’accoglienza è costruire, o ricostruire, un “noi” in cui abitare. Ed è una parola che contiene la reciprocità. In questo si differenzia dall’aiuto, che si basa su una differenza “vettoriale”, come è proprio il rapporto fra chi arriva e chi parte. Così l’aiuto si basa sulla differenza fra chi aiuta e chi è aiutato, o aiutata. Anche nell’accoglienza vi è chi accoglie e chi è accolto, o accolta. Vi è chi dà e chi riceve. Ma la durata di un’accoglienza cambia il rapporto di differenza “vettoriale” in una convergenza ed in una complementarità. Perché anche chi riceve accoglienza deve a sua volta accogliere. Dall’aiuto può nascere l’accoglienza. Ma chi ha bisogno di aiuto corre il rischio della subordinazione e dell’assistenzialismo. Per questo vi sono attente riflessioni sulla relazione d’aiuto: senza una riflessione formativa, questa può trasformarsi in relazione di dominio.
Questo libro nasce dall’esperienza delle comunità di accoglienza. Sandra ha bisogno di aiuto; e da questo si sviluppa un’accoglienza che sviluppa accoglienza, quella fra la stessa Sandra e Mohamed.
L’accoglienza è la ricostruzione di una rappresentazione di sé aperta alla reciprocità, e quindi capace di costruire un “noi”.
Le persone ? bambine e bambini, donne e uomini ? che sono accolte hanno un’immagine spezzata.
E’ forse giusto cercare di capire il significato pieno dell’accoglienza. E credo di capirne meglio il senso, a partire dall’attenzione alle situazioni “estreme”, con un bisogno evidente di accoglienza. Mi riferisco a vicende di vite spezzate e dalla persecuzione razziale dovuta al nazismo. Questo riferimento è certamente problematico. Non sarebbe giusto banalizzarlo ed appiattirne il profilo. Nello stesso tempo, il razzismo genocida ha molti elementi in comune con la nostra normalità. In particolare, credo che vi siano drammatici elementi di continuità nell’interpretazione dell’altro filtrata da stereotipo, Lo stereotipo consente una violenza che può esprimersi in molti modi: da quelli asettici e “puliti”, realizzati con norme e regolamenti, a quelli sanguinosi della persecuzione diretta.

La pedagogia dell’accoglienza

Chi ha bisogno di accoglienza è finito prigioniero di uno stereotipo. In particolare, sottolineo il fatto che l’individuo si rappresenta prigioniero dello stereotipo, anche al di là della storia. Vi è una spezzatura fra la storia reale e quella vissuta.
E questo ci fa capire come importante sia il ruolo di una pedagogia dell’accoglienza.
Ho capito un po’ meglio ciò che sto scrivendo, perché, mentre riflettevo a proposito di questo libro, ho letto una bella tesi di laurea, scritta bene e su un tema simpatico: le tasche dei bambini, intesi come bambini e bambine. Sono tasche che possono contenere qualche piccolo segreto, e che comunque sembrano garantire uno spazio personale. L’autrice, Cosetta Biondi, individua anche tasche che noti fanno parte del vestito. Sono le tasche della sezione della scuola dell’infanzia, e quelle dell’ambiente. Sono quei luoghi che permettono ad un bambino, o ad una bambina, di avere spazi personali attorno a sé. E tutto questo mi ha ricordato un ragazzo che, anni attorno al 1980, frequentava una scuola media. Era seguito in maniera particolare dal servizio socio?sanitario, ed aveva alle spalle una famiglia un po’ disastrata. Si presentava come un ragazzone, grosso, taciturno e sfuggente, che non voleva mai entrare in classe, e che portava, in inverno come in estate, un cappotto pesante. Il suo aspetto sembrava far parte della problematicità del “caso”. Ma un bel giorno successe qualcosa di imprevisto: apparve magro e senza cappotto. Come era accaduto? Una brava insegnante aveva operato per arrivare a individuare insieme a quel ragazzo uno spazio per lui, da considerare come suo personale. Niente di straordinario, ma un semplice armadietto, che quel ragazzo doveva e poteva considerare come suo. L’insistenza dell’insegnante aveva ottenuto il risultato, con la sorpresa di scoprire che la sagome grossa di quel ragazzo era dovuta al fatto che portava addosso, sotto la camicia, tutti i suoi tesori, e per questo viveva sempre con il cappotto. A casa, le persone della sua famiglia gli portavano via tutto, e così aveva trovata uno spazio personale unicamente a contatto di pelle. La
possibilità di avere un armadietto, e la sicurezza di poterlo conservare anche per il periodo delle vacanze, aveva operato una vera e propria metamorfosi.
Ripensandoci, dopo anni, capisco che in quel caso l’accoglienza aveva avuto bisogno di un lungo percorso. E questo mi fa dire che una pedagogia dell’accoglienza deve difendere e conquistare il tempo, e non può limitarsi ad una cerimonia. Non basta informare l’altro che è bene accolto, o accolta. Noti basta un’informazione per cambiare una rappresentazione di sé e delle vicende che si vivono.
Ritorno alle situazioni tragiche di chi è stato prigioniero dei campi nazisti. L’assenza di spazi intimi, la quasi impossibilità di avere delle “tasche” o anche solo una piccola tasca personale erano un motivo di disumanizzazione. Binjamin Wilkomirski raccontato la sua infanzia di bambino in un lager e poi, dopo la liberazione dal campo, in un orfanotrofio. Noi pensiamo che fra le due esperienze non possano esserci confronti possibili, e l’uscita dal campo debba essere stata una vera liberazione. Ma con sorpresa scopriamo che l’orfanotrofio, pur offrendo cibo in abbondanza, un letto pulito e caldo, acqua calda per lavarsi, dimentica di offrire a quel bambino una vera e propria accoglienza. Il campo era dissenteria, topi, fame e sete, bambini congelati, violenza in ogni istante. Eppure leggiamo: “Per quanto mi sforzassi, non riuscivo a trovare un legame fra quei due mondi. Cercavo inutilmente un filo al quale aggrapparmi.
Potevo sottrarmi al presente insopportabile, estraneo, soltanto tornando al mondo e alle immagini del passato. Passato che mi era quasi altrettanto insopportabile, però mi era familiare: almeno ne conoscevo le regole” (Binjamin Wilkomirski, 1996, p. 55).

Fuori dal lager

L’importanza della parola accoglienza, accanto a comunità è fondamentale. E’ in quella parola che si realizza un percorso, anche lungo e faticoso, che permette di realizzare un cambiamento di schema percettivo, di rappresentazione di sé e della realtà.
Non basta uscire da una situazione terribile. Potremmo ritenere che il passaggio da una condizione penosa ad una migliore sia di per sé un aiuto risolutivo. Non è così. Il cambiamento, che dall’esterno viene considerato come liberazione, può essere nuova sofferenza, incomprensione, perdita di punti di riferimento. Lo possiamo capire proprio da chi racconta la fine dell’esperienza del campo e la propria sopravvivenza allo sterminio. Lidia Beccaria Rolfi è una delle donne sopravvissute a Ravensbruk. Il suo racconto della liberazione ci può fare capire come l’assenza di un’accoglienza sia continuazione della sofferenza. E’ un’indicazione il fatto che l’autrice, morta nel febbraio 1996, ha raccontato la fine dell’esperienza del campo dopo cinquant’anni di silenzio. Sta in silenzio chi ritiene che nessuno ascolti.
Accoglienza è ascoltare attivamente. E chi leggerà questo libro capirà cosa vuol dire.
Ho insistito a fornire come chiave di lettura la parola accoglienza. Non è per sottovalutare comunità. Le due parole sono insieme. Ma ho cercato di capire come non basti avere o trovare un aiuto in un luogo chiamato comunità, ma occorra vivere reciprocamente l’impegno di un percorso a cui ci si può educare.

Note bibliografiche

C. BIONDI, Le “tasche” come contenitori. Bambini, oggetti, attività ludiche, tesi di laurea in Pedagogia, relatrice la prof.ssa Milena Manini, Università degli Studi di Bologna, a.a. 194/95, sessione straordinaria primavera 1996.
B. WILKOMIRSKI. Un’infanzia 1939-1948, Frantumi, Mondadori, Milano, 1990; ediz. originale 1995.
L. BECCARLA ROLFI, L’esile filo della memoria, Einaudi, Torino, 1996.

(*) tratto da, Minori, luoghi comuni, Comunità Edizioni

Le prospettive dell’integrazione

L’integrazione è una prospettiva teoretica e pragmatica. Sono necessari alcuni principi fondanti, da verificare in tempi medio-lunghi; e sono necessarie pratiche e linee operative da verificare continuamente.
E’ molto probabile che, in momenti di crisi sociale accentuata, le verifiche siano rese più difficili. Ed è comprensibile: ogni elemento di riflessione può finire per essere a priori classificata pro o contro l’integrazione.
E’ un fatto, e molto grave, che la prospettiva dell’integrazione sia attaccata da una politica fatta da "tagli" che vengono anche chiamati "razionalizzazioni". Gli effetti di questa politica potrebbero anche essere la paura di riflettere ed il sentirsi nell’impossibilità di compiere le necessarie verifiche.
La situazione generale non facilita; ed in particolare, il mondo dell’informazione è percorso quasi quotidianamente da un modo di conoscere e di far conoscere dominato dal sensazionalismo. Ne siamo un po’ tutti colpiti, ed ogni disfunzione è vissuta come un possibile strumento d’accusa, per trovare colpevoli, dimostrare che tutto è catastrofico. E’ molto difficile porsi di fronte a situazioni di prospettiva di integrazione senza risentire di questo clima, e senza immaginare denunce, colpevoli, schieramenti a favore o contro, eccetera. Insomma: è difficile ragionare serenamente sul tema della prospettiva dell’integrazione.

Una frantumazione pericolosa

Eppure è necessario cercare di ragionare, e di domandarsi come stanno andando le cose. La scuola ha preso un indirizzo che sembra improntato ad una brusca accelerazione di ritmi, ad una certa rinuncia ad impostazioni globali per privilegiare in maniera esplicita e più spesso implicita una prospettiva impostata sulle aree disciplinari, su competenze "affilate", cioè organizzate e da verificare su conquiste cognitive molto definite e formalizzate.
E’ proprio così? E se è così, perché?
Se così stanno le cose nel mondo della scuola – ed è da verificare -, si potrebbe spiegare da questo sfondo il cattivo uso della figura dell’insegnante di sostegno. anche questo cattivo uso è da verificare, certamente. Ma ci sono molti seri indizi che vi sia una presenza nella scuola di handicappati, ragazzi e ragazze, accolti dalla preoccupazione quasi esclusiva della "copertura" dell’orario da ogni tipo di "sostegno": insegnanti statali, e operatori con situazioni varie sia dal punto di vista amministrativo che per la formazione. La preoccupazione della "copertura" si concilia con la prospettiva dell’integrazione? E come si può ragionare su questi aspetti senza sollevare molti, ben comprensibili, sospetti di essere dalla parte di brutale politica dei "tagli"?

Centralità o isolamento della scuola?

La centralità della scuola nel processo di integrazione sembra essere un elemento caratteristico di alcune situazioni come quella italiana. E’ forse utile cercare di capire come si colloca la scuola in un quadro più grande. E soprattutto capire quanto il modello scolastico abbia permesso o meno l’elaborazione di un modello di intervento globale nella prospettiva dell’integrazione. Globale, in questo caso, significa intervento che riguarda l’intera esistenza di un individuo, uomo o donna, bambino o bambina. Il riferimento alla Pedagogia Istituzionale può essere ancora una volta utile.
Ed è proprio pensando alla Pedagogia Istituzionale, come Pedagogia della complessità, che possiamo riflettere sulle nostre modalità di intervenire nelle diverse situazioni e di lavorare. Sarebbe interessante valutare in termini di risorse i nostri modi di intervenire, per cercare di capire se è comprensibile e chiaro per tutti, cioè trasparente, che l’obiettivo a cui tendiamo è la trasformazione della qualità delle risorse, e non l’aumento della loro quantità.
Possiamo criticare una certa impostazione della scuola, basata sulla lettura deficit/handicap come mancanza che fornisce alcuni crediti per poter esigere maggiori risorse.Ma questa critica è anche deducibile, con congruenza, nel e dal nostro operare? In altre parole: in che economia collochiamo il nostro lavoro? In un’economia illimitata, oppure in una realtà i cui limiti sono da conoscere, per misurarsi con loro e ridefinirli.

Integrazione senza handicap

L’integrazione è una prospettiva complessiva. Come tale, non è paradossale verificarne l’esistenza senza la necessità di una presenza così definibile e precisa come può essere un individuo disabile. Nell’eventualità di tale presenza, vi dovrebbero certo essere adattamenti specifici. Ma la strutturazione culturale ed organizzativa di un’istituzione come la scuola non può vivere l’integrazione come un optional addizionale all’occasione. Rovesciando l’impostazione, l’integrazione è un’impostazione strutturale. In questo senso, la presenza concreta di un handicappato, bambina o bambino, può essere un’irruzione di realtà in una strutturazione più o meno fittizia. Il richiamo alla realtà non vale solo per un certo individuo: può intrecciarsi con le esigenze di molti e forse di tutti.
Possiamo capire meglio il significato dell’integrazione come impostazione strutturale prendendo un esempio fuori dal mondo scolastico. Viaggiare in ferrovia per chi è handicappato è possibile ma a particolari condizioni. In una stazione considerata attrezzata, importante nodo ferroviario, vi è un ufficio che ha il compito specifico di facilitare le cose a chi, handicappato, deve o vuole viaggiare. Chi è in questa condizione, deve rivolgersi a quell’ufficio, per poter avere ausili adatti, accesso ad ascensori non aperti a tutto il pubblico, accompagnamento e trasporto bagagli, individuazione del treno adatto, ed altre necessità. E’ più probabile che qualcuno, conoscendo questa disponibilità, tragga una conclusione positiva; e consideri alcune restrizioni come limiti realistici. E’ vero che la maggior parte dei treni non ha spazi adatti, servizi igienici e, prima ancora, accessi al vagone impraticabili. Però non si può avere tutto. Ed è vero che un viaggio va previsto e organizzato in anticipo, perché le ferrovie consigliano di prendere contatto 24 ore prima della partenza; che occorre fare una domanda specifica. Anche su questo potremmo dire che non si può avere tutto e che vi sono limiti realistici.
Guardiamo attorno. Vedremo donne e uomini che, in stazione, scendendo o andando verso il treno, saranno in difficoltà per bagagli pesanti, per scale di accesso ai binari affollate ed in certi momenti impraticabili. Aggiungiamoci le persone anziane, i bambini e le bambine piccole: non è solo l’operazione del salire o scendere da un treno ad essere difficile, ma anche il viaggio, per problemi di spazi, di toilettes minuscole, eccetera.
Un’impostazione strutturale dell’integrazione raggiungerebbe una realtà ampia ed articolata, e non solo chi è handicappato. Proprio per questo, la stessa categoria di individuo handicappato perderebbe ragione d’essere. Di fatto, mette insieme realtà così diverse fra loro da risultare unificate solo n negativo.
Capire tutto questo, nella scuola, vorrebbe dire arrivare a non sentire più la necessità di avere gli handicappati in una rubrica particolare, in un settore di studio o di riflessione contrassegnato dalla stessa categoria: la diversità degli handicappati fra loro ne impedirebbe un raggruppamento separato in negativo, non solo in luoghi fisici ma anche in tematiche culturali, pedagogiche e didattiche.

Nessuna semplificazione ingenua: gli handicappati, e le handicappate, ci sono

Non vorrei che le argomentazioni di questa riflessione – con interrogativi aperti… – inducesse ad una semplificazione inaccettabile, come quella che suona all’incirca così: gli handicappati non esistono; ovvero: siamo in qualche modo tutti handicappati. Le semplificazioni possono avere tutte un significato provocatorio legato ad un momento particolare, ad un certo contesto. Ma possono creare malintesi con conseguenze negative. E’ bene dire con chiarezza che gli handicappati esistono. Ma non sono una categoria omogenea. L’interpretazione riduttiva del mondo in categorie (normodotati e handicappati) porta davvero poco lontano. E la scuola, quando si comporta secondo queste interpretazioni riduttive, è più colpevole di altri aspetti istituzionali, perché la sua specifica funzione la carica di responsabilità.
Non posso dire che la Pedagogia Speciale non esiste. Ma la sua esistenza non è necessariamente legata ad interventi aggiuntivi. E’ piuttosto una "lettura" particolare della Pedagogia. E lo stesso dovrebbe essere per la Didattica. La lettura particolare esige una continua conoscenza dei soggetti handicappati nella loro originalità individuale. Non si può improvvisare. Tutto questo responsabilizza. Ed in particolare, ritengo esiga una conquista di tempo. Abbiamo bisogno di rallentare il tempo, di non precipitarlo continuamente in un attivismo senza respiro. La stessa ristrutturazione della scuola va riletta perché possa respirare con un ritmo non concitato. E questo non è certo un problema di handicappati.

Il mangiare, gli handicappati e gli ombrelli

Questo titolo un po’ curioso è il verso di una bella poesia di ClaudioImprudente.
Oltre che una bella poesia, mi pare che abbia un significato emblematicoimportante. Ho già detto a Claudio, all’autore, che non credo sia importante cheil significato che io leggo in quella sua poesia sia lo stesso delle sueintenzioni. Una poesia ha quasi il dovere di essere disponibile a più lettori;e non è detto che l’autore abbia diritti speciali di interpretazione. Può,dunque, essere che la mia interpretazione coincida con le intenzioni di Claudio,oppure no: l’incertezza non è un ostacolo ma, per qualche aspetto, un elementodi maggiore interesse.
La poesia ha come tema la visita di un personaggio ritenuto carismatico: il suopassaggio porterà salvezza, pace e darà un senso a ogni cosa e persona. Manello stesso momento, ogni cosa o persona diventerà come un accessorio alla suapresenza o al ricordo del suo passaggio.
La presunta centralità dell’evento sembra, nella poesia, un gioco tra ildrammatico e l’ironia. E il verso che ho ripreso per il titolo di questa miariflessione mi sembra emblematico: tre elementi (mangiare, handicappati eombrelli) sono collocati nella dimensione di accessori e tendono a indicare cheattorno all’evento si collocano tutti, cose e persone.
Nessuno è trascurato, ma ogni elemento è ricondotto a questa dimensioneaccessoria.

Non affidateci agli scimpanzè

Su il "II Manifesto" (22 aprile 1986), il lettore Luca Pampaloniscrive una lettera che viene intitolata NON AFFIDATECI AGLI SCIMPANZE’. LucaPampaloni, che è handicappato, prende spunto da servizi della televisionesull’impiego di scimmie ammaestrate come aiuto alle persone impos.sibilitate acompiere gli atti quotidiani della vita.
Questo accade negli Stati Uniti. Luca Pampaloni rileva in primo luogol’utilizzazione impropria degli animali, Ma soprattutto protesta, comehandicappato, perchè la RAI dimostra la volontà di disinformare la gente sullereali esigenze dei portatori di handicap. Le esigenze fondamentali sonocollegate alla possibilità di essere con gli altri e in mezzo agli altri.
"Non voglio, dice Luca Pampaloni essere ghettizzato, anche se in unappartamento e non più in"centri di riabilitazione". "Il timoremaggiore è che ci sia una scelta fra una certa autonomia garantita da mezzitecnici e una vita aperta alla socialità. In un clima di forte individualismo,la falsa scelta sarebbe risolta a favore di una autonomia tecnicizzata".
La poesia di Claudio Imprudente suggerisce un motivo in più di comprensione edi interpretazione della lettera di Luca Pampaloni nella percezione dihandicappati che diventano accessori in un evento che vorrebbe mascherarsi opresentarsi nella veste, certo un pò seducente, della tecnica e del tecnicismo.
E’ giusto che chi si sente trasformato o fissato in questa posizione, reagiscae si ribelli. E’ quindi comprensibile quello che vuole dire Luca Pampaloni nellasua lettera: comprensibile e condivisibile.

All’università

Claudio Imprudente ha tenuto due lezioni in università, all’interno del corsoche tratta i problemi pedagogici degli handicappati.
Il modo di comunicare di Claudio passava attraverso una tavola trasparente, sucui sono collocate’ le lettere dell’alfabeto. Claudio fissa una ad una lelettere dell’alfabeto di cui vuole servirsi, e il suo interlocutore ne segue losguardo, compitando ad alta voce le lettere e formando parole e frasi.
La tavola trasparente è dunque tenuta all’altezza degli occhi di Claudio e delsuo interlocutore, posti uno di fronte all’altro. Naturalmente Claudio è statotrasportato a braccia, nella sua carrozzella, nell’aula della lezione. Il primoincontro è stato imperniato proprio sulla carrozzella.
Claudio aveva preparato un serie di diapositive con soggetti tipo: la cima diuna montagna nell’azzurro del cielo, un gabbiano che vola, un fiore, una madrecon un’neonato, ecc … Per ogni diapositiva Claudio ha voluto interrogarequalcuno dei presenti perchè associasse all’immagine l’espressione deisentimenti che provava.
I sentimenti erano positivi: nella direzione del piacere, della conquista edel senso dell’infinito, della vitalità, del mistero che affascina. Poi, all’improvviso, è apparsa l’immagínedella carrozzella; e i sentimenti espressi sono stati nel senso dell’ostacolo,della barriera, del limite, della prigionia.

Claudio e la cultura di morte

Le espressioni dei sentimenti provati si confrontano senza bisogno di lunghicommenti. Claudio ha esposto le sue idee circa la cultura di morte, antagonistadi quella della vita. Ciascuno dei presenti ha riflettuto in silenzio, ed èprobabile che non sia sfuggito il condizionamento della cultura di morte sullenostre istintive reazioni alle immágini che osserviamo. La cultura delprofitto, della guerra esportata e venduta qua e là nel mondo, della salutemonetizzata, insinua in noi sentimenti che finiamo per ritenere nostri.
Torno alla carrozzella e mi domando se essa è solo ostacolo o anche puntod’incontro. Anche per il secondo incontro, Claudio è stato trasportat o sudalle scale con la carrozzella fino all’aula. E nella seconda lezione haillustrato ì diversi ausilii di cui può servirsi per comunicare: dallatavoletta in legno con le lettere dipinte su cui battere con la mano al computercon una tastiera particolare.
Gli ausilii sono tutti necessari, perchè ciascuno ha la sua economicità.Quindi sono utili anche gli ausilli sofisticati e per i quali Claudio può agirein autonomia. In questo modo i sussidi tecnici e le possibilità di socialitànon sono antagonisti e non costituiscono i termini di una falsa scelta.
L’economicità degli ausili: questa è certamente una espressione ambigua; estrapolata consente quelle visionineutralistiche e di sapore assolutamente tecnicistico nei confronti delle qualiClaudio Imprudente è così profondamente critico. Quindi l’economicità degliausili non può essere un elemento autosufficiente.
Economia per cosa?
Nel caso specifico si è trattato di autonomia per comunicare: la tavolettain legno è leggera e può essere portata in giro, così come quella in trasparenza.
Non il computer, che però consente a Claudio di scrivere poesie, riflessioni,articoli, lettere. Sono quindi ausilii che hanno funzioni diverse e integrabilifra loro, e permettono di variare le distanze rispetto agli altri: essere incomunicazione alla presenza degli altri; ed esserlo pensando forse agli altri inuna certa riservatezza.
E’ probabile che anche in questo si realizzi una cultura di vita.
Allora viene da concludere che la cultura di vita è sempre al plurale: èricerca di verità, è possibiltà di avere ragione da un certo punto di vista etorto da un altro. Non è la verità in esclusiva nè la vita in esclusiva. Nes~suno può essere accessorio, di nessun personaggio e di nessuna visita. Pertutto questo, per queste lezioni: grazie Claudio.
E qualche scimmietta potesse darti un aiuto senza che di?venti una scelta inesclusiva o iwalternativa, ben venga anche la scimmietta.
Credo che Luca Pampaloni sia d’accordo.

Andrea Canevaro

Capire come difendersi

Quattro storie di vita contemporanea


Anni fa, ho trascorso un periodo di vacanza con un gruppo di amici handicappatiin un piccolo paese della campagna romagnola. Fu l’occasione per alcuni di loroper scoprirsi capaci di stare al mondo. Romano – indimenticabile amico, mortoanni dopo – andò tutti i giorni dal barbiere del paese per farsi fare la barba.
Andammo al mare, e qualche volta a vedere la gente delle località piùaffollate di vacanzieri. Una sera andammo al cinema a Milano Marittima: ciperdemmo nella folla, e i vigili ci aiutarono a ritrovarci per buona parte dellanotte. Ma tutto in un clima fiducioso e tranquillo, senza sentirci troppoosservati e non incontrando ostilità ma gentilezza normale, con persone piùaperte, cordiali e altre più desiderose di non legare. L’unico giorno infelicefu quando ci recammo in una città di cui non dirò il nome. A fatica riuscimmoa trovare un posto dove sederci per mangiare una pizza, invitati però a nontrattenerci molto. E ci arrivammo dopo aver invano tentato in altri locali.Venivamo invitati ad uscire con modi bruschi, magari aggiungendo la scusa chetutto era prenotato. Tornando al nostro paese in Romagna, ci dicemmo che avevamoincontrato della povera gente, in quella giornata. Ma che era stata una giornatautile per capire la realtà, che è fatta anche di gente immiserita – non miriferisco al conto in banca-e resa rozza dal meccanismo del
guadagno. Parlando con quegli amici, capii che per loro, come per tutti noi, èimportante conoscere la realtà, anche ielle sue parti sgradevoli. Come è importante non essere sopraffatti dalla grossolanità, dalla violenza delquotidiano, dall’arroganza dei piccoli e grandi prepotenti. Bisogna difendersi.E quella volta la nostra difesa fu cercare di capire insieme il perché di unagita nell’ostilità.

ACCETTAZIONE E NEGAZIONE

L’intreccio di ostilità e accoglimento, di legazione e solidarietà è nellarealtà. Un handicappato ha bisogno di vivere la realtà, e sarebbe imbrogliatose ci sformassimo di fargli credere che l’ostilità e a negazione non esistono.Però sarebbe più che imbrogliato se incontrasse solo ostilità e negazione.Credo che in ciascuno ci sono, più o meno mescolate e confuse, le duedimensioni; e la mia pretesa i che ci siano davvero tutt’e due, e non prevalgaun sentimento tutto moralistico di accettazione indiscriminata, o – peggiore manon troppo – la repulsione assoluta.
Qualcuno può provare un disagio che cercherò di comprendere. Supponiamo chesia partito dalla sua città per un luogo di villeggiatura, con lo scopoprincipale di riposarsi, divertirsi, cambiare abitudini per qualche tempo. Nelluogo di villeggiatura incontra un handicappato, o un gruppo di handicappati. Ildisagio è probabilmente dovuto al fatto che, senza averlo voluto e previsto, si sta esponendo a informazioni che rischiano diimpegnarlo su temi e problemi molto importanti, fondamentali. Il primo motivo didisagio è per questa "esposizione a informazioni". Il timore,strettamente collegato a questo disagio, è che le informazioni a cui ci siespone mettano in discussione in qualche modo le opinioni consolidate, forse leabitudini. Questa persona può dunque reagire al disagio cercando di convincersiche la presenza di quell’handicappato o di quel gruppo di handicappati non siagiusta né opportuna, che esso o essi non abbiano nulla da guadagnare in unluogo di vacanza che "esige" una certa normalità per essere goduto; eche "ci devono essere" altri luoghi, attrezzati e pensati apposta, pergli handicappati.
Tale ricerca di autoconvinzione può rinforzarsi per il fatto che il nostroipotetico personaggio ritiene di avere dei diritti in quanto ha lavorato, hamesso da parte dei soldi, e paga il periodo di ferie in vacanza. È un clienteche paga. E già dicendo questo, si capisce che potrebbe trovare alleanze ecomplicità in tutti coloro che da questo cliente, e da tanti come lui, traggonodi che vivere. Ho cercato di comprendere questo disagio, ma non posso dire diapprovarne le conseguenze che ho ipotizzato. Quindi non vorrei negare ildisagio dovuto all’esposizione di un’informazione, o a molte informazioni, chenessuno aveva previsto; ma vorrei anche tentare di sviluppare un diverso modo diprocedere e di elaborare il senso di disagio. Credo che, schematicamente, possopensare a due altre prospettive. La prima è di tipo esclusivamenteorganizzativo, e consiste nel cercare di organizzare la situazione in modo chela vacanza possa essere goduta tanto dal nostro personaggio che dagli imprevistihandicappati. È una prospettiva simmetrica: cerco di star bene io vedendo didare una mano perché stia bene anche l’altro. E tutto questo senza implicarsi ocoinvolgersi troppo, senza dover stringere un’amicizia che non era prevista eche risulterebbe forzata. Non mi pare una prospettiva da condannare, e forseevita; atteggiamenti rischiosamente demagogici.
La seconda prospettiva parte dal punto di vista che l’esposizione a nuoveinformazioni può essere interessante: si possono apprendere, con il minimosforzo, notizie sulla ricerca, sulla condizione dei servizi, sul rapporto fra salute e deficit, sulla bioingegneria, sullo sport el’handicap, sulla storia… È la prospettiva secondo la quale, anziché essereesposti passivamente alle informazioni inattese, si può positivamente accoglierle e capirne l’utilità. A prima vista, quest’ultima prospettiva sembraidealistica. Ho constatato che è reale, e che la sua concretezza si appoggia aldiffuso senso di insoddisfazione che molti provano nei luoghi di vacanza per ilvuoto in cui si trovano a vivere. Non dirò che la presenza imprevista di unvilleggiante handicappato diventa un motivo per trasformare la vacanza dainsulsa a vacanza di qualità: ma può essere una scoperta di qualcheimportanza, tale da consentire di saperne di più su molte cose.

QUALI SONO I COLPEVOLI?

Sicuramente vi sono atteggiamenti che devono essere chiamati con il loro nome,che è razzismo. Esiste purtroppo anche questa realtà, ma è la realtà dacambiare, da trasfomare al più presto. Andre Gide diceva che meno il bianco èintelligente e più il nero gli sembra bestia. C’è del vero. Ma è altrettantovero che a volte i veri colpevoli sono defilati e lontani, e gli scontri sisvolgono fra coloro che vivono realtà molto simili, tanto da far parlare di"guerre" tra poveri per contendersi una miseria, mentre altri possonosprecare indisturbati ricchezze che sono di tutti.
Un handicappato può essere vittima di razzismo. E può dunque essere uno deiprotagonisti dell’impegno contro il razzismo e le sue cause. Ho conosciuto unesempio positivo di questo impegno, e mi sembra utile proporlo in queste note diriflessioni che riguardano le vacanze. A Montreal ho conosciuto Luciana Soave,madre di un giovane handicappato "spina bifida". La signora Soave hafondato l’associazione multi-etnica per l’integrazione degli handicappati delQuébec (A.M.E.I.P.H.Q. – 91, rue St. Zotique est – Montreal, Québec, H2S1K7). Quando, poco più di dieci anni fa, Luciana Soave e la sua famiglia sitrasferirono dall’Italia al Québec, avvertirono immediatamente come ledifficoltà che ogni emigrato vive si moltiplicano per la presenza di unhandicappato: difficoltà a
farsi comprendere ed a-capire, difficoltà nel conoscere e nel servirsi delleopportunità che il nuovo paese offre, e tante altre difficoltà immaginabili.Montreal è una grande città popolata da tante comunità etniche: gli italiani,i greci, la comunità di lingua spagnola (di molti paesi del mondo, ma moltilatinoamericani, e fra questi molti cileni), la comunità portogese (anche quimolti latino-americani), la comunità vietnamita e quella cinese … Il primoobiettivo dell’associazione – di cui Luciana Soave è direttrice – èl’informazione. E non solo informazione sul paese che accoglie, ma ancheinformazioni sui paesi di provenienza. Per molti emigrati vi è una totaleignoranza di quelle che sono le condizioni sociali ed istituzionali del paesed’origine, e vi può quindi essere la convinzione che un eventuale ritorno possaessere la perdita di qualsiasi aiuto e di qualsiasi diritto. Chi avevaprogettato di godersi la pensione, una volta raggiunta l’età, ritornando alpaese d,’origine, ritiene di essere stato sopraffatto dalla presènzadell’handicap, e di dover rinunciare al proprio progetto. Avere informazionipuò voler dire decidere con maggiore libertà: forse considerare che un ragazzo cresciuto in un ambiente potrebbe perdere qualcosa a lasciarlo, siapure per andare a vivere nel paese dei suoi nonni e dei suoi genitori. Ma una buona informazione permette una scelta ragionata.Vi è un altro importanteaspetto che l’associazione deve considerare. Nella stessa associazione vi sonogruppi che avrebbero buone ragioni per non incontrarsi o per scontrarsi.Pensiamo soltanto ai cileni, fuoriusciti perché comunisti o presunti tali, edai vietnamiti, fuoriusciti per motivi opposti. Fra loro nell’associazione,,devesvilupparsi una capacità di reciproco rispetto e di convivenza. Si potrebbepensare che la valorizzazione della diversità è l’impegno fondamentaledell’associazione, e che l’identità di ciascuno non deve sentirsi minacciata daquella degli altri.
Sicuramente in luogo di vacanza si realizza rincontro di diversità (culturali,di abitudini, di gusti, di opinioni, di professioni, di provenienze, ecc.),fortemente attenuato dalla tendenza a selezionare i luoghi di vacanza secondol’appartenenza ad un gruppo sociale. Ma le diversità esistono, e l’esempiodell’associazione’
può essere un interessante motivo di riflessione, un motivo positivonell’impegno contro i razzismi che riguardano anche gli handicappati ma non sologli handicappati.

NON DIRE "NORMALE" SE PENSI "HANDICAPPATO"

Mi ha sempre colpito la vicenda di un giovane trisomico, o mongoloide, cosìcome è raccontata attraverso le conversazioni con suo padre (B. ÉCHAVIDRE,Débile toi-méme, Fleurus, Paris, 1979). Benoìt ha ventuno anni e, al momentoin cui vengono svolte le interviste che compongono il volume, lavora da circadieci mesi in un posto di ristorazione, in cucina. Fino a diciannove anni hatrascorso in un centro professionale isolato, in campagna, a quindici chilometridalla sua città. Il padre ricorda quel periodo dicendo che Benoìt daval’impressione di vivere due vite senza alcun rapporto fra loro e la cuigiustapposizione lo disorientava: una vita normale, nei fine settimana infamiglia; e una vita da handicappa-, to durante la settimana. Nel luglio 1976,la famiglia si è informata, facendo una piccola inchiesta, su situazioni diintegrazione, cercando di capire cosa accade in un altro paese, la Danimarca. E questo ha convinto che almeno un terzo, se non i due terzi di coloro che sonoconcentrati in luoghi segregati e isolati rispetto al resto della società,potrebbero essere inseriti nella vita normale. Nelle interviste emergono i temidell’amore, della solitudine, della morte, del divertimento ballando,dell’autonomia, dello scoutismo che ha vissuto positivamente, della poesia (aBenoìt piacciono molto le poesie di Prévert). Benoìt ha messo alla proval’autonomia in una maniera particolare: un sabato sera non è rientrato a casa,ed ha dormito in un albergo. Ha ripetuto altre volte l’esperienza, quasi perverificare se il suo stato di persona adulta e capace di scegliere autonomamentegli venisse riconosciuto. Ha potuto constatare che andando in un hotel eraconsiderato come ogni altro cliente, e questo lo ha certamente gratificato.
Vorrei riferire una breve conversazione fra Benoìt e suo padre, comeconclusione di queste note. Credo che si capisca molto bene, senza annoiare concommenti, la ragione della citazione (che io traduco per comodità) in rapportocon il tema delle vacanze, e forse del tempo libero in generale.
Pierre (il padre): Preferisci le cameriere. Perché? non ti piacciono gli altri?
Benoìt: Mi piacciono gli altri, ma non tutti. Non posso amarli tutti. Ingruppo, viaggiando, è lo stesso. 
P.: In Corsica? (in vacanza) 
B.: Si.
P.: Si. Ti dispiace che siano … come? cosa si dice? che cosa si pensa di loro? 
B.: Ve ne sono altri che sono handicappati. E altri che non lo sono. Questo misecca..
P. E tu, tu sei handicappato?
B. Oh no, io no. Ma non tanto. Ma un pò .
P. Si dice che sei handicappato? 
B. Non lo sono tanto, ma insomma … dicono no,ma pensano così. 
P. Pensano che sei handicappato? 
B. Si. Questo mi secca. Midispiace. 
P. Ti dispiace che gli altri pensino che tu sei handicappato? 
B. Vedi… non dicono niente davanti, ma pensano così dietro.
Forse Benoìt preferisce la cortesia che le cameriere rivolgono a tutti iclienti ed anche a lui, all’amicizia forzata in cui percepisce che si dice unacosa davanti pensandone un’altra dietro.

Bambini, imparate a fare le cose difficili

Nel 2003 l’Assessorato alle Politiche Sociali, immigrazione, progetto Giovani e Cooperazione internazionale della Regione Emilia Romagna ha promosso una ricerca sulla qualità dell’integrazione delle persone disabili nelle strutture educative e scolastiche, condotta dalla Rete dei Centri di Documentazione Integrazione della stessa regione.
Nella prefazione al testo che raccoglie i risultati della ricerca, Bambini, imparate a fare le cose difficili. Alunni disabili e integrazione scolastica di qualità, Andrea Canevaro riflette sul nodo cruciale della costruzione di rapporti fra le famiglie e le strutture educative e scolastiche, rapporti che passano dall’ascolto e scambio di informazioni per aprirsi anche a possibili prospettive di compartecipazione nel/del processo di integrazione.

La ricerca si avvia proprio con un’attenzione alle richieste delle famiglie e quindi alla possibilità che attraverso le famiglie delle persone disabili, e non solo, si legga una domanda e si leggano anche le risorse presenti nelle famiglie. Iniziare una riflessione e una ricerca mettendo al primo posto le famiglie crediamo sia un’indicazione precisa di un modo di intendere l’integrazione. Quest’ultima non si realizza unicamente con le tecniche (vedremo quanto questo aspetto sia presente e necessario e possa essere ancora incrementato), ma richiede anche possibilità di collegamento con le competenze non professionali, con le reti sociali, che iniziano dalle famiglie.
È interessante capire che cosa accade quando un familiare entra in contatto con le strutture educative e che cosa porta come attesa ma anche, purtroppo, come possibile frustrazione.  Potendo registrare solo la voce dei familiari, dovremmo non considerarla un assoluto; dai familiari, però, sappiamo che le prime informazioni sono di grande importanza – non lo scopriamo con questa ricerca, ma lo ribadiamo – e abbiamo l’impressione che sulle prime informazioni ci sia ancora molto da lavorare. È un lavoro che vorremmo si svolgesse all’insegna della nuova classificazione internazionale del Funzionamento della Disabilità e della Salute, ovvero dell’ICF (questo è l’acronimo nella dizione anglofona), come proposta e sostenuta dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, ovvero OMS.
Ci interessa richiamare questo aspetto perché riteniamo che dalle prime informazioni possa nascere una dinamica di valorizzazione delle capacità di funzionamento di un soggetto disabile, e quindi la possibilità di circoscrivere le disabilità secondo i contesti e di non farle diventare l’assoluto di un individuo. Abbiamo questa preoccupazione perché riteniamo che sia difficile – anche se nell’esperienza si registra più spesso di quanto sia nella coscienza – capire che una persona disabile non è tale in assoluto, ma in rapporto ai contesti in cui vive, o le viene richiesto di vivere, e secondo certi stili.
Ed è da quella prima informazione che può nascere il partenariato, ovvero una capacità di viversi come risorsa reciproca da parte dei familiari, degli educatori e delle educatrici, insegnanti e tecnici: risorsa reciproca in un accompagnamento, con la possibilità di raccogliere informazioni valorizzanti e quindi non solo segnali di limiti, di impossibilità e di incapacità ma anche le piccole e grandi scoperte di come poter migliorare quel funzionamento, anche se il termine potrebbe essere criticato perché sembra che si parli di una macchina e invece si parla di individui.
Dalle prime informazioni e dal partenariato bisogna ricavare alcuni elementi che sono leggibili nella ricerca: la possibilità che una famiglia si rivolga al nido e si avvii così una collaborazione con una struttura esterna, è accompagnata da qualcosa che viene chiamato anche in un punto della ricerca senso di colpa. Crediamo che si possa fare una distinzione tra due elementi che possono costituire il senso di colpa: uno riguarda la considerazione di rivolgersi al nido per sottrarsi, in qualche modo, al proprio dovere genitoriale e quindi sentendosi carenti di capacità, di tempo, di forza, di energia per sostenere a pieno il ruolo genitoriale negli anni che precedono la scolarità. L’altro è che, come familiari, ci si domanda quanto sia opportuno rivelare, mostrare, il proprio figlio, o figlia, disabile e quanto invece non sia opportuno risparmiare a quella creatura l’impatto del confronto con i coetanei normali.
C’è in qualcuno anche la speranza che il tempo permetta di aggiustare qualche cosa. La possibilità che ci siano dei sensi di colpa, permette di far procedere il partenariato a partire dall’idea – e l’abbiamo spesso espressa – che nei genitori debba esserci una considerazione di accettazione ma accompagnata da una ribellione all’handicap.
Il concetto di relazione d’aiuto è entrato nella pedagogia della scuola. Alcuni studiosi (Dupuy-Walker e Dupuis, 1991) hanno individuato due punti, esaminando i diversi stili d’aiuto in ambito scolastico:
– i processi che attivano cambiamenti significativi sono realizzati da persone con qualità di comunicazione interpersonale indicati come “condizioni facilitanti”: empatia, calore, autenticità;
– le persone d’aiuto hanno ruoli significativi, come insegnanti non precari, operatori sociali con anni di esperienza, che possono essere decisivi per la crescita della personalità o per il suo deterioramento.
E la relazione d’aiuto si collega al concetto e più ancora alle pratiche di empowerment, come capacità di prendere in mano il proprio destino, di mobilitarsi a partire dalle proprie risorse.
Abbiamo spesso fatto una distinzione tra un deficit, un dato da considerare irreversibile quindi da apprendere lentamente e pazientemente a vivere per tutta una vita, e gli handicap, mancanze, difficoltà, ostacoli che bisogna imparare ad aggirare, a superare, ad abbattere. Su questo crediamo che sia necessario coinvolgere le famiglie. È giusto che le famiglie si ribellino agli handicap. Se la ribellione esiga pazienza o impeto dipenderà dalle situazioni e anche dai temperamenti, dalla cultura, dalle opportunità, da ciò che sta anche attorno a una famiglia; ma sicuramente bisogna cercare di reagire all’handicap, e non accettare.
Quell’accettazione che veniva proclamata molte volte da tecnici, in passato, non la ritroviamo, e questo ci fa molto piacere, nella ricerca che abbiamo la possibilità di leggere. Abbiamo però la necessità di rimarcare quanto viene espresso da alcuni dei familiari e anche dalle educatrici della prima infanzia: molte volte non vi è un vero e proprio modo di stabilire una collaborazione quanto uno scambio di informazioni; viene sottolineato questo aspetto che sembra essere limitato, non sembra uno scambio che porta a una buona cooperazione ma una modalità di stabilire e mantenere delle distanze.
È positivo il fatto che ci sia uno scambio di informazioni, e avremmo potuto anche trovare una denuncia di assenza. Non avendola trovata, speriamo che questo non sia un limite della ricerca ma sia un dato di realtà. Vorremmo però immaginare che al di là di queste indicazioni precise in chiave positiva, vi siano anche le richieste di maggiori informazioni, di una capacità di stabilire dei rapporti di informazione molto più attivi, dinamici e di permettere la costruzione di competenze complesse. Da parte dei familiari come da parte delle educatrici della prima infanzia vi sono le competenze del quotidiano e sono importanti, ed è importante che abbiano la possibilità di avere il partenariato che dicevamo da parte dei tecnici.
La ricerca ci mostra una situazione che francamente ci aspettavamo peggiore; occorre comunque vigilare sempre affinché la difficoltà economica presunta o dichiarata dai servizi non arretri le capacità di collaborazione, non riduca le possibilità di stabilire dei contatti anche solo di informazione. Ma riteniamo che, sulla prima infanzia, il quadro che esce dalla ricerca contenga qualche elemento di rassicurazione.
Scopriamo che ancora è necessario riflettere, operare perché non vi sia una dicotomizzazione tra gli aspetti relazionali e gli aspetti cognitivi. È la possibilità che vi sia, attraverso l’azione dei coetanei in una dinamica di reciprocità, una possibilità di sviluppo di capacità cognitive, imitative, con la possibilità che ci siano stimoli che proprio la vita tra coetanei produce; che ci siano una certa quantità di mediatori, in parte previsti e in parte no: alcuni previsti da chi ha delle responsabilità educative, e altri scoperti ed emersi dal gruppo dei coetanei che vive nella stessa situazione.
Alcuni studiosi (Albanese, Migliorini, Pietrocola, 2000) hanno potuto constatare che la concezione dell’intelligenza degli insegnanti è caratterizzata secondo due ampie prospettive e credenze: innatista e costruttivista.
Interessante è considerare come viene percepito l’errore nelle due prospettive. In quella innatista, l’errore è l’indicatore di un’incompetenza intrinseca dell’allievo. Nella prospettiva costruttivista, è indicatore di una fase superabile del processo di apprendimento. Ne deriva che la prospettiva innatista fa scarso riferimento al concetto di metacognizione; e la prospettiva costruttivista, magari anche senza servirsi del termine metacognizione, ne utilizza le funzioni: la pianificazione, la previsione, la guida, il controllo dei risultati, il mantenimento e la generalizzazione delle strategie.
In linea di massima, è chiaro che la prospettiva costruttivista è più adatta all’integrazione, o sviluppo inclusivo. In questa prospettiva, la ricerca dei mediatori è aperta. “Si può parlare di partecipazione periferica legittimata perché ogni membro della comunità, dal meno esperto e, metaforicamente, periferico al più competente e centrale, gode di uguali diritti di appartenenza a esse, alle sue pratiche, ai suoi discorsi e alle sue risorse umane e tecnologiche. In tali comunità, i costruttivisti sociali individuano, secondo la terminologia di Vygotskij, zone multiple di sviluppo personale, in grado di promuovere i talenti individuali, espliciti e impliciti” (Albanese, Migliorini, Pietrocola, 2000, p. 150).
La possibilità è che ci sia quella fiducia ingenua che porta a dire che tra i bambini c’è sempre un buon rapporto. È vero fino a un certo punto; bambini e bambine risentono e sono condizionati dal clima che gli adulti creano, e se il clima fosse fortemente competitivo e discriminatorio – cosa che non registriamo nella ricerca – ci sarebbe da pensare che i bambini e le bambine siano a loro volta capaci di costruire competitività discriminatoria e quindi emarginazione. Questo non risulta. È un elemento fondamentale per capire quanto i mediatori diventino importanti nella strutturazione di tempo e di spazio. Crediamo quindi che sia necessario capire quanto i rituali, che sono più facili da scoprire nella scuola dell’infanzia che nei percorsi della scuola dell’obbligo e superiore, diventino un modo di ancorare l’integrazione a possibilità di stare assieme finalizzate; non stare assieme senza nessuna meta, ma per imparare, per capirsi, per comunicare, quindi per stabilire anche delle relazioni tecniche con i saperi, che possono essere tecniche incarnate, inserite nella quotidianità della vita.

Tratto da: CDH Bologna e CDH Modena (a cura), Bambini, imparate a fare le cose difficili. Alunni disabili e integrazione scolastica di qualità, Trento, Erickson, 2003.