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autore: Autore: Claudio Imprudente

Gli scatti di una vita – Il Messaggero di sant’Antonio – Ottobre 2011

Per parlare di un’immagine, di una fotografia, si tende sempre a dar voce a chi quell’immagine l’ha prodotta, a chi l’ha fruita, apprezzata, criticata, studiata… oppure a chi è direttamente chiamato in causa da quell’immagine perché è soggetto principale della stessa oppure perché è interessato al suo contenuto; o, ancora, perché è presente nell’ambito, nel momento, nell’occasione che quell’immagine ritrae.
Una volta si tendeva a privilegiare unicamente la «fonte», il produttore di un enunciato. Col tempo la platea di chi ha diritto «a dire qualcosa» si è allargata. Ma si dà ancora troppo poco peso e troppa poca voce agli strumenti: a chi, tecnicamente, ha reso possibile la creazione di quell’immagine.
Oggi sono io, una macchina fotografica, a parlare e, dato che sono una Canon FTB degli anni Settanta, di cose ne ho viste e fissate parecchie; abbastanza da farmene un’idea e da notare ricorrenze e differenze, analogie e scarti.
 
Ricordo che quando ho iniziato a prestare il mio occhio, se si trattava di riprendere cerimonie, viaggi, momenti di vita, lezioni scolastiche, ecc. in cui fosse presente una persona disabile, mi veniva chiesto sempre di darne un’immagine, appunto, di un certo tipo. Gli ambiti in cui mi trovavo a lavorare mi aiutavano non poco a connotare quei soggetti in un determinato modo. Ogni volta lo stesso. Cosa intendo dire? Beh, era immancabile il fotoreportage da Lourdes: quello era un contratto annuale di lavoro garantito. Potevo metterci la firma. E immaginate, o potete ricordare, cosa ne veniva fuori.
Un altro must erano le gite per disabili, ma solo con disabili. Una tentazione alla quale non riuscivo mai a resistere. Poi c’erano le messe o le cerimonie in chiesa dove, inevitabilmente, le prime file erano tutte riservate a loro. Non proprio il massimo: occasioni – e relative immagini – piuttosto malinconiche e ripetitive. Col tempo, qualcosa, lentamente, è andato cambiando. Ricordo di aver accolto con un sospiro di sollievo l’incarico di immortalare alcuni disabili in piazza a rivendicare i loro diritti. E ancora di più quando li vidi in piazza a «pretendere» i loro doveri.
 
Di lì a poco, le prime commissioni un po’ più interessanti e meno «ghettizzate», anche se ne coglievo benissimo i rischi «etici» e «deontologici», e le possibili derive «sensazionalistiche». Dicevo: incarichi interessanti per ritrarre i primi disabili «famosi», e che non facevano solo versare due lacrime, ma cominciavano a imporsi per quello che sapevano fare. Sembravano mosche bianche, eccellenze in un mare di incompetenze e inabilità. Ma, almeno, si poteva intravedere come, forse, il paradigma stesse cambiando. Al tempo era così.
Negli ultimi anni, ho cominciato a vederne di tutti i colori: realizzavo un servizio sulle spiagge e gli alberghi di Rimini, e li vedevo «scarrozzare» a destra e a manca. Facevo un servizio sull’andamento dello shopping natalizio, e vedevo sempre più carrozzine dentro i camerini, e «carrozzate» a provarsi scarpe con tacco a spillo; cerimonie di laurea durante le quali il presidente di commissione doveva sforzare un po’ l’udito per comprendere parole non perfettamente articolate, ed era costretto a piegarsi per stringere la mano del neolaureato. Ora sto scrivendo dopo aver finito il servizio fotografico di un matrimonio. La sposa, meravigliosamente vestita… con l’abito bianco che stava benissimo con il viola del telaio della carrozzina.
Sono cambiate tante cose. E la mia vecchiaia è più bella della giovinezza, da questo punto di vista. Per un veterano delle immagini come me, a due passi dalla pensione, è un bel congedo. Clic! Scrivete, come sempre, a claudio@accaparlante.it e sul mio profilo di Facebook.
 
 

Lettere al direttore

Ciao Claudio,
spero che il viaggio di ritorno sia andato bene!
Qui in Serbia è tornato il silenzio, e io sono ancora alle prese con il mio attacco abbandonico. Allora, per cercare di lasciare andare le cose per bene, ti scrivo alcune cose che avrei voluto dirti, quando ci siamo salutati; non ho potuto perché, come ti ho detto, mi sarei emozionata troppo, e magari mi si scioglieva il rimmel, ecc. ecc.
Allora, Claudio, volevo dirti che ho capito perché hai la bocca così grande: perché, quando ridi tu, da lì esce il suono dell’universo.
Tra tutte le persone nella vita di cui ho conosciuto parole e opere (non necessariamente di persona, anche persone di cui ho solo letto o sentito), mi è capitato solo in tre casi di pensare che, se avessi dovuto votare per una delegazione da mandare in altre galassie a rappresentare l’umanità, avrei votato per loro. Uno era Fabrizio de Andrè, e ce lo siamo già giocato.
Adesso voterei anche per te. Tu comincia a prepararti per viaggi interplanetari, non si può mai sapere! Certo, scegliere chi potrebbe accompagnarti, è un po’ dura… Ma una mezza idea ce l’avrei…
Torniamo a noi. Tu riesci a trasmettere a chiunque il senso e il verso dell’esistenza, credo.
Ma per quello che sono stata e sono io, per il mestiere che cerco di fare, e anche per il sentiero personale che sto ancora cercando, tu sei un lampadiere.
Diceva Tom Benettollo (un altro che ci siamo già giocati): “In questa notte scura,/ qualcuno di noi, nel suo piccolo,/ è come quei lampadieri che,/ camminando innanzi,/ tengono la pertica rivolta all’indietro,/ appoggiata sulla spalla,/ con il lume in cima.
Così,/ il lampadiere vede poco davanti a sé,/ ma consente ai viaggiatori di camminare più sicuri./ Qualcuno ci prova./ Non per eroismo o narcisismo,/ ma per sentirsi dalla parte buona della vita. Per quello che si è./ Credi”. Io ci credo.
Continua con la tua buona vita, Claudio, io cercherò dalle mie parti di fare del mio meglio.
Levo in alto il bicchiere con il mitico spritzer, e brindo guardandoti negli occhi, nella più squisita tradizione serba.
Cristina Roccella

Ho appena messo la Racchia in frigo… La Racchia non è una donna di brutto aspetto, anche perché non ho un frigo così capiente. È invece la tipica grappa serba, una grappa dura, forte, che i serbi bevono mattina, pomeriggio e sera, prima, durante e dopo i pasti. Quando ero là, per non mancare di rispetto e per curiosità verso le usanze locali, mi sono adeguato volentieri ai loro ritmi. Ma la Racchia è servita anche ad affrontare il viaggio di ritorno… Piuttosto rocambolesco, o carambolesco: per la prima volta in vita mia sono salito su uno di quegli aerei con l’elica davanti, e sembrava di essere in un film di guerra ambientato durante il primo o secondo conflitto mondiale… modello “Barone Rosso”. Ma torniamo, cara Cristina, alla tua lettera. Leggendola, un po’ come quando mi capita di ascoltare “Canzone per un’amica” (per capirci quella che inizia con “Lunga e diritta correva la strada…”), ho avvertito la vaga necessità di toccare ferro o qualcos’altro. Perché le persone di cui parli, de Andrè e Benettollo, come dire, ci guardano entrambe dall’alto (da più in alto del Barone Rosso), e io ancora posso accontentarmi di guardare gli altri negli occhi… Insomma, la lusinga dei paragoni cedeva il passo alla forza della superstizione.
Posso farti una domanda? Ma qual è il suono dell’universo? Battiato canta “Tutto l’universo obbedisce all’amore”… Ma questo non ci aiuta a definirne il suono, dato che l’amore è un sentimento dalle mille sfumature… e, quindi, dai mille suoni…
È la prima volta che qualcuno mi dice che dalla mia bocca esce l’universo, solitamente le persone devono confrontarsi con altre fuoriuscite, forse meno nobili…
Però volentieri affronterei un viaggio intergalattico. Immagino già i disabili extraterrestri: se capitassero sulla Terra sarebbero doppiamente emarginati, ma non possiamo essere certi che io sui loro pianeti subirei una duplice emarginazione. Certo è che a Belgrado i disabili sono quasi degli extraterrestri, e questo mi ha fatto molto riflettere. Condivido con te qualche pensiero.
L’automobile per il trasporto disabili che ho utilizzato quando ho lavorato nella capitale serba, guidata dall’ottimo Boban, ho scoperto essere l’unica della città, e nei giorni in cui l’autista è stato a nostra disposizione, in tutta Belgrado non era disponibile nemmeno un mezzo che potesse garantire quel servizio di trasporto.
Ma la dis-organizzazione dei trasporti di Belgrado non è che il sintomo visibile di una situazione generale che tende all’esclusione sociale tout court delle persone disabili… gli extraterrestri, i mutanti del caso! Le strutture e le politiche sociali, infatti, dipendono direttamente dalla visione che abbiamo di certi fenomeni, dalle priorità che riconosciamo come tali, dal valore che attribuiamo a determinati bisogni, esigenze e desideri. È allora la (sovra)struttura culturale a determinare l’esistenza di una precisa struttura organizzativa dei servizi e delle politiche che riteniamo essenziali. È dalla visione del mondo che discendono certe pratiche, difficilmente avviene il contrario. Cerco di spiegarmi meglio.
Se a Belgrado le persone disabili vivono tutte in istituti, che bisogno c’è di immaginare un sistema di trasporti che possa facilitare la loro azione e la loro visibilità nella scena sociale? Se il pensiero prevalente, la cultura diffusa riconoscono ancora come legittime le politiche di “istituzionalizzazione” delle persone con deficit, prevedo che non sia facile decretare “dall’alto” politiche di segno diverso. Devono prima trovare spazio e diffondersi idee e sensibilità differenti… Altrimenti si continua ad accogliere i mutanti a colpi di cannone…
So che le cose non sono così semplici e lineari, e che spesso i cambiamenti più significativi sono dovuti alla forza del pensiero di poche persone (Basaglia, ad esempio) o di pochi attori sociali, e che molte istanze si sono affermate dapprima come voglia di riscatto da parte delle famiglie, delle associazioni più direttamente interessate… Ma queste, in Italia e altrove, hanno trovato col tempo canali di vario tipo per diffondersi, per intraprendere il cammino che potesse renderle di dominio e attenzione pubblici. Di farsi cultura visibile e condivisa.
A Belgrado, questo il sentire comune, “deistituzionalizzare” vorrebbe dire solamente creare dei problemi laddove non esistono… Perché complicarsi la vita? Perché rischiare di immettere sul mercato del lavoro dei potenziali concorrenti?
Quello che manca, evidentemente, non sono le persone disabili, ma una cultura sufficientemente diffusa che, al contrario, voglia problematizzare la questione e renderla oggetto di riflessione e, poi, di azione politica che possa incidere materialmente sulla vita di tante persone.
Perché vi ho raccontato l’episodio di Belgrado? Intanto per rispondere a Cristina, poi… Non per fare confronti con la situazione in Italia, ma perché ai miei occhi ha confermato l’importanza dell’aspetto culturale per mantenere alta la “tensione” e l’attenzione su certi temi, proprio qui in Italia. C’è ancora strada da fare e sopratutto tanta “materia” sulla quale vigilare perché non si facciano passi indietro. Non possiamo mai dare per scontata l’impermeabilità del tessuto sociale a certe derive: è necessario di conseguenza portare avanti parallelamente un discorso sui servizi, le leggi e le opportunità materiali, e uno, ripeto, essenziale, che si rivolga agli aspetti culturali. Ben sapendo che le involuzioni in questo campo sono più difficili da prevedere, cogliere e, poi, contrastare.
Il viaggio a Belgrado è stato quasi un viaggio nel tempo, non proprio un viaggio interplanetario: rispetto alla disabilità sembrava di essere tornati all’Italia degli anni ’60-’70, quando i Beatles spopolavano. Eppure, “ritornato al futuro”, è servito per accrescere la consapevolezza che l’azione di vigilanza nel nostro Paese va praticata con tenacia ancora maggiore. Vedi, Cristina, che il tuo ragionamento sui “lampadieri” è davvero attuale: lampadieri per indicare una via e lampadieri per far luce anche su quanto di buono già esiste e deve essere conservato. Tu, Cristina, e voi, lettori, siete tutti arruolati!
Dimenticavo: Cristina, grazie per le fotografie della trasferta, le ho subito caricate sul mio profilo di Facebook.
Buona Racchia a tutti!

Lettere al direttore

Caro Claudio… non ho resistito a scriverti quando, in un tuo articolo, ho letto “note (o pause) in una composizione musicale”. Ecco! Hai detto bene: chi mai considera la pausa in una composizione musicale? Forse chi suona uno strumento o legge musica: io ho cominciato ad apprezzare le pause oltre che le note di una composizione quando ho scoperto, “cambiando contesto”, la mia anima musicista, nascosta o forse sopita per troppi molti anni. Però… c’è un però, carissimo Claudio! È vero che è un problema di contesto, ma cambiare contesto significa che anche gli altri, che già ti conoscevano, devono vederti o ri-vederti nel nuovo contesto. Come si fa? Come possono fare? Come puoi fare? Ti ringrazio di questo scritto, delle parole, della punteggiatura che è come una bella pausa musicale! Ti auguro davvero un Natale assolutamente “in-contestuale” e mi auguro di poter dire quanto prima di essere felice come una Pasqua, anche se è Natale! Maria Grazia Ponziani, mgp per gli amici.

Cara Maria Grazia,
devo complimentarmi con te, perché di un articolo piuttosto lungo e che aveva come protagonista del muschio natalizio, ti è rimasto impresso proprio il dettaglio della pausa, relegato com’era in un “angolino”… Non era facile, anzi, era tutt’altro che scontato, ma era un dettaglio al quale tenevo parecchio. Perché?
Per due ragioni: intanto perché il silenzio e le pause non sono assenza di comunicazione, né vuoti da riempire necessariamente. Sono invece più eloquenti delle parole e dei suoni stessi… Infatti ci imbarazza tantissimo stare in silenzio in presenza di qualcun altro, proprio perché non è vero che in quel momento non si dice niente, si dice tanto e, se non siamo abili maneggiatori del “nulla”, pure troppo… Classico esempio è quello dell’ascensore, in cui, a un “pieno” di corpi pigiati corrisponde spesso un “vuoto” di suoni che ci fa sentire scoperti, più deboli.
Nel silenzio, nel vuoto le cose sembrano sfuggirci di mano, abbiamo meno riferimenti. A volte mi sembra che la percezione che abbiamo del buio e del silenzio si assomiglino, anche se essi interpellano sensi diversi.
Peraltro, è difficile accettare il silenzio anche quando siamo soli.
In secondo luogo, come scrivevo nell’articolo, perché, anche se non ci pensiamo mai, senza di essi la musica sarebbe un’accozzaglia informe (certo, c’è chi ha lavorato artisticamente proprio sull’assenza di pause e vuoti…) e siccome io sono un appassionato ascoltatore di melodie, sempre rendo grazie all’“invenzione” del silenzio.
Mi viene in mente, poi, che anche in altre situazioni il silenzio è necessario, o almeno avvertito come tale: esso connota, ad esempio, l’interno di una cattedrale o di un monastero, luoghi in cui il rumore non aumenterebbe, anzi, ridurrebbe l’eloquenza di quella calma.
Non male, per un elemento così sfuggente e fantomatico che faremmo prima a definire per quello che non è. E si potrebbe continuare, ma l’importante è capire che per tutto e per tutti c’è spazio e importanza in questo mondo, che la cosa fondamentale è riconoscere la bellezza di questa necessità e capire che, se a volte i conti non tornano, il problema non sta nella natura delle cose (se ne hanno una), ma nelle relazioni reciproche che le definiscono, nelle posizioni di tempo e spazio in cui le mettiamo e nel tipo di rapporto che noi riusciamo a instaurare con loro.
E che dire? Non sottraetevi all’arduo compito di imparare a… stare zitti!

Caro Claudio,
ti scrivo una lettera che potrei intitolare “Mettere come limite il non limite”.
Il mestiere di genitore non si impara in una scuola di formazione alla genitorialità ed esserlo di un bambino con handicap è ancora più difficile. Non approfondiamo qui le diverse problematiche dell’handicap e di cosa esso sia in grado di suscitare nell’animo di un genitore. In particolare nel dover gestire il negativo che tali stati d’animo possono determinare sulla personalità del bambino, che ha in sé tutta la forza della sua fanciullezza che lo spinge a correre incontro alla vita, con strumenti che non sono proprio come quelli di qualunque altro bambino. Le ore trascorse insieme, quando non sono sovrastate dall’ansia, dalla paura di non farcela, ritrovano un loro svolgersi sereno. I momenti dedicati sono ricchi di dialogo, di parole accompagnate da gesti, da carezze, da contatti affettivi, che rendono ancora più forte la volontà di costruire la vicinanza col bambino.
Accrescono la necessità di accompagnarlo nel percorso dell’esistenza, affinché possa trovare, all’incontro con il mondo esterno, un contatto buono. Il genitore affida alla scuola il proprio figlio, la cosa più importante, e si preoccupa di trovare in essa un dirigente che faccia la differenza, che abbia voglia e capacità di accettare una sfida. Quel signore sicuramente c’è, basta cercarlo, forse non si troverà nella scuola sotto casa, ma vale la pena scovarlo, se non si vuole correre il rischio di ritrovarsi in una scuola con semplici e demotivati insegnanti. Ci vogliono “maestri” sufficientemente onesti da addossarsi personalmente il peso delle proprie responsabilità, rivestendo a pieno il proprio ruolo, per affrontare così agevolmente il difficile compito affidato. Un ruolo che richiede ed esige comprensione, prudenza, capacità di insegnare e l’impegno a dare buon esempio per condurre il bambino a un contatto sereno col mondo. Il genitore apprezza i sacrifici e riconosce i problemi che gli insegnanti devono affrontare, sa che possono farcela a dare al bambino l’ispirazione giusta per sfruttare appieno il suo potenziale. Se solo insegnassero, oltre alla sociologia, nozioni preziose per i rapporti con gli altri, l’autostima oltre all’ortografia, il senso civico oltre alle scienze, la tolleranza oltre alla grammatica e l’entusiasmo per la conoscenza oltre alla maestria nella materia. Se fossero disponibili a mostrarsi come consulenti, amici, moderatori esperti di dinamiche di gruppo, specialisti in difficoltà dell’apprendimento, oratori specializzati in motivazione, oltre che maestri esperti della materia che insegnano. Se solo preparassero le lezioni con creatività e dinamismo in modo da mantenere l’attenzione di un gruppo numeroso, con metodi di insegnamento fatti “su misura” per singoli studenti ognuno con i suoi modi diversi di imparare e difficoltà di apprendimento. Certo! Hanno scelto la professione che presenta più sfide ma anche quella che offre più soddisfazioni di qualunque altra.
Anche se il loro lavoro non paga granché in termini di denaro, le gratifiche psicologiche ed emotive sono enormi. Si parla della luce negli occhi di uno studente che ha ritrovato la motivazione per studiare, del sorriso che compare quando un concetto impossibile è finalmente afferrato, della risata gioiosa di un bambino rifiutato che è accettato dal gruppo, dei sorrisi pieni di gratitudine, degli abbracci e dei “grazie” di genitori riconoscenti, di un biglietto di ringraziamento scritto da uno studente “perduto” che invece decide di continuare e di farcela, della soddisfazione interiore che si prova sapendo di aver fatto la differenza, di aver fatto qualcosa che conta veramente, di aver lasciato un segno indelebile per il futuro, per così tante persone, per così tanto tempo. A volte nella vita, mettere come limite il non limite, induce ad andare avanti oltre l’apparente confine, e scoprire, con gioia, che al di là della lotta tra il bene e il male c’è molto di più: C’è la vita.
Saluti, Giuseppe Felaco

Caro Giuseppe,
la tua lettera, che riporto per intero, è un bombardamento di stimoli, e il “problema” è che condivido tutto quello che scrivi. Per cui mi sono lasciato bombardare con piacere vero…
E che dire? Riprendendo il tuo titolo e tornando a quarant’anni fa: “Siate realisti, chiedete (o sognate) l’impossibile”.

La normalità, tra rappresentazione e realtà – Superabile, Agosto 2011 – 2

Il 21 marzo u.s. si è celebrata la Giornata mondiale delle persone con sindrome di Down che quest’anno, almeno in Italia, si è svolta all’insegna dello sport per tutti. L’attività ludico-sportiva è stata da tempo individuata come potente motore d’integrazione sociale: sport adatto, sport adattato, sport inventato, sport per tutti… il binomio disabilità-sport può assumere molteplici sfumature, tutte da approfondire e tutte, con i rispettivi limiti, volte a produrre un’accelerazione del processo di integrazione sociale. Di ritorno, anche per chi disabile non è, un’immagine dello sport svincolata da tutte quelle incrostazioni che tendono a ridurlo a qualcosa di molto meno multiforme e piacevole di quanto potrebbe essere.

Discorso lungo, ma che vale sempre la pena ribadire, dal momento che i più associano lo sport per disabili a quelle poche occasioni in cui lo stesso viene mostrato, solitamente si tratta di grandi eventi, con atleti professionisti che "rispettano" standard di eccellenza, performatività e tensione agonistica che spesso ha poco da invidiare a quelle degli atleti normodotati. A Roma è stato presentato il Vademecum, a cura di Fisdir e CoorDown, dal titolo "Orientamenti sulla pratica sportiva per gli atleti con sindrome di Down". CoordDown che, a fine 2010, si è aggiudicato il primo premio della terza edizione del "Pubblicità Progresso ONP Award", assegnato al miglior spot di comunicazione sociale: lo spot è veramente ben fatto e, partendo da un’idea ed una messa in scena semplici, riesce a comunicare a tanti livelli e in profondità.

Questo per ricollegarci ad una seconda notizia che ho appreso sempre in quei giorni, relativa ad un programma per la prima infanzia della Bbc che, in realtà, sono già diversi anni che viene mandato in onda. Si intitola "Something special Out and About" e prevede che, ad intrattenere i piccoli spettatori, ci siano bambini con disabilità (per lo più con sindrome di Down). Ovvero che le persone disabili figurino come animatori, cioè che siano loro a "fare qualcosa per" e non a "ricevere qualcosa da". Come scrive nel suo "Blog" Matteo Schianchi, in relazione alla trasmissione inglese, "Quando si mostra la disabilità al di fuori dei codici (cui siamo più abituati, N.d.r.) che in fin dei conti producono sottocultura, la si può mostrare come dimensione che fa parte del mondo, degli adulti come dei bambini. La rappresentazione della disabilità può diventare ordinaria e abituale senza dover essere necessariamente un "evento speciale", un "momento particolare", con ospiti "speciali", storie "speciali e straordinarie".

Mi è tornato in mente quando, pochi giorni dopo la Giornata mondiale, in una qualsiasi domenica pre-primaverile, mi sono trovato in un normalissimo bar di provincia, popolato da vecchi che si dividevano tra le immagini delle partite di calcio, animate partite di tresette e… stavo per dire la coppia di ragazzi Down che si scambiavano baci seduti ad un tavolo del locale. Invece, la cosa interessante era che quei vecchini ad essi non prestavano attenzione, come probabilmente avrebbero fatto con qualsiasi altra coppia che avesse scelto quel luogo per passare un po’ di tempo in intimità. Ho pensato che sarebbe stato a sua volta un ottimo spot (anche se mai realizzato) d’integrazione ed un’ottima notizia, anche se non "faceva notizia". Ed era questa la sua forza, non essere notizia, ma realtà (però è stato difficile resistere alla tentazione di non filmare con un discreto e subdolo telefonino…). Tanto la realtà quanto la rappresentazione che se ne può dare (senza mistificarla), stretti per una volta in un rapporto felice, possono darci esempi molteplici di quanto sia assurdo stabilire confini, limiti, divieti. Soprattutto se a determinarli è sempre la "parte sana" della società.

Claudio Imprudente

Tutta questione di pietre – Il Messaggero di sant’Antonio, Settembre 2011

Molti termini, con l’andare del tempo, subiscono destini diversi e da loro indipendenti. Alcuni non vivono più nella quotidianità scritta o orale, oppure agonizzano, sopravvivendo al massimo come voci del dizionario. Altri, invece, continuano a essere utilizzati, ma con accezioni del tutto diverse, andando a riferirsi a «oggetti» del mondo reale per i quali non erano stati inizialmente pensati. Spesso, poi, l’uso distorto dei termini ne svuota la potenza originaria.
Prendiamo la parola scandalo: l’utilizzo corrente le ha progressivamente tolto forza e pregnanza, relegandone la sfera significativa a fatti mondani, magari associati alla sfera sessuale. Peraltro sono fatti che scandalizzerebbero ben pochi, se non fossero costruiti ed enfatizzati ad arte. D’altra parte scandalo non è solo un termine, ma anche una pratica, perché non può esistere scandalo senza che qualcuno o qualcosa lo produca (o, come abbiamo visto, lo costruisca e imponga «narrativamente»).

Per me, d’altronde, si è trattato spesso di darne (si dà scandalo, nel linguaggio comune) involontariamente, per il semplice fatto di occupare uno spazio in un dato tempo, senza altro fare, solo con la mia presenza.
Ma non è questo il punto. La parola scandalo deriva dal greco skàndalon, che significa trappola, inciampo, molestia. Indica anche un qualsiasi impedimento messo sulla via e che causi a qualcuno una caduta: una pietra d’inciampo.
 
Come ricorderete, la parola pietra, con un’altra accezione, è presente nel Vangelo, ripresa dal Salmo 117. È Matteo 21,33-43 a parlarcene, al termine della parabola dei vignaioli assassini, quando Gesù dice: «Non avete mai letto nelle Scritture: “La pietra che i costruttori hanno scartato è diventata la pietra d’angolo; questo è stato fatto dal Signore ed è una meraviglia ai nostri occhi”? Perciò io vi dico: a voi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che ne produca i frutti». La pietra d’inciampo e la testata d’angolo a prima vista hanno poco da condividere, e tuttavia ci danno la possibilità di costruire un’associazione imprevista. La pietra scartata mi ha sempre fatto pensare a un manufatto mal riuscito e all’apparenza inservibile, inutilizzabile. Potrebbe essere la definizione perfetta per indicare una persona con deficit, la cui disabilità trasforma in una copia imperfetta e debole. Il lungo e travagliato percorso teso a realizzare un’integrazione effettiva ha cercato di «promuovere» la persona disabile, facendola diventare, da pietra scartata, persona sociale, un punto di forza del tessuto comunitario, tanto quanto lo sono o dovrebbero esserlo tutti gli abitanti di questo mondo.
 
Questa distanza tra scarto e pietra angolare ha tanto più possibilità di essere colmato quanto più la persona disabile sa essere ragione e produttrice di scandalo. Sia chiaro, non si tratta di essere scandalistici, ma – come scrivevo sopra – di incarnare la forza originaria del termine: essere quindi soggetti generatori di molestia, fastidio, essere pietre d’inciampo e, quindi, ispiratori di riflessioni e cambiamento. Ho pensato a questo nei giorni precedenti al conferimento della laurea honoris causa che l’Università di Bologna mi ha assegnato a maggio. Quel conferimento avrebbe dovuto funzionare da elemento generatore di fastidio nei confronti di educatori, politici e genitori che non credono che «un vegetale» sia in grado di far progredire i contesti nei quali si trova a vivere e operare, e che non prestano la dovuta attenzione alla realtà e all’attualità delle abilità diverse.
Gesù è stato allo stesso tempo pietra scartata, pietra d’angolo e pietra dello skàndalon. E voi che pietre siete? Scrivete a claudio@accaparlante.it o sul mio profilo di Facebook.
 

Il welfare non è un lusso – Superabile, giugno 2001 – 1

Sono già tante le persone che hanno sentito l’esigenza (e alcuni anche il dovere professionale, in risposta ad un caso in cui il rigore deontologico non è stato esattamente rispettato) di esprimersi in merito alla copertina (e al contenuto dell’articolo) dedicata dal settimanale Panorama alla questione dei falsi invalidi. Riassumendo, con le parole di Franco Bomprezzi: "Il titolo non ammette sfumature: Scrocconi. L’immagine non potrebbe essere più chiara: una carrozzina stilizzata, su cui siede un Pinocchio altrettanto stilizzato. Il sommario che rimanda a un’inchiesta "esclusiva" recita così: Invalidità inesistenti, certificati falsi, pensioni regalate. Ecco chi sono i furbi (e i loro complici) che fregano l’Inps. A nostre spese". L’argomento torna sotto i riflettori ciclicamente, a cicli brevi, peraltro, e in forme solo lievemente diverse. Se non ricordo male, era durante la scorsa estate che Tremonti sollevò il problema presunto del numero di disabili in Italia, affermando "Questo è un Paese che ha 2.7 milioni di invalidi e 2.7 milioni di invalidi pone la questione se un Paese così può essere ancora competitivo". Da questo presupposto, il tentativo di alzare la percentuale di invalidità utile per accedere al beneficio economico dell’indennità e la promessa di controlli più capillari.

Tornando alla copertina di Panorama, credo che abbia ragione sia chi la critica in modo netto e risoluto, sia chi invita ad una lettura più sobria delle probabili intenzioni di chi ha pensato la copertina stessa (come scrive una lettrice di Superabile, "Mi sembra giusto precisare che la copertina rappresenta un Pinocchio in carrozzina. Ora, essendo Pinocchio il bugiardo per antonomasia, mi verrebbe da pensare esattamente che Pinocchio si siede su quella sedia non avendone necessità/diritto (a seconda dei punti di vista). Ovvero come falso invalido. Stando così le cose non ci vedo assolutamente niente di male". Per cui la copertina dovrebbe "offendere" solo chi invalido non è e, in un certo senso, raffigurando Pinocchio, marcherebbe una distanza, una differenza tra i "falsi" e i "veri", favorevole quindi a questi ultimi. Ammetto che la copertina del settimanale è equivoca e non mi meraviglierebbe che lo scopo di chi l’ha pensata e realizzata fosse proprio quello di creare questa ambiguità, di giocarci, e probabilmente in questo momento starà sorridendo leggendo tutte le critiche che gli sono piovute addosso e che si è, letteralmente, cercato. In fondo, quello che fa spettacolo, oggi, è sempre ben accetto.

Comunque, la cosa poteva essere gestita meglio, mi sembra un modo scorretto di fare giornalismo e informazione da parte di un periodico nazionale che ha una grande visibilità: il lavoro giornalistico dovrebbe aiutare a "dissolvere un po’ di nebbia", non, come invece fa questa copertina, a creare maggiore ambiguità e a frapporre ostacoli ad una comprensione più limpida e ragionata. E, in ultima istanza, attriti, diffidenza, distanza tra persone e "categorie" (molto bello il riferimento di Bomprezzi allo scarto che ha ravvisato tra un momento di maggiore unità del paese legato al 150° anniversario e questo tentativo di dividere, di complicare la convivenza sociale. Così come è puntuale la sottolineatura della coincidenza tra difficoltà economica generale e individuazione di alcuni elementi deboli sui quali "scaricare le tensioni sociali", secondo una logica già applicata nei momenti peggiori della storia del secolo scorso). Ma ritengo più urgente porre l’attenzione su un altro punto, in qualche modo legato a questo, ovvero sul progressivo arretramento dello Stato e delle istituzioni pubbliche rispetto alla garanzia e alla gestione o finanziamento dei servizi socio-sanitari (ed educativi, come abbiamo avuto modo di scrivere più volte). Una tendenza più ampia e grave dei problemi che poche persone (in percentuale) in malafede creano ai tanti che hanno effettivamente diritto a determinati benefici (i "veri" invalidi, per intenderci). Emblematico il caso della regione Campania, al quale i giornali e i mass media più importanti non hanno dato grande rilievo: si può fare cattivo giornalismo, anzi, si fa un giornalismo peggiore, soprattutto quando si evita di dare determinate informazioni, piuttosto che quando si danno informazioni imprecise o tendenziose, strumentali su un argomento. Semplicemente omettendo, silenziando. In Campania molti servizi sociali importantissimi sono a rischio: più precisamente, duecento tra cooperative e associazioni, ovvero venti mila operatori in tutta la Campania, sette mila solo nel capoluogo.

Vantano crediti con enti locali e Asl per 500 milioni e rischiano l’asfissia, dal momento che anche le banche hanno cessato di erogare crediti. Per i servizi essenziali si prospetta una riduzione drastica. Per contrastare questa situazione si è formato un comitato, dal nome evocativo e rivelatore di una verità sacrosanta, "Il welfare non è un lusso", che da diversi mesi, attraverso iniziative e dimostrazioni più o meno eclatanti, cerca di contrastare lo stato di cose esistente (e quello che, con certezza quasi piena, si attende per il futuro). Se il caso campano presenta tratti emergenziali che lo distinguono da altri presenti nel resto d’Italia (dato anche la condizione "sociale" complessiva della regione), la situazione si avvia a diventare drammatica anche in altre regioni. Un arretramento da parte delle istituzioni pubbliche che non potrà che condurre ad una progressiva privatizzazione dei servizi, che, in quanto tale, escluderà dagli stessi chi non potrà permetterseli e spingerà verso un ritorno a politiche di stampo meramente assistenzialistico; vanificando, così, il lavoro che tantissimi soggetti hanno cercato di portare avanti in questi anni. Occorre seguire con attenzione questa deriva e dare voce, quanto più possibile, a chi cerca di opporsi ad essa. E’ una questione di civiltà.

Scrivete a claudio@accaparlante.it o al mio profilo di Facebook.

Claudio Imprudente

Una ricerca che invita alla ricerca – Superabile, luglio 2011 – 1

Raccogliere, elaborare e ricostruire dei dati statistici (con i significati che i "freddi" numeri sottintendono e che vanno, appunto, portati alla luce, ricomposti) non è un’operazione semplice. Ancora prima, non sono di facile realizzazione, né privi di conseguenze, gli strumenti di indagine di cui ci si dota per esplorare l’ambito di interesse della ricerca. Il modo in cui si pone una domanda, il fatto che questa dia la possibilità di una risposta aperta o meno, il fatto che a raccogliere le risposte sia una persona piuttosto che un modulo silenzioso compilato in solitudine, ecc ecc, ecco, tutti questi fattori hanno un’influenza importante sull’esito finale del lavoro, quello che poi raggiunge il pubblico, lo informa, lo influenza. E dà lui la possibilità di criticare quegli stessi dati.

Mi sembrano considerazioni preliminari opportune, per quanto non esaustive. Chi abbia sostenuto un esame di scienze statistiche, per quanto di basso livello, capisce bene quello che intendo dire. E, comunque, farlo presente in un mondo in cui ai sondaggi ci si rivolge e ci si sottopone massicciamente come uno degli strumenti conoscitivi della realtà che ci circonda, il più delle volte dando per scontato che siano strumenti neutri di interpretazione del mondo, lo ritengo un gesto deontologicamente adeguato.

Inoltre, i sondaggi non terminano la loro funzione nel momento in cui conosciamo i loro risultati, perché in base a questi vengono poi prese decisioni che influiscono sulle nostre vite in maniera più o meno diretta. Queste riflessioni sono tanto più vere se riferite a ricerche che interessino soggetti c.d. deboli. In questo caso un minimo di prudenza in più va indubbiamente preso. Infatti, quasi mai l’esposizione di una ricerca che riguardi persone con disabilità passa liscia e inosservata; il più delle volte stimola riflessioni critiche, spesso proteste squillanti. E’ successo anche in occasione della presentazione del rapporto di Associazione Treelle, Caritas e Fondazione Giovanni Agnelli su Gli alunni con disabilità nella scuola italiana. Bilanci e proposte.

Alcuni dati sono indiscutibili: si assiste ad un costante aumento degli alunni disabili in tutti gli ordini e gradi di studio: dai 138.600 dell’anno scolastico 2001/02 si è passati ai 178.200 del 2005/06, fino ai 200 mila del 2009/10: in dieci anni 62 mila unità in più (+45%). L’incidenza degli alunni disabili sul totale degli studenti italiani cresce dall’1,59% al 2,24%. Tra gli elementi critici segnalati dal Rapporto e che già si pongono come una "rielaborazione" dei dati raccolti, si devono mettere in rilievo l’eccessivo e improprio allargamento della legge 104, per cui verrebbero certificati anche alunni che presentano svantaggi che non sarebbero assimilabili ad una disabilità e, punto importante, l’eccessiva rigidità con cui verrebbe attivato il rapporto "presenza di una disabilità-assegnazione di un insegnante di sostegno", nodo problematico che si lega a quello che il Rapporto definisce criticamente «approccio prevalentemente medico». Inoltre, sempre stando al lavoro svolto da Treelle, Caritas e Fondazione Agnelli, il posto di insegnante di sostegno verrebbe inteso come «percorso privilegiato per entrare più rapidamente in ruolo: e dopo cinque anni si ha diritto a tornare sul posto normale». Ancora, gli insegnanti curricolari non sarebbero coinvolti nel processo di integrazione e sarebbero ancora meno formati di quelli che, almeno per alcuni anni, si "dedicano" al sostegno, rispetto alla didattica speciale. Difficoltosi, confusi e macchinosi sarebbero anche i rapporti tra Servizio Sanitario e servizio scolastico, generando così una collaborazione ed un coordinamento scarsi ed inefficaci.

Ho scritto pochi mesi fa in senso critico rispetto all’equazione "certificazione=sostegno", è ovvio che come principio non può trovare applicazione automatica: resto però dell’idea che la figura dell’insegnante di sostegno possa davvero essere un punto di forza per l’alunno disabile e per tutti i suoi compagni. Il peso di questa figura, la qualità della sua presenza vanno costruiti, caso per caso, ambiente per ambiente. Vanno costruiti, appunto, non sostituiti. Tenendo presente che spesso, e forse questo i dati lo omettono, si assiste ad una mancata attribuzione del sostegno o ad un’attribuzione con un numero di ore insufficienti a renderlo efficace.

Quando si fa presente che raramente l’insegnante di sostegno resta "sul" bambino per più di un anno, ecco, allora occorre lavorare a livello legislativo e amministrativo per garantire una continuità che sia in grado di dare senso al sostegno stesso. Detto tra parentesi, il problema della continuità riguarda dolorosamente anche gli/le insegnanti curricolari dei vari ordini di studi. E tra le proposte avanzate dalla ricerca, che per prima individua questo problema, mi sembra che non ci sia traccia di suggerimenti in tal senso.

Quando si sottolinea l’inadeguata formazione e specializzazione degli insegnanti di sostegno, di nuovo, non è opportuno ragionare sull’estinzione di quel ruolo, ma moltiplicare le occasioni formative. Certo, il Centro Risorse Integrazione delineato dalla ricerca potrebbe essere un importante "fornitore" di formazione specializzata, un centro di raccolta di professionalità ed esperienze positive da valorizzare e promuovere, ma sono piuttosto scettico sul peso che la ricerca attribuirebbe al Centro stesso, che si configurerebbe come un dispensatore di indicazioni, risorse e figure professionali dall’alto. Le situazioni vanno, al contrario, valutate e affrontate sempre dal basso. In definitiva, anche se il rapporto di Associazione Treelle, Caritas e Fondazione Giovanni Agnelli tocca tanti altri punti, ritengo che i nodi critici individuati e di cui ho trattato brevemente siano rappresentativi dello stato delle cose attuale, ma che in merito alle soluzioni proposte occorrerebbe una consultazione più profonda di chi la scuola la vive direttamente ogni giorno ed una valorizzazione maggiore di quanto (e di chi e del modo in cui) già c’è. Senza nascondere difficoltà, punti oscuri, mancanze strutturali e dei singoli docenti. La ricerca ci invita a riflettere e a confrontarci: se volete condividere le vostre proposte e i vostri pareri, scrivete come sempre a claudio@accaparlante.it o cercate il mio profilo su Facebook. (Claudio Imprudente)

(21 luglio 2011)

Lettere al direttore

Risponde Claudio Imprudente

Salve,
sono Agnese, l’insegnante di scuola primaria che le ha già scritto qualche mese fa per farle i complimenti per il libro “Il principe del lago”.
Volevo annunciarle (con immensa gioia!!!) che da oggi è partito il laboratorio di lettura del suo libro nella mia classe, come le avevo anticipato che mi sarebbe piaciuto fare!
Purtroppo il tempo che riesco a dedicare al libro è davvero poco insegnando molte materie nella stessa classe (mezz’ora al venerdì) ma mi sono imposta di non lasciar scappare nemmeno un venerdì. I bambini sono molto entusiasti e l’inizio è già pieno di aspettative da parte di tutti loro (maestra per prima!); in classe riusciamo a staccare da tutto il resto, spegniamo le luci, abbassiamo le persiane e accendiamo una piccola candela. I bambini rimangono in silenzio, qualcuno ride durante qualche dialogo… e tutti già non vedono l’ora che arrivi venerdì prossimo.
Sono convintissima per il laboratorio, per molte ragioni: innanzitutto i bambini si prendono in giro con sempre più facilità negli ultimi tempi, e anche se la diversità per cui forse era stato pensato il libro non era questa, penso che comunque loro ci possano riflettere molto. E poi c’è un alunno che ha un fratello autistico, e forse (speranza vana?) riuscirà ad aprirsi con i compagni riguardo questa sua esperienza.
Può darsi che il tutto non le interessi più di tanto, ma i miei alunni sono entusiasti davvero e io felicissima!
Grazie mille ancora per la sua fantasia!
Agnese e classe 2a.

Aloha Agnese, a te e soprattutto a tutti i tuoi allievi. Lo sai che quando ho ricevuto la tua lettera mi sono sbellicato dalle risate?! Mi chiedevo anche se non si stesse scherzando… Poi però ho iniziato a immaginare. Immaginavo una vecchia chiesetta in campagna…sai di quelle un po’abbandonate, di quelle così buie in cui quando entri per i primi cinque minuti non riesci a distinguere i contorni delle cose? Poi, man mano che i tuoi occhi si abituano all’oscurità, sono proprio le candele accese i primi oggetti a prendere forma e a stagliarsi nel buio. Un flash: da bambino rimanevo affascinato – anzi, sedotto – da questa ambientazione, e contemplavo incantato la fiamma che faceva colare lentamente la cera sul candelabro. Sono convinto che i tuoi bambini respirino la stessa magia… Sai, una candela è come “la Vecchia Romagna che crea l’atmosfera”! Battuta pubblicitaria a parte, credo che il tuo laboratorio sia ben studiato e che in questo modo i bambini possano davvero annusare il profumo della cera che si scioglie lentamente e rimanerne inebriati. Allo stesso modo l’educazione alla diversità può fondersi con le potenzialità dei bambini e dare colore e sapore all’esistenza di ognuno. Questo è il ruolo della scuola, che deve saper creare l’atmosfera giusta.
E che dire? Io bevo Vecchia Romagna, e buona atmosfera a tutti.

Caro Claudio,
ti ho rivisto con grande piacere al Palahockey di Reggio Emilia. Come ti ho detto alla fine del tuo splendido “show”, tu aiuti la gente a conciliarsi con la vita, ad amarla sempre e comunque. E vorrei che ciò tu non lo prendessi come uno dei tanti complimenti che ti fanno, perché è semplicemente la verità. Incontrandoti un attimo prima di uscire te l’ho detto, tu sei come il vino: più invecchi e più diventi buono.
Ciao, in amicizia.
Realino Ferretti

Vedi, caro Realino – che guarda un po’ fa rima con “vino” – credo che ci sia una certa attinenza tra il piacere di bere del buon vino e la gioia di vivere. Giorni fa ero al cellulare con Marco, il mio amico sommelier, e stavamo disquisendo sui gusti dei vini e sull’importanza di essere felici nella vita. Un buon vino deve invecchiare per anni prima di acquistare determinate caratteristiche. Pure la vita. Un buon vino ha bisogno di tempo per prendere corpo. Altrettanto avviene nella vita. Se la vita non è equilibrata, come lo è un buon vino, perde di sapore e di interesse. Sfugge la bellezza delle sfide. E il sapore della sfida è un sapore affascinante e vellutato, che viene goduto anche dal palato (hai visto che ti ho fatto la rima?!).
Con un po’ di pazienza si può ottenere uno squisito vino frizzante oppure fruttato. Anche la vita pian piano diventa così, e un’ottima vita fruttata… Chi non la vorrebbe?! Se la vita non frutta… falla fruttare!
Come vedi, caro Realino, di punti in comune tra il vino e la vita ce ne sono una marea. Basta avere la botte giusta e la moglie non ubriaca. Altrimenti sono guai.
Cin cin!

Lettere al direttore

Risponde Claudio Imprudente

Gent.mo Claudio Imprudente, buongiorno!
Ho appena terminato di leggere il suo libro sulla “vita imprudente”. Volevo solo dirle grazie per le provocazioni che ha saputo lanciare che hanno “colpito e affondato” il disagio e il senso di impotenza che a volte mi attanagliano nel mio lavoro di insegnante e che mi hanno sorprendentemente rilanciata a orientare lo sguardo partendo proprio dai miei “prediletti” cercando una professionalità che mostri una positività in tutto quel che accade. Io, per il mondo normodotata, mi sono tanto sentita diversamente abile leggendo il suo libro e questa “imprudenza” mi ha molto stimolata!
Grazie ancora! Donata

Che bello tornare ai tempi in cui giocavo a battaglia navale!
Buongiorno, mia cara! Mi fai ricordare le strategie che usavo al liceo, quando giocavo con i miei compagni… li ho colpiti e affondati tutti.
A parte gli scherzi, per me un insegnante deve studiare delle strategie, delle modalità di azione, per colpire e affondare, nel senso buono del termine, ogni alunno. “Colpirlo” nella sua fantasia, nei suoi sentimenti, nel suo linguaggio e nella sua capacità comunicativa e “affondarne” il disagio e l’impotenza, proprio come è successo a te. Un insegnante deve saper giocare a battaglia navale: solo così può imparare diversi stratagemmi e percorsi per entrare meglio in relazione con ogni alunno. Ovviamente, ogni ragazzo ha le navi posizionate diversamente; sta proprio lì la bravura dell’insegnante. Se un docente spara troppi colpi a vuoto è bene che cambi un po’e riadatti ogni volta la sua strategia. Ma a me sembra che tu conosca molto bene le regole del gioco.
Chissà se tutti gli altri insegnanti le conoscono? Se no, sono disponibile a fare un corso di formazione in tecniche di guerriglia navale… intitolato “Stratagemmi Imprudenti”!
Che dire, oggi ci sei e domani… F8.

Carissimo Claudio,
siamo gli alunni della classe 2 D, della Scuola Secondaria di 1° grado “Galileo Galilei” di Pesaro e ti scriviamo con molta emozione.
Anche se non ci siamo ancora visti, grazie al tuo libro Il Principe del lago e alla lettura dei tuoi vari articoli e racconti, ci sembra di conoscerti da sempre.
Per ragazzi come noi, che in questo momento della loro crescita, vivono tante difficoltà e paure, tu sei stato un amico che ha ascoltato, una persona con cui non ci si vergogna del proprio aspetto esteriore e non si teme di sbagliare.
Ci piace il tuo grande ottimismo e la forza con cui affronti i problemi e quelle situazioni che a volte ti fanno soffrire.
A scuola si corre il rischio di parlare solo di integrazione o di “diversabilità”, ma con noi non succede questo…
Infatti è ormai il secondo anno che condividiamo con dei ragazzi “speciali” un laboratorio espressivo e creativo.
All’inizio la cosa ci lasciava perplessi, dubbiosi, imbarazzati…
Invece col tempo, ascoltandoci, osservandoci, divertendoci, siamo andati aldilà di ciò che vedevano i nostri occhi e, come Giangi, abbiamo visto “anche col cuore” e giocato con la fantasia e la creatività.
Oggi possiamo dire di aver scoperto che uno degli aspetti veri dell’amicizia è quello di non etichettare subito le persone, ma cercare in ognuna la parte migliore.
Tutti fanno i conti con le difficoltà e i limiti e non ci si deve vergognare per questo.
Grazie dell’ottimismo e del coraggio che finora ci hai trasmesso.
Siamo ansiosi di incontrarti e ti aspettiamo anche per condividere insieme un po’ dei dubbi e delle nostre insicurezze, fiduciosi nel tuo ottimismo.
Affettuosi saluti, gli alunni della 2D

Aloha ragazzi! Che piacere sentirvi! Stamattina ho aperto la mia e-mail e ho trovato la vostra lettera. Qui è Claudio Imprudente che, assieme a Volaquà e Giangi, vi risponde. Mi sembra che vi stia piacendo il mio libro… e bravi! Ma sapete cosa faccio nella vita? Il cantastorie! E chi è un cantastorie? È una persona affascinante che racconta, cantandole e recitandole, varie vicende. Aiuta le persone, ma soprattutto i bambini, a sognare. Cari bambini, sognare è un’arte che va appresa. E voi che sogni fate più spesso? Vi rivelo un segreto: voi piccoli dovete aiutare gli adulti a riprendere a sognare. Loro sono concentrati sui loro bisogni, non sui loro sogni. C’è una bella differenza tra bisogni e sogni, anche se i due termini si assomigliano… non vi pare? Giangi mi ha aiutato a sognare. Solo chi ha imparato a farlo può costruire un mondo accogliente e a colori. Spesso, infatti, il mondo viene colorato di grigio o, al massimo, di bianco sporco. E questo, come dice il termine stesso, è un colore non proprio candido! E forse puzza anche… come i vostri piedini se non li lavate. E poi il bianco sporco lo distinguete a malapena dal bianco, ma sempre bianco è… solo che è sporco e puzzolente. E in un mondo di tali colori come fareste a distinguere gli occhi di vostro padre da quelli di vostra madre? Come fareste a distinguere i capelli di vostro fratello da quelli del vostro migliore amico? E soprattutto… come fareste a distinguere i gusti del gelato? Il mare dal cielo? Vedete quanto sono necessari i colori? Senza i colori ogni cosa sarebbe uguale alle altre, irriconoscibile. Come i colori, così i cantastorie sono necessari. Infatti, ognuno di essi ha sempre in tasca una tavolozza di colori. Anch’io ne porto sempre una dietro. I miei sono le lettere dell’alfabeto con le quali dipingo il mondo. Per non imbrattare troppo il posto in cui vivo, però, costruisco i miei colori al CDH di Bologna. Lì scrivo i miei libri. Ne ho scritti otto. E a Natale uscirà un altro personaggio… lo sto dipingendo in questi giorni, si chiama Omino Macchìno. Ma di questo non posso anticiparvi niente. Se però volete sapere qualcosa in più sui libri che ho già scritto, e sul luogo in cui costruisco i miei colori, visitate il sito internet www.accaparlante.it. A proposito, sul sito c’è anche un blog. Sapete cos’è? Non è altro che uno spazio, in internet, dove ognuno può inserire le proprie idee e i propri pensieri. Insomma, se volete cominciare a dipingere un po’, quello potrebbe essere il posto giusto per iniziare a farlo. Senza pericolo di imbrattare… il blog è fatto apposta. Ora vi devo lasciare. Vado a pranzo con Giangi e Volaquà… ve li saluto. Ciao, alla prossima. Claudio Imprudente e compagni d’avventura.

Ciao Claudio,
sono Alessia, una ragazza di 16 anni che non comunica con la voce, ma con ausili come il computer, una tastiera di plastica che mi porto in giro. Anch’io, come te, ho bisogno di una persona che mi aiuti a comunicare tenendomi una mano sulla spalla. Insieme al mio facilitatore della comunicazione esprimo il mio pensiero. Conosco come te la lentezza della comunicazione, la limitazione di dover dipendere dagli altri mi fa sentire ingabbiata.
Sono contenta di leggere i tuoi articoli, mi piace il tuo pensiero, è ricco di positività.
Io non mi sento positiva, non voglio più umiliarmi perché le cose che ho dentro mi appartengono e non fa niente se non sono capita dagli altri.
Io posso comunicare soltanto se sento la fiducia e la disponibilità. In questo sono molto fragile soprattutto a scuola. Ciao Claudio.

Ciao bella Alessia,
rispondo con piacere alla tua lettera, perché credo che, scrivendo a te, potrò rispondere contemporaneamente a molte altre persone.
Proprio stasera vado a sentire il concerto di Jovanotti e una delle canzoni che amo di più dice: “Io penso positivo perché son vivo…”.
Ma cosa significa essere vivi? Per me, essere vivi vuol dire, innanzitutto, sfatare il mito dell’autonomia. Nessuno è completamente autonomo: vivendo in società, in pubblico, ognuno è condizionato dall’altro. Da una parte soddisfa alcune necessità altrui, dall’altra riceve beneficio dall’attività degli altri, in relazione a tutte quelle cose di cui ha bisogno e che non potrebbe procurarsi da solo. Ti faccio un esempio: la mattina fai colazione con latte, zucchero e biscotti. Di sicuro, la mucca non ce l’hai in casa; come tutti, vai a comperare il latte. Anche il lattaio non ha la mucca; si rivolge a un allevatore. Tu mi dirai: “Ecco, l’allevatore può fare da sé!”. Ma… non di solo latte vive l’uomo. L’allevatore, come ogni altra persona, deve guadagnare per comperare tutto quello di cui ha bisogno e che non riesce a procurarsi in autonomia. Allora deve vendere il latte delle sue mucche e, per trasportarlo, ha bisogno di un camion. Il camion è costruito in una fabbrica e, nella fabbrica, lavorano molte persone… Magari queste persone non sono su una carrozzina e parlano senza un computer, ma, come vedi, hanno avuto e hanno ognuna bisogno dell’altra.
Come vedi, cara Alessia, siamo tutti inseriti in una rete di relazioni quasi inestricabile, alla quale troppo spesso non pensiamo nemmeno. E, nel mio esempio, mi sono limitato a parlare di rapporti di bisogno e necessità: figuriamoci se volessimo affrontare l’argomento dal punto di vista emotivo e più strettamente relazionale.
Questo significa che si deve avere fiducia nell’altro e questo sarà tanto più semplice quanto prima ci liberiamo da un’idea di autonomia che in realtà è solo apparente.
A presto, Alessia, e ti prego, fidati delle mie parole: non procurarti una mucca… soprattutto se vivi in città.

Lettere al direttore

Risponde Claudio Imprudente

Salve,
sono Agnese Fantin, insegnante di una classe seconda in una scuola primaria nella provincia di Treviso.
Le scrivo per farLe i miei complimenti per il suo libro Il principe del lago.
È strano come io sia giunta a leggere questa favola: non ho acquistato il libro, l’ho trovato per caso nella biblioteca della scuola in cui lavoro. E questo è ancora più strano se penso che nella scuola, essendo privata, non vengono mai iscritti (e penso non verrebbe comunque accettata l’iscrizione) bambini diversamente abili.
È senza dubbio una grave mancanza questa: la scuola di per sé funziona benissimo, le insegnanti sono giovani e motivate, ma si sente molto la mancata presenza di bambini diversabili.
Penso proprio che promuoverò un’attività di lettura nella mia classe del suo libro, nel secondo quadrimestre.
Ancora complimenti e buon lavoro!
Agnese.

Che bello cara!
Tu hai centrato il nocciolo della questione. Credo che una scuola senza diversabilità sia come una pasta al pomodoro senza pomodoro, come il vestito di Arlecchino senza colori, come la birra senza alcool, come una partita di calcio senza il pallone, come parlare senza comunicare. Credo si sottovaluti con troppa semplicità che vivere e frequentare le diversità sin da piccoli sia un’esperienza di crescita fondamentale. Pochi mesi fa un’insegnante mi parlava di quanto si fosse rivelata interessante la presenza in classe di tanti alunni stranieri. Non facile da gestire, inizialmente, per ragioni che si possono facilmente immaginare, a partire dalla difficoltà nel parlare l’italiano, ma capace in breve tempo di arricchire tutti, di fornire occasioni per ragionare su argomenti inaspettati, approfondire alcune materie in modo particolare e più coinvolgente.
Vedi, cara Agnese, non c’è altra possibilità che affrontare la diversità da questo punto di vista, non come problema che richieda l’ennesimo intervento di uno specialista, ma come elemento che contribuisca in modo determinante a creare un clima culturale e “strutturale” nuovo, come dice Andrea Canevaro. E l’incontro con la diversità non può essere solo raccontato, ma deve avvenire in modo non mediato, deve essere una conoscenza e un’esperienza diretta. Per questo non è pensabile una scuola priva della presenza di abilità diverse. Non posso che augurarmi che un giorno la scuola in cui lavori si liberi di questo limite evidente e che sappia fare dell’accoglienza una caratteristica forte della sua identità.
Tu tieni duro, e vedrai che il “clima” cambierà.
Buon meteo a tutti!

Ciao Claudio, mi chiamo Mena sono sposata con Antonio da 23 anni, ha la sclerosi multipla da circa 12 anni, nell’ultimo anno è visibilmente peggiorato. Spesso mi sono imbattuta nei tuoi articoli su “Il messaggero di S. Antonio” e ora stavo navigando in internet, sulle pagine di Superabile e ti ritrovo. Mi piace quello che scrivi, la tua autoironia, il dire le cose senza peli sulla lingua.
Leggi, aiuti, volontariati…: ma dove sono per chi resta in città, in questa torrida estate. Ho fatto la domanda di assistenza integrata per mio marito Antonio, noi non abbiamo figli, io ho 43 anni, lui 47. Fino allo scorso anno l’ho sempre accudito da sola, ma ora che è peggiorato?
Abitiamo a Barra, provincia di Napoli, e come dicevo ho presentato domanda di assistenza il 29 maggio. Dopo vari tentativi di farmi desistere, l’impiegata assistente sociale finalmente ha accettato la domanda. “Avete l’assegno di accompagnamento, mettete qualcuno privato”; “già” ho risposto “se metto qualcuno non bastano 450 euro, ci vuole di più e poi per come sta messa l’assistenza sanitaria, come le pago le tante medicine a pagamento o le visite specialistiche private, di cui dobbiamo usufruire, visto che a volte i tempi di attesa sono lunghi per le visite ASL?”. Non si sono ancora fatti vivi quelli del servizio sociale, tanti BLA BLA BLA per le persone diversamente abili, tante leggi sui diritti, agevolazioni, tanto che se sei un normodotato ti viene il desiderio di essere disabile. Scusa, se ti ho scritto cose che già sai, ma cerco un orecchio che sappia ascoltare e capisca quello che significa. Ti saluto a presto
Mena Buonomo da Napoli.

“L’estate sta finendo e un anno se ne va…” cantavano i Righeira negli Anni ’80.
Quando ascolto questa canzone mi viene una tristezza abissale… È proprio vero che ogni anno l’estate finisce e si chiudono gli ombrelloni.
Il problema però è quando per qualcuno gli ombrelloni non si aprono neanche.
Mi chiedo sempre cosa si faccia in città durante l’estate, quando la maggior parte delle persone se ne va in vacanza e si rimane in quattro gatti. (Ma perché i gatti sono sempre quattro? Mah!).
A dir la verità qualche anno fa mi è capitato di trovarmi in città il 16 agosto.
Oltre al caldo torrido avevo bisogno di andare in bagno.
Ho cominciato quindi a cercarne uno.
Il primo bar… chiuso per ferie.
Il secondo… chiuso per lutto.
La pipì aumenta.
Passiamo ai ristoranti: il primo chiuso per ferie.
Il secondo in ristrutturazione.
La pipì aumenta. Panico!
Vedo un bel portone, proviamo a suonare.
Interno 1: non risponde.
Interno 2: non risponde.
Interno 3: … mi aprono!
Finalmente un bell’atrio dove emulare Benigni nel Piccolo Diavolo… ovviamente con l’ausilio di un bicchiere.
Dove voglio arrivare con questa storia?
Se ci pensi non è tanto diversa da ciò che è capitato anche a te e a tuo marito.
Già i servizi sono limitati, in estate poi sono praticamente assenti.
Se poi ci proiettiamo un po’ nel futuro, la probabilità di ricevere qualche servizio in più diminuisce drasticamente: basta solo pensare alle politiche sociali degli ultimi governi.
Cosa fare allora?
Protestare per richiedere i servizi dovuti?
Lottare per ottenere qualche garanzia in più?
Rivendicare ciò che dovremmo avere per legge?
Sì, indubbiamente è necessario far valere i nostri diritti e ottenere i servizi che ci spettano. Però non basta. È indispensabile anche proporre un’azione concreta coinvolgendo i privati nella creazione di una rete che sopperisca alle mancanze presenti, senza però sostituirsi a chi deve garantire questi servizi ma supportando le situazioni di disagio come la tua.
Il mio augurio per la prossima estate non è solo quello di trovare dei bar aperti… di aperto ti auguro anche di trovare un ombrellone.
Aloa!

Lettere al direttore

Ciao Claudio,
ti scrivo per salutarti. Sono stata a un incontro organizzato da te e dai tuoi colleghi, i primi dello scorso novembre, vicino Vicenza. Volevo avvicinarmi e salutarti, ma già eri sufficientemente preso da altre persone.
Io conosco te, ma tu non conosci me… questa non è una bella cosa. Mi chiamo Roberta, ho 29 anni e vivo a Catania. Mi trovavo a Vicenza perché sto frequentando il corso di abilitazione per il sostegno alla Ca’ Foscari a Venezia.
Come 2° lavoro insegno, già da due anni, Italiano e Latino nei licei; come primo lavoro sono imprenditrice… di una società di formazione post-laurea. Non l’ho fondata io, ma ci lavoro da 4 anni, e pochi mesi fa ne sono diventata socia (eh eh che soddisfazione.. 🙂
Prima ti dico il secondo lavoro e dopo il primo… che cosa strana… forse perché te li ho detti nell’ordine di importanza che questi mestieri hanno per me.
Ti scrivo perché per me è stato un piacere conoscerti, e dato che Tutto, proprio Tutto, secondo me parte dalla Comunicazione, avevo il piacere di dirtelo (poi mi è tornato in mente di salutarti perché poco fa stavo sbirciando sul sito di accaparlante..!)
A te come va?
Immagino sempre impegnato tra le varie cose che segui.
Ti mando un caro saluto. Buon lavoro… e spero che tu mi risponda.
Roberta

Cara Roberta,
nelle notti tempestose, quando la pioggia si mischia alla grandine e picchia sulle mie finestre, faccio sempre lo stesso incubo: mi trovo tra i banchi della scuola superiore, ed entra l’arcigna professoressa di latino, coi suoi occhiali simil-tartaruga al collo. Si siede alla cattedra, e senza nemmeno guardare la classe, scorre col dito artritico il registro. Sto in apnea per non farmi notare, ma non funziona, perché lei a un certo punto dice: “Imprudente! Mi declini il verbo leg?re al tempo perfetto”. Sono atterrito, ma ho passato tutta la Domenica a studiare, non ho nemmeno sentito “Tutto il calcio minuto per minuto”, e quindi sono preparato. Faccio per rispondere, e guardo verso la mia lavagnetta trasparente, ma lei nemmeno mi guarda. Dice: “Allora? Vedo che non si è preparato…”. Mi agito nel banco, vorrei che si alzasse per venire a leggere la mia risposta, ma lei niente. A questo punto del sogno mi sveglio sempre, in un bagno di sudore, mentre la grandine continua a battere sulla mia finestra. Ho soprannominato questo incubo ricorrente “L’incomunicabilità nella comunicazione”. La questione è: la comunicazione a senso unico, è vera comunicazione? Quella professoressa stava realmente comunicando con me? Per farlo avrebbe quanto meno dovuto guardarmi, avvicinarsi, leggere la mia lavagna. Invece lei pretendeva che io comunicassi con lei sullo stesso piano, senza tener conto di quello che era il mio modo di comunicare. Questo per dire che il comunicare cambia a seconda dei mezzi che ciascuno ha a disposizione. Un bravo comunicatore è colui che sa spostarsi su piani di comunicazione sempre differenti, ricordandosi sempre che la comunicazione è biunivoca.
E che dire… bevete tanto lattino, che vi fa bene.
Claudio Imprudente

Carissimo Claudio,
prendo spunto dalla conferenza che abbiamo tenuto insieme a Cuneo per riflettere sul ruolo che hanno i genitori per promuovere l’integrazione dei figli diversabili nella collettività.
I genitori sono coloro che meglio di qualsiasi altra persona conoscono la loro prole. Studiamo e scriviamo proprio per validare scientificamente le narrazioni dei percorsi educativi dei genitori. Facciamo in modo che vengano chiamati nelle scuole, nelle ASL come formatori. Prima una presentazione scientifica in modo che le narrazioni vengano ascoltate con lo stesso rispetto con il quale vengono ascoltati gli esperti (non sono sfoghi o testimonianze ma percorsi scientifici) e poi i genitori narrano. Come Centro Nazionale raccogliamo le narrazioni, le facciamo pubblicare dalla rivista “Handicap&Scuola” e poi organizziamo Corsi di aggiornamento e Convegni in modo che le scuole e le ASL e i Comuni imparino dalle narrazioni dei genitori.
In Toscana il Centro Servizi per il volontariato (CESVOT) ha appena pubblicato tramite l’Associazione Sesto Senso di Siena con Gianni Scopelliti una raccolta di percorsi educativi dei genitori che speriamo vengano utilizzati come formazione dei volontari che si occuperanno dei nostri ragazzi. Così anche L’AIPD di Pisa Livorno con Enrico Barone ha pubblicato nel 2004 una raccolta di narrazioni. Nel 2001 qui a Torino, dove è nata la Pedagogia dei Genitori, è stata pubblicata una raccolta di narrazioni. Tra poco ne uscirà un’altra con esperienze italiane e straniere.
Augusta e Riziero Zucchi

Cari Augusta e Riziero,
che piacere risentirvi! A proposito dei racconti dei genitori, lo sapete che cosa mi diceva sempre mio padre? “Valà Claudio che hai visto un bel mondo!”. Questa frase di mio padre è stata un ritornello per la mia adolescenza: me la ripeteva almeno due volte al giorno. Forse lui non conosceva il vero significato di quello che diceva, o forse vedeva oltre… Ma proviamo a esaminare la frase: “Valà Claudio” è una tipica espressione di sdrammatizzazione della situazione (può essere applicata alle più varie…) quindi sono stato educato a sdrammatizzare. Sdrammatizzare a mio avviso è il sale di una relazione fra genitori e figli, specialmente se il figlio è diversamente abile. Mio padre non era né pedagogista né psicologo, ma ogni volta che pronunciava quella frase mi iniettava ironia pura a piccole dosi. Ma continuiamo l’analisi. “Che hai visto”: qui è chiaro come mio padre mi faceva vedere, fare esperienza, mi portava dappertutto: mare, montagna, città… Con lui ho viaggiato moltissimo, insomma ho percepito che non si vergognava di me, e questo mi ha educato a non avere io stesso vergogna. Altro che pillole di autostima! Ci tengo a sottolineare che tutto questo non è per nulla scontato: ho tanti esempi davanti agli occhi di padri che causa la difficoltà hanno delegato alla madre il rapporto con il figlio. Io ho quindi avuto il grosso vantaggio rispetto ad altri di respirare aria di alleanza fra mio padre e mia madre: un’alleanza che non è altro che la “pedagogia della fiducia”, teoria che il professor Riziero Zucchi porta avanti da molti anni.
“Un bel mondo”: qui sembra esserci l’intoppo: ma come fa un disabile a vedere un bel mondo? È un paradosso! L’educazione al paradosso è una carta vincente perché è un continuo uscire fuori dagli schemi, dai preconcetti e dai pregiudizi. Devo confessarvi che mio padre, assieme a mia madre, mi hanno un po’ “drogato” nel senso che oltre alle iniezioni di ironia, ricevevo anche dosi di positività: tutti questi ingredienti sono racchiusi in una ricetta chiamata “Valà Claudio che hai visto un bel mondo” che mi ha permesso di vedere le mie prospettive non più in bianco e nero ma finalmente a colori! Questa è una ricetta che vale per tutti: basta cambiare nome; perciò tirate fuori il ricettario (non le ricette di Suor Germana) e appuntatevi questa frase: “Valà nomedichivolete che hai visto un bel mondo!”. Ma voi, lo fate vedere un bel mondo ai vostri figli?
Con affetto,
Claudio.

Ciao Claudio carissimo,
ti segnaliamo un’iniziativa che ti vede coinvolto (seppur come citazione!): stanno organizzando Comune di Cagliari “una giornata per i disabili” la terrificante festa al luna park (così almeno un giorno le persone con disabilità possono divertirsi!): tu ci ricameresti su uno dei tuoi teatrini o meglio qualche barzelletta!
Insomma, c’è di mezzo nell’organizzazione anche la consulta comunale delle associazioni di cui facciamo parte (ahinoi, è tutta da costruire perché non funziona per niente), siamo gli unici a esserci opposti con fermezza, come facciamo ormai tutti gli anni (si, sono recidivi) per tutti i motivi che conosci e che condividiamo
Sai quale è lo slogan del volantino? una tua frase!!!! te la riporto integralmente (poi ti faccio scannerizzare l’invito così lo vedi con i tuoi occhi).
Chi ha detto che sono disabile?
Ci sono ricchezze intatte e potenzialità infinite dentro noi cosidetti "handy”.
Voi "normali" non le potete capire e nemmeno lontanamente intuire
Claudio Imprudente
Ma l’ultima frase l’hai mai detta???????
Mah, facci sapere.
Un abbraccio e a prestissimo
Francesca per l’Abc
P.s. w la zuppa gallurese!

Aloa Francesca,
che bello il Luna Park! Chissà poi perché si chiama “Luna” Park? Si potrebbe chiamare anche Sole Park, Fiore Park… ma questo mi sa tanto di Disabile Park. Ho sempre desiderato di sparare ai barattoli di latta, vincere i pesciolini rossi e strafogarmi di zucchero filato. Ma ci saranno tutte queste cose in un parco di divertimenti per disabili? Come sarà fatto? Proviamo a immaginarlo!
Fra i vari stand non potrà assolutamente mancare lo “scaccia la talpa col martello”, ma la testa non sarà di talpa… bensì di bambini Down che sbucano all’improvviso e fanno delle belle pernacchione rumorose! Per le montagne russe il risparmio sarà evidente: non c’è alcun bisogno di vagoni: si mettono i disabili in fila e si attaccano le carrozzelle direttamente alla rotaia! Almeno che servano a qualcosa queste ruote! Peccato che non tutti abbiano una cintura… beh, pazienza! Non si può mica pensare a tutto! Ma il gioco che preferisco in assoluto è “sparare al disabile che sfreccia in carrozzina”: da dietro al bancone devi prendere bene la mira… la parte più divertente è quando riesci a forargli le ruote: se riescono a non cadere rovinosamente, perdono velocità e bloccano la fila con una serie di tamponamenti a catena, poi una volta fermi hai tutto il tempo di stenderli con calma! E la casa degli orrori? Carrozzine indemoniate che investono gli educatori, un enorme disabile tipo Polifemo (dopotutto aveva un occhio solo…) che si dimena e urla, oppure disabili di cera che si animano improvvisamente e ti alitano in faccia, cani per ciechi che diventano mannari e si mangiano il disabile! Sarebbe davvero un’idea originale, non trovi?
In ogni caso io non ho mai detto quella frase che compare sul volantino. Mi spendo a parlare di integrazione e ti pare che possa fare una distinzione fra noi “gli handy pieni di ricchezza” e voi “i normali che non capite”? Devo confessare che leggendo questa frase mi sono sentito un po’ una specie di fenomeno da baraccone… ma questa è un’altra storia! A proposito, quanto facciamo pagare il biglietto d’ingresso?
Aloa!
 

I trent’anni di “ZAC ZAC ZAC”

Come ogni sera, seduti attorno al tavolo della cucina, aspettando di vedere l’unico telegiornale della giornata, ci sintonizziamo su Rai1, e ci accoglie il faccione lampadato di Carlo Conti che ci introduce al gioco finale della ghigliottina. La prima parola, che senza alcuna ragione dimezza il montepremi della campionessa della serata è “4 Agosto”. Subito il mio cervello inizia a frullare, ma l’unico collegamento che mi viene è S. Nicodemo. Cala, spietata, la seconda parola: “77”, e io penso alle gambe delle donne. Ma che nesso ci può essere fra S. Nicodemo e le donne? Non ci voglio nemmeno pensare. La seguente è “Cambiamento”… ancora non vedo alcun nesso logico. La quarta, che finalmente la concorrente azzecca (ma per pura fortuna secondo me) è “30”. Tombola!, penso spazientito, ma cosa sono tutti questi numeri stasera? Il 4 di Agosto, il 77, il 30… sono decisamente confuso.
Provo a fare somme e sottrazioni, cerco di ripescare nei miei ricordi un evento storico avvenuto il 4 Agosto, ma a scuola la storia non era la mia materia forte… Ehi! Proprio la parola scuola mi fa intravedere un lumicino lontano lontano… Che la parola segreta sia… Ma l’ultima delle cinque parole elencate da Carlo Conti mi ributta nel buio totale, perché è “Zorro”. Zorro?! Ma allora ero completamente fuori strada! Io infatti avevo pensato che la soluzione fosse “integrazione”, e fino a qui ci rientrava tutto. Vi interessa il mio ragionamento? Allora, tanto per cominciare il 4 Agosto dell’anno 1977 è stata emanata la Legge sull’integrazione scolastica per gli alunni in situazione di handicap nelle scuole statali; trenta sono gli anni passati da quella data (già trenta?), in cui è iniziato quel processo di cambiamento che sta diventando storia…
Sarebbe tutto più semplice se Zorro non scombinasse i miei piani. Dunque, Zorro era un bandito messicano che difendeva il popolo dalle tirannie del governo. Il suo stile dark con mantello, mascherina, cappello e cavallo nero mi ha sempre affascinato. Ancor più di lui mi ha sempre affascinato il suo aiutante: Bernardo era muto e con la gente faceva finta di essere anche sordo, solo Zorro conosceva il suo segreto così come solo Bernardo conosceva quello di Zorro. Quella di Bernardo era un posizione davvero strategica: fingendo la sordità egli poteva carpire dalla gente informazioni utili senza essere minimamente sospettato. Tra Zorro e Bernardo c’era quindi una grande complicità e una reale integrazione.
Un’altra cosa che mi piaceva molto di Zorro è che lui lascia il segno del suo passaggio… Giusto! Anche l’integrazione lascia un segno! In questi trenta anni l’integrazione ha lasciato migliaia di segni, ognuno dei quali è stato un fondamentale tassello per un cambiamento culturale e sociale. L’integrazione deve lasciare un segno, altrimenti è solamente “inserimento” (in effetti nella parola inserimento non c’è la Z!).
Ecco trovata l’analogia tra Zorro e integrazione… Allora io scommetto sulla mia soluzione! Dopo la suspence ecco Carlo Conti che tira fuori la soluzione dalla busta colorata, lentamente gira il foglio e… Avevo ragione! Peccato, avrei potuto vincere centomila euro!
E voi in questi anni quanti segni avete lasciato? Allora cavalcate il vostro nero destriero Tornado e… ZAC ZAC ZAC a tutti!
 

Lettere al direttore

Caro Claudio,
come è iniziata la settimana? Prima di iniziare con le mie chiacchiere, vorrei dirti che mi è dispiaciuto molto doverti salutare così in fretta, e scomparire dal magico mondo di Marana-thà così rapidamente. Sono di natura malinconica, e da sabato non faccio che parlare di voi!
Veniamo al punto: in allegato ti invio la lettera che ho scritto a Corrado Augias (www.superabile.it/COMMUNITY/Lettere_alla_Redazione/info1340360613.html), per la sua rubrica di letterine de “la Repubblica”. Non ho ricevuto risposta alcuna, e credo che le mie righe non compariranno mai sul giornale. Ma dato che si parlava di Servizio Civile, mi piacerebbe che tu leggessi quel che ho scritto, e mi dicessi se sei ancora convinto che io possa scrivere buone cose!
E poi: ho parlato poco fa col gentile Roberto. Per il Servizio Civile Volontario. Mi ha detto di fare domanda tramite il sito internet di ARCI-Bologna entro fine agosto, di farvi visita al CDH a settembre, entrambe cose che ho intenzione di fare.
Devo rifletterci davvero, anche se so che la domanda non è vincolante.
Forse ti ho già accennato al doppio binario? Da una parte i sogni di cooperazione internazionale, la guerra, i bambini soldato e i diritti umani, ONU, EU e compagnia… E dall’altra la disabilità, come tema su cui riflettere insieme al resto della società, come condizione da prendersi in esame senza pietismi, ma con la consapevolezza che c’è bisogno di cultura, conoscenza, consapevolezza, nonché autoironia e voglia di combattere con parole e fatti, oltre che coi sorrisi. Problema: nel regno della pratica cosa significa? Cosa potrei fare? Sarei davvero in grado di FARE qualcosa al CDH? Come potrei affiancare altri disabili? Come potrei cercare libri sugli scaffali della biblioteca senza impiegarci dalle 6 alle 9 ore per ogni manuale da scovare? Non so, ho tante preoccupazioni. Ma ho tempo per rifletterci, e per chiedere consigli a chi è più saggio di me… Per esempio chiedere consigli al saggio destinatario di questa e-mail!
Bene, spero di ricevere le tue illuminanti riflessioni presto!
Un abbraccio,
Nadia

Carissima Nadia,
della tua visita a Marana-thà ricordo quello che è successo sotto il tiglio, quando Margherita ha chiesto chi poteva dare un’occhiata al bambino e io ho indicato te. Margherita era imbarazzatissima mentre io e te ci siamo messi a ridere.
In quel momento ho apprezzato la tua autoironia.
Mi frulla in testa una domanda: i bambini soldato giocano ai soldatini?
Al di là dell’ironia, mi sembra che tu sia a un bivio: o segui il binario della cooperazione internazionale e investi il tuo tempo per i diritti dei bambini soldato oppure segui il binario che ti porta al CDH e investi il tuo tempo per combattere un’altra battaglia.
Perché in fin dei conti, sempre di combattere si tratta.
Mi spiego meglio.
I bambini soldato giocano con le bombe, i mitra, i fucili e quando giocano a nascondino non devono farsi trovare altrimenti rischiano la vita. Hanno bisogno di qualcuno che insegni loro a fare pace, a combattere un’altra battaglia, quella per i propri diritti: una scuola, una famiglia, un futuro.
Anche a noi del CDH piace giocare e combattere, anzi combattere giocando.
La nostra strategia è la cultura, le nostre bombe sono le animazioni nelle scuole, i nostri mitra sono carichi di documentazione e i nostri fucili sparano informazioni.
E soprattutto noi non giochiamo a nascondino anzi puntiamo sulla visibilità, sulla valorizzazione della diversità…
Se vuoi scoprire cosa c’è da fare… vieni e vedrai.
Bella battuta vero?
A parte gli scherzi, se vieni a trovarci ti raccontiamo come funziona il Servizio Civile da noi così scoprirai che di cose da fare qui ce ne sono tante. Non sarà certo il tuo deficit visivo a limitarti nel fare come non è il mio deficit motorio a limitarmi ad andare in giro per tutta l’Italia.
A proposito, ho un’altra domanda: ma se i bambini soldato giocano ai soldati, giocano con se stessi?
Buon combattimento.

Carissimo Claudio,
ho letto il tuo articolo sulla relazione che diventa melodia.
Mi ha colpito tantissimo perché queste emozioni, questi vissuti li ho assaporati, elaborati e fatti miei in questi anni di iter universitario e come volontaria.
Io sono un’educatrice di comunità, ho fatto per tanti anni le colonie estive con i diversamente abili e queste esperienze mi hanno fatto crescere sia personalmente che professionalmente. L’azione dell’Educatore è caratterizzata dal fatto che deve “vivere con” i tempi in cui si accompagna e convive le esperienze del proprio utente.
La gente con occhi schivi e con timore, dopo averci visto integrati noi in loro e loro in noi, venivano da noi a chiedere, ci volevano conoscere cercando di abbattere quel muro di paura, di diffidenza per entrare così nel “nostro mondo”.
L’educatore come dice la nostra formazione è “una persona avente una professionalità capace di promuovere lo sviluppo delle potenzialità, di crescita personale e di integrazione sociale” attraverso metodi, strumenti e mezzi appropriati soprattutto il “Fare”, “il Saper Fare” e il “Non Fare”. Avere nozioni psicologiche, pedagogiche è molto importante perché permette di capire, aiutare le persone diversamente abili, sapersi relazionare ma anche riuscire a farci entrare nel loro mondo, noi persone normodotate. I loro sentimenti sono più chiari e sinceri dei nostri, presi dal lavoro, dallo studio, dai nostri pensieri alcune volte troppo egoistici.
Non mi potrò mai scordare un giorno, ero a passeggio con la mia amica Alessia avente un deficit fisico e tutti ci guardavano ma non per pietà o per curiosità ma per la serenità che la mia cara amica esprimeva e dava alla gente che le stava intorno, aveva trasformato la sua disabilità in una ricchezza per tutti, per se stessa e soprattutto per le persone care, non era uno stop ma una marcia in più per andare avanti e la sua diversa abilità è stata un insegnamento per tutti. Vorrei ricordarla con affetto grande, purtroppo è scomparsa il 13 agosto 2005.
Importante perciò che l’educatore sia un punto di contatto con il mondo del sociale e gli altri. La curiosità e le domande siano solo l’inizio di un aggancio per vivere la disabilità in maniera nuova e gioiosa.
Cristina De Angelis
Educatrice professionale

Ciao cara Cristina,
che piacere sapere che ti sei trovata in sintonia con la mia melodia.
Hai mai pensato che il termine FARE è composto da due note musicali? FA e RE?
Ma quali caratteristiche ha la melodia del FARE?
È pesante, faticosa, noiosa? Oppure è leggera, vibrante, emozionante?
In sintesi, come dice Adriano Cementano: è lenta o è rock?
Credo sia fondamentale capire la differenza tra queste qualità per poter suonare una melodia piacevole.
Secondo me il FARE è lento quando il sentimento che l’accompagna sfocia nel buonismo, nel pietismo, nel dovere, nel pensare che sei tu quello che educa, quello che sceglie, quello che sa cos’è giusto. Tutti modi di fare che appesantiscono la melodia rendendola sgradevole.
Il FARE diventa rock e quindi si mette realmente in movimento quando smette di essere pura azione e diventa relazione. La melodia rock necessita dello stare, atteggiamento indispensabile per poter creare delle relazioni nelle quali insieme ci si educa, si sceglie e si decide ciò che è giusto. Allora sì che la melodia diventa piacevole, travolgente, affascinante, seducente. Così si crea un contesto dinamico nel quale il FARE, il SAPER FARE e il NON FARE si integrano con lo STARE per formare la nuova melodie dell’integrazione.
Buon rock.
 

Il welfare non è un lusso – Superabile, giugno 2001 – 2

Sono già tante le persone che hanno sentito l’esigenza (e alcuni anche il dovere professionale, in risposta ad un caso in cui il rigore deontologico non è stato esattamente rispettato) di esprimersi in merito alla copertina (e al contenuto dell’articolo) dedicata dal settimanale Panorama alla questione dei falsi invalidi. Riassumendo, con le parole di Franco Bomprezzi: "Il titolo non ammette sfumature: Scrocconi. L’immagine non potrebbe essere più chiara: una carrozzina stilizzata, su cui siede un Pinocchio altrettanto stilizzato. Il sommario che rimanda a un’inchiesta "esclusiva" recita così: Invalidità inesistenti, certificati falsi, pensioni regalate. Ecco chi sono i furbi (e i loro complici) che fregano l’Inps. A nostre spese". L’argomento torna sotto i riflettori ciclicamente, a cicli brevi, peraltro, e in forme solo lievemente diverse. Se non ricordo male, era durante la scorsa estate che Tremonti sollevò il problema presunto del numero di disabili in Italia, affermando "Questo è un Paese che ha 2.7 milioni di invalidi e 2.7 milioni di invalidi pone la questione se un Paese così può essere ancora competitivo". Da questo presupposto, il tentativo di alzare la percentuale di invalidità utile per accedere al beneficio economico dell’indennità e la promessa di controlli più capillari.

Tornando alla copertina di Panorama, credo che abbia ragione sia chi la critica in modo netto e risoluto, sia chi invita ad una lettura più sobria delle probabili intenzioni di chi ha pensato la copertina stessa (come scrive una lettrice di Superabile, "Mi sembra giusto precisare che la copertina rappresenta un Pinocchio in carrozzina. Ora, essendo Pinocchio il bugiardo per antonomasia, mi verrebbe da pensare esattamente che Pinocchio si siede su quella sedia non avendone necessità/diritto (a seconda dei punti di vista). Ovvero come falso invalido. Stando così le cose non ci vedo assolutamente niente di male". Per cui la copertina dovrebbe "offendere" solo chi invalido non è e, in un certo senso, raffigurando Pinocchio, marcherebbe una distanza, una differenza tra i "falsi" e i "veri", favorevole quindi a questi ultimi. Ammetto che la copertina del settimanale è equivoca e non mi meraviglierebbe che lo scopo di chi l’ha pensata e realizzata fosse proprio quello di creare questa ambiguità, di giocarci, e probabilmente in questo momento starà sorridendo leggendo tutte le critiche che gli sono piovute addosso e che si è, letteralmente, cercato. In fondo, quello che fa spettacolo, oggi, è sempre ben accetto.

Comunque, la cosa poteva essere gestita meglio, mi sembra un modo scorretto di fare giornalismo e informazione da parte di un periodico nazionale che ha una grande visibilità: il lavoro giornalistico dovrebbe aiutare a "dissolvere un po’ di nebbia", non, come invece fa questa copertina, a creare maggiore ambiguità e a frapporre ostacoli ad una comprensione più limpida e ragionata. E, in ultima istanza, attriti, diffidenza, distanza tra persone e "categorie" (molto bello il riferimento di Bomprezzi allo scarto che ha ravvisato tra un momento di maggiore unità del paese legato al 150° anniversario e questo tentativo di dividere, di complicare la convivenza sociale. Così come è puntuale la sottolineatura della coincidenza tra difficoltà economica generale e individuazione di alcuni elementi deboli sui quali "scaricare le tensioni sociali", secondo una logica già applicata nei momenti peggiori della storia del secolo scorso). Ma ritengo più urgente porre l’attenzione su un altro punto, in qualche modo legato a questo, ovvero sul progressivo arretramento dello Stato e delle istituzioni pubbliche rispetto alla garanzia e alla gestione o finanziamento dei servizi socio-sanitari (ed educativi, come abbiamo avuto modo di scrivere più volte). Una tendenza più ampia e grave dei problemi che poche persone (in percentuale) in malafede creano ai tanti che hanno effettivamente diritto a determinati benefici (i "veri" invalidi, per intenderci). Emblematico il caso della regione Campania, al quale i giornali e i mass media più importanti non hanno dato grande rilievo: si può fare cattivo giornalismo, anzi, si fa un giornalismo peggiore, soprattutto quando si evita di dare determinate informazioni, piuttosto che quando si danno informazioni imprecise o tendenziose, strumentali su un argomento. Semplicemente omettendo, silenziando. In Campania molti servizi sociali importantissimi sono a rischio: più precisamente, duecento tra cooperative e associazioni, ovvero venti mila operatori in tutta la Campania, sette mila solo nel capoluogo.

Vantano crediti con enti locali e Asl per 500 milioni e rischiano l’asfissia, dal momento che anche le banche hanno cessato di erogare crediti. Per i servizi essenziali si prospetta una riduzione drastica. Per contrastare questa situazione si è formato un comitato, dal nome evocativo e rivelatore di una verità sacrosanta, "Il welfare non è un lusso", che da diversi mesi, attraverso iniziative e dimostrazioni più o meno eclatanti, cerca di contrastare lo stato di cose esistente (e quello che, con certezza quasi piena, si attende per il futuro). Se il caso campano presenta tratti emergenziali che lo distinguono da altri presenti nel resto d’Italia (dato anche la condizione "sociale" complessiva della regione), la situazione si avvia a diventare drammatica anche in altre regioni. Un arretramento da parte delle istituzioni pubbliche che non potrà che condurre ad una progressiva privatizzazione dei servizi, che, in quanto tale, escluderà dagli stessi chi non potrà permetterseli e spingerà verso un ritorno a politiche di stampo meramente assistenzialistico; vanificando, così, il lavoro che tantissimi soggetti hanno cercato di portare avanti in questi anni. Occorre seguire con attenzione questa deriva e dare voce, quanto più possibile, a chi cerca di opporsi ad essa. E’ una questione di civiltà.

Scrivete a claudio@accaparlante.it o al mio profilo di Facebook.

Claudio Imprudente

Giocare insieme, in spiaggia – Il Messaggero di sant’Antonio, luglio-agosto 2011

Nonostante abbia vissuto, da testimone e parte in causa, un periodo in cui di persone disabili in giro se ne vedevano ben poche, i miei genitori non mi hanno mai sottratto alla vista del mondo. Anche se, spesso, l’unica persona in carrozzina che incontravo era… la mia immagine riflessa su una vetrina. Tra i tanti luoghi che mi permettevano di frequentare, nel periodo estivo c’era ovviamente il mare, la spiaggia. Piacere e necessità al tempo stesso, perché Bologna d’estate tende all’afoso: la migrazione verso i lidi consente allora un po’ di ristoro, all’insegna del divertimento e della spensieratezza.
Spiagge piene di persone e possibilità concreta, per me, superata la diffidenza iniziale di molti genitori, di conoscere e farmi conoscere da tanti bambini, più o meno coetanei. E di condividere con loro, nei limiti del possibile, la maggior parte dei momenti di una giornata balneare. A ben pensarci, però, non è – e soprattutto non era – così semplice immaginare cosa possa fare un bambino in carrozzina su un terreno sabbioso. Con altri bimbi che a quell’età girano come trottole, corrono, si spintonano, si tirano l’acqua… Come superare i limiti intrinseci alla mia stessa presenza al mare, senza rinunciare al gioco e al divertimento, alla pari degli altri?
 
Prendiamo una di quelle attività che più uniscono i bambini anche quando non si conoscono: il gioco delle biglie (con foto di ciclista dentro, al tempo), uno dei più potenti motori di inter-aggregazione e conoscenza reciproca che ricordi per quell’età. Bene: niente di più complicato, per chi è nelle mie condizioni fisiche, che praticare quel gioco. Ma a me piaceva troppo vedere Bartali, Coppi, Merckx, Anquetil, Fignon, Bugno, Indurain, e soprattutto Franco Bitossi detto «cuore matto», rotolarsi, inseguirsi, andare in fuga, tentare un allungo in fantastiche tappe di montagna (al mare); mi divertiva guardarli prima a testa in giù, poi in su, poi a destra, poi a manca… e mi piaceva farlo insieme agli altri.
Però, se non si è parte in causa in qualche modo, è difficile che possano crearsi le condizioni per una vera condivisione: si resterà fuori da quell’intimità che si crea solo facendo qualcosa assieme. Che è molto piacevole e lascia un ricordo vivido, intenso. Sapete che stratagemma trovammo, io e i miei compagni di gioco estivi e semisconosciuti? Quello di utilizzare la mia carrozzina per realizzare la pista da gioco stessa (il bigliodromo), con un vantaggio doppio: la precisione delle traiettorie e il fatto che a ogni passaggio delle mie ruote si creavano due corsie perfettamente parallele, così che le possibilità e le combinazioni di gioco e di creazione della pista si moltiplicavano.
 
A quel punto non era così importante che io non riuscissi a spingere fisicamente il mio ciclista su per una salita o a fargli fare una parabolica a piena velocità: avevo contribuito a creare quel momento di vita, quel piccolo mondo transitorio, evanescente e condiviso insieme agli altri, e questo era già abbastanza (molto, direi) per riuscire ad avere con loro un rapporto più pieno.
Questo per dire, con leggerezza estiva, che la possibilità di creare integrazione, allora come adesso, passa attraverso mille strade e mille gesti, molti dei quali sono piccoli, forse, e relativi e adatti solo a un preciso periodo della vita (anche le persone disabili evolvono e cambiano…), ma che si connotano, tutti, come azioni comuni e reciproche. Le vie dell’integrazione sono infinite. Anzi, le piste dell’integrazione sono infinite.
Buona estate a tutti, e raccontatemi che piste avete costruito e che ciclisti avete portato alla vittoria in questa calda stagione. Come sempre, potete farlo scrivendo a claudio@accaparlante.it o sul mio profilo di Facebook. Ci «leggiamo» a settembre.