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autore: Autore: Claudio Imprudente

Babbo, ci sei o ci fai? – Superabile

O caro Babbo,
il Natale si avvicina (ecco perché ti chiamano Babbo Natale), come è messa la slitta? È pronta? Quest’anno anch’io ho deciso di dotarmi di sci al posto delle ruote, ora mi sto organizzando per le renne.
Devo dire che quest’anno sono stato buono…d’altra parte, come potrebbe essere cattivo un disabile? Infatti è difficile far passare l’immagine del disabile come di una persona cattiva: la disabilità è sempre associata all’essere buoni. Non per fare polemica, ma ti sei mai chiesto come mai la “maratona” di Telethon avvenga sempre proprio quando tu stai per mettere in moto la slitta? Bando alle ciance! Vado qui di seguito ad elencare i doni che ho giustamente e faticosamente meritato in questi mesi.
Tanto per cominciare voglio che la gente impari a ballare il tango (che come dice Luca Carboni, nella vita serve sempre). Ma tu dirai: “Per tutte le renne! Che significa tutto ciò?”. Significa, caro Babbo, che il tango per me è il simbolo dell’integrazione. I due ballerini hanno ruoli molto diversi: è quasi una lotta, ma molto seduttiva, dove l’uomo è predatore e la donna preda. Ma è dal contatto dei corpi che nasce la danza, l’integrazione è un intreccio di identità di ruoli e di storie. Se la gente non impara il tango, non può fare integrazione.
La mia seconda richiesta è…. Rullo di tamburi…. Uno sfigometro! (alias misuratore di sfiga) uno strumento utilissimo per misurare il tasso di sfiga di ognuno.Vorrei vedere se un disabile è veramente così sfigato, o se per caso non sia colpa dell’immagine stereotipizzata che la gente ha della disabilità. Uno sfigometro è essenziale…il mio si è rotto…chissà come.
Come terzo regalo, invece, volevo chiedere se fai ancora quegli omogeneizzati al gusto di fiducia… Mandamene un bel po’, così i bambini potranno crescere ricchi di autostima. Invece non me ne portare più al gusto ironia e fantasia, perché di quelli ne ho ancora una bella scorta nel mio sgabuzzino segreto. Credo che tutti noi abbiamo degli sgabuzzini segreti, è che spesso non ci ricordiamo di averli, oppure ne abbiamo perso la chiave.
Cosa ne dici di regalarmi anche dei grandi pennarelli rossi indelebili, per segnare tutti i gradini, tutte le porte e gli ascensori troppo stretti? Per delle grandi barriere…grandi pennarelli (disse il cinghiale)! Ma per vedere i grandi segni fatti da grandi pennarelli, occorre una grande lampadina.
Infatti, per concludere la mia lista, ti chiedo delle lampadine alla creatività, che possano, con la loro luce, diminuire l’handicap. Più creatività c’è, più facile sarà superare gli ostacoli.
Chissà quante lampadine, quanti pennarelli, quanti omogeneizzati e quanti corsi di tango ti saranno stati richiesti quest’anno, ma io ho la precedenza in quanto esperto di disabilità.
Ora ti devo salutare, e a proposito, cosa fai esattamente da Gennaio a Novembre? Perché non facciamo insieme un bel corso di tango? Aspetto un invito… mi trovi su claudio@accaparlante.it. Che dire? A te buon lavoro, a noi buon Natale!
Claudio Imprudente.
 

Occhio alla barrierina d’oro – Superabile

Qualche giorno fa sono stato invitato a Pontedera per un corso di formazione. Gli organizzatori, membri di un’associazione, ovviamente sapevano che io mi muovo in carrozzina, e avevano cercato un albergo che potesse accogliermi senza barriere.
Arrivati in centro, vicino alla stazione ferroviaria, io e il mio accompagnatore rimaniamo folgorati da un enorme palazzo illuminato a giorno e che illuminava a giorno anche la piazzetta antistante. “Wow” – esclamai – “è così luminoso e scintillante che sarà nuovo di zecca. Avranno dato l’ultima mano di vernice al massimo ieri l’altro”.
Già il portone esterno mi ha fatto sorgere il primo dubbio: prima ancora di aprirlo si dovevano superare una grata sporgente e un tappeto “imperiale” alto otto centimetri. Un gradino peloso aggiunto proprio quando non ce n’era uno di cemento. Ma questo… pazienza! Un tappeto serve a far scena come i fari di cui parlavo…servono a far giorno di notte e a testimoniare grandezza e novità.
Abbiamo chiesto alla reception una camera accessibile. Pronta risposta: “Certo, ci hanno già avvertiti del suo arrivo. Ci hanno chiesto se l’albergo era accessibile, e lo abbiamo garantito. La stanza è già pronta. Al primo piano”. Dopo un viaggio di tre ore non era la stanchezza a richiedere di entrare nella stanza, ma il più classico dei bisogni fisiologici: la liberazione della vescica…gesto rivoluzionario come pochi altri, direte voi. Infatti, in questa vicenda, di glorioso c’è ben poco.
Andiamo per prendere l’ascensore e scopriamo che è così accessibile che anche una persona lievemente sovrappeso non sarebbe riuscita ad entrarvi. Figuriamoci una carrozzina di sessanta centimetri di larghezza. E anche se la porta d’ingresso fosse stata più larga, la profondità dell’ascensore era di circa mezzo metro, o poco più. Insomma, più che un ascensore sembrava uno di quei marchingegni che vediamo, a volte, nei film di fantascienza più stellari; uno di quei marchingegni in cui si entra uno alla volta in attesa che un raggio fotonico ci catapulti avanti o indietro nel tempo, o altrove nello spazio. Un ascensore monouso. Potete immaginare come sia dovuto arrivare al primo piano: un gradino alla volta, giro di ruota dopo giro di ruota…
Dovete sapere, e chi mi conosce lo saprà già, che non tendo ad occuparmi di accessibilità nel senso “stretto” e “fisico” del termine, ma in questo caso la malafede dei proprietari dell’albergo era così evidente che non ho potuto chiudere gli occhi o voltare le spalle. Mi hanno portato una sedia da giardino, una di quelle sedie bianche, di plastica, una di quelle alle quali cede una gamba un giorno sì e l’altro anche, e quello che è seduto fa uno schianto per terra all’improvviso. Certo, è auspicabile che sempre più luoghi, in particolare quelli d’uso pubblico, siano di fatto accessibili; intanto, però, ci basterebbe che i gestori di quelli che non lo sono abbiano il buon senso di riconoscere tale mancanza e di non mettere le persone con disabilità (e chi le accompagna) in situazioni così disagevoli che anche urinare richiede il possesso di abilità “circensi” e “contorsioniste”…
Sapete cosa ho pensato? Come il Gabibbo consegna il tapiro d’oro, io consegnerò la barrierina d’oro. Ormai moltissime persone sono dotate di una piccola viedeocamera nel proprio cellulare. Quindi, se vi capita di trovarvi in una situazione come quella nella quale mi sono trovato io a Pontedera… filmate, fotografate e inviatemi tutto.
Tutta la documentazione che riceverò potrebbe formare un prezioso archivio, utile a fornire informazioni sui luoghi che realmente sono in grado di ospitare un disabile e su quelli che invece sono sedicenti posti accessibili, in realtà non a norma.
Allora che aspettate? Prendete il vostro cellulare e andate per le strade della vostra città. “Occhio alla barrierina d’oro”, la nuova idea di Claudio Imprudente, potrebbe soppiantare il Gabibbo.
E che dire.. buona caccia a tutti. Attento Gabibbo!

Claudio Imprudente
 

Mirto di Sardegna – Superabile

Tutte le volte che devo preparare le valigie per andare in Sardegna, mi chiedo: come sarà l’accoglienza questa volta?Infatti sono venuto altre volte in Sardegna, con l’equipe del Calamaio, ad incontrare alunni ed insegnanti delle scuole. Ma mai come questa volta ho sentito che la soluzione vera, direi, a qualsiasi problema, anche al tema dell’handicap, è alla portata di tutti, perché è nella comunità e nel fare comunità.
Calangianus è un piccolo paese, grazioso ma anche industrioso, orgoglioso delle sue bellezze e delle sue tradizioni. Bambini, adulti ed anziani ci hanno accolto e hanno fatto di tutto per renderci il soggiorno piacevole. E’ dalla forza e determinazione di genitori come Maria Paola o dalla professionalità e dedizione di insegnanti come Antonella che possiamo partire per un cammino di qualità verso un’integrazione possibile, un’integrazione ed un benessere che non tocca solo chi parte svantaggiato, ma tocca tutti. La comunità tutta deve accogliere la sfida dell’integrazione, deve sempre più imparare a sostenere le famiglie e la scuola, a non lasciarle sole, perché il dovere dell’educazione e della partecipazione alla vita sociale anche di persone che rischiano di essere svantaggiate ed emarginate, siano sentiti come impegni di tutti. Forse in un paese come Calangianus, dove tutti si conoscono, che è quasi una famiglia allargata, può essere possibile questo tipo di integrazione vera, dove nessuno è lasciato solo. Se pensiamo con una metafora che l’handicap sia pesante come una tonnellata, è ovvio che qualsiasi persona, qualsiasi famiglia lasciata da sola ne risulterà schiacciata: se invece impariamo a dividerci il peso, se c’è una comunità pronta a condividerlo, questo verrà ad essere diviso per cento, per mille o diecimila…cosicché sarà molto più facile da portare.
L’handicap non è un problema irrisolvibile, anzi: ognuno può ridurlo partecipando, sostenendo le famiglie, le associazioni come l’ABC (Associazione Bambini Cerebrolesi), la Consulta delle Famiglie, le cooperative sociali, la scuola…
“Sostenere” non è una cosa speciale ma è alla portata di tutti: vuol dire dare un’ora di volontariato, fare festa insieme, mangiare il pane carasau insieme, giocare insieme, lavorare insieme, condividere innanzitutto i piaceri della vita, che in Sardegna sono tanti e tanti…E’ questo essere comunità che a Calangianus come dovunque è la vera soluzione: sono convinto quindi che il lavoro per l’integrazione ad opera delle famiglie, della scuola, dei volontari sia una crescita di benessere che tocca veramente tutti perché è la comunità a beneficiarne, e non solo i cosiddetti svantaggiati…L’handicap allora non è un terreno speciale, solo per addetti ai lavori, non è una riserva indiana…ma è una forma di allenamento che rende più forti, una palestra che ci prepara per affrontare qualsiasi sfida, un punto di vista sui valori veri, una specie di liquore di mirto che condensa il meglio della terra… E che dire…buon mirto a tutti!

Claudio Imprudente
(claudio@accaparlante.it)
 

Medici senza mestiere – Superabile

Appena arrivato al Centro Documentazione Handicap, come ogni mattina stavo scaricando la posta quando un messaggio fra gli altri mi ha colpito anzi turbato parecchio. Un messaggio che ha fatto molta strada per arrivare fino al mio computer, ma un messaggio così arrabbiato e determinato che neppure un antivirus potentissimo lo avrebbe mai fermato. Chi mi ha scritto è una logopedista di Messina disperata a causa della situazione che sta vivendo, che mi lancia una richiesta di aiuto per una grave situazione. Non posso garantire la veridicità delle informazioni che ho ricevuto dal momento che abito a Bologna e non in Sicilia e soprattutto ci tengo a precisare che di solito evito di fare queste denuncie, ma questa richiesta mi è sembrata così angosciata che non ho saputo ignorarla.
Questa logopedista mi informa della grave situazione di messina in cui milioni di pazienti stanno rimanendo senza assistenza dal momento che i fondi della regione sono stati tolti e per colpa del direttore dell’Asl di Messina tutti i centri rischiano di chiudere (anzi, alcuni già lo hanno fatto) col risultato che molti terapisti e medici sono disoccupati e che molti pazienti ,soprattutto bambini anche gravemente disabili, sono rimasti senza terapia. Riporto inoltre le seguenti testuali parole della logopedista che mi ha scritto:
“La cosa ancora più scandalosa è che il direttore dell’Asl, che sostiene che non ci sono soldi, si è fatto un bellissimo studio tipo appartamento della grandezza di un intero piano del centro di igiene mentale e solo i suoi amici hanno la possibilità di ristrutturare i propri centri. Noi terapisti non sappiamo come fare, sono già stati fatti scioperi, cortei… ma niente. In più c’è una voce che dice che è stato il nostro governo stesso a togliere i fondi al sud.”
Mi sembra davvero assurdo che nel 2007 possano esistere ancora situazioni di questo genere, per questo mi piacerebbe che i mass media approfondissero questa notizia per accertarne la veridicità e, nel caso, denunciarne la gravità, poichè una cattiva sanità oltre ad esser anticostituzionale è anche un forte segnale di non integrazione. Chissà quanti casi del genere esistono che rimangono nell’anonimato. Per questo sostengo ed incoraggio chi come la logopedista che mi ha scritto denuncia senza paura queste gravi situazioni, credo che sia un esempio da imitare!
Mi piacerebbe sapere che cosa ne pensate, scrivetemi su claudio@accaparlante.it e buona sanità a tutti!

 

Manuale d’amore 2 – Superabile

Multisala gremita di gente stracarica di pop-corn appena scoppiati, odore di giacche umide di nebbia misto a coca-cola. Si abbassano le luci e appare il faccione di Claudio Bisio che fa lo speaker in una radio e che racconta delle storie, ciascuna imperniata su una parola: una sull’eros, una sull’amore estremo, e altre due sul matrimonio. Così inizia il film “Manuale d’amore 2”, di Veronesi con Verdone, Bellucci, Scamarcio, Volo, Albanese, Rubino, Bobulova e Pataky. Quando entra in scena Scamarcio nella sala si alza un sospiro misto a godimento. È alla guida della sua macchina, felice e spensierato, ascoltando la trasmissione di Bisio. Galleria, sbandata e camion che viene in senso opposto. Stridio di freni. Botto. Il sospiro femminile si tramuta in un urlo di dispiacere. Infatti il bel Riccardo si ritrova in un ospedale su una carrozzina, paralizzato dalla vita in giù. Da questa scena inizia una storia di vita che a mio parere è una fiera di luoghi comuni.
Il primo di questi luoghi comuni è senza dubbio il collegamento tra disabilità e ambiente ospedaliero, come a evidenziare una coincidenza tra disabilità e malattia. Infatti quando il protagonista vorrebbe andare a prendersi una birra al bar di fronte all’ospedale, il dottore (interpretato da Fiorello) gli dice “Tu non puoi uscire perché sei ammalato”. In questo modo si etichetta la persona in carrozzina come persona ammalata. Eppure il nostro Scamarcio, anche in carrozzina non trasmette certo l’immagine della malattia, ma rimane comunque un figo. Ma non finisce qui, perché come in tutte le storie, ci voleva un pizzico di eros (che non è Ramazzotti). Una domanda mi sorge spontanea: come può una persona ospedalizzata trovare l’eros? Risposta: si apre la porta ed entra la fisioterapista-Bellucci. Certo, come la segretaria seduce il principale, così la fisioterapista seduce il paziente. Siamo all’apice della fiera dei luoghi comuni. A parte che sfido chiunque a resistere alla bellezza di Monica, c’è poi una scena (alquanto tranquillizzante, sia per il protagonista che per il pubblico femminile) in cui lui ha un’erezione, come a dire che dalla malattia si può guarire. A questo punto anche il pubblico maschile può trarre una certa consolazione da questa espressione di evidente virilità mai perduta o comunque ritrovata: non tutto è perduto…mai dire mai! Ma il bello viene adesso. Una settimana prima di sposarsi con Bisio, Monica fa la classica festa di addio al nubilato. Ma mentre festeggia ha un ripensamento. Corre in ospedale e porta nella mensa deserta Riccardo, e lì, fra una birra e l’altra, succede l’insperato accoppiamento: si siede sul paziente e l’amplesso si compie. Credo che questo sia un punto focale del nostro discorso: la fisioterapista ha compiuto un’ “azione”, o ha instaurato una “relazione”? Nella disabilità quale delle due è più importante? Con questo articolo vi invito ad andare a vedere il film muniti di questa griglia di lettura, e ad aprire un dibattito. E che dire, sospirate pure, che Riccardo è un figo (ma anche la Monica).
Cliccate su claudio@accaparlante.it e buona visione a tutti.
Claudio Imprudente
 

Ma esistono i disabile-park? – Superabile

Caro Mario,
il lavoro del politico non lo augurerei nemmeno…a me stesso. Per cui non lo auguro neanche a te, anche perché già lo sei, e sconsigliartelo sarebbe una mancanza di rispetto.
A volte nella vita succedono cose che… “Voi "normali" non potete capire e nemmeno lontanamente intuire”. Questa frase mi è stata indebitamente attribuita per lanciare un’iniziativa patrocinata tempo fa dal Comune di Cagliari , che ha voluto dedicare una giornata al “Luna Park per disabili”. Il resto del volantino, che i miei amici dell’ “ABC” della Sardegna mi hanno prontamente inviato, recita: “Chi ha detto che sono disabile? Ci sono ricchezze intatte e potenzialità infinite dentro noi cosiddetti "handy"”. La cosa lì per lì mi ha fatto sogghignare, dato che, come sapete, la mia fantasia è facilmente eccitabile. Per cominciare, una domanda: chissà poi perché si chiama “Luna” Park? Si potrebbe chiamare anche “Sole” Park, “Fiore” Park… ma questo mi sa tanto di Disabile Park. Ho sempre desiderato di sparare ai barattoli di latta, vincere i pesciolini rossi e strafogarmi di zucchero filato. Ma ci saranno tutte queste cose in un parco di divertimenti per disabili? Come sarà fatto? Proviamo a immaginarlo!
Fra i vari stand non potrà assolutamente mancare lo “scaccia la talpa col martello”, ma la testa non sarà di talpa… bensì di bambini down che sbucano all’improvviso e fanno delle belle pernacchione rumorose! Per le montagne russe il risparmio sarà evidente: non c’è alcun bisogno di vagoni: si mettono i disabili in fila e si attaccano le carrozzelle direttamente alla rotaia! Almeno che servano a qualcosa queste ruote! Peccato che non tutti abbiano una cintura… beh, pazienza! Non si può mica pensare a tutto! Ma il gioco che preferisco in assoluto è “sparare al disabile che sfreccia in carrozzina”: da dietro al bancone devi prendere bene la mira… la parte più divertente è quando riesci a forargli le ruote: se riescono a non cadere rovinosamente, perdono velocità e bloccano la fila con una serie di tamponamenti a catena; poi, una volta fermi, hai tutto il tempo di stenderli con calma! E la casa degli orrori? Carrozzine indemoniate che investono gli educatori, un enorme disabile tipo Polifemo (dopotutto aveva un occhio solo…) che si dimena e urla, oppure disabili di cera che si animano improvvisamente e ti alitano in faccia, cani per ciechi che diventano mannari e si mangiano il disabile! Sarebbe davvero un’idea originale, non trovate?
In ogni caso io non ho mai detto quella frase che compare sul volantino. Mi spendo a parlare di integrazione e vi pare che possa fare una distinzione fra noi, “gli handy pieni di ricchezza”, e voi “i normali che non capite”? Devo confessare che, leggendo questa frase, mi sono sentito un po’ una specie di fenomeno da baraccone (o da Luna Park…)… ma questa è un’altra storia!
Tutto questo per dire che, a volte, la persona disabile rischia di farsi un clamoroso “autogol”, nel senso che spesso essa viene interpretata secondo degli stereotipi comuni, come quello di dover dedicare una giornata “speciale” a persone “speciali”. Ma come si può uscire da questo stereotipo? Non è facile. Bisogna dosare alla perfezione la logica della denuncia con la logica della “propositività”. Lo so, il confine è talmente sottile che si rischia di sembrare sempre e soltanto critici, e mai propositivi… a proposito, quanto si potrebbe far pagare il biglietto d’ingresso?
Cliccate su claudio@accaparlante.it e buon Luna Park a tutti!
 

(per il libro "Lettere a Gino", di Gionata Bernasconi)

Lugano addio – Superabile

Da ragazzo ascoltavo Ivan Graziani e c’era una canzone che faceva “.. Lugano addio..”. Mi sono sempre chiesto dove fosse. Un mese fa, il 3 dicembre, per la giornata mondiale delle persone con disabilità, ho partecipato proprio a Lugano, come conduttore e animatore, ad un laboratorio che doveva discutere la valutazione dell’attività lavorativa della persona disabile. Al laboratorio erano presenti varie figure professionali che si occupano di preparare all’inserimento lavorativo o che “ospitano” tale inserimento.
L’ambiente era un po’ silenzioso, e lo è diventato ancor di più quando il Professor Michele Mainardi, che conduceva l’incontro insieme a me, ha introdotto i termini attorno ai quali la discussione doveva ruotare: l’aspetto produttivo (economico); l’aspetto delle competenze (tecnico); l’aspetto etico, relazionale. Come far convivere queste tensioni? E’ possibile armonizzare la compresenza di queste tre “forze” necessarie?
Sarebbe, infatti, tanto semplice quanto irrealistico poter rinunciare, parlando del lavoro di una persona disabile, ai due aspetti più problematici, quello delle competenze e della produttività. E, a ben vedere, sarebbe quantomeno discriminante: non è forse giusto, nei confronti di una persona con disabilità, osservare e tener conto di cosa sa fare e di come la fa?

Nel progetto Calamaio, in tanti anni di lavoro, lavoro vero e proprio, un’idea me la sono fatta. Il punto di partenza di ogni attività che preveda il lavoro di persone disabili dovrebbe essere la rete di relazioni che si crea nell’ambiente di lavoro. Questa deve essere (ri)costruita ogni giorno attraverso il riconoscimento di chi gli altri sono e di quali abilità hanno, di quali sono le loro curiosità, di cosa è capitato loro il giorno prima, di cosa li sta cambiando. E’ proprio a partire da qui che possiamo convivere serenamente con gli altri due elementi in gioco, competenza e produttività, relativizzandone l’importanza e allo stesso tempo riconoscendone l’utilità.
In che senso il lavoro di una persona disabile può relativizzarne l’importanza? Come detto, mostrando a tutti (lavoratori disabili e non) l’imprescindibilità dell’aspetto relazionale nella costruzione di un ambiente lavorativo che non sia un ambiente di meri rapporti gerarchici, di scadenze da rispettare e di qualità da valutare secondo il parametro della quantità. Avanzando, quindi, la possibilità di ritmi di vita e di lavoro diversi.
E perché, invece, il lavoro di una persona disabile deve saper comprendere l’importanza e l’utilità di competenza e produttività? Intanto, il risultato quantitativo è comunque richiesto per valutare l’efficacia di un inserimento lavorativo e tanti progetti rischiano di non essere più finanziati se non riescono a dimostrare la loro validità anche in questo senso. La competenza è un dato necessario per “produrre” qualsiasi “bene” materiale o immateriale.
E, vista in una prospettiva dinamica, non è soltanto un valido parametro di valutazione di un lavoro ma una qualità che può crescere e cambiare, allargandosi e specializzandosi, grazie alla curiosità, al divertimento, al piacere della scoperta, etc…tutte caratteristiche che raramente nell’immaginario comune vengono associate ad una persona con disabilità. Anche l’acquisizione di competenze, quindi, può contribuire a cambiare l’immagine della persona disabile. E voi, quante esperienze simili conoscete? Cliccate su claudio@accaparlante.it
Buon 2008 a tutti!
Claudio Imprudente

 

Lettera al Presidente Napolitano – Superabile

ESTRATTO DAL DISCORSO ALLA NAZIONE DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA GIORGIO NAPOLITANO
“(…) Qui abbiamo accolto anche tante rappresentanze dell’Italia più operosa e generosa. E dell’Italia che soffre, che lotta contro le sofferenze e sostiene l’impegno a combatterle. Mi ha molto colpito l’incontro che abbiamo avuto in Quirinale in occasione della Giornata dedicata alle persone con disabilità: abbiamo visto queste persone non rassegnate, impegnate a esprimere una speranza attiva realizzando al meglio se stesse grazie a una splendida rete di solidarietà. E ciò ci dice che grande è anche il potenziale umano e morale di cui l’Italia dispone (…)”.

LETTERA APERTA AL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA GIORGIO NAPOLITANO

Caro Presidente,
La sera dell’Ultimo dell’Anno, mentre ero tutto indaffarato nell’accomodare il mio abito e nell’annodare la cravatta, la TV trasmetteva il suo discorso al Paese. Mi chiedevo se quest’anno avrebbe parlato di disabilità, perché ne avrebbe parlato ed in che modo. Proprio mentre mi stavo ponendo queste domande l’ho sentita ricordare la Giornata della disabilità.
Ed è di questo che vorrei chiacchierare con lei. Innanzitutto mi presento: Il mio nome è Claudio Imprudente. Sono Presidente del Centro Documentazione Handicap di Bologna, che da venti anni ormai lavora per una cultura della diversità che possa evidenziare le risorse di ognuno, secondo le inclinazioni e al di là dei limiti personali.
Ho apprezzato il suo discorso, ma trovo necessario che io, in qualità di condottiero di quella “squadra antipregiudizio” che è il CDH, faccia un po’ di chiarezza, riflettendo e giocando con le parole, come faccio di solito nei miei articoli e nelle mie lezioni.
L’accostamento tra sofferenza e disabilità, nel quale è incappato anche lei, è tanto diffuso quanto limitante. Le posso dire per esperienza che quando si è disabili, c’è ben altro da fare oltre ad arrendersi o rassegnarsi alla sofferenza! La vita di un disabile è, un susseguirsi continuo di sfide e ostacoli che impediscono di avvertire quel senso di noia che tanti illustri normodotati da secoli lamentano. I disabili, come e più degli altri, sono chiamati a sfidare la propria condizione, e questa sfida non lascia spazio all’autocommiserazione né d’altra parte al buonismo pietistico.
Innanzitutto vorrei porre un accento sul problema, da lei sfiorato, della realizzazione personale, quale può essere per un disabile, e, se mi permette, vorrei trovare un sinonimo per ciò che lei ha definito “solidarietà”. Cosa serve ad un disabile per realizzarsi? Cerchiamo la formula magica, di cui i politici e gli esperti sono sempre decisi a escludere l’esistenza.
Se esistesse una medicina per auto-realizzarsi, oltre a un componente misterioso, che sarà diverso per ogni mago di sé stesso, normodotato o disabile che sia, non possono mancare due ingredienti che se uniti l’uno all’altro, rendono miracolosa la pozione: comunicazione e relazione! L’identità di ognuno di noi si forma attraverso lo scambio e la relazione con l’altro da sé, perché è questo il solo modo per conoscere e migliorare sé stessi, e nutrirci di emozioni, necessarie al nostro sorriso quanto una succulenta pizza alla mia pancia e l’acqua ai fiori.
Così la formula magica viene ad essere “comunicarelazione”, strana parola che nasce per esprimere la necessità di relazionarsi e comunicare effettivamente dentro una genuina relazione umana. Così la rete solidale di cui parlava lei, si trasforma in questo modo in una rete di relazioni in cui ognuno prende e dona, in cui ci si mette in gioco e si agisce verso gli altri in nome non di una imposta bontà o solidarietà, ma reciprocamente secondo i bisogni e le esigenze di tutti. In questo modo il bisogno di aiuto viene ad essere solo una forma che la relazione tra un disabile e un normodotato acquista, e non più la sola.
E così, crescendo e vivendo all’interno di una fitta rete di rapporti umani, ognuno di noi – e ancor di più chi è portatore di bisogni speciali – costruisce sé stesso, fino a diventare una risorsa utile e cruciale per il contesto in cui vive. E qui nasce, cresce e si valorizza quel “potenziale umano” che lei rintracciava. La disabilità, vissuta con coraggio, con l’intento di mettersi in gioco, di relazionarsi e comunicare, è una sfida, e rappresenta una scommessa vincente per la società che è capace di mettere in condizione i suoi cittadini, disabili e non, di contribuire alla crescita collettiva e al proprio sviluppo sociale, etico, culturale.
Così se quest’anno gli Italiani hanno saputo, anche grazie al suo discorso, che i disabili non sono rassegnati, i prossimi anni potrebbero riconoscere insieme a me e a lei, che se messi in condizione di dare il meglio di sé, possono diventare cruciali per il contesto in cui vivono.
La saluto cordialmente e, che dire?, buon lavoro a Lei e a tutti. Se vuole o volete rispondermi, cliccate su claudio@accaparlante.it
Claudio Imprudente

 

Le Iene – Superabile

Se mai un giorno la mia carriera lavorativa andrà a rotoli… ho già in mente un piano di salvataggio! Voi vi chiederete che cosa mai potrei inventarmi… bè, neanche questa volta vi deluderò perché ho avuto un’idea fantastica!
Avete presente che tutte le ipercoop hanno la cassa prioritaria per disabili? Ecco, ho pensato che io mi “affitterò” (tariffa ad offerta libera non minore a 20 euro) a chiunque abbia fretta e non abbia voglia di fare la fila alla cassa. Pensate: tutto il giorno al supermercato di fianco ai carrelli o sotto le gentili mani di belle signore! Voglio anche una divisa adatta naturalmente, e mentre per i carrelli serve una moneta, a me serve una banconota. Dopotutto… per una spesa grande ci vuole un carrello grande e per una grande fila occorre un grande disabile! Grande idea no?! Ammetterete che sono veramente un genio… ma l’idea non è proprio tutta farina del mio sacco, mi sono ispirato a ben più alte menti geniali! Pochi giorni fa durante la trasmissione televisiva “Le iene show” è stato mandato in onda un servizio veramente interessante: il filmato, girato a telecamere nascoste, testimoniava la “nobilissima” attività di alcuni volontari che vendevano cartoline fatte da persone non vedenti. Fin qui tutto bene, ma ecco che viene il bello: il ricavato non andava ai creatori delle opere, ma finiva in toto nelle tasche dei suddetti volontari, i quali rivendevano gli oggetti (comprati per un euro l’uno circa) a cinque volte tanto!
Ma come? Sono volontari e si fanno pagare? E che immagine danno alle persone che credono di fare un’opera buona comprando le cartoline? E che cosa penseranno le persone dell’associazionismo con esempi simili? A chi crederanno più?
Pochi giorni fa ero in giro in centro a Bologna e non ho fatto altro che vedere persone che vendevano uova di Pasqua o raccoglievano fondi e firme per le associazioni più varie e mi chiedevo perché mai una persona dovrebbe sposare una causa se poi non è certa di potersi fidare dell’onestà delle persone a cui si rivolge. Se si crea un clima di non fiducia attorno a queste associazioni si crea la distanza e la distanza a sua volta crea l’handicap. Credo che di base ci sia una cattiva informazione che aumenta le false immagini e i pregiudizi che a loro volta certamente non aiutano a far crescere il tessuto sociale verso una piena integrazione.
Ad ogni modo prima di cadere in malora correrò (si fa per dire) a farmi fare la divisa, su misura naturalmente e con un bel cappellino con su scritto: “Sono vostro!”
Cosa ne pensate? Scrivetemi su claudio@accaparlante.it
 

La siepe di Imola – Superabile

Sapete cosa vedo tutte le mattine quando apro la finestra? Vedo un campo di grano e all’orizzonte, dove nasce il sole, intravedo una minuscola siepe, e mi chiedo: “oltre alla siepe, cosa ci sarà?”. Bella domanda. Oltre alla siepe…a questa domanda aveva provato a rispondere la manifestazione intitolata “La salute mentale è un diritto di tutti, anche il tuo”, in occasione della Giornata Mondiale della Salute Mentale, che si era svolta nella ridente cittadina di Imola (famosa per il suo circuito di Formula 1) in provincia di Bologna, qualche mese fa. Una kermesse di sport e integrazione, dal titolo “Mai più fuori dai giochi”. La manifestazione aveva coinvolto, oltre alle squadre Anpis (Associazione Nazionale delle Polisportive per l’Integrazione Sociale) di tutta le regione, anche squadre di studenti e professori degli istituti superiori di Imola, e la polisportiva locale “Eppur si muove” (associata Anpis), che aveva curato l’organizzazione della mattinata sportiva. “I diritti degli altri cominciano dove finiscono i miei diritti: questo significa riconoscere la libertà di ciascuno e il diritto di cittadinanza attiva per tutti”, aveva detto il vicesindaco Castellari. Mi trovo in perfetta sintonia con questa affermazione. E’ proprio vero, dove iniziano i diritti degli altri, lì finiscono i miei. Ma c’è anche un’altra cosa che mi pare interessante: il paragone che si può ritrovare tra una siepe e il concetto di confine. Andare oltre la siepe significa andare oltre i confini. Ma una siepe è un confine un po’ particolare, perché è un elemento naturale, che fa parte di un bel paesaggio. Forse proprio per questo si potrebbe faticare a considerare una siepe come un confine. Eppure non la si può superare facilmente, a causa del suo fitto intreccio di rami, di foglie, di radici. Anche lo sport usa le siepi come elemento di sfida. E non solo queste. Anche un pallone, una rete, una linea disegnata per terra possono essere ostacoli. Ma lo sport trasforma questi ostacoli o confini in una risorsa che unisce le abilità di tutti. Questo è il messaggio della manifestazione imolese. È un concetto culturale che bisogna sul serio accogliere: il confine come elemento di integrazione tra tutte le categorie di persone. Nello sport non c’è più la distinzione tra “sani di mente” e “malati di mente”, ma c’è il superamento dei nostri confini nella condivisione della medesima sfida. Questo rende la diversabilità una cosa interessante, perché tutti noi abbiamo delle siepi da accogliere, accettare e affrontare. Ovviamente ci sono molti tipi di siepe: profumate come il bosso, spinose come il pungitopo, nobili come l’alloro… mi piacerebbe sapere che tipo di siepe siete voi. Basta cliccare su claudio@accaparlante per rispondermi, e come diceva una nota pubblicità “io ce l’ho profumato…il bosso, ovviamente!”
Claudio Imprudente

 

L’autista fa sempre fuga – Superabile

Se c’è una cosa che sicuramente accomuna tutti gli scolari è il brivido d’avventura che si ha quando si fa fuga! O forse capite meglio se parlo di bigiare, fare calia, far chiodo, fare filosh, far filone, bruciare, segare, far puffi, far spago, far bisboccia, marinare, far fughino, far fuoco… luogo che vai, fuga che trovi, dice il proverbio, è una cosa talmente tanto comune e personalizzata che ogni luogo ha il suo modo di chiamarla! Vi ricordate quel momento iniziale di indecisione, poi un attimo di panico e… via, un grande senso di libertà e trasgressione arriva potente incitato dall’adrenalina.
In realtà le cose che si fanno quando non si va a scuola sono più o meno sempre le stesse: si va a fare shopping, si cerca di conquistare una ragazza, si va al bar a fare colazione, una capatina al mare… ma non è tanto quello che si fa il motivo di tanta importanza, piuttosto il brivido di fare tutto questo di nascosto, è l’emozione della trasgressione che attribuisce alle fughe un posto così eccitante ed esclusivo nella nostra memoria. La trasgressione, l’uscire dagli schemi è in effetti un passaggio fondamentale per la crescita di ognuno, per avviare un processo di autostima; è un po’ il pregustare la propria indipendenza: ecco perché è così importante. Ma una persona con disabilità come può marinare la scuola dal momento che ha l’intera giornata già programmata e scandita da persone e tempi ben precisi? Non dimenticherò mai quando io sono riuscito, dopo un sacco di fatica, ad organizzare la mia fuga da scuola. Avevo diciassette anni, e dopo molta pazienza e con grande insistenza sono riuscito a convincere l’autista del pulmino della scuola a lasciarmi ai giardini di Villa Spada (a Bologna). Mi ero accordato con una mia amica (la motivazione della mia fuga rientra alla perfezione nelle ragioni sopraelencate) per passare tutta la mattinata insieme. All’una precisa l’autista, puntualissimo, è venuto a prendermi e mi ha riportato a casa come se nulla fosse successo. Nessuno ha mai saputo di questa cosa tranne me e lui e questo segreto ci ha uniti da quel momento in una profonda complicità. Ci tengo a sottolineare il fatto che l’autista aveva una precisa e grossa responsabilità che era quella di portarmi a scuola, quindi lasciandomi ai giardini ha fatto un gesto che definirei assolutamente pazzo! Ma proprio quel gesto mi ha insegnato molto più di mille discorsi sull’integrazione: è stata una grossa dimostrazione di fiducia da parte di una persona che aveva davvero capito quanto quel “bigiare” fosse importante per me. A volte in un processo di integrazione c’è bisogno di gesti pazzi come quello dell’autista perché siamo così appiattiti dal concetto di responsabilità che spesso tralasciamo quei gesti un po’ estremi, fondamentali per la crescita di una propria autostima. Se qualcuno ti da fiducia, tu stesso ti dai fiducia.
E voi quali gesti estremi avete fatto o ricevuto? Scrivetemi su claudio@accaparlante.it e… buona fuga a tutti!

 

La macedonia dell’educatore – Superabile

Un giorno di febbraio ero a Catania per una conferenza e mi son ritrovato a pranzare in un ristorante tipico della città, che aveva una splendida terrazza con vista sul mare. Dopo aver gustato pesce di ottima qualità, non ho resistito alla tentazione di ordinare una bella macedonia! Quella che mi è stata servita era un vero e proprio trionfo di sapori: c’erano pezzi di mela, pesca, arancia, fragola, kiwi, banana, e poi mango, papaia, anguria, mapo e ananas. Mentre i vari gusti si intrecciavano e si mescolavano tra loro, dando gioia alle mie papille gustative, mi sono accorto della presenza di un ulteriore frutto, che non mi era mai stato servito prima in una macedonia, ma che dava alla portata un sapore particolare e decisamente inaspettato: le noci.
Chi aveva preparato quella macedonia doveva tenere davvero tanto alla qualità del suo lavoro. Quanta professionalità! Una macedonia qualunque funziona benissimo anche senza noci e si prepara anche in maniera più celere! Le noci non sono succose come un’arancia, non si sbucciano facilmente come una mela e bisogna rompere il loro guscio resistente. Per di più, una volta aperte, alcune sono anche da buttare. Quel giorno, però, la macedonia che ho mangiato a Catania, grazie all’aggiunta di quell’ insolito ingrediente, ha surclassato tutte le altre nella mia personale classifica…. E dire che ne ho mangiate a migliaia, di macedonie!
Da questo piccolo e semplice particolare ho riflettuto sull’importanza… di essere dei buoni educatori.
Molti educatori che lavorano nell’ambito scolastico con ragazzi diversamente abili affetti da deficit, vengono spesso relegati in uno stanzino, in una dimensione parallela, separata dal resto della classe, perché non interferiscano con il regolare svolgimento della lezione e, di conseguenza, dei programmi didattici. Si presuppone così, che i ragazzi diversabili non disturbino le lezioni, e di certo non lo possono fare così distanziati dal gruppo classe! L’insegnante, dal canto suo, potrà portare avanti il programma molto più facilmente, rispetto a quanto non farebbe con la presenza di un bambino con deficit; forse il resto della classe imparerà a leggere e scrivere un po’ più velocemente.
Un buon educatore deve, allora, avere una grande professionalità, proprio come colui che mi ha preparato quell’ottima macedonia, nel senso che deve riuscire a mescolare le varie realtà e le loro potenzialità con creatività, azzardando anche l’aggiunta di un ingrediente in più, senza accontentarsi del gusto abituale delle cose.
Solo così si potrà costruire un contesto di reale integrazione, dove ogni persona potrà esprimere le proprie abilità e mettere a disposizione degli altri la propria identità e diversità. Insomma, un educatore avrebbe qualcosa da imparare dal cuoco che ha preparato quella succulenta macedonia: con frutti di diversa provenienza e differente sapore si può creare un nuovo gusto, piacevole non solo ai sensi, ma anche all’umore…
Già il piacere del palato si sposa perfettamente col clima di festa che anima un pranzo; figurarsi quando questo si conclude con un’eccellente macedonia con tutti i colori vivaci dei frutti che la compongono. Se, poi, il cuoco ha l’accortezza di aggiungervi quel non so che di particolare, come le noci, allora riesce a dare un vero e proprio tocco di qualità all’intero pranzo. Lo stesso tocco di qualità, che potrebbe dare un educatore, nel momento in cui saprà apprezzare le doti del bambino che si trova in una situazione di handicap o di disagio.
Chissà quante volte avrete mangiato una macedonia senza aver notato quel tocco speciale, ma se ve ne siete accorti cliccate pure su claudio@accaparlante.it e…buona macedonia a tutti.
Claudio Imprudente

 

La liberazione delle carrozzine – Superabile

“L’estate sta finendo, un anno se ne va…”, dicevano i mitici Righeira. Chissà che fine hanno fatto…
Quando ero bambino avevo l’abitudine di passare ore sul terrazzo, dietro la ringhiera, come un piccolo guardiano del faro, a contare le macchine che transitavano sotto casa mia: non so se era più un modo di abituarsi a far di conto, come si morde tutto quando devono crescere i primi denti, o se era una passione per le macchine stesse, le loro forme, la loro velocità, i loro colori. Comunque, ricordo che quell’attività mi piaceva molto, e spesso la passione infantile diventa un “vizietto” nell’età matura.
Vi racconto un episodio capitatomi questa estate. Diciamo che più che essermi capitato, l’ho fatto capitare. Ero seduto sotto la veranda di un ristorante nel centro di Cattolica (ci vado spesso a Cattolica, quando l’estate sta iniziando e anche quando l’estate sta finendo…), davanti ad una strada pedonale, e aspettando di mangiare la succulenta frittura mista di pesce, ad un certo punto mi parte un trip, come direbbe un giovane oggi… sicché ho cominciato a contare le carrozzine che passavano. Ma non solo le contavo: come con le macchine, ne osservavo la forma, le dimensioni, i colori, le ruote, i freni e … i proprietari, perché se c’è una cosa bella è che le carrozzine fanno vedere tutto, anche di chi ci è seduto sopra. Faccio una breve rassegna: persone in sandali, col pareo, senza pareo, occhiali da sole, infradito, bikini o costume intero, abbronzate o meno, copricapo, bandana, cappello di paglia…
Mi ha colpito il numero: nemmeno un’ora (o poco più di un’ora, non siate fiscali) e ne erano passate ventuno. Subito la mia mente è andata indietro di trent’anni, quando non era nemmeno immaginabile una cosa simile. Le carrozzine erano più rare delle Ferrari nere quando stavo affacciato al balcone. Ma senza che allo scarso numero corrispondesse lo stesso fascino. Figuriamoci.
Mi è venuto un flash improvviso, questo termine: LIBERAZIONE. Ma dovevo giustificare questa immagine e spiegarla meglio anche a me stesso: liberazione da chi e da cosa?
Liberazione dalla logica della vergogna: la vergogna di far vedere il proprio corpo, che così poco si adatta all’idea di bellezza fisica vigente; la vergogna di far vedere un corpo “trasportato” da un altro.
Liberazione dai pregiudizi: i pregiudizi veicolati anche dagli sguardi, già in primo luogo dagli sguardi, che penetrano dentro chi è guardato e creano un forte disagio.
Liberazione, inoltre, dalla poca fiducia in se stessi, che sfocia in una ancora minore autonomia e, allo stesso tempo, nella mancanza di relazioni forti con le altre persone….la storia del gatto e della coda la conoscete tutti…ovvero, senza sviluppare autonomia e relazione, la vergogna, i pregiudizi e la sfiducia aumentano, e più queste aumentano più le altre continueranno a mancare.
Mentre la frittura stava raggiungendo la temperatura giusta perché potessi gustarla senza ustionarmi, pensavo che si tratta proprio di un processo di LIBERAZIONE che sta avanzando, soprattutto in questi anni. Come sapete gioco spesso con le parole, e, secondo me, la LIBERAZIONE non basta, perché significa solo LIBERA-AZIONE. Ci vuole qualcosa di più: una LIBERA-REL-AZIONE.
E voi, tentate un processo di LIBER-AZIONE o di LIBER-RELAZIONE?
Cliccate su claudio@accaparlante.it

Claudio Imprudente

 

 

 

La cameretta della diversabilità – Superabile

Chi di voi ricorda la sua cameretta, il suo lettino e il suo arredamento?
Quando si viene al mondo, appena dopo la culla dell’ospedale, più o meno anonima per ovvie necessità, di solito veniamo trasferiti in una stanza pensata per noi, ma che noi, per altrettanti ovvi motivi, non abbiamo potuto pensare. Si può giudicare in molti modi quello che si intende per arredamento della stanza di un infante, ma resta il fatto che la decisone viene presa da altri. A quanto pare alcuni oggetti non possono mancare per ragioni fisiche (magari per stimolare l’attenzione e il movimento di alcuni sensi), o per creare un’atmosfera particolare (un ambiente caldo, intimo, protetto), o per qualche teoria delle forme che non conosco. Proviamo ad elencarne alcuni: scene di cartoni animati alle pareti (spopolano Bambi e i Sette Nani che tornano felici dalla giornata in miniera…solo loro possono tornare felici da simili fatiche, il proletario di solito è di tutt’altro umore…); api o gabbiani che penzolano sopra la culla; un lettino colorato e armadi modello Ikea, peluche di animali in via di estinzione (panda, delfini, orsi polari…). Ormai gli stessi peluche rischiano la scomparsa sotto i vigorosi colpi (di mercato) di Goku e affini.
Ma prima o poi tutti sentiamo il bisogno di fare dei nostri spazi degli spazi nostri. Avvertiamo la necessità di rispecchiare noi stessi anche negli oggetti che usiamo e negli spazi che viviamo. Così la nostra identità può crescere e mettere delle radici. Giorni fa, parlando con un educatore di una residenza per disabili di Pordenone, ragionavamo proprio su questi aspetti e su quanto, in genere, vengano trascurati nella progettazione e realizzazione di quegli spazi. Di solito, infatti, si presentano come spazi anonimi, asettici, dove le singole identità non hanno modo di proiettarsi, esprimersi e riconoscersi. O, ancora, di mostrare i loro eventuali cambiamenti.
Con questo non si vuol riconoscere un’importanza eccessiva agli oggetti che ci circondano o di cui ci circondiamo. L’affermazione, la costruzione di un sé passa in primo luogo attraverso pratiche, relazioni, simboli, cioè “momenti” del tutto immateriali. Ma gli spazi, gli ambienti e gli oggetti solo raramente si mantengono come presenze morte, passive e neutre: gli oggetti raccontano e conservano ricordi.
La mancanza di spazi connotati individualmente si riscontra spesso laddove ad un pur necessario intervento di tipo assistenziale non si affianca un intervento, o, meglio, un processo mirato ad una progressiva autonomia della persona. Se il discorso sull’autonomia e sulla maturità di un soggetto riguarda tanti aspetti ed attività che si svolgono di necessità nel mondo esterno, quali l’ attività professionale, i momenti di condivisone con i propri amici, le attività del tempo libero, altri di uguale importanza riguardano quelle attività che una persona può o potrebbe svolgere in uno spazio che sente suo. Per cui, il passo successivo è quello di rendere possibile che gli spazi, i luoghi per disabili possano diventare spazi e luoghi dei disabili che li vivono. Questo passa anche attraverso un’autonomia nell’espressione dei propri gusti, delle proprie preferenze, delle proprie scelte di un arredamento. Appendere delle foto, mostrare, a se stessi e agli altri, la propria storia e il proprio presente è conquistare ed affermare un’identità.
E voi che arredamento preferite? Raccontatemi le vostre camerette cliccando su claudio@accaparlante.it
Buon arredamento a tutti.

 

La bomboniera del Down – Superabile

Sicuramente avrete sentito la notizia divulgata da tutti i telegiornali di quel ragazzo down che è stato picchiato dai suoi compagni di classe. Fiumi di inchiostro sono stati spesi per parlare e riesaminare il fatto, più di una trasmissione televisiva ha avuto questo argomento come cavallo di battaglia della sua scaletta giornaliera. Il filmato trasmesso su internet ha creato un enorme scandalo, anche perché è capitato in contemporanea con l’episodio della professoressa che attuava strane pratiche sessuali con i suoi studenti.
La mia intenzione non è quella di ribadire le accuse contro i ragazzi, ma vorrei sottolineare un fatto che dal mio punto di vista è degno di riflessione. Parto ponendomi un paio di domande cruciali: Perché ha fatto tanto scalpore questa notizia? E che cosa sarebbe successo se al posto di un ragazzo disabile ci fosse stato un ragazzo normodotato?
Credo che se al posto di quel ragazzo down ce ne fosse stato uno qualunque la notizia non avrebbe avuto tutte queste morbose attenzioni, poiché le zuffe tra compagni di classe sono una cosa quasi normale o quantomeno comune. E’ quindi la presenza della disabilità che ha fatto scattare in noi tutti quei meccanismi di curiosità e scandalo che i mass media hanno molto abilmente saputo utilizzare.
Un luogo comune che ci accomuna tutti è l’associare alla persona down alcune caratteristiche: dolcezza, allegria, l’essere indifesi, il bisogno di protezione… e nel momento in cui una persona down viene picchiata sentiamo come calpestate e maltrattate anche tutte queste caratteristiche: per dirlo metaforicamente, è come rompere una bomboniera piena di confetti che appartengono anche a noi, è come se qualcosa di estremamente prezioso e fragile che ci ispira senso di protezione venisse attaccato. L’aspetto che più ci colpisce è il fatto che dei soggetti forti si coalizzino e approfittino della loro potenza contro soggetti “più deboli”, colpendoli in ambiti in cui non hanno possibilità di difendersi. La cosa ci ferisce personalmente perché ognuno di noi, a piccole dosi, si scontra quotidianamente con situazioni di questo tipo. Questo scatena un grande senso di rabbia, la rabbia scatena accanimento che a sua volta produce audience.
Ma che tipo di immagine della disabilità è passata dai media che hanno approfittato della situazione? Chiaramente ne è uscita rafforzata l’immagine di svantaggio e di debolezza del mondo della disabilità, vista solo come vittima indifesa, poiché in quel contesto non aveva opportunità di riscatto. Ma va sottolineato che in un ambito, in un contesto diverso un diversabile può “giocare in casa” e può vedere riconosciute le sue qualità di persona e non essere etichettato come “carino, indifeso e allegro” secondo i luoghi comuni.
Resta ancora viva in me una domanda: Che cosa sarebbe successo se un ragazzo down avesse picchiato un ragazzo normodotato con gli occhiali?
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Claudio Imprudente