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autore: Autore: Claudio Imprudente

Comunicare all’epoca del santo – Il Messaggero di Sant’Antonio, luglio/agosto 2008

Col mio commensale pranzavo alla mensa di un centro commerciale nella quale di solito mangiano le persone frenetiche. Una frenesia, la loro, acquisita a causa del lavoro e diventata con il tempo una peculiarità del carattere. Le osservavo con molta attenzione: mi affascinava pensare che dietro ognuno di loro ci fosse una storia e, allo stesso tempo, mi spaventava il pensiero che non avessero tempo per raccontarla e, gli altri, per ascoltarla e farla propria. È strano, direte, avere questo timore proprio oggi che i mezzi di comunicazione si sono moltiplicati: c’è il cellulare, la posta elettronica, la chat, myspace, il blog e, al contempo, sopravvivono i classici mezzi di comunicazione.
Ma a tutto questo che cosa corrisponde? Voglio dire: che cosa ci diciamo realmente, quando abbiamo il tempo di parlare, e quanto resta di quello che diciamo? Quanto è significativo quello che «chattiamo», «myspaciamo»? Che cosa resta dell’essenza delle parole che pronunciamo e di quelle che ci arrivano all’orecchio? Non rischiano di perdere forma e sostanza, sacrificate alla presunta efficacia dell’accumulo di dati? E soprattutto: che peso resta di ogni singola notizia se questa rischia in ogni momento di affogare tra tante altre? Di non avere lo spazio per entrare in noi e, in un certo senso, di «respirare» dentro di noi? Respirare per rimanere in vita almeno il tempo necessario a farci riflettere, a muoverci all’azione, alla reazione, alla relazione…

Se non riusciamo a distinguere le cose, come potremo riuscire a capire per quale di esse vale la pena mobilitarci? A proposito di mobilitazione: ho chiuso gli occhi per rilassarmi e mi è tornata in mente una storia su san Francesco e sant’Antonio, che da piccolino mia nonna mi raccontava spesso e che poi ho scoperto essere falsa, dal momento che non risulta nella biografia di nessuno dei due santi. Secondo questo racconto, sant’Antonio era a Lisbona e aveva saputo che san Francesco era gravemente malato. Subito decise di partire per Assisi perché voleva assolutamente incontrarlo e parlargli. Dopo molte disavventure, giunse ad Assisi proprio quando Francesco stava per morire. Che cosa ci trasmette questo racconto? È un ottimo esempio di come, in un tempo in cui la circolazione delle infor­mazioni era molto più lenta, quelle davve­ro significative circolavano velocemente. Quindi, la rapidità di circolazione era le­ga­ta all’importanza della notizia. Come se, dovendosi adattare alla mancanza di mezzi, gli uomini riuscissero meglio a selezionare le priorità. E queste informazio­ni erano così significative che spingevano subito all’azione. Perché erano in grado di toccare quella parte dell’animo umano che, se non avesse reagito, avrebbe sofferto di un’inquietudine troppo intensa.
È proprio questo il punto: accumulare informazioni ci rende apparentemente consapevoli delle cose ma, nella difficoltà di attribuire loro una gerarchia, rischiamo di sentirci impotenti di fronte alla loro quantità e di rimanere inattivi. Dopo tutte queste considerazioni ho riaperto gli occhi e ho visto che la gente continuava freneticamente a comunicarsi notizie di tutti i generi. Sant’Antonio sapeva che riuscire a realizzare quell’incontro con Francesco avrebbe significato tanto per lui: sia nel momento stesso dell’incontro sia per la sua futura azione nel mondo. Per questo motivo egli, ricevuta la notizia della malattia di Francesco, ha «vissuto la notizia», ha dato concretezza alle parole. In fondo, non sono forse le parole stesse a chiederci un appiglio forte alle cose di questo mondo? Esse non sono creazioni che prescindono da noi uomini. Sono uno strumento per descrivere il mondo (anche quello della fantasia) e per agirvi e creare in esso relazioni. O, almeno, tali dovrebbero essere. Avete parole-azioni da raccontarmi?

Scrivetemi a: claudio@accaparlante.it

 

Storie di Calamai e di altre creature straordinarie – Il Messaggero di Sant’Antonio, giugno 2008

Nella relazione con persone disabili la reazione più immediata è un senso di disorientamento. Una reazione ben presto superata però: l’essere umano, infatti, facilmente si abitua a contesti differenti, per renderli più accettabili e gestibili. Questa capacità ci consente di vivere agevolmente nel mondo. Ma è sufficiente affinché noi riusciamo a vivere anche con il mondo? Perché ciò possa accadere non possiamo prescindere da un coinvolgimento diretto in quello che viviamo. Solo così potrà avvenire quel reciproco mutamento – nostro e di ciò che sta fuori di noi – che indica un’azione da parte nostra sul mondo e del mondo su di noi. Questo vuol dire stabilire una relazione con le cose, essere aperti alla novità, anche di noi stessi. Ho sempre pensato che se non si mantiene un’apertura al mondo non si può diventare esperti: delle cose, ma anche delle persone. Superare il disorientamento, allora, non è sufficiente. Diciamo così: senza andare oltre non possiamo tentare neppure di avere una coscienza più piena. Ne avremo solo una falsata, mancante, come se la nostra capacità di vedere fosse limitata, se potessimo guardare ma senza poter alzare lo sguardo, abbassarlo o voltarci indietro.

Mi colpisce la testimonianza di Anna Pazzaglia, tratta da Storie di calamai e di altre creature straordinarie (Edizioni Erickson): «Quando nel settembre del 2006 entrai a fare parte del gruppo Calamaio, il sentimento che provai, e che ora riesco a riconoscere e a mettere sulla carta, fu di completo disorientamento. Mi aspettavo di trovare un ambiente di lavoro e nient’altro. Invece quello che mi sembrava di poter cogliere, sebbene in maniera confusa, erano delle relazioni che non riuscivo a discriminare e a decodificare». Di solito nelle relazioni con il mondo delle diversabilità tende a prevalere la dimensione del «fare», piuttosto che quella dello «stare con». Infatti, Anna continua affermando l’importanza dello «stare nella relazione»: «Fino ad allora per me quelle tre parole non avevano nessun significato, non le legavo né a un’esigenza, né a un’esperienza precedente». Personalmente credo che il fulcro della relazione stia nel fare esperienza dell’altro, e dell’altro come «diverso». Solo così si può mettere in atto una logica dell’accoglienza. Infatti, sempre secondo la testimonianza di Anna, «accoglienza significa che partendo dall’osservazione dell’altro, e dalla sintonizzazione emotiva, si agisce come casse di risonanza, e si crea uno spazio di comunicazione e ascolto». E di azione. Perché senza relazionarci risulta difficile la realizzazione delle nostre stesse azioni.

Ma a questo punto vi starete domandando: «Che cos’è il “Gruppo del Calamaio”?». Da oltre vent’anni il Progetto Calamaio promuove nelle scuole di tutta Italia percorsi formativi ed educativi sulla cultura delle abilità diverse. Esso è caratterizzato dalle persone che lo animano, lo vivono, lo pensano, lo realizzano, lo adattano ai diversi contesti, lo condividono con i vari gruppi che lo ospitano. Ogni persona che compone il gruppo diventa protagonista con la sua storia. L’intrecciarsi di tutte queste relazioni – quelle che si instaurano fra gli educatori e i ragazzi, gli insegnanti, i genitori che si conoscono a ogni incontro – permette di toccare con mano la cultura dell’integrazione. Anche questo è il Calamaio: l’incontro e lo scambio con altre parti di umanità che talvolta capita di incrociare, condividendone un tratto di strada. Una conoscenza che permette alle persone di avvicinarsi, che è stimolo al desiderio di modificare e modificarsi continuamente.

Perché la conoscenza, per definizione, non è mai definitiva, ma sempre «da raggiungere», continuamente mobile, sempre davanti a noi.

E qual è il vostro modo di conoscere?

Scrivetelo a: claudio@accaparlante.it
 

C’è sempre una prima volta – Il Messaggero di Sant’Antonio, maggio 2008

Chi non si ricorda quando è caduto il suo primo dentino? Chi di voi non lo ha nascosto sotto un bicchiere sperando che la fatina (o la formichina o il topolino…) portasse un dono? E ancora: chi non ricorda il primo bacio? Quante emozioni, quanti desideri rimangono impressi in maniera indelebile nel nostro cuore per tutta la vita! Sono infinite le possibili «prime volte» di ciascuno. Credo che abbiano un’importanza fondamentale nella crescita umana e spirituale di ognuno, che segnino una tappa nel cammino personale. Ma, mentre alcune di queste occasioni vengono vissute come esperienze indimenticabili perché bellissime, altre ci mettono con forza in discussione.
Cari lettori, adesso vi propongo una riflessione sul vostro primo incontro con la disabilità. Per far questo vi rendo partecipi di una lettera – ricevuta da poco – che a questo proposito potrebbe offrire un buono spunto. È stata scritta da una ra­gazza che… ma non aggiungo altro, lascio a lei la parola:
«Posso dire di essere fortunata, perché il primo disabile incontrato (avevo quasi 12 anni) è stato proprio Claudio Imprudente. L’altra fortuna è viverci insieme, nella stessa comunità, nell’appartamento sopra al suo. Quindi sono cresciuta con lui, con la diversabilità e con un esempio di accettazione e riconoscimento del proprio deficit davvero straordinario. Molti sanno già chi è Claudio, che cosa fa, magari un po’ meno dove vive: è presidente del Centro documentazione handicap di Bologna, un centro che forma, documenta, informa sull’handicap e organizza incontri nelle scuole, per sensibilizzare alla diversità. Sin da bambina ho stretto un bel rapporto con lui e crescendo siamo diventati amici: a volte usciamo insieme e ci confidiamo i nostri pensieri. Ma che cosa intendevo per “riconoscimento del deficit davvero straordinario”? Intendevo un percorso di vita nel quale Claudio ha dovuto combattere con la sua diversità, soffrendo e domandandosi perché dovesse trovarsi in quella situazione… Ma non si è fermato: combatte ancora e vince ogni giorno.

«Spesso mi sono chiesta come si sentisse una persona imprigionata in un corpo muto. In realtà quegli occhi che saltellano da una lettera a un’altra mi hanno fatto capire che non si tratta di una prigione, e lui è proprio il primo ad averlo compreso. Claudio parla di sfortuna diventata sfida: una sfida che ha vinto con fatica e con dolore ma con un ottimo risultato, ovvero quello di aiutare a capire che siamo tutti – ma proprio tutti – diversabili, cioè tutti abili in qualcosa di diverso… Non saprei essere una fonte di gioia, benessere e testimonianza come Claudio è riuscito a diventare, né saprei mai avere la sua capacità di cogliere piccole cose nascoste come sa fare lui, grazie alla sua sensibilità.
«Claudio è davvero una lezione di vita: per prima cosa bisognerebbe ringraziare la sua famiglia, per come ha saputo crescerlo, nella fiducia negli altri e nella sua e per gli strumenti che ha saputo e potuto dargli».

Eleonora Pilò

Questa è solo la testimonianza di un’esperienza quotidiana, che mostra l’importanza di un incontro tra due realtà totalmente diverse, da cui però può scaturire una relazione che fa crescere entrambe: la cultura dell’integrazione passa proprio da qui! È importante fare memoria e tesoro di quei momenti per affrontare la paura della diversità, perché sono opportunità che la vita ci offre e come tali vanno colte. Scommetto che anche voi avete vissuto la vostra prima volta con il mondo della diversità: se riuscite a richiamare i ricordi di quell’esperienza, vedrete che vi tornerà in mente l’immagine di una relazione divertente, ricca e significativa. Perché non recuperate quel file nei meandri della memoria e non mi raccontate la vostra storia cliccando su claudio@accaparlante.it? Che dire: buona prima volta a tutti!

 

Una Barbie può modificare la cultura? – Il Messaggero di Sant’Antonio, marzo 2008

Mi hanno tolto un’altra certezza anche se, al contrario di molti, ne conservo ancora tante. A volte la nostra attenzione è richiamata dalla fine o dal cambiamento di modelli che pensavamo immutabili, proprio perché apparentemente meno legati a vicissitudini storiche, conflitti ideologici, orizzonti di senso. Di che cosa sto parlando? Lei è sempre stata di forma slanciata, occhi azzurri, capelli biondi e leggermente mossi, con vestiti all’ultimo grido che su un corpo così non potevano che calzare a meraviglia. Persino i suoi gentili piedini plastificati non hanno mai mostrato segni di decadimento. Ovviamente il personaggio in questione è la bambola più celebre del pianeta terra, quella che ultimamente ha fatto parlare di sé per le vernici tossiche con le quali avevano osato colorarla, e per la scarsa perizia con cui ne avevano assemblato le parti. La «poveretta» emanava tossine e si smontava con troppa facilità. Da qualche tempo Barbie ha fatto scalpore anche per un’altra ragione, apparentemente meno nociva per un bambino, ma potenzialmente più pericolosa per chiunque volesse soffermarsi a ragionare.

A quanto pare è entrato in commercio un nuovo modello, che si affianca, ma in modo più problematico, ai tanti già esistenti (Barbie hostess, Barbie pilota, Barbie a la playa, Barbie baseball, eccetera), sempre leggere variazioni sul tema «Barbie donna in carriera», «Barbie donna vincente» e messaggi simili. Perché chi vede Barbie vestita da giocatrice di baseball o da manager in tailleur, non è nemmeno sfiorato dall’idea che lei possa perdere una partita o sbagliare un colpo in Borsa.

Il nuovo modello ritrae e rappresenta, invece, un personaggio più contraddittorio, cioè «Barbie musulmana velata». Di poche settimane fa è anche la notizia, giunta dalla Spagna, di un bambolotto con i tratti di un bambino con sindrome di Down. Anche questa notizia si inserisce nel discorso che vorrei fare a proposito della Barbie «musulmana». In che senso questo nuovo personaggio si pone come problematico? Lasciamo da parte le recenti polemiche e discussioni sulla liceità o meno dell’utilizzo in pubblico del velo (chador, burqa, e altri modelli). Soffermiamoci su un altro aspetto: se finora Barbie cercava di rappresentare un prototipo di realizzazione perfetta (secondo canoni discutibili) all’interno del mondo occidentale, appoggiando e favorendo l’affermazione di una serie di stereotipi molto riconoscibili, ora, almeno apparentemente, sembra volersi smarcare da questo ruolo per farsi più rappresentativa di «altri» mondi che, con quegli stereotipi, entrano in conflitto.

E se il personaggio Barbie sembra svolgere con perfezione il compito di congelare un pregiudizio di un certo tipo, non avvierà forse lo stesso meccanismo con un modello differente? Mi spiego meglio: non rischia di evidenziare e accentuare una differenza, piuttosto che invitare a uno scambio, a una relazione e a dar vita a una chiara discussione? O ancora: non rischia di descrivere una parte di un mondo facendoci credere di poterlo descrivere per intero e nella sua essenza («questa è una donna musulmana»)? Sostenendo cioè l’equiparazione: «Barbie musulmana» uguale donna musulmana tout court?

In questo senso, infatti, commetterebbe un secondo errore nel momento stesso in cui sembra voler correggere il primo, finendo per rappresentare in modo grossolano una realtà diversa dopo aver già rappresentato in modo distorto e incompleto la nostra.

Non ho un’idea certa sull’argomento: tutte le domande che mi pongo, quindi, sono domande che rivolgo anche a voi. Aspetto le vostre risposte per fare un po’ di chiarezza. Intanto torno a giocare con la lussuosa auto di Ken…

Per rispondermi, cliccate su claudio@accaparlante.it.

Buona (?) Barbie a tutti.
 

Andiamo al cinema con i mutanti – Il Messaggero di Sant’Antonio, febbraio 2008

Il discorso sulla disabilità soffre spesso di fraintendimenti grossolani. Il primo è pensare la persona diversamente abile come bisognosa di aiuto e assistenza, dimenticando di riconoscerla come soggetto con diritti e doveri, capace di azione, pensieri, relazioni. Affermo da sempre quanto sia necessario passare da una visione statica della persona disabile, come «oggetto di cura», a una dinamica, che consideri la persona come «soggetto di cultura».

Questo fraintendimento – vera banalizzazione dell’individuo – si rinnova ogni volta che si pensa a come è affrontato il tema ampio della disabilità: convegni grigi per specialisti, riviste di settore, libri di stampo scientifico, didattico o sociale. Eppure non immaginate quanti film, canzoni, libri e favole affrontino l’argomento con prospettive talmente inaspettate, che spesso non cogliamo nemmeno i riferimenti alla disabilità che contengono. Tali produzioni artistiche apportano idee e visioni interessanti, soprattutto se l’elemento estetico non si trasforma in pratica estetizzante, cioè quando si rinuncia a mitizzare e a sclerotizzare la figura del disabile, parlandone in maniera indiretta, inserendolo in un contesto non prevedibile, o presentandolo «sotto mentite spoglie». Un esempio positivo è La Cosa di John Carpenter, che ben descrive l’imbarazzo di fronte al non conosciuto, che ci si rifiuta di capire.

Di solito faccio proprio fatica a vedere i film di fantascienza. Un giorno, però, alcuni amici mi invitarono al cinema per X-Men 3 – Conflitto finale. Accettai, senza conoscere i due episodi precedenti, soprattutto per la birra che avremmo bevuto insieme dopo la proiezione: ma a posteriori posso dire che ne valse davvero la pena! Eppure in che modo questo film si inserisce nel filone di quelli che affrontano l’argomento della diversità e del rapporto che l’uomo sa instaurare con essa? Credo che il regista non avesse la minima intenzione di esprimersi in proposito: ricordate la trama del film? Il governo Usa, temendo di perdere potere, elabora una cura capace di annientare per sempre il gene mutante, quello appunto che dà vita e forma diversa ai vari Wolverine, Tempesta, Magneto, eccetera. Sottesa a questa azione c’è un’idea della diversità come di una malattia da debellare: la visione diffusa e condivisa di «normalità» porta molti mutanti a chiedersi se non sia il caso di accettare questa cura, incerti se considerare la propria diversità un difetto da estinguere o, al contrario, una risorsa da conservare, approfondire e ampliare, in un mondo in cui vivere la propria diversità comporta comunque rischi, ostacoli e mille difficoltà.

Credo che partendo da questo film si possano toccare temi fondamentali, come l’idea erronea che la diversità e la disabilità debbano per forza essere affrontate come patologie, creando con esse un rapporto solo di tipo assistenziale e curativo. È un atteggiamento giusto, ma solo in prima istanza, perché poi a esso deve subito far seguito una relazione più articolata, alla pari.

Un altro nodo centrale è il tema dell’identità: se una persona sente di doversi adeguare a un modello diffuso, avvertendo nell’ambiente che lo circonda una richiesta, anche tacita, di normalità, questo non può che portare alla rinuncia di ciò che si è realmente. Il film, per l’appunto, è in grado di parlarci di ciò che percepiamo come normale, di come questa percezione tende a fagocitare identità e rappresentazioni di sé differenti, inducendo gli stessi «portatori» di diversità a considerarsi come un’anomalia da correggere. Un argomento, in questo periodo, di stringente attualità.

Morale della favola? A volte, per ragionare su argomenti complessi e contradditori, è sufficiente andare al cinema! E voi, che genere di film prediligete? Cliccate su claudio@accaparlante.it

 

Dimmi come puzzi e ti dirò chi siamo – Il Messaggero di Sant’Antonio, gennaio 2008

Mi sono spesso domandato che cosa fanno i poveri su questa terra e, di conseguenza, che cosa può fare e fa Gesù per loro. Difficile rispondere: ci sono mille teorie sull’esistenza della povertà. Una volta un’amica mi ha detto che la povertà è funzionale all’esistenza e al rafforzamento di un clima di solidarietà. Di primo acchito questa teoria mi ha colpito, ma subito dopo mi ha fatto innervosire. La solidarietà è di sicuro una bella cosa, ma non può giustificare la povertà.Mi sembra anzi una teoria che rischia di mettere a tacere la coscienza e di placare le nostre ansie. Certo, le cause della povertà sono molteplici, e il discorso, qualora lo si affronti, comincia a ramificarsi in tantissime direzioni senza che un aspetto prevalga sugli altri e senza che, risolto un problema, gli altri trovino immediata soluzione. Vorrei, però, affrontare l’argomento dal punto di vista di come noi ci relazioniamo con chi è povero. Mi viene in mente il brano del Vangelo in cui si racconta del lebbroso, dove si legge: «Gesù lo toccò e disse…». In questa sede non è importante sapere come si conclude la storia: mi interessa il fatto che il lebbroso puzzava, in primo luogo per la putrefazione della sua carne, poi perché soffriva una condizione di povertà. Peraltro questa persona viveva ai margini del villaggio e non aveva acqua a disposizione per lavarsi. Ancora, emanava puzza di sudore per essere corso incontro a Gesù. Ecco che cosa fanno i poveri, spesso: puzzano!

La domanda conseguente è istantanea: qual è il nostro rapporto con le puzze? Credo che tutti noi ne siamo terrorizzati: chi emana cattivo odore viene allontanato perché selvaggio, animalesco, marginale. Proprio per scongiurare ogni possibilità di puzza abbiamo creato vaste gamme di prodotti per annullarla. Non è forse vero che se dobbiamo uscire per una festa o per andare al lavoro trascorriamo ore in bagno a deodorarci? Certo, l’atto del profumarsi esprime la cura di sé, ma al tempo stesso nasce dalla paura connaturata di emanare odori sgradevoli e dell’immagine che questi trasmetterebbero di noi. L’equazione allora non sbaglia: chi incontra i poveri e chi vive accanto a loro si trova a confronto con le puzze e con la paura che ne ha.

Un esempio: sono andato in questura a tentare di certificare un moldavo e lì ho trovato oltre cento extracomunitari stipati in una micro-stanza, accomunati da uno stato di indigenza ed emarginazione. C’erano una donna indiana che dava da mangiare alla sua bambina; tre marocchini con il giubbotto di pelle che bevevano birra; tre donne polacche che fumavano; due rom che discutevano animatamente a piedi nudi; c’erano cinque rumeni reduci dal lavoro in un cantiere edile; due donne nigeriane che, si capiva, avevano passato tutta la notte fuori; una famiglia di cinesi forse venditori di abbigliamento a buon mercato, ecc… Tutte persone che, per condizione sociale, e in parte per ragioni culturali, non avevano modo di eliminare o nascondere le proprie puzze, tra odore acre di birra, sudore, alito cattivo… In quel frangente sono giunto alla conclusione che tutta l’umanità puzza! Ho pensato che anch’io, in quella situazione, ai loro nasi comunicavo la mia puzza. Quindi, partendo da una situazione particolare come quella della povertà, ho capito che il discorso riguarda tutti. Ma allora: che cosa ha fatto Gesù incontrando la puzza della gente? L’ha toccata e annusata, senza averne paura. Ha mescolato il suo odore con quello del lebbroso accogliendolo e abbracciandolo. Ecco, credo che il punto sia proprio questo: recuperare l’arte di annusare le puzze. Solo così possiamo lavorare e relazionarci con gli altri. Sarebbe un ottimo esercizio! Non abbiate paura di annusare e ditemi che puzza preferite, cliccando su claudio@accaparlante.it
 

La liberazione delle carrozzine – Il Messaggero di Sant’Antonio, dicembre 2007

Quando ero bambino avevo l’abitudine di passare ore sul terrazzo, come un piccolo guardiano del faro, a contare le macchine che transitavano sotto casa mia. Non so se fosse più un modo per abituarsi a far di conto o una passione per le macchine stesse, per le loro forme, la velocità, i colori. Comunque, ricordo che quell’attività mi piaceva molto: spesso poi, si sa, la passione infantile diventa un «vizietto» nell’età matura.
Vi racconto un episodio capitatomi quest’estate. Diciamo che più che essermi capitato, l’ho fatto capitare. Ero seduto sotto la veranda di un ristorante nel centro di Cattolica (vado spesso nella località balneare, quando l’estate sta iniziando e anche quando l’estate sta finendo…) davanti a una strada pedonale, aspettando di mangiare una succulenta frittura mista di pesce. A un certo punto mi sono messo a contare le carrozzine che passavano. Ma non solo le contavo: come con le macchine, ne osservavo la forma, le dimensioni, i colori, le ruote, i freni e… i proprietari, perché se c’è una cosa bella è che le carrozzine fanno vedere tutto anche di chi ci è seduto sopra. Faccio una breve rassegna: persone in sandali, col pareo, senza pareo, occhiali da sole, infradito, bikini o costume intero, abbronzate o meno, copricapo, bandana, cappello di paglia…
Mi ha colpito il numero: nemmeno un’ora e ne erano passate ventuno. Subito la mia mente è andata indietro di trent’anni, quando non era nemmeno immaginabile una cosa simile. Le carrozzine erano più rare delle Ferrari nere quando stavo affacciato al balcone. Ma senza che allo scarso numero corrispondesse lo stesso fascino. Figuriamoci.

Liberarsi da chi e da che cosa?

Mi è venuto un flash improvviso, un termine: liberazione. Ma dovevo giustificare questa immagine e spiegarla meglio anche a me stesso: liberazione da chi e da che cosa? Dalla logica della vergogna, per un corpo che così poco si adatta all’idea di bellezza fisica vigente, ma anche dal disagio di un corpo «trasportato» da un altro. È liberazione dai pregiudizi, quelli veicolati anche dagli sguardi, anzi soprattutto dagli sguardi, che penetrano dentro chi è guardato e creano un forte disagio. Liberazione, inoltre, dalla poca fiducia in se stessi, che sfocia in una ancora minore autonomia e, allo stesso tempo, nella mancanza di relazioni forti con le altre persone. La storia del cane che si morde la coda la conoscete tutti. Perché senza sviluppare autonomia e relazione aumentano la vergogna, i pregiudizi e la sfiducia, e più queste crescono più le altre continueranno a mancare.

Ma, secondo me, la liberazione, che pure sta avanzando, soprattutto in questi anni, non è sufficiente. Perché significa solo «libera-azione». Ci vuole qualcosa di più: una «libera-rel-azione». Cerco di spiegare meglio la differenza tra queste due possibilità. Un’azione è limitata al suo attore, non solo nel momento stesso della sua realizzazione, ma il più delle volte anche nei benefici che può portare.

Una «rel-azione» implica un coinvolgimento maggiore, fatto di tante sinergie e contatti. Implica vivere le differenze reciproche insieme, e fare di queste il presupposto, il punto di partenza e il mezzo stesso di ogni «fare». Un «fare con».

E voi, tentate un processo di «liber-azione» o di «liber-relazione»?

Raccontatemelo su: claudio@accaparlante.it

 

Integrazione, parola vincente – Il Messaggero di Sant’Antonio, novembre 2007

Come ogni sera, seduti attorno al tavolo della cucina, aspettando di vedere l’unico telegiornale della giornata, ci sintonizziamo su Raiuno. Ci accoglie il viso lampadato di Carlo Conti che ci introduce al gioco finale della ghigliottina.
Il primo termine, che senza alcuna ragione dimezza il montepremi della campionessa della serata è «4 Agosto». Subito il mio cervello inizia a frullare, ma l’unico collegamento che mi viene è san Nicodemo.
Arriva, spietata, la seconda parola: «77». Io penso alle gambe delle donne. Ma che nesso ci può essere tra san Nicodemo e le donne? Non ci voglio nemmeno pensare.
La successiva è «cambiamento». E ancora non riesco a trovare alcun nesso logico.
La quarta, che finalmente la concorrente azzecca (ma per pura fortuna secondo me) è «30».

Ma che cosa sono tutti questi numeri stasera, penso spazientito? Il 4 (di agosto), il 77, il 30… Sono decisamente confuso. Provo a fare somme e sottrazioni, cerco di ripescare nei miei ricordi un evento storico avvenuto il 4 agosto, ma a scuola la storia non era la mia materia forte. Però la parola scuola mi fa intravedere un lumicino lontano lontano.

Ma ecco che l’ultima delle cinque parole elencate da Carlo Conti mi ributta nel buio totale, perché è «Zorro». Zorro?! Ma allora ero completamente fuori strada! Io, infatti, avevo pensato che la soluzione fosse «integrazione» e, fino a quel punto, ci rientrava tutto. Ecco il mio ragionamento. Tanto per cominciare il 4 agosto dell’anno 1977 è stata emanata la legge sull’integrazione scolastica per gli alunni in situazione di handicap nelle scuole statali; trenta sono gli anni passati da quella data (già trenta?), quando è iniziato un processo di cambiamento che sta diventando storia… Ma allora è integrazione! Sarebbe tutto più semplice se Zorro non scombinasse i miei piani. Dunque, Zorro era un bandito messicano che difendeva il popolo dalle tirannie del governo. Il suo stile «dark» con mantello, mascherina, cappello e cavallo nero mi ha sempre affascinato. E ancor più di lui mi ha affascinato il suo aiutante Bernardo. Questi era muto e con la gente faceva finta di essere anche sordo, solo Zorro conosceva il suo segreto così come solo Bernardo conosceva quello di Zorro. Quella di Bernardo era una posizione davvero strategica: fingendo la sordità egli poteva carpire dalla gente informazioni utili senza essere minimamente sospettato. Tra Zorro e Bernardo c’era quindi una grande complicità e una reale integrazione.

Un’altra cosa che mi piaceva molto di Zorro era che lui lasciava il segno del suo passaggio. Ma allora integrazione è la parola giusta! Anche l’integrazione, infatti, lascia un segno. In questi trent’anni l’integrazione ha lasciato migliaia di segni, ognuno dei quali è stato un fondamentale tassello per un cambiamento culturale e sociale. L’integrazione deve lasciare un segno, altrimenti è solamente «inserimento» (in effetti nella parola inserimento non c’è la Z!).
Ecco trovata l’analogia tra Zorro e integrazione. Allora io scommetto sulla mia soluzione! Dopo la suspance ecco Carlo Conti che tira fuori la soluzione dalla busta colorata, gira il foglio lentamente e… Avevo ragione! Peccato, avrei potuto vincere centomila euro!

E voi in questi anni quanti segni avete lasciato? Scrivetemi su:

claudio@accaparlante.it

 

 

Presidente ti scrivo

Caro Presidente
innanzitutto mi presento. Mi chiamo Claudio Imprudente, ho 39 anni e sono disabile (non-abile, per alcuni) o diversabile (abile in modo diverso, per altri): diciamo che, oggettivamente, ho una grave forma di tetraparesi spastica dalla nascita. Sono anch’io un presidente, della associazione Centro Documentazione Handicap di Bologna e inoltre dirigo la rivista HP-Accaparlante. Forse sono quello che si definirebbe, anche se sembra una contraddizione, un handicappato di successo: mi sento abbastanza integrato nella società e addirittura sono spesso ospite di trasmissioni televisive nelle quali porto i risultati del lavoro mio e della mia équipe.

Se dovessi riassumere a che cosa debbo tutto questo, c’è una parolina che è fondamentale e che ancora troppo spesso resta fuori dal “mondo dell’handicap”: la fiducia. Se guardo alla mia vita moltissime persone mi hanno dato fiducia, a cominciare dai miei genitori e dai miei amici che via via sono diventati colleghi nel lavoro culturale che abbiamo intrapreso fondando circa vent’anni fa il suddetto Centro. Sono persone che non hanno guardato solo alla gravità del mio deficit ma hanno invece guardato alle mie potenzialità, hanno imparato a leggerne i segni e a intuirle anche quando ciò pareva una operazione disperata. Le faccio un esempio. Io comunico soprattutto utilizzando una lavagnetta di plexiglas trasparente sulla quale stanno le lettere dell’alfabeto: seguendo il mio sguardo che le indica una per una, la persona di fronte a me può “leggere” il mio pensiero a voce alta. Come vede questo ausilio, frutto di immaginazione e di creatività, mi ha ridotto molto l’handicap, la difficoltà, derivante dal non poter comunicare, come fanno tutti, con la propria voce: è l’esempio più tangibile della fiducia di cui parlo.

Signor Presidente, Lei ha fiducia in me? Ha fiducia nelle migliaia di Italiani che hanno un deficit (psichico o motorio o sensoriale) ma che purtroppo si trovano ad affrontare ogni giorno moltissime difficoltà, moltissimi handicap? Io sono convinto di sì ed è per questo che Le scrivo partendo da una affermazione provocatoria e paradossale, tanto più se Lei considera che io ho bisogno costantemente di un aiuto per il vivere quotidiano: i disabili non hanno bisogno di assistenza. In molti pensano di non potersi aspettare nulla da noi, e si preoccupano solo di “aiutarci”, ma in primo luogo noi disabili abbiamo bisogno di agire come soggetti attivi, abbiamo bisogno di essere coinvolti e di dare a nostra volta: e come noi anche tutti gli altri italiani che vogliano diventare veri cittadini.

E’ vero: dei passi in avanti sono stati fatti. Abbiamo alcune leggi, come quella sull’integrazione scolastica, che sicuramente hanno generato delle esperienze all’avanguardia e dalle quali anche gli altri Paesi dell’Unione Europea traggono fondamentali suggerimenti. Non dobbiamo tornare indietro in questo cammino di riconoscimento dei diritti fondamentali dell’individuo, ma anzi dobbiamo fare in modo che queste leggi siano pienamente effettive ed efficaci attraverso l’adeguamento dei mezzi a disposizione per la loro attuazione, che peraltro si presenta ancora difficoltosa (si veda ad esempio la questione dell’abbattimento delle barriere architettoniche).
Dobbiamo però ribadire con forza che alcuni diritti non sono esigibili e il loro rispetto non può essere affidato alla “buona volontà” degli enti preposti. Non so se noi abbiamo pazienza o abbiamo solo imparato ad aspettare: siamo però fermamente convinti che le cose cambieranno.
E’ certo che in ambito culturale, ed è quello che mi rallegra di più, i passi in avanti sono tangibili: quando con il Progetto Calamaio andiamo nelle scuole di tutta Italia per far conoscere la realtà dell’handicap ai bambini, utilizzando giochi e fiabe e creando un momento di incontro e di conoscenza reciproca che fa sfumare mille paure e pregiudizi, vediamo come la cultura dell’integrazione sia diventata realtà. Incontriamo tantissime persone che con convinzione ed entusiasmo portano avanti questo cambiamento, e in particolare vorrei ringraziare quegli insegnanti che, nonostante molti problemi, lavorano instancabilmente per costruire una scuola di tutti.

Quello che vorrei sottolineare è che la questione dell’handicap non è un problema, come generalmente si crede, di una categoria di persone (i disabili, con i loro genitori e gli addetti ai lavori: medici, terapisti, insegnanti di sostegno, educatori, eccetera). Questo tipo di cultura genera quell’assistenzialismo che, partendo dalla corretta consapevolezza che il disabile ha necessità di una attenzione speciale e operando magari con le migliori intenzioni, si traduce poi nella creazione di un insieme di iniziative che di fatto ghettizzano i disabili. Il “mondo dei disabili” non può essere la somma di spazi speciali, di spazi protetti, che però anche chiudono le porte al confronto con la cosiddetta normalità: io sogno un “mondo dei disabili” disabitato, proprio perché ciò che pesto sotto i miei piedi, anzi solco con le ruote della mia carrozzina, non voglio che sia una terra “speciale”, una riserva, ma la terra comune, la terra di tutti. L’unica cosa invece veramente speciale è la nostra voglia di partecipare, è la voglia di dimostrare che siamo una ricchezza, perché noi siamo una ricchezza. E quando dico “noi” mi permetto di parlare anche a nome di chi ha una disabilità psichica: soprattutto queste persone hanno una voglia enorme di dare, di partecipare, di comunicare, certo ognuna secondo le proprie modalità, nelle potenzialità come nei limiti. Togliamoci però dalla testa che esistano i cosiddetti “vegetali”: opportunamente stimolate e seguite molte di queste persone riescono a raggiungere dei risultati insperati. Proprio perché più di tutte soffrono situazioni di emarginazione dovuta alla mancanza di comunicazione con gli altri, è a loro in particolare che deve rivolgersi la nostra attenzione. Dobbiamo essere consapevoli che proprio la loro qualità di vita e quella dei loro familiari è la cartina tornasole dello stato dell’integrazione in Italia.

Non chiediamo, dunque, solo assistenza, ma fiducia. Questo è il senso della mia precedente dichiarazione provocatoria. L’assistenza è un mezzo sicuramente indispensabile che però viene molto spesso interpretato come un fine e si pensa erroneamente di aver risolto “il problema” sulla base di un computo, come ad esempio di quante ore di assistenza domiciliare un disabile usufruisce. Così si riduce l’approccio all’handicap a qualcosa di risolvibile con una operazione di quantità. Non è così: qui è in gioco la qualità della vita ed è facile intuire che un mondo a misura di disabile è più comodo per tutti. Tutti beneficeranno di questo processo: l’handicap è una questione che tocca tutti, perché gli handicap che ostacolano l’integrazione dei disabili sono gli stessi che impediscono l’integrazione di tutti.
Quello che manca è la fiducia e ciò necessita di un cambiamento a livello culturale. Nel mio lavoro mi confronto sempre con moltissime persone e situazioni e scopro che una quantità enorme di risorse si perde proprio per la mancanza di fiducia: i genitori, prima risorsa, spesso non vengono coinvolti quanto dovrebbero nei processi di riabilitazione (il sostegno alla famiglia è ancora molto carente), le istituzioni continuano a non confrontarsi bensì a prendere iniziative separate e infine le stesse persone con deficit raramente intervengono nel processo che dovrebbe integrarle, subendo passivamente decisioni prese da altri.
Sì all’assistenza , dunque, ma no all’assistenzialismo che tra l’altro genera il meccanismo della delega: se c’è, quando c’è, un insegnante di sostegno, gli altri insegnanti spesso delegano a lui “il problema dell’handicappato”. E’ evidente che in questa logica, anche ammesso che detto insegnante operasse per un numero di ore superiore all’attuale, non viene raggiunto lo scopo di una reale e completa integrazione del disabile.

Caro Presidente, so che Lei parteciperà alla 1° Conferenza Nazionale sulle politiche dell’handicap che si terrà dal 16 al 18 di questo mese a Roma. La prego di ricordare questo appello, queste mie parole che non sono animate da una disperazione fredda e lucida, come mi sembra (con tutto il rispetto) quella di chi chiede il diritto all’eutanasia, ma dalla speranza e determinazione di chi è convinto che la vita sia il bene più sacro. Non sta a me giudicare, anche perché nessuno può dire di avere la verità in tasca: dico solo che se c’è una battaglia che vale la pena di essere combattuta è quella per la “buona vita”. La vera e sostanziale differenza è tra vivere e sopravvivere: tutti moriamo ma non tutti possono dire di aver vissuto.
Nel corso della Conferenza, guardandosi intorno, forse vedrà che il numero dei disabili presenti in sala, come purtroppo temo, sarà minimo (ne vedo ben pochi anch’io ai convegni cui partecipo): ciò non è dovuto solo a problemi organizzativi ma anche al fatto che molti non hanno consapevolezza di sé in quanto soggetti attivi nella società. Il cammino verso la partecipazione è ancora lungo, è una conquista quotidiana, come lo è la democrazia che si nutre di libertà e di, appunto, partecipazione. Le assicuro che molti di noi ce la stanno mettendo tutta, ma la cultura dell’integrazione è una di quelle conquiste che si può fare tutti insieme.

Caro Presidente, noi siamo una ricchezza per l’Italia, una ricchezza che non va tenuta in cassaforte (come fanno pensare alcune strutture residenziali sia pur dotate di tutto ma che sono situate fuori dai centri abitati, magari sulle colline), ma che può diventare una risorsa fondamentale nella nostra società che sempre più dovrà affrontare il tema della complessità e della diversità. Noi constatiamo che questo processo culturale sta già facendo dei passi avanti e vogliamo aiutarlo affinché, nonostante la lettera H sia la lettera muta del nostro alfabeto, diventi sempre più una Acca-parlante.

Siamo sicuri di poter contare sulla Sua fiducia.

Claudio Imprudente
Presidente dell’associazione Centro documentazione Handicap di Bologna

Iperprotezione? No grazie

La menomazione del figlio provoca soprattutto nella madre, un annullamento ditutti i progetti e di tutte le sicurezze createsi nei nove mesi di attesa etoglie ogni punto di riferimento identificatore in quanto i genitori si trovanoimprovvisamente di fronte a un’immagine di se che non riescono ad accettare.Questa possibilità di identificazione opera generalmente un rifiuto neiconfronti del figlio handicappato. Tale rifiuto viene mascherato e trasformatoin iperprotezionismo ma ciò non riesce a nascondere il grossissimo senso dicolpa che il genitore si ritrova poiché di fatto si ritiene colpevoledell’handicap del figlio.
Nella mia esperienza personale questi "meccanismi" generali si sonoverificati tutti a differenza che i miei genitori seppero del mio handicapsoltanto quando io avevo due mesi.
Fu una doccia fredda…, i miei genitori non sapevano minimamente cosa volessedire handicap.
Oltretutto lo seppero da un medico che non spiegò loro nulla: "guardi chesuo figlio non camminerà mai, non sarà intelligente, non potrà condurre unavita normale…, l’unica cosa da fare è di consultare uno specialista".
Cominciò così la trafila da uno specialista all’altro perché l’unico punto diriferimento che ai miei genitori rimaneva era la speranza; speranza di portarmi,nel limite del possibile verso la "normalità". L’handicap viene cosìconsiderato come una privazione, un qualcosa meno rispetto al normale, infattila gente comune pensa: "non può camminare", "non puòstudiare", "non può farsi una famiglia". L’handicap è vistosotto una luce negativa quindi l’handicappato è considerato solo come unapersona da dover portare a una condizione "normale". Ma qual è lanormalità? Chi la stabilisce? La nostra società ha costruito l’immaginedell’uomo "tipo": bello, intelligente, ricco, al quale ognuno deveconformarsi se. vuole essere accettato nel mondo. Ora, l’handicappato non puòassolvere del tutto a tale compito quindi o è da nascondere o è da compatire!Questa mentalità comune non fa altro che suscitare insicurezze e frustrazioninon solo da parte del portatore di handicaps ma anche dei genitori. Riguardo aqueste ultime cose, ritengo di essere stato molto fortunato perché fin dapiccolissimo, i miei genitori mi hanno trattato come un qualunque genitoretratta un figlio che ama. Fondamentale è stato per me il sentirmi stimato edaccettato per quello che ero e non per quello che potevo diventare, il sentireche non facevano distinzione tra ciò che sono fisicamente e ciò che sonoinferiormente. Per loro ero Claudio e non Claudio-handicappato. Ricordo che nonsi sono mai vergognati di portarmi fuori, in mezzo alla gente: ai giardini agiocare con gli altri bambini, a guardare le vetrine dei negozi, al ristorante,e la domenica o a fare qualche lungo giro in collina o al cinema. Nelle vacanzepoi, si andava in montagna oppure al mare a prendere il sole sulla spiaggia e afare il bagno. Mi parlavano in continuazione, facendomi partecipe dei loroproblemi e delle loro gioie. Quando si trattava di fare delle scelte, nondecidevano mai per me, questo perché avevano rispetto di me in modo assoluto.Hanno cercato, fin da quando iniziai ad andare a scuola, a rendermiindipendente, ero responsabile delle mie azioni quindi nelle situazioni critiche(litigi coi compagni, rimproveri da parte dei professori) non prendevano semprele mie difensive, pur interessandosi di quello che mi succedeva al di fuoridelle mura di casa, lasciavano che i miei "nodi" li sbrogliassi dasolo. È importante, a mio avviso, che i genitori non prendano il posto delfiglio perché possa maturare responsabilmente.
I miei genitori mi hanno sempre spinto ad uscire dalla piccola cerchiafamiliare, ritenendo indispensabile non solo il contatto con loro e con lascuola, ma anche con gli amici. Questo mi porta ad essere attivo e a prenderel’iniziativa. Sono stato sempre attorniato da amici un po’ per il mio carattereestroverso, un po’ per l’affabilità degli altri. Vorrei sottolineare chel’avere amici o comunque contatti col mondo esterno, comporta necessariamente unatteggiamento quanto mai attivo e una grande disponibilità a fare il primopasso. Spesso purtroppo, capita che nella famiglia di un disabile ci sia ungenerale atteggiamento di vittimismo… come se gli altri debbano riconoscereloro aiuto e "amicizia". Proprio qui nasce la compassione: un’arma adoppio taglio che realizza le aspettative immediate (contatti con gli altri) mache crea falsi rapporti e quindi frustrazioni.
Per cambiare questa cultura sbagliata non bisogna quindi partire dalla societàma da noi stessi, lasciandoci gestire da colui che ci ha desiderati e amaticosì come siamo, e qui vorrei rivolgermi soprattutto agli handicappati e alleloro famiglie, lo credo che il problema non sia nella diversità bensìnell’accettarsie nell’amarsi così come siamo stati creati, che non è rassegnarsi, ma scoprireche in ognuno di noi c’è un piano prestabilito e meraviglioso per realizzarenon solo noi stessi ma il Regno di Dio. All’inizio, anche io ero succube diquesta immagine poi, attraverso la testimonianza di altri, ho compreso la suafalsità e ho scoperto la strada per non lasciarmi schiacciare da essa,intravedendo la possibilità di essere libero nella diversità. Questocambiamento di vedute, ha trasformato la mia vita familiare. Infatti cinque annifa abbiamo intrappreso insieme un cammino spirituale con un padre gesuita, maquello che più mi preme dire è che non avrei mai pensato di poter condividerecon mia madre gli stessi ideali e le stesse speranze. Da qui con alcune giovanicoppie, maturò l’idea di formare una comunità. In questo modo veniva alleviatouno dei più grossi problemi che il portatore di handicaps deve affrontare: il"dopo famiglia".
Ormai convinti di tale progetto comprammo una grande casa nella campagnabolognese. Da quel momento gettammo le basi concrete della comunità che sento,con intensità crescente, come inno di lode e di gioia, infatti l’abbiamobattezzata col nome Maranà-Tha (vieni Signore nostro).

Vocazione alla castita? Chi l’ha detto

Il tema della sessualità nel mondo dell’handicap ha conosciuto negli anni
ottanta una fioritura di articoli e convegni che hanno proposto come chiave di
lettura unica questo pensiero: la sessualità per l’handicappato è un diritto.
Nel mondo cattolico questa riflessione si è sviluppata nella seguente frase:
l’handicap ha la vocazione alla castità. Per me non è così. perché la
vocazione è una chiamata, e ad una chiamata bisogna dare una risposta. io non
ho scelto di essere handicappato, e dunque l’handicap non può scegliere.

Semmai la vocazione è accettare l’handicap. La libertà di questa sceltaconsiste nella decisione di diventare soggetto a pieno titolo oppure rimanereancora oggetto. E da questo dipende anche la possibilità di concepire in modonuovo il tema handicap e sessualità. Perché il problema è la sessualità enon la sessualità dell’handicap. Troppo dì frequente si propone qualeassolutizzante immagine della sessualità il rapporto fisico, ma questosignificherebbe porre un limite. Un solo criterio interpretativo, lo vorreiproporre una visione diversa, a partire da una variazione sull’interpretazionedel rapporto sessuale. Poniamo di avere una torta alla panna e di rivolgeretutta la nostra attenzione alla cilie-gina, solo perché si presenta bene. Inquesto siamo aiutati in vari modi dalle influenze sociali e dei media, che contribuiscono in vari modi a farne un mito.Il mito della ciliegina. Ma se qualcuno volesse proporre di considerare tutta latorta?
Stando al mito, l’handicap non può avvicinarsi alla torta. Se modifichiamo itermini però potremmo chiederci se l’handicap non rientra nei paradigmi o se sono i criteri di giudizio che vanno modificati. La miaproposta investe proprio tali criteri. E mi spingo a dire che l’handicap ha unposto di rilievo in questa tematica, perché fa riflettere sulla sessualità esu un possibile nuovo modo di interpretarla.
Riprendiamo il tema dellavocazione. Definire l’handicap una chiamata alla castità significa relegare ilproblema in una zona franca, dove non disturba e dove non è disturbato. Lasanità vive il suo rapporto con la sessualità, confina in un limbo tral’eroico e il disgraziato l’handicap, e non se ne parli più. Che questa possaessere una risposta della società è anche concepibile. Rientra in una normaleeconomia di pensiero. Ma che l’handicap non faccia niente per smuoverla èpreoccupante. Queste note vorrebbero essere un tentativo di farlo. 
L’handicapdeve trasformare sé stesso da oggetto d’amore a soggetto d’amore. Osserviamouna fenomenologia usuale del rapporto dell’handicappato con il suo corpo.L’handynon cura il proprio aspetto, non si preoccupa dei vestiti che indossa, non usaprofumi o simili. Perché dovrebbe abbellire il proprio corpo? Se un ‘normale’si atteggia a bullo, è un bullo; se lo fa l’handicappato è solo un poveroscemo. Tutto questo dovrebbe cambiare a livello di immaginario collettivo. Bastacredere alle potenzialità offerte dall’handicap. Si dice che I’-handy non puòcamminare, e quindi è impotente; non può parlare, e quindi è impotente; nonpuò decidere, e quindi è impotente. Mi permetto di dire che la mia esperienzaconferma il contrario.
L’handicap è invece una potenzialità che bisognerebbe utilizzare per l’uomo,lo sono diventato soggetto d’amore, ho messo in atto quella potenza che c’è inognuno di noi, handicap o no. E questo ha fatto sì che la gente attorno a me cambiasse e mi offrisse le sue potenzialità.È un fatto normale per tutti, io non amavo la mia situazione e il mio corpo. Michiedevo perché dovessi essere così, senza ‘colpa’ da parte mia. Poi ho presofiducia, considerando questa condizione come una delle tante, necessitante solodi essere messa a frutto. Ora non mi vergogno di essere cosi come sono, perché mi sono accettato. Questo è avvenuto nel miocaso quando mi sono sentito non solo accettato, ma, più ancora, amato, da Dio edagli uomini. Perché quando uno si sente amato che può a sua volta amare lapropria condizione fattuale. Si instaura un fenomeno inarrestabile, come una catena lungo la quale l’amore che si riceve siritrasmette e permette che anche gli altri possano amare. Amare la miacondizione. E così se prima la gente veniva da me per dare qualcosa, ma ilmovimento era univoco, ora è uno scambio reciproco. Questa è la cultura chedeve stare attorno e insieme all’handicap.

Salve sono un geranio

Per una cultura che valorizzi tutte le abilità

 

Vi racconto di un mio recente incontro al Centro Documentazione Handicap di Bologna, dove lavoro. Erano presenti un gruppo di insegnanti tedeschi che ogni anno trascorrono una settimana nel bolognese per incontrare alcune realtà operanti nel sociale, come scuole e associazioni; solitamente l’ultimo giorno che trascorrono in Italia ci fanno visita per una chiacchierata di conoscenza. Io preferisco sempre rendere attivi questi incontri, andare un po’ oltre le chiacchiere, giocare, così da far toccar con mano ciò di cui si sta parlando. Quest’anno avevo messo al centro della tavola una bellissima pianta e ho iniziato dicendo che quella pianta era il mio biglietto da visita. Ho raccontato come solitamente la mia presentazione ai convegni fosse “Salve, sono un geranio”. Immaginate lo stupore negli occhi dei tedeschi, lo sguardo perso ma attento di chi non capisce ma rimane concentrato per intuire dove voglio arrivare con i miei giochetti. Ho poi spiegato che mi presento così facendo memoria di ciò che era stato detto a mia madre al momento della mia nascita: “Signora, guardi, suo figlio è vivo, ma resterà per sempre un vegetale”. Allora io ho scelto come vegetale di essere una pianta di geranio. Le facce dei tedeschi si facevano sempre più sconvolte e curiose nello stesso tempo. Uscendo dalla mia esperienza personale ho deciso di instaurare un dialogo che stimolasse anche il loro contributo sulla questione “pianta o persona?” Si tratta infatti di una questione che non riguarda solo me, tutte le persone handicappate gravi vengono definite dei vegetali sin dalla nascita e così sono dunque costretti a presentarsi per il resto della loro vita. Dico spesso, a questo proposito, che sono contento di essere handicappato e di esserlo fino in fondo, così tutto si mette in discussione, si mette in crisi…altrimenti non mi sarei mai valso del titolo di geranio! Allora di fronte a questo dato di fatto chiedevo ai tedeschi di avanzare ipotesi o proposte concrete per trasformare queste piante in persone. Sono uscite un po’ tutte quelle solite cose che si fanno con una pianta: la si annaffia, la si tiene al sole, le si cambia la terra, la si concima. Ma non basta ancora, facendo tutto questo, assolutamente necessario, la pianta rimane sempre pianta. Allora escono le proposte più folli e, a mio avviso, anche un po’ patologiche: le si parla, la si tiene in compagnia, le si fa ascoltare la musica. Ok, ma sempre pianta rimane, forse più bella, forse anche un po’ più frustrata, ma sempre pianta è. I tedeschi non sanno più cosa dire, come gestire la situazione: si legge nei loro occhi lo smarrimento più totale. Decido di buttarmi e dare la soluzione dell’enigma che li sta rendendo sempre più pensierosi. Tutto quello che è stato proposto appartiene a quella che si chiama assistenza, ma abbiamo visto come con la sola assistenza, seppur necessaria, la pianta rimane ancora pianta. Per farla diventare persona bisogna abbassarsi al suo livello, guardarla dritto negli occhi e instaurare con lei una relazione alla pari: ecco che la pianta diventa persona. Non è comunque uno sforzo unilaterale! La relazione alla pari si crea con il contributo di tutte le parti; in certe situazioni questo contributo è messo a disposizione incondizionatamente. Non lo trovate affascinante? Tutti sono capaci di fare assistenza, anche il Presidente del Consiglio fa assistenza, ma la pianta rimane pianta. Se non ci rapportiamo alla diversabilità nel giusto modo rischiamo di copiare un modello già vecchio, bisogna cambiare la cultura. Dobbiamo insomma fare un salto di qualità che è insieme politico e culturale. Attenzione però: se la persona diversabile non è disposta giocarsi in una relazione autentica, uscendo dalla logica del mero farsi aiutare, non otterremo una vera reciprocità. Quasi mai si pensa che l’integrazione non è solo l’accoglienza da parte della “normalità” del “diverso”, ma anche il “diverso” deve accogliere la “normalità”. Il diversabile deve accettare i propri deficit, averne consapevolezza, e fare in modo che l’handicap non influenzi negativamente il rapporto con un’altra persona, che a sua volta si sforza di fare altrettanto: entrambi devono accettare i propri limiti. Dobbiamo insomma fare tutti insieme, diversabili e normabili, un salto di qualità che è insieme politico e culturale. Perché la pianta diventi persona si deve pensare adulta, come diceva spesso il mio amico Mario Tortello. Per questo credo che l’anno duemilatre, anno europeo delle persone con disabilità, si presti bene ad essere un momento propizio per lavorare a questa cultura da cambiare e migliorare. Come ho già detto mille volte la parola disabilità proprio non mi piace, allora perché non trasformare il 2003 in “anno europeo della diversabilità”. Sarebbe l’occasione per fare un salto di qualità culturale e politico anche per chi si sente solo una persona portatrice di deficit. Ultimamente ho scoperto quanto sia importante mettere in rete tutte le idee e tutte le esperienze, allora ecco il mio indirizzo di posta elettronica: claudio@accaparlante.it. Se proprio poi volete innaffiarmi…fatelo con la birra Adelscott! Claudio Imprudente a cura di Alessandra Pederzoli

Viaggiare Imprudente

A Roma a sei anni

Mi alzai una mattina del lontano 1966 preso dalla voglia di andare a Roma, attratto non tanto dalla città eterna, dal fascino della capitale, ma soprattutto da Roma come sede del Papa e… dello zoo. Non so perché, ma erano queste le due cose di primaria importanza per me, quelle che mi invogliavano a intraprendere il primo grande viaggio della mia vita. Erano gli anni in cui il Papa andava a passeggio sulla sedia gestatoria per le vie del  Vaticano e faceva la sua entrata trionfale così in San Pietro. La sedia gestatoria è una sorta di trono retto sulle spalle da quattro portantini che, in tal modo, portano a spasso chi ci sta seduto sopra, in questo caso il Papa. Questa cosa mi piaceva da impazzire, volevo assolutamente vederlo… fantasticare come ci sarei stato bene io là sopra; immaginavo uno scambio, le mie quattro ruote per i quattro portantini a mia disposizione per i miei passeggi. Ma io non ero il Papa.
I miei genitori decisero di accontentare questo mio desiderio e prenotarono un albergo per tre giorni. Finalmente il mio sogno si stava avverando, stavamo partendo per Roma. Ero felice, già solo il pensiero di quelle tre giornate mi facevano sentire sorretto dai portantini, già in alto. Era la prima volta che andavo in albergo ed era tutto così nuovo e avvincente. Una cosa però mi sembrava strana e faticavo a capire: tutta la vita da albergo si consumava tra le quattro mura della nostra stanza. Lì si dormiva, ci si lavava, e si mangiava. Era questo un particolare che non mi convinceva affatto; chiedevo ai miei il perché, ma la risposta era sempre: “perché in albergo si fa così”. Solo qualche anno dopo mia madre mi spiegò il vero motivo. La sala da pranzo ci era stata vietata, perché la mia presenza turbava la quiete degli altri ospiti. Erano altri tempi.

Al mare

Per noi famiglia Imprudente l’appuntamento fisso di ogni estate era la vacanza al mare. Ogni anno si caricava la macchina e tutti sorridenti  si partiva per Misano Adriatico e lì si rimaneva per un mese. Ogni mattina, asciugamani sulle spalle, si andava in spiaggia. Non avevo neanche l’impiccio di portarmi paletta e secchiello come facevano tutti gli altri, perché già la spiaggia pullulava di bambini attrezzatissimi e presi dal costruire castelli delle più svariate forme. Ogni mattina, arrivati in spiaggia, l’occhio di mia mamma viaggiava veloce perlustrando la zona e, visto il primo nugolo di bambini che giocavano costruendo castelli, si avvicinava e mi metteva lì con loro. Ma dopo qualche minuto accadeva questo: “Marco, vieni qui che ho bisogno”, “Federico, vieni a fare merenda”, “Luca, andiamo a fare il bagno”, “ Andrea, vieni a giocare un po’ qui con tua sorella” e a uno a uno i bambini si dileguavano. Qualche richiamo era poi seguito dalla spiegazione sussurrata dei genitori: “ Vedi quel bambino? Lui non sta bene”, e li dirigevano verso altre mete, costringendoli ad abbandonare i loro castelli e me che rimanevo lì a guardare. Ogni mattina si ripeteva questa scena, mi stavo quasi specializzando nell’attività di fare da custode ai castelli di sabbia. Anche il bagnino divenne protagonista delle avventure tra me e i cari genitori della spiaggia, perché questi andarono da lui a lamentarsi della mia presenza. La sua risposta fu che io ero un bambino come gli altri, non ero ammalato, e che se ero motivo di paura e fastidio, allora bene, liberissimi di cambiare spiaggia, perché io lì ero e lì rimanevo.
E queste erano le nostre giornate in spiaggia. Ma il coraggio di mia madre (per quei tempi!) non si fermava lì: lo spettacolo cominciava sull’imbrunire quando ci si preparava per la serata. Abbastanza standard, ma sempre divertente: la passeggiata per il centro di Misano, piena di gente bene che aspetta un anno intero per infighettarsi e passeggiare su e giù per le strade del centro. Abbronzati, acconciati e pieni di sé erano costretti ogni sera ad abbassare lo sguardo, anche un po’ indignato, per una così indecente presenza come poteva essere la mia. Ma ogni sera gli Imprudenti stavano in agguato e, non contenti della sola passeggiata, chiudevamo la serata in gelateria mangiandoci un bel gelato. Primo passo per mangiare il gelato è, allora come adesso del resto, tappezzarmi la maglia sul petto con almeno una ventina di tovaglioli sui quali andrà a depositarsi un misto di bava e gelato… lo ammetto, un po’ disgustosa. Ma fino a quando questo miscuglio si ferma sulla mia maglia… niente di che, al massimo qualche sguardo schifato. L’apoteosi dello show accade invece quando, con la bocca piena di gelato, mi scappa uno starnuto o una risata… il gelato purtroppo zampilla intorno e chi c’è, c’è. Immaginatevi il sipario che chiude la scena e un fragoroso rutto finale che quasi fa uscire la gente dalla gelateria. E ogni sera mia mamma mi portava in gelateria a Misano, nei mitici anni Sessanta, non so se mi spiego! Un gesto rivoluzionario, che va insieme alla grande rivoluzione della seconda metà del secolo: il ’68.

Gioie e dolori delle trasferte
La prima volta che sono stato all’estero per un convegno è stata un’esperienza illuminante. È stato in Belgio, ma potevamo anche essere presso gli Yanomani dell’Amazzonia, o su Marte, che io e Luca, il collega che mi accompagnava, non ci saremmo accorti della differenza. Quando non si sa la lingua… allora sì che si è handicappati veramente! In fin dei conti questa esperienza mi ha confermato il fatto che per praticamente annullare l’handicap si tratta di trovare il codice linguistico che permetta a due persone di comunicare. Tra una pennichella e l’altra, ricordo solo lo sproloquiare dei relatori come un ammasso di suoni confusi del tipo: “endicappè, piripì piripè”, e via così per ore, che solo Dario Fo potrebbe con il suo gramelot rendere bene. Insomma sia io che Luca non ci capivamo una cippa: come risultato sono riuscito a recuperare ore di sonno che dai tempi della giovinezza mi portavo dietro. Una menzione da fare: l’albergo. Spaziale, con la musica negli ascensori: ma adesso che ci penso era un po’ soporifera pure quella.
Quest’anno sono andato in Francia, ma con Fabrizio, che il francese lo sa!

Claudio Imprudente, Una vita Imprudente, Edizioni Erickson, Trento, 2003

Lettere al direttore

Egr. Claudio Imprudente,
ho avuto il Suo contatto tramite un’amica attiva nel settore del volontariato, che ha già avuto modo di lavorare con Lei.
Sono una studentessa di Scienze della Comunicazione all’ultimo anno e recentemente ho preso la decisione di provare a intraprendere la strada del servizio civile volontario. La mia amica mi ha segnalato che l’associazione di cui Lei è presidente presenta progetti all’ARCI che potrebbero rientrare nei miei interessi.
Prima di presentarmi alla sede bolognese dell’ARCI preferirei avere un primo contatto diretto con l’associazione, per avere maggiori chiarimenti su come procedere e su come potermi inserire nei vostri piani di lavoro.
Fiduciosa in una Sua risposta, Le invio i miei più cordiali saluti.

Flavia Corradetti
La ragazza che ha scritto questa e-mail ora presta servizio presso il Centro Documentazione Handicap di Bologna. Ho deciso di inserirla in questa rubrica perché trovo stimolante il discorso sul Servizio Civile Volontario, ma non solo. Sento parlare spesso in tv e sui giornali delle nuove generazioni, e di solito non ne escono ritratti lusinghieri, tutt’altro. Le nuove ondate di giovani vengono viste con sospetto e sfiducia. Tacciati spesso di menefreghismo e indifferenza, si parla di loro come di una generazione priva di valori. Posso dire, invece, che da loro c’è molto da imparare. Quotidianamente entro in contatto con giovani che di certo non possono essere visti come persone insensibili a temi di una certa rilevanza sociale. Ragazzi che spendono molte delle loro energie per dare una mano a una società che ha bisogno della loro forza e della loro creatività per diventare migliore e più a misura d’uomo, e spesso questo avviene proprio grazie al Servizio Civile Volontario. Sicuramente incentivati dalla possibilità di avere una retribuzione fissa al mese, questi ragazzi hanno forse trovato un metodo congeniale alle proprie esigenze per dimostrare che questo Paese può contare ancora su di loro per non morire lentamente. In questi giorni di tragedie – penso al disastro naturale che ha colpito il sud-est asiatico – sento spesso parlare di solidarietà. Aiutare in queste situazioni è doveroso, ma mi riempie di sconforto vedere che c’è bisogno di una simile catastrofe per dare visibilità a un termine così importante. La vera solidarietà, lo sanno tutti, è quella silenziosa e quotidiana, e molti di questi ragazzi l’hanno già capito da tempo.

Buongiorno Claudio, è con sorpresa che mi ritrovo a risponderti, forse è la musica di Einaudi, forse l’approcciarsi della perturbazione o forse ancora perché non voglio cominciare con la solita routine.
Chi sono? Beh, quasi un tuo compagno di medie, uno comunque che con te si è sempre divertito molto. Divertito in questo caso potrebbe stare anche come formato, cresciuto, vissuto, ecc.
Arrivo al dunque: ho letto le tue ultime riflessioni pizzaiole e condivido molto delle tue riflessioni sui ruoli, ci ho messo un totale di anni per arrivarci (dannati cattolici mi hanno proprio sistemato per benino) ma allora perché chiamarci diversabili, normodotati, ecc., tu non sei Claudio ancorché Imprudente?
A prestissimo

Alberto Manzoni
Noto con piacere che questi splendidi incontri non avvengono solo a “Carramba che sorpresa!”, ma anche su una rivista come “HP-Accaparlante”. Rispondo davvero volentieri alla tua lettera. Ti ricordi quando cantavamo sulle note di Voglio una vita spericolata o quando ci divertivamo al mare di Cattolica un po’ come Boldi e De Sica? La tua lettera apre comunque un sacco di spunti interessanti e mi fa davvero piacere che tu abbia letto il mio articolo sul concetto di categorie. Per chi non lo sapesse, a quell’articolo si riferisce l’amico Alberto quando parla di riflessioni pizzaiole. Senza scendere troppo nei particolari, quando parlo di “categorie” mi riferisco a quella strana patologia, molto diffusa tra gli esseri umani, che spinge a suddividere e classificare tutto e tutti in forme di valori opposti tra di loro. Buoni o cattivi, belli o brutti, normodotati o diversabili, ecc. Questo è alla base di ogni forma di discriminazione. Sarebbe utile concentrare tutta la nostra attenzione sull’importanza dei ruoli che caratterizzano la persona (padre, madre, figlio, ma anche ingegnere, dottoressa, studente, ecc.). Ma il discorso qui si allarga, perché Alberto parla chiaramente dell’importanza dell’identità del soggetto. Tu non sei Claudio ancorché Imprudente, dice. A questo proposito cito con piacere il concorso “Chiamatemi per nome” indetto nel 2004 dagli amici dell’Associazione Integrazione Onlus di Villaverla. In particolare, propongo la poesia introduttiva al bando, perché mi sembra la miglior risposta alla lettera di Alberto. Non ci sarà bisogno di aggiungere altro.
Chiamatemi per nome.
Non voglio più essere conosciuto per ciò che non ho
Ma per quello che sono: una persona come tante altre.
Chiamatemi per nome.
Anch’io ho un volto, un sorriso, un pianto,
una gioia da condividere.
Anch’io ho pensieri, fantasia, voglia di volare.
Chiamatemi per nome.
Non più portatore di Handicap, disabile, handicappato, diversabile, cieco sordo, cerebroleso, spastico, tetraplegico.
Forse usate chiamare gli altri:
“portatori di occhi castani” oppure “inabile a cantare”?
o ancora: “miope e presbite”?
Per favore. Abbiate il coraggio della novità.
Abbiate occhi nuovi per scoprire che, prima di tutto,
io “sono”
Chiamatemi per nome.
(poesia scritta da Gianni, papà di Benedetta, Associazione Sesto Senso di Siena)

Lettere al direttore

Risponde Claudio Imprudente
claudio@accaparlante.it

La primavera del 2005 vedrà fiorire un geranio in meno. Il geranio Terri è morto, l’hanno lasciata morire, ma vivrà nei cuori degli uomini di buona volontà, quelli per cui Lui è morto e risorto. La passione e l’agonia di Terri e Gesù ci diano la forza di combattere, di innaffiare con un sorriso e tanta tenerezza tutti i gerani del mondo. Il pensiero va alle persone cui, materialmente o metaforicamente, ogni giorno viene staccata la spina.
Un abbraccio
M. Alessandra Congiatu
Porto Torres
Alla fine Terri Schiavo è morta. Dopo tante parole e dopo tanta spiacevole propaganda, il triste finale preannunciato è stato portato a compimento. La toccante lettera di Alessandra è spunto per affrontare nuovamente le problematiche sollevate dal dramma che, negli Stati uniti come nel resto del mondo, ha scatenato molti dibattiti. Non è la prima volta, quindi, che mi confronto con questo problema, e le mie perplessità sono sempre le stesse. Per la nostra scienza una persona è da definirsi “cerebralmente morta” quando un macchinario sintonizzato su una determinata frequenza cerebrale non riceve più segnale. Un riverbero che si ferma, un suono che si annulla. La vita diventa un’intonazione che finisce di esistere quando non risuona più. Ma come stabilire quale sia il suono della vita? Come fare a scegliere tra il riverbero di un’onda cerebrale e i suoni caldi e ritmati del nostro cuore? Se la vita è un suono, quale di questi due è il suo “la”? La mia posizione è scontata, io pendo dalla parte del cuore. Mi rifiuto di credere che il cervello sia tutto, che il corpo e la corporeità abbiano un ruolo secondario, strumentale e accessorio nell’essere umano. Il nostro suono vitale è il cuore, muscolo involontario che ci tiene in vita. Come far dipendere tutto dal riverbero del cervello? Il “caso Terri” è stato caso emblematico di uno sbilanciamento eccessivo verso una concezione “cerebrocentrica” della vita umana.
Ma il “caso Terri” è stato anche lo scontro tra suo marito, deciso a farla morire, e i suoi genitori, disposti a lottare fino alla fine per tenerla in vita. Un giudice ha deciso per loro di porre fine a una faccenda dai contorni troppo sfumati, troppo complessi per farla scivolare in una scelta così netta e ineluttabile. Un cavillo legale ha stabilito che era ora di morire, di non fornire più l’innaffiamento necessario per un geranio come lei. E, come spesso accade, la stampa non ha perso tempo per approfittare della situazione, trasformando Terri Schiavo in oggetto mediatico, nuovo accattivante show da prima serata disponibile per il popolo americano. Vita e morte diventano ospiti di un tribunale televisivo, ma anche facile strumento per una indegna campagna elettorale a reti unificate. Il presidente Bush ha deciso di assumere un ruolo da protagonista, trovando forse un’occasione troppo ghiotta per consolidare il suo elettorato, ma continuando a palesare la confusione che attraversa i suoi pensieri quando si parla di temi fondamentali come la dialettica vita-morte. Come può un presidente fautore di guerre, primo difensore della pena di morte, dichiararsi con questa semplicità appartenente al “partito della vita”? Questa è la vera violenza, un insulso ballo di potere, una squallida partita tra due facce della stessa medaglia. Il potere politico e quello giuridico che si affrontano in un campo che non gli appartiene.
Tutto questo non era necessario e Terri non lo meritava. Se per lei, nonostante l’opposizione dei genitori, era stata scelta la morte, forse sarebbe stato meglio allora lasciarla spegnere in silenzio, permettendole di ascoltare, solo per quegli ultimi giorni che le restavano, l’unica musica vitale che le era rimasta: quella del cuore.
Ciao Claudio Mi chiamo Patricia Pompa sono dall Mexico, faccio la professoresa di sostegno. Ha arrivato a me un libro belissimo “Il principe del lago” adesso ho cominciato a leggere e mi ha colpito. Penso di leggeró ai miei ragazzini a scuola. Sono Molto interesata in il “Progetto Calamaio”. Qui a Messico lavoramo con la “intrgrazione educativa” del ragazzi “discapacitado”. Mi piacerebbe essere in contato con voi e fare scambio di esperienza, conoscere come si lavora la in Italia. Scusa per che no so tanto italiano! Arrivederci!
Patricia
Arriba arriba arriba arriba! Quando mi è arrivata questa e-mail, era proprio un brutto periodo. Da tempo mi scervellavo, senza venirne però a capo, su un atroce dubbio: ma i topi possono sgattaiolare? Ora che però mi ha scritto Spidey Gonzales, ho risolto il mio problema, posso chiedere direttamente a lui. Scherzi a parte, non ho scelto a caso di inserire proprio questa e-mail nella mia rubrica. Fa sempre piacere avere dei fan anche all’estero, e non per una semplice questione di autogratificazione (che comunque non guasta mai). Una lettera come questa è segnale delle potenzialità di un lavoro come quello del Progetto Calamaio. L’educazione alla diversità è punto fondamentale per ogni società civile e per una corretta cultura dell’integrazione. Ma la lettera di Patricia mi serve anche per sottolineare la necessità di volgere il proprio sguardo oltre i nostri confini, non solo per ampliare i nostri orizzonti culturali, ma anche per capire veramente come la diversità sia un bene da difendere con tutte le forze. Quindi, ringrazio Patricia per l’interesse dimostrato verso il mio lavoro, nella speranza di poter presto apprendere molto anche dagli amici messicani.