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autore: Autore: Claudio Imprudente

Lettere al direttore

Caro Claudio
ti scrivo per commentare l’articolo “Solo soggetti asessuati” e in particolare questa parte:
“La mia follia, è uno stato depressivo che tengo accuratamente nascosto agli altri. È una lotta perpetua per dimostrare loro che sono qui, e che ci sto bene. Così tutti i rapporti sono falsi, perché vita esteriore e vita interiore non corrispondono. […] Mi sforzo di nascondere tutto quello che potrebbe sconvolgere gli altri”. (Tratto da “Babette, handicappata cattiva” di E. Auerbacher, Edizioni Dehoniane, 1991, Bologna ).
Mi ritrovo molto in queste parole, non in particolare per quanto riguarda il rapporto con la sessualità, ma in generale nella vita di tutti i giorni. Mi succede spesso di sentirmi dire dalle persone che mi vogliono bene “Che brava che sei, io non ce la farei mai al posto tuo”. È un segno di affetto, di stima, ma palesa anche il fatto che forse non è così chiaro che non ho scelto io di stare male, anzi se potessi scegliere ne farei volentieri a meno, altro che brava! Oppure, parlando con chi fa volontariato a fianco di persone con disabilità, sento gli animatori o gli educatori dire quasi sempre che “loro (i disabili) sono più forti”, “loro sono più sensibili”, 2loro sono meglio degli altri” … e tutta una serie di “loro”. Anche qui, è molto bello che ci siano persone attente, che notano gli sforzi di una persona che cerca di affrontare le difficoltà, ma questo “loro” non esiste. Non tutti i disabili sono più forti degli altri, non tutti sono sempre sereni e affrontano le difficoltà con il sorriso. Come non è vero che tutti i gay sono sensibili o tutti i ciccioni sono allegri e generosi. Ci sono gay insensibili e ciccioni noiosi ed egoisti. E per fortuna.
Tutti abbiamo diritto a essere un po’ stronzi ogni tanto. Anche i disabili. E invece il mondo intero pretende che siano SEMPRE sorridenti, che scherzino SEMPRE volentieri sulla loro condizione, che non si lascino prendere MAI da un momento di sconforto. Anche chi sta male ha diritto di piangere, di sfogarsi, di essere di cattivo umore magari per una cavolata. Sembra quasi che dobbiamo giustificarci agli occhi del mondo se ogni tanto cadiamo… Sembra che dobbiamo giustificare la nostra stessa esistenza. Come se a noi fosse concesso di esserci solo a patto che dimostriamo di essere sempre meglio degli altri. È una fatica. Anche io soffro di depressione e nessuno lo sa, è un mostro che mi divora dentro senza che nessuno se ne accorga. Eppure anche quando mi sento morire sfoggio il mio splendido sorriso perché nessuno se ne accorga, perché a me (in quanto invalida, in quanto donna, in quanto giovane) non è concesso essere triste, mentre chi sta davvero bene, chi ha davvero tutto, non fa altro che lamentarsi, e senza nemmeno doversi giustificare per questo. Grazie per lo sfogo, è bello avere qualcuno che ti capisce.
Ti abbraccio forte. Elena

Cara Elena,
grazie mille per la bellissima lettera che mi hai scritto.
Anni fa, quasi all’inizio di un incontro in una classe superiore, una ragazza mi chiese se, a mio avviso, i disabili fossero destinati “direttamente” (questo il termine usato dall’interlocutrice) al Paradiso. Avevo in mente di parlare d’altro, in quell’occasione, ma ci soffermammo per tutto il tempo dell’incontro di formazione a discutere di questo argomento e, a cascata, di tanti altri correlati. Cercando, io, di smontare quest’immagine molto limitante (per quanto possa essere consolatorio anche per me pensare di non dover attraversare strade intermedie prima di raggiungere San Pietro…). Immagine consolatoria e limitante, spesso le due caratteristiche vanno a braccetto ed entrambe evidenziano una concezione di base che, come ho scritto spesso, risulta caratterizzata da semplificazione, pietismo e un bisogno, forse anche involontario o inconscio, di marcare una differenza tra un noi e un loro, un dentro e un fuori.
Quell’episodio mi è tornato in mente leggendo la tua lettera (di commento a uno scritto inserito all’interno di una bella monografia di “HP-Accaparlante”del 2001, dedicata alla sessualità delle persone disabili, Le passeggiate sono inutili, di Cristina Pesci e Donata Lenzi, N.d.R.).
Mi sembra che tu affronti un argomento simile rispetto a quello che avevo sviluppato confrontandomi con gli alunni di quella scuola superiore, da un punto di partenza diverso, ma giungendo a conclusioni affini ed egualmente demistificanti.
Forse già lo sai, ma il termine “persona” deriva etimologicamente dal greco pròsopon, “maschera”, quella utilizzata dagli attori teatrali, che serviva a dare all’attore le sembianze del personaggio che interpretava. Nel tempo, poi, ha assunto il significato e le sfumature che intendiamo oggi e che distinguono profondamente tra i due termini. Ecco, è come se invece alle persone disabili il termine “persona” venisse ancora attribuito nel significato originario, con un limite in più, ovvero che questa maschera deve avere sempre la stessa espressione, recitare sempre la stessa parte. Quello che voglio dire è semplicemente che, come tu scrivi in maniera così intensa, diretta e autoironica, se vogliamo confrontarci con delle vere persone disabili dobbiamo riconoscerne anche il “diritto a essere tristi”. E poi imperfette, inaffidabili, impreparate, volgari…
Così come Elena, anzi, prendendo spunto dalle sue parole, vi invito tutti a collaborare a questa opportuna azione di… smascheramento collettivo!
Caro Claudio,
volevo aggiungere un commento al tuo articolo “Io, disabile totale, valgo un bel po’ di PIL” (pubblicato sul quotidiano online “Vita.it”, N.d.R.). Anch’io trovo comodo e superficiale far finta di non sapere, come fanno in molti, politici per primi, che i disabili non sono solo un peso o siano solo una minoranza, e usare queste scuse per legittimare certi comportamenti. Un esempio concreto: le barriere architettoniche. Sembra che fare le rampe per accedere ai marciapiedi sia un favore che la società ogni tanto magnanimamente concede a chi è in sedia a rotelle. In realtà le rampe sono molto utili anche per chi è anziano e fa fatica a camminare, o alle mamme che devono spingere un passeggino, o ad esempio a me che giro molto per il centro in bicicletta e ogni volta devo sollevarla di peso per metterla sul marciapiede. Oppure i bagni a norma nei locali pubblici, quasi introvabili: i maniglioni servono ad appoggiarsi per esempio anche a chi si è rotto una gamba, o a una donna incinta con il pancione che ingombra; lo specchio inclinato (a nessuno viene in mente che anche una donna in carrozzina possa essere vanitosa?) è perfetto anche per chi è di bassa statura o per i bambini. Gli audiolibri sono perfetti non solo per chi è non vedente, ma anche per tenere compagnia a tutti gli automobilisti pendolari che si fanno ogni giorno ore e ore nel traffico. L’elenco potrebbe essere infinito. Tutte queste cose sono state, è vero, inizialmente create per chi ha un qualche tipo di disabilità, ma se questi accorgimenti venissero sistematicamente adottati renderebbero più semplice la vita di tanti (prima o poi tutti, speriamo, diventiamo anziani e quindi meno agili). Anche se alla politica non interessa la ricchezza umana che un diversamente abile (come chiunque altro) può offrire, e vuole guardare solo al mero interesse, anche questo sarebbe sufficiente a giustificare scelte diverse in favore di chi convive con la disabilità, ma soprattutto iniziare a pensare che non sono i diversamente abili a dover essere grati al resto della società, ma il contrario.
Elena
Cara Elena,
sei sempre tu… Credo che dovrò proporti un rapporto di collaborazione professionale formale, dal momento che mi sei così d’aiuto…
Diciamo che queste tue due lettere mi hanno dato la possibilità di impostare la rubrica in maniera leggermente diversa, perché solitamente si tratta di rispondere ad alcuni “dubbi”, domande, incertezze… delle persone che mi scrivono e, così facendo, di affrontare argomenti che possano essere d’utilità e interesse più generale. Le tue invece posso utilizzarle come “risposte” a domande espresse tacitamente, nel senso che non sono state espresse in modo esplicito, ma sicuramente vagano nell’etere.
Quando si parla di deficit, diritti esigibili, diverse abilità, doveri, leggi, servizi, ecc., insomma, di tutto quello che può riguardare i vari aspetti della vita di una persona disabile (che non è un uomo a due dimensioni, ma vive in 3D come tutti gli altri) il rischio è quello di svolgere discorsi e riflessioni un po’ vaghi, alle quali sembra mancare un attaccamento concreto e tangibile con la realtà dei fatti. Soprattutto per chi non ha la possibilità di frequentare questo mondo con una certa regolarità, questa può essere l’impressione, almeno quella immediata. È un problema effettivo, ma ancor più grave nel momento in cui non consente di presentare alle persone normodotate delle evidenze incontestabili e, queste sì, di una concretezza pienamente condivisibile. Un problema di comunicazione che inevitabilmente si traduce in un difetto d’azione. La tua lettera, invece, ha il dono di quella concretezza e chiarezza che abbiamo descritto come mancanti in molti discorsi sui/dei disabili. Non sono tra quelli che ritengono che tutto andrebbe di necessità reso accessibile nel pieno e stretto senso del termine, o, almeno, credo che il termine accessibilità contenga al suo interno tante sfumature, tutte più o meno valide a seconda dei contesti (tra queste potremmo inserire, ad esempio, la premura e la disponibilità del gestore di un ristorante che magari ha un gradino prima della porta d’ingresso, ma sa come fartelo superare). Ma questo non significa rinunciare a perseguire un’accessibilità “universale”, in particolar modo se quello che viene pensato per una minoranza si dimostra così utile e “migliore” per tutti. Un ribaltamento davvero positivo e un allargamento di prospettiva esiziale.
Elena, di nuovo, grazie ancora. Un abbraccio,
Claudio Imprudente

Lettere al direttore

Salve signor Claudio,
le scrivo dalla Calabria. Ho 37 anni e sono affetto da amiotrofia muscolare spinale II.
Sono tetraplegico.
Abito in un piccolo comune e mi conoscono, ammirano, compatiscono e vogliono bene, tutti.
Sto chiedendo da tempo all’amministrazione comunale un lavoro e finalmente “pare” che ci sia in progetto l’apertura di uno sportello per affrontare il problema del disagio giovanile.
Si sono presentate a casa due signore (una che lavora a contatto con le carceri minorili, l’altra un’assistente sociale) e vorrebbero usare la mia situazione come esempio da dare ai ragazzi. Vorrebbero fare un vero e proprio servizio giornalistico su di me.
Secondo lei è giusto?
Vorrei un consiglio su cosa fare.
Grazie.
Spero diventeremo amici.
Romano

Caro Romano,
intanto grazie per avermi scritto. Mi ha fatto molto piacere.
Allora, vengo subito al dunque: credo che tu debba cogliere questa opportunità e, cogliendola, dare ad altre persone l’occasione per avvicinarsi a un mondo che probabilmente conoscono poco o male. Capisco o immagino i tuoi dubbi: non si tratterà di fare di me una sorta di esempio, guida, di oggetto-spettacolo e, in quanto tale, male interpretato, compatito, ecc. ecc.? Questo rischio c’è sempre, e lo vivo spesso direttamente, tenendo continuamente incontri, lezioni, interviste. Ma il gioco vale la candela, se gestito e giocato con intelligenza e, non lo nego, furbizia, da parte tua. Credo che tu debba valutare che senso le persone che vogliono coinvolgerti intendono dare al servizio, se è quello di interrogare gli altri su delle questioni o puntare “solo” al cuore, ossia a una cosa dal respiro breve. Dimmi se queste poche parole ti sono d’aiuto. Aspetto una tua risposta per continuare il confronto su una cosa che, lo capisco, solleva dei dubbi da parte tua e non è affatto innocente né semplice.
Grazie ancora e buon tutto.
Un caro saluto. Claudio
Caro Claudio,
grazie e te per avermi risposto. Spero tanto che inizi tra noi un lungo e proficuo scambio di impressioni.
Io ho per natura ho un carattere timido ed estroverso. Ma questo, col tempo, ho cercato, e cerco sempre, di “combatterlo”… Forse proprio in forza dell’essere “diversabile”. Cioè, provo a spiegarmi: forse l’essere disabile mi ha condizionato portandomi ad accentuare la timidezza. Poi, per una sorta di orgoglio o di contrasto, per qualche tempo vedevo il dover espormi come un modo per dimostrare e dimostrarmi che non mi facevo condizionare dal mio handicap.
Adesso, ti confido, non mi interessa più. Non vorrei sempre dover combattere per “dimostrare che”. Accettare serenamente il mio handicap vuol dire vivere serenamente il mio essere un diversabile. Non un genio, né un fenomeno da circo che si sente addosso o la curiosità o la compassione degli altri…
Vorrei precisarti meglio la questione di cui ti parlavo nella e-mail precedente, così da darti un quadro più chiaro. Io credo che in loro (nelle persone che mi hanno proposto la cosa) ci sia della buona volontà di usare la mia storia per far capire a chi ha 15 anni, magari circondato di ogni bene e che è insoddisfatto, come il mio vivere possa dare qualche insegnamento.
La tua riflessione, le tue parole, il tuo consiglio mi sono utilissimi.
Però vorrei precisare che: non ritengo di esser nulla di “speciale”, sono uno come tanti, ho pregi e difetti, vizi e virtù, ho i miei giorni di nervosismo e di serenità, i miei hobby e le mie passioni come quelli di tanti. Tutto qui… non so cosa se ne possa tirar fuori.
Poi, caro Claudio, mi preme pure sottolineare un altro punto. Io voglio un lavoro! Non voglio solo esser presentato agli altri, ma mi serve un posto. So usare il computer e spero che questo progetto sia basato su quello, dare lavoro.
Per 7 estati (2 mesi all’anno) sono stato inserito in un progetto per il quale ho fatto lavoretti col pc. Poi l’estate scorsa non vi sono stato inserito, nonostante un’assicurazione circa l’esserne parte.
Beh, intanto ti ringrazio e ti terrò informato.
Grazie e a presto.
Romano
Ciao Claudio.
Ho letto il “tuo” libro: Lettere imprudenti sulla diversità. Conversazioni con i lettori del Messaggero di Sant’Antonio (Effatà Editrice, 2009).
Farti i complimenti è scontato; avrai avuto riscontri molto abbondanti e più qualificati dei miei.
Che i tuoi articoli fossero “OK!” lo sapevo; mi ha però sorpreso però un altro fatto.
Ho scritto “tuo” tra virgolette non a caso. Senza offesa (anzi… è una considerazione positiva), il libro non mi sembra tanto tuo, ma degli “altri” che ti hanno risposto.
Mi ha impressionato come le tue considerazioni, che vertono fondamentalmente sulla diversabilità, abbiano scaturito un ventaglio di contesti umani estremamente diversificato, con uno spessore emotivo ed esistenziale, molto vario.
Immaginando di togliere i tuoi articoli dal libro, mi restava un caleidoscopio affascinante che potrebbe far nascere una rete di “storie” imprevedibile.
Il tutto avendo come leva causale comune la diversabilità; fattore che è considerato (come sai bene) minoritario, marginale.
Ogni lettera da te ricevuta apriva un mondo denso di “vita”, di storie incarnate, di emozioni magari sopite, o esplosive nella loro calda realtà (lieta o drammatica).
Una tua osservazione, a volte su un fenomeno banale, apriva un orizzonte ricolmo di “umanità” spesso repressa (magari anche sconosciuta a chi la riusciva a esprimere), che, comunque, comunicava (sic!) la dignità e il valore di ogni vita esistente.
Queste sono le mie impressioni “a caldo” dopo la lettura del libro. Ma ci rifletterò e ti riscriverò.
Ciao.
Silvio (Vallini)

Un fioretto di ragazza, Superabile, Agosto 2012

Arriva sempre un periodo dell’anno dove hanno davvero ragione i Righeira, ovvero quando l’estate sta finendo. Le Paralimpiadi invece stanno iniziando. Diverse volte in questi mesi ho parlato di sport, perché lo ritengo uno strumento importante, se utilizzato correttamente, per avviare un processo di integrazione. Quasi un mese fa dicevo la mia su Oscar Pistorius e la sua sfida, comunque vinta, nella pista dello stadio Olimpico di Londra.

Oggi resto affascinato da un’altra atleta, una ragazza che le sue sfide le sta già vincendo e di cui sentiremo spesso parlare. Sto parlando di Beatrice Vio, Bebe per gli amici, che è stata scelta come tedofora italiana per l’inaugurazione dei giochi paralimpici che partiranno il 29 agosto. La sua storia è vincente di per sé. Bebe ha solo quindici anni, è una schermitrice e non solo. È la prima atleta al mondo che tira di scherma con quattro protesi. Ad undici anni una meningite l’ha costretta ad un ricovero ospedaliero e alla conseguente amputazione delle gambe. Appena fuori dall’ospedale si è ripresa la sua vita con tenacia e con la voglia di rimettersi in gioco, tanto che dopo pochi giorni era di nuovo in pedana a tirare stoccate. Solo che in carrozzina e con delle protesi. Solo per motivi anagrafici non parteciperà alle prossime paralimpiadi londinesi, ma siamo certi che a Rio de Janeiro, nel 2016, la vedremo già sul podio! A sostenerla per il ruolo di tedofora a Londra, si è mosso anche il Parlamento Europeo: centotredici deputati di tutti i ventisette paesi membri si sono schierati dalla sua parte.

Adoro Beatrice perché è l’esempio concreto di tanti temi di cui amo scrivere: dalla voglia di trasformare la sfiga in sfida alla forza integrante presente nello sport, dal superamento delle difficoltà all’importanza della famiglia, dalla cura del proprio corpo fino all’esigenza di non darsi mai per vinti, a costo di sporcarsi le mani e di non riuscire. In una società dove spesso il primo ostacolo viene considerato un limite insormontabile, l’esempio portato da questa ragazzina è rilevante e va raccontato. Perché il limite fa sempre parte della condizione umana.

Bebe è attiva anche nella sensibilizzazione di ragazzi disabili tramite l’associazione art4sport Onlus, fondata dai suoi genitori, che utilizza lo sport come terapia per il recupero fisico e psicologico dei bambini e dei ragazzi portatori di protesi di arto. Mentre le auguriamo di darci grosse soddisfazioni negli anni a venire, a partire dalle paralimpiadi brasiliane, ci gustiamo le sue interviste che testimoniano anche le qualità umane di Beatrice.

Intanto, cari lettori, godiamoci gli ultimi giorni di questa estate… Scrivete a claudio@accaparlante.it o sulla mia pagina facebook. (Claudio Imprudente)

Un tuffo dove l’acqua è più blu, Superabile, Agosto 2012

"Getta le tue reti/buona pesca ci sarà/ e canta le tue canzoni/ che burrasca calmerà"… Così cantava Pierangelo Bertoli e così ho pensato mentre leggevo un articolo del mio amico Claudio Arrigoni, di recente apparso sul blog del Corriere della Sera Gli invisibili. Gli Italiani, si sa, sono un popolo di poeti e di navigatori, sempre capaci di ingegnarsi e di tirar fuori la loro creatività anche di fronte agli imprevisti e al mare mosso. È proprio quello che sono riusciti a fare sulle meravigliose spiagge della Sicilia la giovane Daniela Rullo e il signor Aurelio, ex pescatore di Salina nelle isole Eolie. Da anni conviventi con la sclerosi multipla i due erano purtroppo costretti a vedere il loro amato mare da lontano, a causa più che della malattia dell’inaccessibilità dei lidi limitrofi.

Come fare a tornare a fare castelli di sabbia, piste, giocare a beach volley e spaparanzarsi al sole? E, soprattutto, come dare a tutti la possibilità di lasciare sotto l’ombrellone la carrozzina e di tuffarsi in mare? Se una cosa non c’è, si sono risposti Daniela e Aurelio, bisogna inventarsela. Così a Milazzo nel 2007 è nata La Fenice, un lido accogliente e accessibile e un’associazione, composta ormai da più di trecento soci, condotta e animata anche da persone con disabilità. Qui non solo è possibile farsi un tuffo dove l’acqua è più blu ma anche guardare il tramonto in compagnia durante le selezioni del Grande Fratello e sorseggiarsi in pieno relax un bel cuba libre con cubetti di ghiaccio… A La Fenice, insomma, non ci si annoia mai e c’è sempre un grande via e vai…Daniela e Aurelio hanno dato vita così, con molta leggerezza, a uno dei principi a me più cari: una location accogliente e accessibile vale per tutti.

Altri lidi sono sorti di recente sull’onda di Daniela e Aurelio, come quello di Giulianova, in Abruzzo e speriamo davvero che presto li seguano in tanti. Scovare soluzioni creative e inaspettate per consentire a tutti una degna abbronzatura è infatti per la maggior parte delle spiagge del Bel Paese ancora a discrezione dei singoli lidi… L’esperienza de La Fenice ci indica però un cambiamento importante: il disabile passa da inciampo e spesa a cliente, con tutto l’indotto che ne deriva. Anche questa, una piccola rivoluzione. Daniela e Aurelio, da bravi poeti, che come ci dice l’etimo della parola sono le "persone che fanno", hanno davvero messo in pratica il mito egizio de La Fenice cantato da Ovidio, Dante e Borges, sono risorti cioè dalle loro ceneri e le hanno trasformate in morbida sabbia. A furia di parlare di mare e di spiagge però ora mi è venuta proprio voglia di andare a farmi un bel tuffo… là, dove l’acqua è più blu… che ne dite? E voi che lidi frequentate? Accessibili o irti di scogli? Scrivetelo a claudio@accaparlante.it o sulla mia pagina facebook.

Claudio Imprudente

Il diavolo del mare, Superabile, Agosto 2012

E lo chiamavano il "Pistorius degli abissi", poi lo chiamavano "il subacqueo disabile più resistente al mondo", per gli amici era e resta "il diavolo del mare"…ma lui è semplicemente Paolo De Vizzi, trentottenne tarantino, immobilizzato alle gambe dall’età di ventidue anni, che ha sfidato le leggi della fisica immergendosi per venti ore a nove metri di profondità.

Se fuori dall’acqua per una persona con disabilità anche leggere un libro a fumetti, fare fotografie o bersi un caffè in compagnia può risultare difficile, in mare ogni cosa, racconta il nostro subacqueo, è possibile, come rendersi conto che lì sotto, in un luogo apparentemente lontano ed ostile, in realtà non ci sono barriere ma solo mondi da scoprire. Sì, proprio laggiù, in fondo al mar. In acqua, insomma, siamo tutti sullo stesso piano perché, prima di tutto, più liberi.

Ho letto questa notizia su La Gazzetta del Mezzogiorno e l’ho trovata subito molto curiosa, non tanto per il fatto in sé ma per lo spirito con cui Paolo ogni giorno abita e ci racconta del mare.

La vita di un disabile, talvolta, può diventare quella di un pesce fuor d’acqua, privo di spazio e della giusta dose d’ossigeno. Negli abissi invece, ci ricorda l’impresa del nostro "diavolo", i limiti diventano altri come la forza di volontà e la determinazione nell’affrontare sfide prevedibili o inaspettate.

È un vecchio discorso…bisogna modificare il contesto-ambiente per diminuire l’handicap. Un discorso che vale per tutti, dalle Alpi al profondo degli Oceani.

Chissà, caro Lucio Dalla, se quando avevi scritto Com’è profondo il mare, avevi pensato a uno come Paolo….E voi, avete mai avuto il coraggio di immergervi in un mondo senza barriere? Scrivete a claudio@accaparlante.it o sulla mia pagina facebook. (Claudio Imprudente)

Lettere al direttore

Ciao! Ti leggo sempre, quindi mi sembra di conoscerti, spero non ti dispiaccia se ti do del tu (non mi sembri un tipo che si formalizza). Ti scrivo per chiederti un’opinione su un tema che mi sta molto a cuore. Ho fatto la visita per l’invalidità civile e risulto parzialmente invalida al lavoro. IN-VALIDO cioè non valido.
Invece io sono validissima! È vero, ho qualche difficoltà, ma faccio il mio lavoro molto bene, molto meglio dei cosiddetti “normodotati”. Non trovo giusto essere definita così. Non mi piacciono nemmeno altri termini come “disabile” (= non abile). Conosco una giovane mamma con la sclerosi multipla, non è meno abile, è abilissima a crescere suo figlio e lottare con la malattia. Anche portatore di handicap lo trovo inappropriato, per fortuna io sto abbastanza bene ma facendo terapie ho avuto il privilegio di conoscere persone che apparentemente avevano dei limiti fisici davvero gravi ma che non si fermavano di fronte a niente, mentre conosco tantissime persone che fisicamente stanno bene, ma si costruiscono da soli una serie di barriere nella loro mente, creandosi problemi inesistenti e rimanendo imprigionati nelle loro vedute ristrette, nei loro angusti schemi mentali.
Quante persone si rovinano la vita perché si sentono vittime di ingiustizie che sono solo immaginarie (quante liti tra colleghi o tra vicini di casa!), o invidiando chi secondo loro ha più soldi, più successo, vestiti più belli, e quindi non fanno niente se non per un tornaconto personale. Ora va di moda anche il termine “diversamente abile”, ma siamo come dicevo prima, siamo abili allo stesso modo, e poi la parola “diverso” sta assumendo sempre di più una connotazione negativa, con associazioni mentali pericolose (ad esempio straniero=criminale, anziano=inutile, ecc.), infatti anche chi è definito “diversamente abile” è ritenuto inferiore. Siamo tutti diversi gli uni dagli altri, non capisco perché debbano esserci delle parole per distinguerci.
D’altra parte mi rendo conto che almeno per la burocrazia servano delle parole per definire alcune categorie, ma mi chiedo: se quelle esistenti sono scorrette non possiamo inventarne una nuova, più appropriata e meno degradante di quelle esistenti? Se inventano un nuovo telefonino, o creano un nuovo paio di scarpe, subito si inventa un nome favoloso per quello che è solo un oggetto. Le persone non valgono più di un telefonino? Non sono l’unica a pensarla così, infatti in questi giorni è in atto una lodevole iniziativa da parte di alcuni gruppi di giornalisti che chiedono l’abolizione di parole discriminanti come “clandestino”. Tu sei molto conosciuto e stimato, mi farebbe piacere se ti rendessi portavoce di chi chiede solo di dare il giusto peso alle parole, nella speranza che sia il primo passo per abbattere tante barriere.
xxx

Cara xxx,
grazie per la lettera. No, non mi formalizzo e accetto volentieri il tuo “tu” amicale.
Come puoi immaginare sono pienamente d’accordo con quello che dici, e sono (da sempre) l’ultimo a trascurare l’importanza delle parole (anche perché di quelle il mio lavoro vive). Poco fa, in relazione a un fatto televisivo, all’interno di un ragionamento più ampio, ho scritto: “Ora, non voglio insistere troppo su questioni nominali, ma credo sia pacifico che la televisione abbia un enorme potere di influenzare e, cosa forse peggiore, che non dia la possibilità di una risposta esterna immediata; lo spettatore è per certi versi passivo di fronte al flusso di immagini e suoni. […] Credo sia quasi scontato che un programma così pensato e realizzato come il Grande Fratello punti molto, per la sua stessa sopravvivenza, a creare situazioni esasperate (non solo nel senso del litigio), in cui l’insulto è uno degli strumenti privilegiati di relazione e confronto ed è garanzia del mantenimento di tempi, diciamo così, televisivi. È il programma che lo richiede e, indubbiamente, è anche il pubblico a casa ad aspettarselo. Pubblico che, in larga parte, è un pubblico giovanile, per cui più sensibile al tipo di educazione che il mezzo televisivo può veicolare. Ecco che la parola, le espressioni assumono una portata diversa, perché è il contesto stesso a determinare in parte il loro peso. Le parole non sono svincolate dall’esperienza, non hanno quasi mai un significato ‘in sé’. Né lo stesso potere, se pronunciate in situazioni diverse. Ecco, quindi, che la televisione ha, o dovrebbe avere, una percezione più fine delle sue responsabilità. […] L’utilizzo apparentemente innocuo di alcuni termini si rivela per quello che è (una scelta del senso che si vuole comunicare) e descrive in modo vivido la società che ne fa uso”. L’utilizzo di un termine piuttosto che un altro sottintende sempre o contribuisce a formare e rafforzare un (il) pensiero. È un meccanismo reale, effettivo e per questo potenzialmente rischioso.
Ho affrontato spesso l’argomento, vedrai che mi capiterà di scriverne ancora, e poi ancora, e poi ancora… Termino con alcune parole scritte da una collega che affronta la questione in modo anche ironico. Non è proprio aderente a quello che scrivi tu, ma credo che ne condividerai i principi e le ragioni: “Spesso, non si può negarlo, l’espressione diversamente abile funziona, e alle persone che non si trovano a contatto con la disabilità, o a volte anche alle stesse famiglie di persone disabili, apre un mondo fatto di possibilità anziché di negazioni. A volte, però, si tratta di una mera espressione di facciata. È politically correct, anzi è di moda, è trendy. E, nello stesso tempo, è vuota di significati, oppure, ancora peggio, resta ancorata alla cultura del passato, perché indica una persona con deficit, ma non sempre modifica gli aggettivi legati a quella persona. E quindi capita che chi usa ‘diversamente abile’ continui a guardare le persone disabili come dei marziani, provi disgusto vedendole imboccare da altri, non sappia come relazionarsi a loro, se non con un dislivello asimmetrico. […] Allora preferisco chi usa ancora ‘handicappato’, ma lo fa in modo genuino, ruspante, senza ambiguità e sedimenti culturali, solo per indicare una situazione di diversità e che poi accetta la disabilità nella sua concretezza. […] Preferisco ‘handicappato’ se non si porta dietro nulla, piuttosto che ‘diversamente abile’ se questa espressione fa pensare ancora ‘poverino’. Quanto vorrei che non ci fosse bisogno di termini più ‘giusti’ per cambiare la mentalità comune; sarebbe bello cambiarla anche stando sui termini sgradevoli”.
Ciao Claudio,
mi chiamo Claudia e sono un’insegnante di lettere della scuola media xxx. Ho avuto l’immenso piacere di essere presente venerdì scorso al tuo intervento e ti posso dire che mi sono sentita proprio bene: sono tornata a casa molto più leggera e ho cominciato a pensare a “che bel mondo ho visto finora”!
Nella mia classe terza ho il piacere di avere un alunno portatore di handicap, L.: è un ragazzino speciale che ha avuto la fortuna di essere inserito fra ragazzi che lo amano e lo rispettano come individuo unico e irripetibile.
L. però sta crescendo e sente dentro di lui le pulsioni di un preadolescente che manifesta apertamente.
Anche questi atteggiamenti sono compresi dai compagni che hanno imparato ad accettarli. E allora dove sta il problema? La mamma di L. vorrebbe che i compagni lo portassero con loro fuori a mangiare una pizza, al cinema, o a fare una passeggiata ma i ragazzini sono pur sempre preadolescenti e faticano a rendere partecipe L. di questi momenti.
Come si fa quindi a trovare il giusto equilibrio? Come posso aiutare questo mio alunno a crescere bene come gli altri?
Come posso aiutare questa madre che cerca l’accettazione incondizionata, come tutti gli altri genitori, di un figlio?
Ti ringrazio tanto per qualsiasi consiglio tu possa darmi e spero di risentirti presto.
Ciao Claudia
 
Cara Claudia,
grazie per avermi scritto e per essere venuta a San Giovanni.
Come saprai, la “richiesta consigli” è sempre un’operazione rischiosa, soprattutto per chi è chiamato a darne…
Il rischio più ovvio è la banalità del consiglio stesso, quello meno innocente la sua totale inefficacia.
Quando si esce dall’ambito scolastico, all’interno del quale magari i rapporti tra alunni funzionano benissimo, scatta spesso un “meccanismo di vergogna” da parte delle persone normodotate, in particolare se si tratta di ragazzi di quell’età (non solo, anzi, ma credo che con i ragazzi questo aspetto possa emergere in modo più evidente). Insomma, la scuola è un ambiente più protetto, per il ragazzo disabile e anche per i suoi compagni.
L’imbarazzo da parte di chi “porta fuori” la persona disabile cresce ancor di più se pensiamo che quelli sono anche gli anni in cui cominciano o si cercano approcci affettivi importanti: la presenza di una persona disabile non contribuisce a rendere l’accompagnatore molto “attraente”. Spesso subentra anche un po’ di disagio verso la persona disabile stessa, per la quale si immagina una vita affettiva e sessuale più complicata e incompleta. E allora si cerca di evitare di metterlo in situazioni (di vita) che presumiamo non abbia la capacità di gestire o con le quali pensiamo non potrà mai confrontarsi. Insomma, contano le idee che uno ha in testa e contano ancor di più quelle che gli altri (normodotati) hanno o che noi presumiamo che abbiano; e contano, ancora, le ipotesi, le immagini che abbiamo della persona con disabilità. Forzare la mano credo sia controproducente, più sensato, forse, è affrontare la questione all’interno della classe, senza vergogne e senza infingimenti. Del resto è l’unica occasione e l’unico ambiente in cui le persone potenzialmente coinvolte in questi “meccanismi” sono compresenti e hanno la possibilità di esprimersi, criticarsi, ecc. in presenza di persone coscienti e consapevoli (come te).
Non lascerei gestire o affrontare la cosa alla sola famiglia: il rischio? Che la soluzione sia, come spesso, capita, il gruppo parrocchiale (senza offesa, spero tu capisca cosa intendo)… se va bene.
Lette queste parole (incerte e parziali e me ne scuso), scrivimi, cerchiamo di continuare il nostro dialogo.
Attendo tue nuove.
Un caro saluto.

Il mojito della disabilità, Superabile, Agosto 2012

Ma lo sapevate che dentro il cocktail dell’estate, l’esotico e fresco mojito, c’è anche dell’angostura? Sapete cos’è l’angostura? Un amaro concentrato, un estratto di corteccia dal sapore fortissimo, talmente acre da essere sgradevole all’olfatto E persino un po’ nauseante. Proprio per questo va utilizzato con il contagocce, a piccole dosi. Ho fatto questa scoperta alcune sere fa, mentre all’ora dell’aperitivo vedevo un mio amico barman intento nella preparazione di questo cocktail estivo. Triturava il ghiaccio, sminuzzava la menta, mescolava lo zucchero di canna, spremeva del lime… e alla fine eccolo con questa piccola e strana boccetta in mano che ha scatenato la mia curiosità. Una, due, tre gocce ed ecco il mojito servito! Appena l’ho annusato e sorseggiato ho sentito l’angostura… Effettivamente una sensazione nauseante anche se quel drink cubano era tanto buono quanto rinfrescante.

Mentre lo gustavo la mia mente ha cominciato a fantasticare e ho iniziato a pensare a questo cocktail come metafora dell’integrazione o forse, più in generale, della vita. L’angostura da sola, come già detto, è assolutamente disgustosa, eppure, se mischiata agli altri ingredienti rende più squisito il prodotto finale. Per questo ho pensato di paragonarla alla disabilità, una realtà amara, alcune volte perfino maleodorante e nauseante al primo impatto, se lasciata da sola, se abbandonata a se stessa.

Dunque, mischiamo alcune gocce di disabilità/angostura con un po’ di freschezza creativa/menta , un po’ di fiducia/lime e due cucchiaini di dolce ironia/zucchero di canna. Aggiungere ghiaccio tritato/stima reciproca. Ecco creato un mojito/contesto fresco, rinfrescante e con effetto inebriante! La bravura del barman/educatore è dunque quella di saper dosare bene tutti gli ingredienti/qualità a disposizione, di mescolarli con giudizio fino ad arrivare ad incantare ed affascinare, durante la preparazione di questo mix di elementi/ingredienti, tutti i clienti di passaggio di questo bar/società.

Mentre finivo il mio cocktail ho pensato all’happy hour di Ligabue… "E la vita che non spendi che interessi avrà?". Bella domanda… quasi quasi ne bevo un altro! E voi quali ingredienti pensate di miscelare nel vostro cocktail preferito in questa lunga e calda estate? Bevete alla mia salute e scrivete a claudio@accaparlante.it o sulla mia pagina facebook. (Claudio Imprudente)

Lettere al direttore

Buongiorno sig. Claudio, mi chiamo Marina e sono la mamma di una stupenda creatura di nome Lorenzo. Lorenzo oggi ha nove anni ed è bordeline ovvero con un QI di 78 e gli è stato diagnosticato un disturbo lieve di apprendimento.
Non sto a descriverle tutto il nostro difficoltoso  cammino soprattutto con l’inizio della scuola elementare. Lorenzo è dislessico disortografico, disculico, insomma con delle difficoltà e da parte della scuola non c’è stato dato nessun aiuto. Lorenzo doveva arrangiarsi, ma come poteva da solo? Per fortuna abbiamo avuto vicino una logopedista stupenda che ci ha sempre aiutati. A metà anno, prima la decisione di cambiare scuola con notevole miglioramento da parte del bambino, poi la decisione dell’insegnante di sostegno per dare la possibilità a Lorenzo di essere come gli altri. Lorenzo ha avuto l’insegnante di sostegno soprattutto per mia volontà, li avevo contro tutti. Anche gli specialisti mi dicevano Lorenzo non è handicap e devi certificarlo come tale se avere delle difficoltà vuol dire avere handicap. Va bene dicevo io. Lorenzo desiderava avere vicino un insegnante che gli desse gli strumenti necessari per imparare e alla domanda “Ti piacerebbe avere un insegnante tutta per te?”,  la risposta è stata affermativa. Lorenzo sta finendo la terza elementare con l’insegnante di sostegno vicino, i progressi sono notevoli e Lorenzo è sereno che è la cosa principale. Da poco sono socia AID e durante una riunione mi dicevano che sono contrari alla certificazione per l’insegnante di sostegno, perché i bambini con difficoltà di apprendimento non sono handicap. Però il proprio figlio prende l’assegno di frequenza ovvero di invalidità. Allora io mi chiedo invalidi sì handicap no. Le chiedo ma la parola handicap perché fa ancora così paura? Mio figlio ha difficoltà e se ne rende perfettamente conto con tutti i problemi che ne derivano, ma ha vicino delle insegnanti disponibili a capire le difficoltà e a far capire agli altri bambini che aver difficoltà non vuol dire essere diversi. Lorenzo pian piano prende sempre più sicurezza e cerca sempre di dare il massimo. Mi sarebbe piaciuto avere un suo parere, ci tengo davvero tanto, mi scuso se mi sono dilungata un po’ troppo. Grazie della sua attenzione. Una mamma

Cara Marina,
intanto grazie per la bella lettera.
Alla quale non è facile rispondere. Credo che il punto, come mi pare lei abbia fatto, sia capire quale sia il bene per Lorenzo e come preparare al meglio il terreno per il suo futuro.
Mi spiego meglio: se il bene di Lorenzo è avere un insegnante di sostegno per la quale occorre una certificazione, benvenga la certificazione, sapendo però che poi questa resta come un “bollino” attaccato a Lorenzo. E poi, magari in un futuro anche prossimo, si dovrà affrontare quel che avere questo bollino comporterà per Lorenzo stesso e per le persone che ha attorno. Io non conosco bene la situazione, e credo che tu abbia una capacità di discernere maggiore di chiunque altro rispetto alle effettive priorità per lui.
Sì, in un certo senso l’handicap e la disabilità ancora fanno paura, nel senso che non è scontata una risposta “positiva” di fronte al “bollino” di Lorenzo. Né ora, né in seguito…
Mi scusi se le dico cose forse scontate, ma in un certo senso il conflitto è tra il bene attuale di Lorenzo (che a quanto capisco è legato anche alla presenza di un insegnante di sostegno ed è una cosa concreta con la quale confrontarsi) e il suo bene futuro (che è un territorio dai contorni indefinibili, soprattutto riguardo alla risposta della società al suo “bollino”).
Le chiedo solo una cosa, di rispondere a questa mia lettera.
La ringrazio ancora.

Caro sig. Claudio,
mi ha fatto molto piacere ricevere la sua risposta. Leggendola mi si sono accese numerose lampadine e di cose da dire e su cui discutere ce ne sarebbero davvero tante. Ma mi premeva dirle, anche se sembrerà scontato, che indipendentemente dall’insegnante di sostegno, basta andare controcorrente per avere un bollino, purtroppo questo l’ho messo in conto e ne sono ben consapevole. Del resto questo è il mondo dei perfetti e quando qualcuno ha delle difficoltà, è inutile negarlo, si cerca di metterlo da parte. Lorenzo è un bambino sensibile, questo lo ha già capito, e delle volte la derisione da parte degli altri bambini lo ha ferito. Io dico sempre a Lorenzo che nessuno è perfetto, c’è chi riesce meglio in una cosa e chi in un’altra, tutti meritano rispetto, l’importante è impegnarsi al massimo per quello che si può. Lo so che il cammino che ci aspetta è ancora arduo e non nego che un po’ mi spaventa, soprattutto per quello che dovrà ancora affrontare Lori. Lorenzo ancora non sa di essere un bambino speciale, non avrà un QI di 110, ma possiede un’intelligenza del cuore che pochi hanno e sa di non essere solo e di avere al suo fianco due genitori che non sopportano le ingiustizie e che si batteranno insieme, sempre, per quello che è giusto per la sua serenità, quella che tutti i bambini meritano di avere. Ora la saluto sperando di non averla annoiata e chissà magari un giorno sentirà ancora parlare di me, sono molto battagliera: sa, l’amore che un genitore prova per il proprio figlio è immenso. Tanti saluti Marina.

Caro Claudio,
mi chiamo Donatella e sono una ragazza di 26 anni, disabile motoria.
Ti scrivo spinta dalla lettura della tua rubrica SuperAbile del 17 ottobre. Sono d’accordo con te; anche se forse, nei confronti della Chiesa, sono un po’ più dura. Sarà dovuto al fatto che ormai me ne sono allontanata da tempo, proprio per questo suo modo di porsi nei nostri confronti.

Strano (o forse no) questo, da parte mia, cresciuta con 13 anni di scuola cattolica. Una scuola poi, che mi ha sempre stimolato non lasciandomi chiusa nello stereotipo “poverina, ha dei problemi, non chiediamole troppo”. Ma l’atteggiamento dominante della Chiesa, con quel suo quasi “venerarci” perché attraverso le nostre sofferenze siamo più vicino a Cristo o con quel suo quasi “invidiarci” perché noi abbiamo una “croce” da portare e loro no, mi innervosisce molto. Magari mi sbaglio, ma io ho sempre provato questo.
Che poi, ritengo di essere fortunata; non penso di avere una croce così pesante, ci sono padri di famiglia che perdono il lavoro, bambini che muoiono di fame. Come faccio a non reputarmi fortunata, davanti a queste realtà? Ma sono anche fortunata perché attraverso questa mia disabilità ho fatto esperienze e conosciuto persone fantastiche, che altrimenti non avrei conosciuto; e soprattutto, non sarei stata io, sarei stata un’altra Donatella, e siccome sono felice di ciò che sono, sono contenta.
Sì, forse la Chiesa ha contribuito a disegnare su di noi certi stereotipi; come quando la gente rimane stupita e mi tratta come una super donna perché mi sono laureata in Economia. Ma perché? Quanti laureati di Economia ci sono all’anno? Io sono come tutti quei laureati, sono come tutti e come tutti ho i miei problemi che richiedono un certo aiuto; ma anche una ragazza madre può avere bisogno di aiuto, o l’amico accanto a noi che ha un dubbio che lo cruccia. Non ho niente di speciale rispetto a tutti gli altri.
So che la Chiesa è composta da tanti credenti e ci sono anche quelli che sanno capirci, ma alcune affermazioni fatte ad alto livello, e non solo, mi hanno allontanato. Anche se porto sempre, nel cuore, le parole di Gesù.
Ho scritto seguendo il cuore, spero si capisca; quando si è tanto coinvolti da ciò che si scrive, a volte si dimentica un po’ di sano distacco.
Grazie per aver proposto questo tema nella tua rubrica.
Un saluto.
Donatella Nenci

Qualche tempo fa scrissi un articolo sul rapporto tra Chiesa e disabilità. Pur riconoscendo che la Chiesa ha fatto la storia dell’assistenza rivolta alle persone disabili, contribuendo, in questo modo, a riconoscere loro un diritto fondamentale, che ne precede, direi logicamente, altri, ovvero il diritto all’esistenza; e pur sottolineando che i primi istituti che accoglievano persone con disabilità erano pressoché tutti cattolici, facevo notare un certo ritardo delle istituzioni cattoliche (e anche di parte dei credenti) ad aprirsi a una visione più completa e meno riduttiva della persona disabile.
Riassumendo, la Chiesa ha fatto difficoltà a immaginare la persona disabile come partecipe di diritti e soprattutto di doveri, come artefice della sua esistenza unica, come soggetto attivo. Ovvero, come credente pieno (si tendeva e si tende, ad esempio, a pensare che i Sacramenti non siano strettamente necessari alle persone disabili, perché Dio comunque li avrebbe salvati, senza che ad essi venisse chiesto di porre quei segni di salvezza all’interno della comunità umana).
Le cose, negli ultimi anni, sono cambiate, a mio avviso nella giusta direzione. Compito di ogni credente è anche quello di lavorare per rafforzare questo orientamento.
Sono consapevole della complessità di questo argomento, e lo spazio di una rubrica è strutturalmente insufficiente a sviluppare a pieno un discorso così delicato. Mi farebbe molto piacere che diventasse uno stimolo alla discussione, al confronto, alla condivisione delle rispettive esperienze. Donatella ci ha parlato della sua, la lettera mi è da subito sembrata molto interessante. Grazie Donatella, abbia coraggio, prima o poi la Chiesa passerà dal Sabato Santo alla Domenica di resurrezione…

Un Oscar da Oscar, Superabile, Luglio 2012

La stagione sportiva estiva prosegue con una bella novità che ci arriva fresca fresca dalle Olimpiadi di Londra 2012. Siamo finalmente arrivati ad un passo dall’unione tra le Olimpiadi e le Paralimpiadi. A far da trait d’union un protagonista d’eccezione, le cui gesta sono ormai sulla bocca, per non dire sulle gambe, di tutti! Sto parlando del grande Oscar Pistorius, il giovane atleta sudafricano con protesi bilaterale, di recente vincitore della medaglia d’argento per i quattrocento metri a Benin eppure escluso dai giochi olimpici di Pechino 2008. Londra 2012 segna oggi per lui il momento del riscatto, rendendolo partecipe di entrambe le competizioni e facendone un atleta a tutto campo. Ovviamente ci è voluto poco a far sì che Pistorius si trasformasse agli occhi del grande pubblico in un piccolo eroe, il simbolo di una crescita e di una vittoria raggiunte superando lunghi ostacoli e difficoltà, non solo fisiche. La sua vicenda è il segnale di un cambiamento importante. In genere, lo sappiamo, prima ci sono le Olimpiadi con tutta la loro cornice di atleti, spettatori, giornalisti e sponsor, una macchina mediatica cioè che ne fa da eco e supporto.

Subito dopo seguono letteralmente "a ruota" le Paralimpiadi, dove gli atleti ci sono ma sono disabili e quindi, di norma, per i giornalisti e gli sponsor automaticamente meno interessanti. Inserire Pistorius in entrambe le manifestazioni perché semplicemente un bravo atleta, al di là della suo deficit e dei supposti vantaggi offerti dalle protesi (poi rivelatisi fasulli), ha significato per tutti cominciare ad allargare lo sguardo mediatico e di conseguenza popolare e culturale sulla disabilità.
Complimenti quindi ad Oscar e alla sua dedizione, ma anche ai suoi allenatori e a chi, in tutti questi anni ha creduto in lui e ha saputo farne un campione di abilità. Che dire, speriamo che sia solo l’inizio e di aggiudicarci molti ori! E voi, siete già pronti con il telecomando in mano?
Scrivete a claudio@accaparlante.it o sulla mia pagina facebook.

Claudio Imprudente

L’estate di Giacomo, Superabile, Luglio 2012

Ogni estate che si rispetti ci porta una serata sotto le stelle, per stare insieme con il naso all’insù ad aspettare, con l’arrivo della notte, l’inizio di un bel film all’aperto. Ma, quest’anno, mi chiedo, che film posso consigliarvi? Comincerei con l’invitarvi a scovare una pellicola indipendente dal titolo "L’estate di Giacomo ", l’unico film italiano premiato al prestigioso festival di Locarno 2011, grande successo in Francia e in questi giorni finalmente in arrivo nelle sale italiane, ingiustamente a lungo tempo ignorato.

Il film, spiega il giovane regista Alessandro Comodin, nasce come documentario sulla vita di Giacomo, diciottenne del nord est affetto da sordità dalla nascita, che, raggiunta la maturità, sceglie di sottoporsi a un’operazione chirurgica per recuperare l’udito. Su questo delicato passaggio tra il silenzio del mondo interiore e percettivo del ragazzo all’incontro con il rumore magnifico e violento del mondo esterno, si concentra la storia del film. Sullo sfondo, ce lo dice il titolo, un’estate da toni caldi e rarefatti, nelle pianure del paesaggio friulano in prossimità del mare. Una storia vera, quella di Giacomo, un viaggio verso l’età adulta attraverso la scoperta e il processo di apprendimento dei suoni, un film poetico e profondo, dai colori pastello, che intreccia con il tema della disabilità amicizia, sole e amore.

Come cantava Simon And Garfunkel, anche il suono del silenzio può diventare musica e quando questo viene a contatto con la vita esplode in mille frammenti di note, immagini e pellicola, proprio come ci insegna questo bravo regista. Piacevole, da vedere sotto le stelle! Buona visione e scrivete a claudio@accaparlante.it o sulla mia pagina facebook. (Claudio Imprudente)

Più terme e meno badanti! Superabile, Luglio 2012

Vento caldo, sole rovente, acqua a trenta gradi…quasi quasi me ne vado alle terme! Ho pensato proprio così, qualche settimana fa, mentre facevo i conti con l’afa bolognese, e in men che non si dica mi son ritrovato a mollo nella frescura di Montegrotto Terme…

Che dire, quel posto me lo sono proprio goduto, non solo per la bellezza del luogo ma anche per la sua comodità, completamente accessibile e circondato da personale disponibile e accogliente.
La cosa più interessante però è stata per me la battuta che tre clienti hanno improvvisamente rivolto a un cameriere. Alla domanda di questi "perché, dopo tanti anni, siete ancora così affezionati alle nostre terme?", i tre han seraficamente risposto "perché sono un ottimo investimento per il nostro futuro". In che senso? Vi chiederete voi… "Così"- han continuato gli affezionati- "ritardiamo il tempo della badante!".

Al di là della battuta divertente, credo che nella sua semplicità i vacanzieri abbiano toccato un nodo fondamentale e mi sono subito posto un’altra domanda: la disabilità che strategia può investire per il futuro? E soprattutto quante persone disabili possono permettersi di andare oltre le loro esigenze primarie? Il valore della qualità della vita e la lungimiranza nel cercarla sono le prime risposte che vengono in mente, risposte che, tuttavia, non per tutti risultano tanto immediate. Credo che la capacità personale di affrontare il deficit con uno sguardo verso il futuro sia un punto indispensabile per la crescita, nonché l’invecchiamento, di una persona con disabilità. Spesso infatti si pensa che la disabilità sia una condizione priva di mutamenti e che la qualità della vita possa incidervi solo in parte, dimenticando quanto questo vada a coinvolgere l’autostima e l’umore della persona.

Avere la possibilità di entrare alle terme è così il primo passo per oltrepassare le nostre barriere architettoniche e mentali ma scegliere di farlo con consapevolezza è un passaggio più complesso e successivo. Si tratta di imparare a separare la persona dal suo deficit e cominciare a intraprendere un percorso di accettazione e cura verso se stessi, una cura però che deve essere continuativa, un investimento appunto, come ci han ricordato i nostri simpatici clienti. Insomma, bisogna andare alle terme per restare longevi… E voi, quante volte andate alle terme, in piscina, a fare i fanghi, a spassarvela un po’ per investire sul vostro futuro?

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Claudio Imprudente

La bottega di Luigino, Superabile, Luglio 2012

Mi sono sempre chiesto se San Giuseppe, intorno all’anno zero, in quelle calde e afose giornate di luglio a Nazareth, continuasse imperterrito a lavorare nella sua bottega, a scolpire il suo legno da bravo falegname.
Me lo chiedevo perché in queste giornate, pur con il ventilatore puntato in faccia, è difficile persino pensare e scrivere… figuratevi Giuseppe che di certo non poteva disporre di certi ausili!
Questi strani pensieri mi sono venuti dopo aver conosciuto la storia di Luigino. Voi vi chiederete: “Chi è Luigino?”.
Ve lo presento subito, perché credo che la sua vita e la sua esperienza meritino di essere conosciute da tutti, rappresentando valori di cui io stesso vi parlo frequentemente poiché mi sembrano in via d’estinzione.
La volontà di rimettersi in gioco, la creatività, la tenacia, la voglia di porsi ancora in relazione senza chiudersi in se stessi.
Tutti ingredienti, questi, che ho ritrovato nella vicenda di Luigino.
Sposato, con due meravigliosi figli e un lavoro nel settore della distribuzione elettrica, Luigino si trova all’improvviso a convivere con la disabilità e con la sua nuova carrozzina.
In molti a questo punto si darebbero per vinti, rifiutando di accettare la realtà e rischiando di vivere una vita passiva, inerme. Niente di tutto questo. Luigino prende pialla, lima e legna ed inizia a dare sfogo alla sua creatività, rimettendosi in gioco, reinventandosi.
Icone ed immagini Sacre, paesaggi e presepi ma non solo, utilizzando varie segature provenienti da diverse specie arboree, il nostro scultore, tutt’altro che improvvisato, riesce a creare delle vere e proprie meraviglie.
Un suo amico ci scrive di lui queste bellissime parole, importanti secondo me anche come metafora della disabilità stessa, per riuscire a tirare fuori le potenzialità (in questo caso capolavori) anche da situazioni (in questo caso residui d’alberi…) che ci appaiono inutili ed inutilizzabili:
“Luigino, con i suoi occhi indagatori, riusciva a scorgere un embrione di vita nascosto nelle tortuosità di quel legno secco e mettendosi a scolpirlo gli ridonava letteralmente la vita, facendone emergere un Cristo come fosse una nuova resurrezione”.
Una resurrezione appunto. Una nuova vita. Che bello sarebbe entrare nella sua bottega…

E voi, cari amici lettori, quante volte vi siete reinventati? Quali sono le vostre botteghe?

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Claudio Imprudente

 

La medaglia dell’integrazione Il Messagero di Sant’Antonio, Luglio-Agosto2012

“Mare, mare, mare, ma che voglia di arrivare lì da te…”
Così cantava Luca Carboni qualche anno fa, tanto da far diventare questo ritornello l’inno d’inaugurazione di ogni mia stagione estiva.
Ho un dubbio, che in questa calda estate mi accompagnerà sulle spiagge o perfino in montagna, lo stesso dubbio che perseguiterà milioni di sportivi italiani…Va bene l’abbronzatura, benissimo l’aria pura delle Alpi, ma senza un moderno i-pad c’è il serio rischio di perdersi le bracciate olimpioniche della nuotatrice Pellegrini a Londra , le avventure del calciatore Balotelli e degli Azzurri in Polonia. Per finire la stagione in bellezza, da fine agosto, assisteremo alle paraolimpiadi.
Da vero appassionato non mi perderò un solo secondo di tutti questi eventi. Eppure mi domando…
Siamo sicuri che lo sport favorisca sempre l’integrazione? Non è che in alcuni casi piuttosto porti involontariamente a delle forme di “disintegrazione”?
Una prima considerazione di fondo: lo sport è un fantastico strumento per integrare, ma come tutti gli strumenti va usato correttamente. Sottolineo che sto parlando di sport, non di semplice gioco, e questo presuppone impegno, costanza, perseveranza, rispetto dell’avversario, regole condivise e il conseguimento di un obiettivo finale: la vittoria.
Lo sport, non dimentichiamolo è un’attività di confronto ma anche un’attività agonistica, con tutti i problemi che ne possono derivare.
Per una persona con disabilità le prime difficoltà cominciano direttamente dall’approccio stesso allo sport. Di norma infatti, chi arriva in una polisportiva chiedendo di prendere parte a un’attività agonistica, viene indirizzato verso corsi assimilabili alla fisioterapia, oppure verso attività molto semplici e già collaudate come il basket e l’hockey in carrozzina.
Eppure la parte fondamentale è proprio quella iniziale, in cui all’atleta con disabilità va assegnato un ruolo attivo, capace di valorizzare le sue qualità.
Detto questo, partire dal gioco per costruire lo sport non è uno slogan ma un punto di partenza imprescindibile: cogliere la peculiarità delle varie disabilità, permette di inquadrare il deficit e le potenzialità da sviluppare. Solo in questo modo è possibile modificare o adattare l’attività ludico-sportiva a seconda delle capacità del soggetto coinvolto.
Numerose, per fortuna, sono oggi le esperienze che si muovono in questa direzione.
Recentemente nella trasmissione di Rai Uno “A Sua Immagine” mi sono imbattuto in un’intervista al mio amico Marco Calamai, ex giocatore e allenatore della Fortitudo Bologna, oggi impegnato in una squadra sperimentale di pallacanestro, esempio di sport senza barriere e di vera integrazione.
Lo stesso vale per le attività di baskin (basket integrato), sport da poco nato a Cremona grazie all’Associazione Baskin, dove normodotati e diversamente abili gareggiano insieme con lo stesso obiettivo:vincere.
Anche perché l’obiettivo più grande l’hanno già raggiunto: integrare.
E voi siete sportivi? Il vostro sport integra o disintegra?
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Claudio Imprudente
 

Con Calimero aumenta il Pil, Superabile, Luglio 2012

Come recitava l’Olandesina a Calimero nel noto Carosello degli anni Sessanta: “Siamo alle solite…”.  Nonostante quest’anno scolastico si sia chiuso con nuove e gravi difficoltà, dall’attentato di Brindisi al terremoto in Emilia Romagna, restano ancora in ballo vecchi e irrisolti quesiti. Tra questi l’ormai storica e annosa domanda: la disabilità è una risorsa o un peso per la collettività?
La scuola è ovviamente la prima cartina tornasole della risposta, come sempre emanazione diretta degli sguardi pubblici e politici che la dirigono e sostanziano. Da questo punto di vista, tuttavia, la situazione attuale è piuttosto schizofrenica.
Benché ogni giorno, infatti, riceva numerose lettere da parte di insegnanti di sostegno capaci di mettere la disabilità al centro del gruppo classe, i segnali che l’informazione ci fornisce vanno spesso in direzione diametralmente opposta.
Parlo di questo non solo rispetto alla riduzione del corpo docente, ma a tutte quelle risorse economiche che permettono di mettere in campo, dentro e fuori la scuola, progettualità innovative e durature.
Tutto ciò è risultato del solito pregiudizio: il contributo della persona disabile è antieconomico. Si fa ancora fatica a riconoscere cioè quelle che sono le potenzialità che anche chi ha un deficit può mettere in campo, dimenticandosi, ad esempio, del suo concorso fondamentale all’aumento e alla stabilità del Pil. Un disabile che il più delle volte ha bisogno di un aiuto esterno o di essere affiancato è già infatti di per sé un ufficio di collocamento vivente.
Insieme a questo si sottovaluta poi come il miglioramento della qualità della vita di una persona in situazione di handicap possa di fatto influire su quello generale. Vi faccio un esempio semplice. Quando siete al bar e avete bisogno di recarvi alla toilette, preferite entrare in un bagno largo ottanta centimetri o in uno largo tre metri? Disabili o non, la risposta è ovviamente la stessa: un bagno accogliente migliora la vita e la comodità di tutti.
Nonostante i grandi passi avanti, merito della legge sull’integrazione, sembra oggi che la crisi ci costringa un po’ a indietreggiare, a ripercorrere e a portare avanti diritti che si speravano ormai dati per scontati e acquisiti.
In tempi come questi dunque, credo che oltre a manifestare sia necessario riorganizzarsi, a cominciare dall’interno dell’istituzione scolastica e dai suoi insegnanti, che dovranno così ricominciare a impegnarsi di persona su questi fronti oltre che in un’ottica alternativa di rete. La scuola, insomma, ci pare abbia bisogno di una ripulita per tornare a parlare con più forza dei suoi temi.
Chissà, forse ha ragione il nostro Calimero piccolo e nero…bisognerebbe dare ascolto alla bella Olandesina e trovare la giusta tinozza in cui immergersi. Come fare?
Ci vorrebbe proprio un nuovo detersivo o forse basterebbe un nuovo ammorbidente….Che ne dite? Voi cosa consigliate? Scrivete a claudio@accaparlante.it o sulla mia pagina facebook.
Io, intanto, con questo caldo, vado alla ricerca della bella Olandesina…

Claudio Imprudente

 

W Il calcio!, Superabile, Giugno 2012

A tutti noi durante la nostra infanzia è stata fatta una domanda, banale, imbarazzante e spesso inutile: “Vuoi più bene alla mamma o al papà?”.
Bene, la stessa domanda mi è tornata in mente alcune sere fa, quando, seduto comodamente davanti alla tv, mi gustavo Ucraina-Svezia valevole per il campionato europeo in Polonia ed Ucrania.
Un amico seduto accanto a me, conoscendo la mia folle passione per i colori rossoneri, mi ha infatti chiesto “Claudio, preferisci Shevchenko o Ibrahimovic?”.
Ecco, appunto, un’altra domanda banale, imbarazzante e di difficile giudizio. La risposta fu la stessa di quarant’anni fa: “Voglio più bene alla nonna”. Ovvero, amo tutti e due allo stesso modo!
Forse la battuta più azzeccata sarebbe stata “W il calcio!”. La sfida europea a tinte rossonere è infatti l’ennesima testimonianza del perché, nonostante tutto, continuiamo ad amare il gioco più bello del mondo.
A questo proposito, alcuni giorni fa, è stato dato il fischio d’inizio ad un nuovo progetto, chiamato semplicemente “W il calcio!”, una collaborazione nata tra la Cooperativa “Accaparlante” e l’Associazione “Bandiera gialla” per riscoprire la magia, l’universalità e la bellezza del gioco del calcio.
L’idea è affascinante, utilizzare come sfondo integratore lo sport più amato dagli italiani, così come afferma il mio amico Andrea Canevaro. Reputo che unire calcio e disabilità possa essere un’idea vincente ed integrante, essendo lo sport patrimonio di tutti. Il progetto è in questo senso ampio e in divenire, il calcio è utilizzato nello specifico anche come metafora della vita, per i tanti valori che si porta dietro, nonostante i continui scandali che lo circondano. Lo spirito di squadra, la collaborazione, il superamento delle difficoltà, lo “sporcarsi le mani”, la crescita della stima in se stessi e negli altri sono valori indispensabili nel calcio come nel quotidiano.
Significativa è una frase di Eric Cantona, ex campione francese del Manchester United, che alla domanda su quale fosse stato il momento più bello della sua carriera rispose “non fu un gol ma il passaggio ad un compagno”. E se quel compagno- gli chiesero- avesse sbagliato il gol?
“Non importa. Bisogna avere fiducia nei compagni di squadra, fidarsi”, ha risposto Cantona. Questo è il calcio, questa è la vita.
Speriamo che questa frase sia di buon auspicio anche per i nostri azzurri ora impegnati nel campionato europeo…
Che dire ancora? Forza azzurri! Anzi, “W il calcio!”
E ora tocca a voi… Volete più bene a Dino Zoff o a Gigi Buffon?

Scrivete a claudio@accaparlante.it o sulla mia pagina facebook.

Claudio Imprudente