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autore: Autore: Giovanna Di Pasquale

Piccoli Lettori

La diversità nei libri della prima infanzia

anell Cannon – Stellaluna – Edizioni Il punto di incontro – 1996

Stellaluna, una pipistrellina separata dalla madre prima di aver imparato a volare, precipita in un nido di uccelli insieme ad altri piccoli e impara che non tutte le creature alate si nutrono di frutta o volano di notte.
E’ una storia di conoscenza reciproca e di disponibilità: così seguendo l’esempio di Stellaluna il resto della nidiata prova ad appendersi ai rami a testa in giù e a volare di notte, come la piccola pipistrella cercherà di appollaiarsi su un ramo e di apprezzare lo strano cibo dei suoi nuovi amici.
E’ una storia di amicizia nella diversità
Rimasero tutti appollaiati in silenzio per un bel po’. Come possiamo essere così diversi e sentirci così simili? Riflettè Flitter.
E come possiamo sentirci così diversi ed essere così simili? Si meravigliò Pip.
Penso che sia un bel mistero, trillò Flap.
Sono d’accordo, disse Stellaluna, ma noi siamo amici. E questo è certo.

Lucia Scudieri – Volare – Fatatrac – 1997

Poche parole, splendide illustrazioni a tutta pagina per questa storia-metafora del crescere e della diversità molto adatta anche a lettori piccolissimi.
E’ tutto giocato sul contrasto del colore e sulla forza delle immagini il messaggio del libro: un piccolo corvo nato bianco insegna ai fratelli corvi, neri, a volare sotto lo sguardo prima scettico e poi conquistato di mamma corvo ancora forse scombussolata da quel figlio così diverso dagli altri due.

Antonella Abbaticello – La cosa più importante – Fatatrac – 1998

"Qual’è la cosa più importante?" E’ attorno a questa domanda che gli animali del bosco di Pratorosso discutono accanitamente proponendo a turno come risposta la loro caratteristica predominante, così per il coniglio sono i denti la cosa più importante, per il riccio gli aculei, per la giraffa il collo lungo.
La sorpresa risiede nella pagina ripiegata che, una volta aperta, ci fa incontrare tutti gli animali del bosco "accessoriati" di volta in volta di un elemento predominante. Abbiamo così coccodrilli alati, leoni dalle lunghe orecchie, elefanti spinosi. E’ divertente e significativo ad un tempo vedere le facce sbigottite degli animali così trasformati e irriconoscibili per primi a loro stessi fino alla soluzione finale dove, grazie, all’intervento del gufo saggio, ognuno degli animali riprende possesso delle caratteristiche proprie. La pagina finale, infatti, ce li presenta tutti vicini, amici, diversi l’uno dagli altri.

Josef Wilkon – C’è cavallo e cavallo – Edizioni Arka – 1997

Per i più piccoli c’è il delizioso libretto " C’è cavallo e cavallo" dove si racconta dell’incontro di un giovane curioso puledro con un grosso ippopotamo. Dalla considerazione che appartengono entrambi alla famiglia dei cavalli si arriva alle caratterizzazioni: il puledro sa saltare e l’ippopotamo sa nuotare. Il testo è accompagnato da disegni divertenti ( dello stesso autore) che ci mostrano il tentativo dei due animali per acquisire le competenze reciproche. E così vediamo un puledro grossissimo che però lo stesso non galleggia ma rischia di affogare e un magro ippopotamo che non riesce lo stesso a saltare. E’ stato sciocco cercare di diventare a ogni costo uguali. Risero entrambi. Decisero quindi di essere lo stesso amici. Così come erano.

Barbara Resch – L’elefante con le orecchie rosa – Emme edizioni – 1988

Perché si nasconde l’elefante? Perché ha le orecchie rosa e nessuno vuole giocare con lui. Con estrema semplicità e disegni accattivanti l’autrice racconta l’eterna storia del diverso che solo i piccoli sanno accettare. Il linguaggio è immediato e geniale la soluzione per fare accettare agli altri animali le orecchie rosa: la provenienza da una misteriosa Terra Diversa che può essere dappertutto in cui vivono scimmie che non sanno arrampicarsi e giraffe dal collo corto.
Una fiaba quindi sull’accettazione della diversità e sulla valorizzazione degli aspetti positivi (attraverso le orecchie rosa, fonte di derisione, si può vedere un mondo bellissimo, tutto rosa). E’ proprio questo il meccanismo che porta a riscoprire gli altri e a guardarli con curiosità alla ricerca della diversità di ciascuno e della conseguente ricchezza che a ciascuno può venire proprio da questa diversità.

Eric Carle – Il camaleonte variopinto – Mondadori

Per piccolissimi un libro dalle belle illustrazioni molto colorate. E’ la storia di un camaleonte che non vuole più essere camaleonte e desidera essere altri animali. Ogni volta viene accontentato ma solo per una parte ( proboscide, zampe ecc.) finché torna camaleonte ed è contento.

Gerda Wagener, Jozef Wilkon – Lupacchiotto – Edizioni Arka – 1997

Per i più piccoli un altro racconto sulla diversità. Il lupacchiotto protagonista non ama cacciare né pescare e non fa paura a nessuno. I genitori sono contrariati e preoccupati, i fratelli lo prendono in giro, così lupacchiotto avvilito scappa e incontra un topolino che gli offre il suo aiuto. Gli porterà la pelle di una tigre poi gli aculei di un istrice e infine denti di leone. Le illustrazioni che accompagnano questi "doni" e i travestimenti del lupo fanno intuire il risultato finale, quando si presenterà al branco. Una grande risata risolverà i problemi di lupacchiotto che conclude: E’ meglio rimanere come sono. Se nessuno a me fa paura, perché mai dovrei fare paura agli altri?

Paul van Loon – Il lupetto mannaro – I criceti Salani – 1996

Quando Dolfi, abbandonato dai genitori quando era piccolo, compie sette anni scopre di essere un lupo, anzi un lupetto mannaro. Si apre così questo tenerissimo libro dove tra le righe ma in modo molto esplicito si legge l’invito ad accettare le diversità e a trovarne gli aspetti positivi. Per consolarlo e indurlo ad accettare il suo nuovo provvisorio stato un uomo misterioso gli sussurra: Lupi mannari. Credi di essere l’unico? Nessuno è mai l’unico caso al mondo. Nessuno è l’unico cieco o l’unico povero. Nessuno è l’unico ciccione…Se imparerai a padroneggiare il tuo dono scoprirai quanto è speciale… L’uomo si rivelerà essere il nonno, anche lui lupo mannaro ma non solo nelle notti di plenilunio (Sono stato io a sceglierlo…mille volte meglio boschi che una casa di riposo per anziani).
Il lieto fine è assicurato per un libro rivolto a bambini non tanto grandi ma godibilissimo da tutti.

John Wilson, Jozef Wilkon – L’elefante più piccolo del mondo – Arka – 1997

L’elefante di questo incantevole libro non era più grande nemmeno di un gatto domestico! E, per un elefante, essere tanto piccolo era la cosa più triste che potesse capitare. Così decide di lasciare la giungla e di andare a vivere in una vera casa. Le sue ricerche sono lunghe e difficili finchè non incontra un bambino che lo porta con sé e per farlo accettare dalla mamma lo fa passare per un gatto ( per prima cosa Paoli insegnò all’elefante a camminare a ritroso come un gambero, tenendo ben piegate le orecchie, e a muovere la proboscide come una coda. Poi dipinse sul suo sedere la faccia di un gatto…. ma bisogna vedere le illustrazioni!"). Scoperto il trucco la mamma lo porta al circo ( per un elefante non c’è posto che al circo) dove finalmente potrà vivere felice. Pur nella conclusione un po’ scontata e stereotipata ( dove meglio del circo regno della diversità può trovare rifugio appunto un diverso?), il numero che gli trova il direttore del circo è ironico e divertente: l’uomo più piccolo del mondo solleverà con la sua forza straordinaria, un elefante. Così annuncia al pubblico ed è il successo e la felicità per l’animaletto che conclude è andata proprio bene che non sia cresciuto più di un gatto, altrimenti ora non mi troverei qui.
Se un rilievo va fatto è che sarebbe stato sufficiente concludere così. I bambini sono in grado perfettamente di leggere fra le righe e così le ultime quattro righe (Proprio così. Al mondo c’è posto per tutti, giganti, piccoli o di media grandezza che siano. E per ognuno arriva sempre il momento, vicino o lontano, in cui trovare la felicità e veri amici) suonano proprio come una lezioncina irritante, soprattutto se pensiamo che non sono certo i bambini che ne hanno bisogno

Gerda Wagener, Vlasta Barankova – Costantino – Arka – 1989

Costantino è un caimano che ama l’armonia della natura selvaggia e per questo viene isolato dai compagni tutti presi dalla ricerca del cibo. La scelta di allontanarsi dal gruppo, dettata da un senso di inutilità e dall’amore per la musica, lo porta ad "incontrarsi" con un corno da caccia che impara a suonare meravigliosamente: ormai non si vergogna più di essere stato giudicato diverso da tutti e inutile. Quando suonava il corno gli sembrava di possedere il mondo intero. Ed è proprio la musica che conquista tutti gli animali e gli permette di sentirsi felice e sicuro di sé. Ed è naturalmente il riconoscimento di questa sua abilità, che rende tutti felici, che porta i caimani ( e tutti gli animali) ad accogliere Costantino come uno di loro. La storia, accompagnata da bellissimi disegni i cui colori riecheggiano i suoni della musica di Costantino, è forse un po’ lunga per essere letta autonomamente ma ha un fascino che conquista sicuramente anche i più piccoli

Guj Couhaje, Marie-Josè Sacrè – L’ippopotamo volante – Arka – 1993

Un’altra storia di diversità, deliziosamente illustrata, che affronta, anche se con estrema delicatezza, il tema dell’amore. Poldo, ippopotamo con le ali (non più grandi di quelle di una farfalla) decide di esplorare il mondo perché nessuna signorina ippopotamo lo vuole sposare. Così troviamo Poldo a cavallo di un aereo (dentro non ci sta!) poi davanti a un supermercato dove viene scambiato per un cartellone pubblicitario. Il suo incontro con un altro fuggitivo (un canarino scappato dalla gabbia) dà il via ad altre avventure nel tentativo di trovare un rifugio. Ma l’idea del rifugio come nido porta inevitabili guai data la mole di Poldo. Quando ormai sembra che non resti altra soluzione che tornare in Africa, Poldo scopre in un circo (inevitabile proprio questo collegamento?!) una ippopotama come lui, con ali. E meno male che non decide di vivere lì anche lui ma invece con un finale meno scontato e più trasgressivo, la rapisce e vola con lei verso l’Africa facendo tappa alle Canarie, ovvio, dove lasciare Tuorlo d’uovo.
Una fiaba deliziosa sulla diversità, la diffidenza della gente, il calore dell’amicizia e dell’amore. Certo i grandi potrebbero dire che la conclusione che si può trarre è che i diversi si sposano con i diversi ma il messaggio che i bambini colgono immediatamente è che Poldo si "sposa" ed è felice. E questo è l’essenziale.

Klaus Kordon, Maire-Josè Sacrè – Il piccolo, il grande e il gigante – Arka – 1999

Un piccolo libro, delle splendide illustrazioni e un’originale invenzione che ci riporta a prima che gli uomini fossero appena un po’ più grandi o appena un po’ più piccoli degli altri. Merita davvero fermarsi a lungo sulla penultima doppia pagina dove l’illustrazione occupa tutto lo spazio e rende quasi superfluo il breve testo che racconta come un giorno un giovane piccolo s’innamorò di una fanciulla gigante e un giovane gigante si innamorò di un fanciulla piccola. "Che coppie", dicevano tutti. I volti sorridenti la dicono lunga e anche per i bambini più piccoli sarà chiaro che ben più della diversità conta la felicità.

Iva Prochzkova – Cinque minuti prima di cena – I criceti Salani – 1999

E’ più centrato sul rapporto papà-figlia e sulla ricerca delle proprie origini questo bel libretto che comunque si sofferma anche sulla diversità e più in particolare sulla cecità della piccola protagonista. Soprattutto sa trasmettere con chiarezza il messaggio che ognuno è diverso e che la diversità non è per forza un ostacolo. Infatti mentre tutti erano tristi perché Babeta non vedeva lei…vedeva a modo suo. In maniera del tutto diversa dall’altra gente (…) vedeva la mamma che ogni sera si drizzava sul suo letto per darle un bacio. Era bella. Odorava di crema da barba…

Gregoire Solotareff – Lulù – I girini Bompiani – 1996

C’era una volta un coniglio che non aveva mai visto un lupo…e viceversa naturalmente. Il testo coloratissimo è rivolto ai più piccoli e racconta dell’amicizia fra due animali diversi. Un libro sui pregiudizi (i lupi mangiano i conigli), le paure e il superamento di tali paure visto che l’amicizia è più forte.

Maria Sole Macchia – Il Signor Tazzina – Fabbri Editori – 1999

Cosa succede ad un personaggio illustrato se il suo disegnatore assai distratto dimentica di disegnargli un orecchio, particolare questo che lo fa assomigliare ad una tazzina per il caffè? Succedono molte cose scritte e soprattutto disegnate con uno stile ironico in questo libro che ci propone i pensieri e le azioni di un un uomo diverso deriso e triste ma non sconfitto. Anzi, a partire dalla sua diversità il signor Tazzina scopre le differenze di molte altre persone e in virtù di questo riconoscimento rifiuta di farsi aggiungere l’orecchio mancante e affronterà il mondo così come è e alla fine sarà ricompensato.

Roberto Piumini – Il paese di Chicistà – LEDHA, Lega per i diritti degli handicappati – 1996

E’ una storia di bambini. Bambini diversi e bambini uguali, bambini tutti interi e bambini così e cosà. E’ la storia dell’incontro fra questi bambini, della loro conoscenza reciproca che ci aiuta a capire meglio qualcosa intorno all’handicap. Il racconto, infatti, ci presenta dapprima l’handicap come qualcosa di separato, "il muro che circonda ed isola" e, nell’evoluzione della storia, come un filo che permette un riconoscimento, un incontro tra le diversità che noi tutti abbiamo.
Nonostante le fattezze di fiaba non è una storia semplice, non è una storia immediata. E’ una storia da ascoltare con un adulto al fianco che abbia voglia di fermarsi ad ascoltare i perché, i dubbi e le domande, anche le proprie, che sempre suscita l’incontro della diversità.
L’handicap non ha bisogno di separazione, esige sincerità e condivisione. In questo senso anche le parole di una favola possono aiutare.

Guido Quarzo – Talpa, Lumaca, Pesciolino – Fatatrac – 1997

Di correre proprio non era capace. Per la verità era lenta in tutto: lenta a mangiare, lenta a scrivere, lenta a vestisi. Però non si poteva dire che non sapesse fare tutte queste cose: anche se ci metteva più tempo degli altri, faceva tutto .(…) Naturalmente la chiamavano Lumaca. Ci aveva fatto l’abitudine a quel nome, e non si arrabbiava più. D’altra parte era così lenta anche ad arrabbiarsi…. Lumaca, insieme a Pesciolino e a Talpa, nasce dalla penna di Guido Quarzo, insegnante elementare e scrittore molto amato dai bambini che, nel bel libro edito dalla Fatatrac, tocca il tema della diversità. I tre bambini protagonisti dei racconti, accompagnati da splendidi disegni, parlano un linguaggio proprio, non giudicano ma ascoltano, non pongono domande imbarazzanti e non fanno della competizione un valore ma piuttosto una ridicola fissazione.

Hanna Johansen – L’oca che restava sempre ultima – I Delfini Bompiani – 1997

Sono sei le uova di mamma oca, ma l’ultimo è più grosso. Sono sei i piccoli che nascono ma l’uovo più grosso si schiude più tardi…e così attraverso tutte le tappe della crescita le piccole ochette dovranno fare i conti con il fratellino che resta sempre ultimo. Eppure sarà proprio questa sua caratteristica a salvare tutti dai cacciatori. Questa storia semplice, con bellissime illustrazioni in bianco e nero, rivolta ai bambini di sette-otto anni può essere letta ai più piccoli che non faranno fatica ad identificarsi con l’ochetta "diversa" (o con i fratelli impazienti…) e sapranno apprezzare la sua tenacia e la sua forza di volontà che le permetteranno di imparare tutto quello che sanno fare gli altri, anche se…per ultima.

Ursel Scheffler – Tutti lo chiamavano Pomodoro – Nord-Sud edizioni – 1997

A volte basta proprio poco per essere guardato in modo diverso. E’ il caso del signor Pomodoro, così soprannominato per quel suo naso rosso come un pomodoro maturo. E’ per coprire il suo naso che Pomodoro scambiato per un rapinatore e, inseguito dalla polizia, scappa dalla sua casa e si rifugia per tutto l’inverno in un luogo diroccato. Ovviamente non è lui il delinquente ma comunque quel suo naso rosso è lì a marcare una differenza con gli altri e la sua solitudine.
E’ un bambino, verso la fine della storia, attraverso la condivisione di un cibo, a vedere finalmente Pomodoro vicino ai suoi simili e a riconoscerlo come tale.

Piccoli lettori crescono

La diversità nei libri per ragazzi

Rodman Philbrick – Basta guardare il cielo – I delfini Bompiani – 1999

Lasciamo parlare di questo bellissimo libro Antonio Faeti, nell’introduzioneche apre il volume:
"Sì, lo diciamo continuamente che i diversi vanno accettati, fatti viverenel mondo così stranamente definito "dei normali". Sì, parliamosempre di solidarietà, di bontà, di sentimenti profondi, di valori, diumanità, di dignità. Sì, facciamo programmi, convegni, spot televisivi,interviste ad esperti, servizi giornalistici, copertine, manifesti, raccolte difirme. Poi, però, c’è sempre una barriera, noi di qua, loro di là. Libri comequesto che state per leggere ce ne sono davvero pochi. Qui non si resta comodi,al calduccio, tra gente pulita che odora di buono. Si scende in cantina, siraggiungono stagni puzzolenti, fogne, stamberghe. Si vede bene in faccia laviolenza, si scorge chi sta dall’altra parte, si frequentano cattive compagnie.E allora si impara davvero. E’ l’amicizia tra ragazzi, la prima scoperta, ilprimo tema, il contenuto più autentico, la trama che tutto unifica. Unargomento, anche questo, quasi impossibile da trattare. C’è il rischio dipasticciare, di riempire pagine e pagine di sentimenti a buon mercato, disdolcinature a prezzi da realizzo. Qui, i due amici sembrano davvero quello cheridendo proclamano di essere: due cavalieri antichi, due guerrieri, ammiratoridi Re Artù nell’età dei computer. Hanno stabilito, fra loro, un rapporto cosìstretto, anche in senso fisico, da creare una terza persona che li comprendetutti e due e a cui hanno dato un nome cumulativo.
Dopo l’amicizia, è l’handicap che ci viene incontro e ci viene mostrato secondouna regola validissima, qui mai abbandonata: è severamente vietato ilpiagnisteo. Non ci sono pietismo, non ci sono consolazioni, niente carezze,niente languori. Non va bene neppure il bel sorriso educato: qui trionfa losghignazzo da brutte strade di periferia, qui si ritrova un tono che rimanda aivecchi libri di pirati, di briganti, di grassatori. Vengono in mente anche ipicari, ovvero gli avventurieri spagnoli del Seicento che se ne andavano dicittà in città a cercar fortuna. E questo è un libro così intenso, bello,colorito e beffardo, da poter essere definito proprio picaresco.
Si rammenta anche Mark Twain, con i suoi Tom e Huck, anche loro affezionatifrequentatori di bassifondi, case abbandonate, grotte, cimiteri. Un libro comequesto merita di essere collocato nello scaffale che contiene i libri di Twain.
Essere amici significa, soprattutto, trovarsi. E’ il vero incontro quello chedecide tutto. E due handicap uniti producono una forza irresistibile,dall’amicizia nasce un progetto, si rinnova la vita, cambia tutto. Gli adulti,qui, non sono modelli, non possono indirizzare o dirigere: i due ragazzi devonoinventarsi tutto, la vita, il mondo, le regole, il comportamento, i giorni, ilcalendario. Oggi si ha quasi timore a parlare dell’amicizia, perché quella chemeglio si conosce è quella superficiale, frettolosa, spesso falsa, nata incerte occasioni in cui si sta insieme nel gruppo. Qui c’è l’amicizia priva dismancerie e di svenevolezze che però è tenace come il cemento, qui c’è unpatto reso sempre più solido dalle disavventure e dalle avversità. A guardarbene, il mondo imbroglionesco, pasticciato, degradato, in cui si muovono i dueragazzi è assolutamente il nostro mondo di oggi. Sappiamo di stare assistendo,quasi ogni giorno, a cambiamenti mirabili, che richiedono capacità didecifrazione e di adattamento. Nel libro, che per l’appunto si leggevoracemente, tutto questo sconquasso è tenuto d’occhio, è guardato bene,spesso si giunge anche a qualche spiegazione. Una, per esempio, è tale che gliadulti (anche per loro è adatto questo libro) fanno fatica ad accettarla.Spesso, nei cambiamenti vorticosi, nel succedersi frenetico di fasi storiche,nel crollo degli imperi, accade che la saggezza, tradizionalmente assegnata aglianziani, sia invece in possesso dei ragazzi. Osservando il comportamento dei dueprotagonisti si comprendono le ragioni di questo spostamento. Come in tutti igrandi libri del riso, anche qui si ritrova una vena, sottile e preziosa, dimalinconia. E’ fatta di quel misterioso umore presente nella comicità piùgeniale: in Charlot, in Totò, in Stanlio e Ollio inevitabilmente si ritrovanomomenti in cui, oltre allo spasso irresistibile c’è una breve pausa ditristezza. E la si sente affiorare anche qui, delicata, lieve, però, ancheintensa. Solenni come i cavalieri dell’amato Re Artù, sprezzanti come i picari,incontenibili come i pirati, i due ragazzi sanno suscitare anche qualchelacrima, inevitabile e sincera.
Noi, per questo, li amiamo anche di più".

Ed è vero, non possiamo non amare Max che dice Non ho mai avuto un cervellofinchè non è arrivato Freak e ha lasciato che prendessi in prestito un po’ delsuo per un po’, e questa è la verità, la pura verità. (…) per un sacco ditempo è stato lui a occuparsi delle parole. Solo che io avevo un mio modo didire le cose coi pugni e con i piedi anche prima che diventassimo Freak theMighty, pronti a fare a pezzi draghi e sciocchi, camminando in alto sul mondo
.
E non possiamo non amare Freak che all’asilo non sembrava tanto diverso, eravamotutti quanti sul piccolo, no? (…) Aveva l’aria come fiera, me lo ricordo così(…) dio quelle stampelle se erano forti. Ne volevo un paio anch’io. E quandoil piccolo Freak un giorno è arrivato con quei ferri luccicanti fissati allegambette storte, coi tubi di metallo che andavano su fino ai fianchi, bè,quelli erano anche più forti delle stampelle.
E non possiamo fare a meno di amare Freak the Mighty che nasce perchè Freak nonha portato le stampelle stasera, solo i ferri alla gamba, e ride così forte checade. Non che cada da molto in alto. Comunque, io lo tiro su e resto stupito asentire com’è leggero.(…) così mi chino senza pensare e tiro su Freak e melo metto sulle spalle. Freak si tiene sempre stretto alle mie spalle e quandogli chiedono il suo nome dice "Noi siamo Freak the Mighty, ecco chi siamo.Siamo alti nove piedi, nel caso non l’abbiate notato". Ed è così che ècominciata, davvero, come siamo diventati Freak the Mighty, pronti a far stragedi draghi e di sciocchi, camminando alto sul mondo.

Ci fermiamo qui anche se ci piacerebbe farvi notare tante altre cose diquesto libro triste e bellissimo e pieno di speranza. Leggetelo presto.

Jane Slepian – Le rose del Bronx – Gaia Junior Mondadori – 1996

Decisamente ben scritto questo bel libro tanto che viene naturaleimmedesimarsi nelle ragazzine di cui si narra. Magistralmente descritti isentimenti, i desideri, le reazioni dell’undicenne Skip e il fascino che su dilei esercita una coetanea, trasgressiva e trascinatrice, a capo di una piccolabanda che pur di farsi accettare da lei è disposta a fare scherzi di cattivogusto e ad infierire crudelmente su chi è solo.
Skip ha una sorella di quindici anni, Angela, dalla mente semplice come quelladi una bambina piccola, ragione del trasferimento della famiglia nel nuovoquartiere dove frequenterà una scuola speciale.
Mentre spesso il tema della diversità emerge dalle pagine dei libri per ragazzisolo con un invito, più o meno esplicito, all’accettazione, in questo libro siaffrontano temi più scottanti e forse meno appariscenti ma non per questo menoveri e concreti: le ansie e le aspettative dei genitori, la necessità-dovere diaccudire una sorella diversa, le divisioni che tale diversità può portare infamiglia.
E’ davvero molto reale questa madre apprensiva che si sostituisce alla figlia,non lasciandole autonomia, che la ritiene migliore degli altri("…frequenterà quella scuola e gliela farà vedere, a tutti (…),chissà che un giorno o l’altro non possa insegnarci in quella scuola") eche a lei ha dedicato la vita ("…non dimenticare che Angela ha una madree una sorella. Non ha bisogno di lavorare. Ci penseremo noi, a lei.").
Reale questo padre stanco, concreto ("la responsabilità di Angela ènostra, non sua. Skip ha la sua vita da vivere") e che riversa sulla figliaminore le aspettative e l’amore frustrato dalla diversità dell’altra figlia edalla "lontananza" della moglie, ma che per tutte lavora fino allosfinimento.
Reale Skip nel suo desiderio di libertà, nella sua ansia di non doversioccupare della sorella ("…era cosciente solo del fatto che la causa ditutti i suoi problemi era Angela. Quando sua madre la sgridava, era per via diAngela. Quando i suoi genitori litigavano, era per lei. Faceva impazzire tutti.Skip non poteva fare questo, Skip non poteva fare quello. Non poteva neppurerespirare per via di sua sorella.").
La storia si dipana senza cedimenti mettendo sempre più in evidenza lanecessità (e la difficoltà) di una scelta da parte di Skip. Da un latol’amica, la libertà, l’assenza di obblighi, l’affetto incondizionato dellecoetanee. Dall’altro la famiglia, la sorella, il padre adorato. In un crescendodi tensione, il libro si avvia alla conclusione semplice, forse un poco scontatama senz’altro positiva, il cui messaggio non può non essere inteso e capitofino in fondo dalle adolescenti cui il libro è rivolto.

Nicholas Wilde – Ombre – Superjunior Horror Mondadori – 1993

Scritto da un maestro della ghost story, il libro è in realtà il raccontodi una settimana di vacanza sulle coste del Norfolk e di una straordinariaamicizia fra due dodicenni, Matthew, cieco, che ha vissuto sempre nei quartieripoveri di Londra, e Roly che lo guida, facendogli da "occhi"all’esplorazione della zona e dei sentieri che portano al mare.
Il libro è un invito a superare le barriere che un deficit sensoriale, come lamancanza della vista, può innalzare fra le persone, senza cadere però neldidascalico e nel pietismo.
Sono le sensazioni che prova Matt nei suoi rapporti con gli altri, la suaricerca di autonomia e di libertà, la sua capacità di servirsi degli altrisensi per muoversi e vivere la sua vita, che indicano la strada da seguire.Naturalmente, insieme alla descrizione della capacità immediata di Roly dirapportarsi con lui con immediatezza e semplicità.
Ha poca importanza, alla fine, che Roly sia un fantasma e Matt la reincarnazionedi un suo amico, anzi la collocazione del libro nella collana horror forsedissuade dalla lettura chi non ma il genere.

Niklas Radstrom – Robert e l’uomo invisibile – Piemme, serie arancio -1996

Il mondo improvvisamente diventa tutto buio per Robert, un bambino di seianni che si ritrova a fare i conti con "l’impossibilità di accendere laluce". Il libro racconta con grande partecipazione, freschezza ed ironia leesperienze e le sensazioni di Robert, le reazioni della sua famiglia e deglialtri (amici, maestra…).
L’incontro con l’uomo invisibile che "solo chi non vede può vedere"è una soluzione brillante per fare riacquistare al bambino la fiducia in sestesso e la convinzione di poter fare qualsiasi cosa solo che lo voglia.
Il racconto si snoda con leggerezza tra il ritorno a scuola, la conoscenza diun’altra bimba cieca, la cattura di due ladri fino la finale un po’ retorico.Robert, così come inspiegabilmente aveva perso la vista, altrettantomisteriosamente la riacquista, riuscendo però a conservare la sensibilità e lacapacità di attenzione nei confronti degli altri che il periodo di cecità gliaveva fato acquisire.
Fortissima la tensione iniziale che si snoda per una cinquantina di pagine finoall’arrivo dell’uomo invisibile, che non è solo un espediente per ridarefiducia a Robert ma che rappresenta in qualche modo tutte le persone condeficit, "invisibili" al mondo dei normodotati e ce lo dichiara conlapidarie osservazioni:

"Solo perché non ci si vede non vuol dire che si sia invisibili. (…)E’ brutto non vederci ma ancora più brutto è quando nessuno ti vede. E’ lacosa più brutta che ci sia. Quando nessuno ti vede, sei solo al mondo,completamente solo, e questo fa soffrire molto".

Aquilino – Il fantasma dell’isola di casa – Piemme, serie rossa – 1994
Peter Hartling – Che fine ha fatto Grigo? – Piemme, serie arancio – 1995

Due libri sulla diversità, sul deficit nascosto e non meglio dichiarato diun ritardo, di difficoltà di rapporti.
"Simili" ad una prima occhiata anche i protagonisti di circa diecianni, maschi, soli, l’uno in una casa bellissima dove i genitori passano velocie se ne vanno presi dai loro problemi, solo anche l’altro, abbandonato in unistituto, con affidi falliti alle spalle e una mamma troppo truccata che compareogni tanto per una brevissima visita.
Ma quanto diverse le storie!
Romolo (il fantasma) attraversa tutto il libro in un triste monologo in cui nonc’è spazio per la speranza, in cui non trovano posto amici (se non immaginari)e affetti significativi mentre sullo sfondo si muovono adulti inquietanti,concentrati su se stessi e privi di qualunque sfaccettatura positiva.All’inseguimento di soldi e di una posizione i genitori (il papà saràarrestato verso la fine per tangenti); collerico e preso dal culto del"fisico in forma" nonno Giobbe che morirà solo nel suo letto e verràtrovato proprio da Romolo alla ricerca di una voce amica; superficialeappassionata di telenovelas la governante; piena di invidia per la sorella lazia Claretta che fa la maestra. Esemplare (in negativo!) è proprio il capitoloin cui la zia detta a Romolo l’inizio della Divina Commedia e gli corregge iltesto: "Non riesce a capire che io non capisco, io scrivo bene solo sullatastiera. Non faccio errori (altrimenti il computer non accetterebbe gli input)e potrei comporre endecasillabi in rima alternata, se solo miinteressasse".
Inquietante anche la fine: quando Romolo scopre che sarà messo in istituto sichiude in camera sua e inizia a parlare con animaletti (veri? Immaginari?) chegli fanno compagnia. Sarà su sollecitazione di una farfalla che Romolodeciderà di volare via attraverso la finestra aperta (davvero? o nella suaimmaginazione?) e su questa immagine che velatamente suggerisce un agghiacciantesuicidio si chiude il libro.
Grigo invece non lo vuole nessuno e così sta in un istituto dove ci sono altribambini abbandonati, alcuni "buoni", altri no, ci sono gli adulti (leeducatrici, la direttrice, i custodi, le psicologhe, il dottore), alcuni"buoni", altri no.
Su questo sfondo che permette ai bambini di non perdere di vista la realtà (cheè fatta proprio di buoni e di cattivi) si dipanano le avventure di questobambino difficile.
Il linguaggio è chiaro e poetico, il libro, pur nella tragicità della vicendache narra, lascia spazio a sentimenti positivi anzi sottolinea con forza lanecessità dell’amicizia e dell’amore trasmettendo ai piccoli lettori unmessaggio ben chiaro: bisogna saper guardare e bisogna saper ascoltare.

"Tu non impari mai niente – dicevano i suoi genitori adottivi. (…) Lagente diceva che lui era stupido, che non imparava niente ma aveva torto. Grigoimparava un sacco di cose. Imparava a vivere negli istituti, che non è una cosafacile. Imparava a memoria i test che i medici e le psicologhe facevano con lui.Imparava ad evitare le persone che non gli volevano bene. Imparava a difendersidai bambini che lo picchiavano. Imparava ad avere mal di testa e a giocare lostesso. Imparava molte cose. (…) Grigo imparava insomma soltanto ciò di cuiaveva bisogno per cavarsela abbastanza, cioè per vivere in istituti e clinichesenza farsi insultare o picchiare troppo spesso".

Anche in questo racconto non tutti gli adulti fanno una bella figura ma,ancora una volta, non sono tutti cattivi! E anche questi ultimi sonotratteggiati con ironia e leggerezza. Così per esempio le psicologhe che,numerose volte, sottopongono Grigo a test ma…"piano piano Grigo ebbecosì tanto allenamento a fare quei giochi da sapere esattamente quello chepiaceva alle psicologhe (che) non si accorgevano affatto che Grigo non giocavacome avrebbe dovuto ma come volevano loro".
Anche questo libro non è a lieto fine. Dopo l’ennesima fuga, Grigo verràtrasferito in una clinica e di lui si perdono le tracce.
Ma…c’è un poscritto per i bambini che andrebbe probabilmente letto e rilettoda tutti quegli adulti che hanno a che fare, poco o tanto, con l’educazione e lacura dei bambini speciali. E tutti i bambini sono speciali.

– E’ veramente esistito Grigo? – chiedono tutti i bambini a cui io raccontola storia di Grigo.
– Sì, Grigo è veramente esistito. Ma questo non ha tanta importanza.L’importante è che voi veniate a sapere che esistono bambini malati come lui,che vivono come lui, negli ospedali e negli istituti.
– Grigo era proprio malato? Che malattia aveva?
– Probabilmente aveva due tipi di malattie: una che i medici sapevanoindividuare – il mal di testa, i crampi, i dolori allo stomaco. Queste sono lecaratteristiche di una vera malattia. Avrà anche un nome difficile. L’altramalattia i medici non la possono curare: Grigo era malato perché nessuno sioccupava di lui, perché viveva quasi esclusivamente in ospedali e istituti,perché nessuno giocava con lui e nessuno aveva fiducia in lui. Questa, secondome, è la malattia peggiore. E’ inguaribile se non viene un aiuto da tutti, senon esistono delle persone che vogliono bene a bambini come Grigo.
– Però la signorina Bianchi voleva bene a Grigo!
– Forse non basta. Ci devono essere tante persone, e lui deve poter vivere inmezzo a loro, poter vivere normalmente, e solo allora imparerà com’è la vita.
– Dei bambini così possono guarire?
– Non accade spesso. Noi tutti abbiamo troppo poco tempo per occuparci di loro.Per questo restano malati.
– Allora questi istituti devono diventare più belli.
– Costa un sacco di soldi. E con questi soldi la gente preferisce costruirestrade, automobili, aerei, case e preoccuparsi della propria comodità.
– Ma forse questi istituti non servono a niente.
– Chi è malato deve essere curato. Ha bisogno di aiuto.
– Però non esistono solo questi istituti per aiutarli.
– No. Si potrebbe aiutarli in modo diverso. Ma sarebbe faticoso. E molte personedovrebbero comportarsi diversamente da come si comportano adesso. Dovrebberopensare ai bambini come Grigo – che vengono dimenticati perché gli istituti nonli lasciano più davanti agli occhi della gente. E allora i bambini sembranoscomparsi.
– Sono matti e combinano un sacco di guai.
– Fanno tante cose senza senso solo perché noi non ci preoccupiamo di capirli.Non abbiamo pazienza. Potrebbero giocare all’asilo con gli altri se tutti siprendessero cura di loro e nessuno li prendesse in giro. Potrebbero ancheesserci delle scuole per loro. E dei genitori adottivi che avessero imparato afare i genitori di bambini come Grigo.
– Ma tutte queste cose non esistono?
– No. Per questo Grigo stava in un istituto. E poi in clinica. Ed è così chelo hanno dimenticato.


Nicola Cinquetti – La mano nel cappello – Piemme, serie rossa – 1998

Se da un lato questo libro è azzeccatissimo e sa porre i lettori di frontealla diversità e alla sua possibile accettazione dall’altra rimanda un che di"superato". E’ come se l’ambientazione, il protagonista e la suafamiglia vivessero negli anni ’60. Eppure è stato pubblicato nel ’98! Sesottolineiamo questo "difetto" è perché, ci pare, non aiuta illettore ad immedesimarsi nella situazione e, pur posto di fronte a personediverse, accolte con tutte le loro caratteristiche dal protagonista, che nescopre i valori e gli aspetti positivi e supera la paura del contatto con loro,fatica a trovare riferimenti concreti con la sua esperienza di oggi.
Si tratta di uno dei pochissimi testi che raccontano il tema della diversitàmettendo al centro del racconto l’incontro fra William, solitario e timidoquattordicenne e gli abitanti della comunità " Le stelle" giovaniadulti disabili e i loro operatori.
E’ questo il motivo di interesse centrale del libro: attraverso la reciprocaconoscenza il lettore scopre la realtà quotidiana di questi luoghi ormaipresenti nella nostra società ma nello stesso tempo ancora appartati.L’iniziale diffidenza che si apre alla curiosità e alla voglia di conoscersimeglio delineano il clima emotivo del libro seppure in alcuni passaggi sirischia un eccesso pedagogico quasi si volesse, attraverso l’esempio virtuosodel protagonista, insegnare ad essere solidali.
Questo tratto è in gran parte compensato da riflessioni intime e profonde chene fanno una lettura adatta per chi sta vivendo la fatica del crescere.

Dennis Covington – Lucius Lucertola – Piemme, serie rossa – 1997

Si sarebbe tentati di collocare anche questo libro nell’elenco di quelli chehanno, fra i personaggi, persone con deficit senza che quest’ultimo siaparticolarmente significativo ai fini della storia. Ma è un libro piuttostoparticolare, come particolare è il protagonista che vive in un istituto perragazzi ritardati e ha un viso deforme.

Mi chiamo Lucius Sims. Ben presto scoprirete che sono più in gamba di quelloche sembro. Nessuno è mai riuscito a dimostrare che sono ritardato come glialtri ospiti dell’istituto, ma se vi capitasse di vedermi, temo che non avresteuna gran considerazione di me. E’ per via del mio aspetto fisico che lasignorina Cooley mi ha mandato alla Leesville.
(…)
Quando mi guardo allo specchio, io non mi vedo come mi vedono gli altri. E’semplicemente Lucius Sims che mi guarda…le mie spalle e il collo, la miafaccia, i miei occhi. Certo, i miei occhi sono spostati su un lato della testapiù di quanto lo siano quelli delle altre persone, ma hanno un bel colore,simile alle alghe. Non devo nemmeno portare gli occhiali. La gente crede che ionon ci veda bene solo perché il mio sguardo va in due direzioni diverse e pensache non respiro bene solo perché ho il naso piegato di lato.
(…)
Sono tutti convinti che siano la mia faccia, il modo in cui tengo le spallecurve e il fatto che zoppico ancora un po’ (…) a rendermi diverso dagli altri.Ma io non ci casco. Voglio dire, so benissimo di essere differente, e la cosa mipreoccupa un po’. (…) E so anche chi il mio aspetto non è la ragione per cuisono diverso, ma semplicemente la sua manifestazione esteriore.

Lucius se ne andrà dall’istituto con un uomo che dice di essere suo padre e,dopo diverse esperienze, troverà nel teatro la sua realizzazione e il coraggiodi tornare "a casa" e di diventare grande.

Per la prima volta mi resi conto che la signorina Cooley non era molto piùvecchia di me, e proprio come me doveva imparare un sacco di cose. Durante imiei viaggi avevo sentito la sua mancanza ma in quel momento seppi comesarebbero andate a finire le cose tra noi: sarei rimasto un po’ con lei, almenofino a quando avessi compiuto sedici anni, e dopo avrei potuto scegliere. In uncerto senso, ero già da solo.
(…)
Trovai un po’ di conforto nel pensiero che mi ero dimenticato quanto fosse ampioil cielo sopra la cittadina in cui vivevo, e come d’estate rimanesse a lungoluminoso.

Lo stesso cielo che sta sopra Freak the Mighty e che collega con un filosottile di stelle i protagonisti di questi, e altri, libri di cui vi abbiamoparlato.

Janine Teisson – Cinema Lux – Shorts Mondadori – 1998

Sono stati una scoperta piacevole questi Shorts che sono "brevi come unvideoclip, appassionanti come un film. Romanzi che si leggono in un’ora e non sidimenticano più". E, aggiungiamo noi, sono di qualità pur costandoveramente pochissimo (4.900 lire!!).
Questo, che piacerà sicuramente agli adolescenti un po’ romantici ma che vivononel 2000, racconta una tenera storia d’amore nata sulle poltrone di un cinema.Attenzione però, non è come pensate voi! L’amore nasce dalla passione cheentrambi i protagonisti hanno per i film di una volta, film che il cinema Luxproietta tutti i mercoledì.

Entrando fà attenzione al gradino. Sfiora il velluto ruvido delle poltrone.Il paradiso si torva nella terza fila a partire dal fondo, settima poltrona.

Non amano i film muti, però…E piano piano scopriamo insieme a Marine e aMathieu che entrambi sono ciechi; lo scopriamo un po’ prima di loro e liseguiamo in un mondo di sensazioni, di attenzioni diverse e di diversepossibilità.
Naturalmente sarà amore ma non c’è retorica nell’ultimo capitolo, quello dellerivelazioni, che è tutto da leggere.

Melvin Burgess – Innamorarsi di April – Gaia Junior Mondadori – 1997

Molte storie si intrecciano in questo racconto attorno al tema principalecostituito dall’amicizia e dall’innamoramento di Tony e April, due giovani dallevite non certo semplici.
Tony giunge nel paese di April dopo che il padre lo ha allontanato da casainsieme alla madre. April è sorda e per questa sua difficoltà vieneconsiderata da tutti come la tonta del villaggio, per di più dalla scarsamoralità.
Dopo l’iniziale diffidenza i due ragazzi si conoscono e nonostante le ostilitàche li circondano vivranno qualcosa di importante per il loro percorso dicrescita. Crescita che, come per tutti gli adolescenti, ha anche il sapore dellascoperta della diversità, più evidente per April ma molto presente anche perTony. Diversità che significa anche incontro con corpi diversi ed emozioni chenascono da questo incontro.
Il tema della sessualità è infatti un altro dei filoni che si ritrovano nellibro; è presente nella sua parte più gioiosa come scoperta reciproca dei duegiovani ma è anche raccontata nella sua parte più oscura e difficileattraverso le molestie che April subisce da alcuni ragazzi e nell’usospregiudicato che ne fa la madre di Tony.
E’ quindi un libro ricco di opportunità di lettura, reso in un qualche modomaggiormente atipico dall’ambientazione che rende forse un po’ demodè certipassaggi ma ne costituisce una misura di interesse.

Guido Quarzo – Clara va al mare – Salani – 1999

Clara, la protagonista di questo libro, è una ragazzina di quattordici anni.E’ una ragazzina down. Clara ha un desiderio, quello di tornare a vedere ilmare. Il libro è il racconto di come Clara tutta sola si avventura verso ilmare. Ed è l’occasione per conoscere un po’ meglio la storia di questa bambinagià ragazza, dei suoi pensieri, dei suoi affetti, delle sue paure e desideri.
Che sono uguali a quelli di tutti ma anche ugualmente diversi. Il tono del libroè giocato proprio su questo doppio binario: la quotidianità di Clara cosìsimile a quella di tante altre bambine e ragazze ma anche in parte diversa.Diversa perché differente è la sensibilità che la anima e i problemi, inparticolare le reazioni che suscitano il suo aspetto e le sue difficoltà inalcuni coetanei. Clara non capisce la ragione di questa diffidenza ed ostilitàma è capace di affrontarla a modo suo.
Così come a modo suo, con volontà e capacità, affronta il viaggio fino almare e si destreggia negli incontri per la via. Sola ma non in solitudine.

Paula Fox – Festa di compleanno – Shorts Mondadori – 1998

Questo libro si segnala per almeno due ordini di motivi. Il primo ècollegato al tema affrontato: il legame ambivalente ed complesso che lega Paul,primogenito dodicenne e Jacob suo fratello Down. E’ davvero difficile incontrareuna storia che abbia interesse a scoprire il rapporto fraterno in una situazionedove è presente il deficit e a farlo in toni non favolistici ma ancorati aldisagio e alla fatica di accettare questo legame. E’ Paul che racconta questadifficoltà, attraverso le sue emozioni intense e contraddittorie entriamo nellaquotidiana convivenza, rileggiamo con gli occhi di un bambino, quale Paul è,quanti cambiamenti suscita la nascita di un bimbo diverso.
Il secondo motivo di interesse deriva dalla scelta di accompagnare la storialungo il percorso del tempo che passa. Il libro segue infatti il rapporto traPaul e Jacob lungo l’arco di sette anni. Questa collocazione temporale cheaccompagna la crescita dei due protagonisti da forza alla narrazione permettendodi seguirne gli sviluppi e le tappe. Attraverso questa evoluzione seguiamo losforzo di Paul per non essere tirato dentro ad una situazione che non vorrebbevivere, le sue resistenze e gli slanci, le domande ed i silenzi. E’ solo dandosiil tempo di sentire disagi ed incomprensioni che Paul può vivere pienamente ilmomento di riconoscimento di Jacob come fratello, unico e diverso e parte dellasua vita.

Patrice Kindl – Il gufo innamorato – Gaia Junior Mondadori – 1995

Difficile e, per alcuni aspetti, un po’ sgradevole questo romanzo che, in uncrescendo di tensione e coinvolgimento, affronta il tema della diversità in unmodo sicuramente originale. La protagonista racconta in prima persona

Io mi chiamo Owl, ossia "Gufo". E il mio nome corrispondeesattamente alla mia natura. Sono centinaia di anni che , ogni due o tregenerazioni, nella mia famiglia nasce un uccello rapace.
(…)
Meglio spiegare chiaramente la situazione, non vorrei che sorgessero equivoci.Di notte mi guadagno la vita in forma di gufo, tra i campi e i boschi checircondano casa mia. Di giorno sono una ragazza normale (più o meno) chefrequenta il liceo cittadino.

Il racconto parla dei cambiamenti dell’adolescenza (amori, amicizie, distaccodai genitori…) ma la trama dipanandosi ci porta sempre più sulle tracce deltema centrale ben più profondo e delicato. La vita di Owl, mutante accettatapienamente dai suoi genitori e in grado di gestire bene questa sua diversità,procede parallela e lontana da quella di Houle, rifiutato e rinchiuso inmanicomio dalla sua famiglia proprio per la stessa diversità non compresa ericonosciuta:

(è il padre di Houle che parla)
Si è sempre parlato, nella nostra famiglia, di una specie di maledizione:qualcosa di strano che spuntava ogni poche generazioni. Io la consideravo piùche altro una pittoresca tradizione, e spesso ho pensato che si trattasse di unatara ereditaria. Più di una volta mi sono chiesto se tu ne fossi vittima.

Ma le vite dei due ragazzi si avviano sempre più velocemente verso un puntodi collisione. L’incontro e il riconoscimento non sarà immediato ma alla finerisolutivo.
E ben chiaro sarà il messaggio e l’invito a fare i conti con la propriadiversità anche in rapporto agli altri senza chiusure, senza ghetti ma conun’accettazione piena gli uni degli altri.
E la "lezione" arriva molto semplicemente attraverso Dawn, compagna discuola di Owl e sua unica amica, disposta ad accettarla nella sua duplice natura(Sì, proprio tu. So benissimo chi sei. Quello piccolo con gli occhi neri èHoule, o David, o come diavolo vuoi chiamarlo. Ma tu, gufo dagli occhi gialli,tu sei la mia compagna di scienze, vero?) ma che la invita a dare anche a Houleuna possibilità:

Parlo sul serio Owl. (…) Deve tornare a casa sua per sistemare tutto con isuoi genitori. (Houle) hai detto che non gliene fai una colpa se non hannocapito…Bene, allora dimostralo. Ora lo sanno: dai loro un’occasione. Tuo papàè biologo, scommetto che in un batter d’occhio potrebbe scoprire un sacco dicose sui gufi, non credi?

Melvin Burgess – La gigantessa – Junior+10 Mondadori – 1998

Una fiaba delicata sulla diversità e sui diversi modi di affrontarla. Lapiccola Amy, con il cuore e non con le parole, può comunicare con la misteriosagigantessa uscita da un tronco durante un terribile uragano. E se il cuore ledice che non deve temere, lei fiduciosa offre il suo aiuto alla creaturamisteriosa. Neanche il fratello poco più grande è in grado di vincere iltimore suscitato da quest’essere con cui non riesce a comunicare. E questa èl’intuizione che fa di questo libro un testo importante: mentre Amy sa mettersi"nei panni di", tutto quello che il fratello riesce a fare èinsegnare alla gigantessa a parlare, cercando di avvicinarla a lui ma senzacapirla fino in fondo, senza entrare in sintonia.
E così solo Amy capisce immediatamente quello che sta dietro le apparenze

Una porta si aprì e loro uscirono (dalla nave spaziale). Erano due, un uomoe una donna (…). Erano uguali a Giga: lo stesso corpo alto e aggraziato, lelunghe facce immobili, lo stesso muso terribile e fremente. Ma erano molto piùalti di lei.
– Sono enormi – disse Peter.
– Non lo sapevi? – gli chiese Amy.
Stava per chiederle: "Sapevo cosa?" Ma poi capì. Giga era unabambina. Una bambina non più grande di sua sorella.

Wendy Orr – La mia vita fatta di strati – Edizioni EL – 1997

In parte autobiografico, il libro racconta come può cambiare la vita inseguito ad un incidente automobilistico. In questi ultimi anni sempre piùdobbiamo fare i conti con l’aumento dei deficit acquisiti in seguito a traumi elesioni e anche i ragazzi devono saper affrontare questa difficile realtà. Leriflessioni di Anna, diciassettenne sportiva e innamorata, la sua difficoltà adaccettare la sua nuova condizione, a lasciare andare l’immagine e il ricordodell’Anna di prima ci accompagnano nel corso della storia che si apre propriocon l’incidente e si dipana fra crisi, speranze e delusioni fino ad un pienoriconoscimento della sua nuova esistenza. E’ un libro a tratti duro, moltorealistico ed intenso che sa descrivere con grande incisività le sensazioni dichi si ritrova a dover dipendere da altri e non riesce più a vedere davanti asé il futuro che si era preparato. Ma è un libro che, pur senza indorare lapillola, aiuta ad affrontare una nuova vita disegnando un percorso che porta aduna piena accettazione di sé e stimola alla ricerca di nuove strade dapercorrere per poter lo stesso vivere una vita piena.

E.B. White – Le avventure di Stuart Little – I Delfini Bompiani – 1998

E’ proprio una fiaba la vita di Stuart, alto cinque centimetri e con lesembianze di un topino, che nasce da una normalissima coppia (di umani) di NewYork che non si scompone più di tanto alla vista di un figlio così diverso. Leavventure di questo topo ragazzo non hanno alcun intento pedagogico eppure ciportano, con ironia e leggerezza, a guardare il mondo dal basso e a scoprire,stupiti, che non è poi così male.

Yekutiel o del raccontare le differenze

(…)
Prima che Yekutiel arrivasse a scuola, la maestra, intelligente, avvertì gli scolari, spiegando che Yekutiel era un bambino deforme, con un difetto alla schiena, e che dovevano comportarsi bene con lui, senza prenderlo in giro. Dovevano accoglierlo e fare amicizia.
(…)
Trascorsero uno, due, e anche tre o quattro anni; nel corso del quinto anno ? Yekutiel era undicenne ? successe qualcosa. L’insegnante di letteratura assegnò come compito un tema libero. Quando portò a casa i componimenti per correggerli e dare i voti, capitò su quello di Yekutiel, lo lesse e ne fu molto colpito. L’indomani entrò in classe, e disse: "Vorrei dedicare la lezione al tema di Yekutiel. Ve lo leggerò, e in seguito ne discuteremo".
Ecco quello che il professore lesse sul quaderno di Yekutiel:

Compito
Molti anni fa c’era un paese, lontano e isolato, al di là delle Montagne Tenebrose e del Fiume di Fuoco, dietro i Boschi di Ferro. In quel paese vivevano persone di tutti i generi, uomini, donne e bimbetti, nati con una deformazione alla schiena, con la spalla destra più alta della spalla sinistra, e con un testone in cima a un corpicino. Gli abitanti di quel paese erano molto felici, e si rallegravano del loro destino. Quando parlavano di una persona cara per tesserne le lodi, dicevano: "Mia figlia è talmente bella che nessuno può resistere alla sua magia. Ha la schiena più storta e più gobba di qualunque altra bambina che abbia mai visto in vita mia". I presenti rimanevano impressionati e non credevano alle loro orecchie. Il papà, orgoglioso e felice, tirava fuori di tasca una fotografia e la mostrava agli amici e tutti approvavano con ammirazione: "Effettivamente…fino a oggi non si era mai vista una schiena così curva! Una vera e propria meraviglia…Quando compirà diciotto anni, questa bambina sarà la nostra reginetta di bellezza!"
In quel paese vivevano così, assaporando ogni istante della loro vita gobba. Per i giorni di festa avevano una danza particolare, che esprimeva tutta la gioia per quello che il destino aveva dato loro, finchè un giorno successe una disgrazia.
Nella famiglia del sindaco era nato un bambino tutto dritto, con le spalle allineate, slanciato; la deformazione aumentava di anno in anno, e a dieci anni era alto un metro e sessanta, un vero mostro! Non ci sono parole per descrivere i dispetti subiti da quel bambino, fin da quando era in fasce gli altri bambini avevano avuto paura a giocare con lui e quando venne il momento di andare a scuola, i suoi genitori credettero necessario andare a lezione con lui, per proteggerlo dallo scherno dei compagni. Ma lui, che era coraggioso e pieno di buon senso, disse: "Non c’è bisogno di proteggermi, posso cavarmela da solo". Effettivamente, ben presto fu amato dai compagni, perché poteva fare per loro quello che a loro era impossibile. Grazie alla sua lata statura era capace di raccogliere per gli amici i frutti sulla cima dei pruni, poteva anche sbirciare al di sopra della cancellata dello stadio e riferire come procedeva la partita e chi stava vincendo, senza che dovessero comprare il biglietto. Fu quindi il primo a vedere da lontano la carrozza reale che stava avvicinandosi alla città e annunciò agli abitanti l’arrivo del rnonarca. Essendo alto, sentiva rumori lontani, e sapeva se il temporale si stava avvicinando, o se la primavera era alle porte, tanto che la popolazione non aveva bisogno di buttare via denaro per l’acquisto di un barometro o per lo stipendio di un meteorologo. Se era nevicato parecchio, lui spazzava via la neve accumulata sui tetti delle case con le mani, mentre andava a passeggio per le strade della città.
Tutti questi lavori importanti li faceva gratis perché cercava a tutti i costi di piacere, e desiderava che non ridessero di lui. Gli abitanti di quel paese finirono col perdonargli la sua infermità.
I suoi genitori, però, pensavano che soffrisse nell’essere diverso da tutti, ed erano molto preoccupati. Viaggiarono di città in città, interrogando e cercando dappertutto per trovare uno specialista che fosse in grado di curare la deformazione del figlio, finché un giorno vennero a sapere che nella capitale c’era un chirurgo impareggiabile, di fama mondiale, che poteva salvare il bambino. Si raccontavano davvero grandi cose di quel dottore; si diceva che già anni e anni prima si era occupato di un caso simile, ed era riuscito a eliminare perfettamente la deformazione: dopo una lunga e complicata operazione, il dottore era riuscito a ingobbire la schiena dritta del bambino, e a renderla curva quasi quanto quella di un bambino normale.
I genitori comunicarono al figlio questa splendida notizia, e dissero che non avrebbero badato a spese, che avrebbero dato al dottore tutto l’oro del mondo. Con loro grande sorpresa il bambino li informò che non voleva andare da quel dottore, e che desiderava rimanere così come era.
"Ma perché?" chiesero i genitori sbalorditi. "Perché preferisco essere come tutti gli altri miei simili" disse lui. "I tuoi simili?" dissero i genitori, "dove hai mai visto un bambino come te?". "Sono sicuro" disse il bambino dritto, "di non essere l’unico. Sono sicuro che c’è un posto dove mi assomigliano tutti". "Stupidaggini" ribatterono i genitori. "Leggiamo giornali di tutto il mondo, e non abbiamo mai sentito di un bambino come te…. tranne quelli che escono dall’ordinario… quelli deformi, naturalmente".
"Può darsi che i giornali non scrivano niente sul paese della gente come me. Può darsi che quel paese sia piccolo e isolato, o forse non esiste nemmeno un paese vero e proprio, e persone come me esistono solo qua e là, ma apparteniamo tutti a un tipo unico e speciale, e ci è proibito rinunciare ai nostri diritti".
"I vostri diritti?". I genitori, stupiti, non capivano: "Che diritti hanno le persone come te?"
"Ne abbiamo" disse il bambino, sorridendo fra sé e sé. "Per esempio, noi siamo più vicini al cielo, perciò sentiamo rumori e vediamo cose che la gente normale non immagina nemmeno. Ed è solo uno degli esempi".
I genitori si spaventarono talmente che portarono il bambino da uno specialista della mente, sulla cui porta era scritto "Psicologo", nonché "Dottore". Questo dottore parlò a quattr’occhi con il bambino, e dopo aver ascoltato quello che il piccino aveva da dire, disse ai genitori: "Lasciatelo tranquillo… Non sta bene, sta benissimo".
Così andarono le cose, e fino ad oggi è rimasto deforme, andando in giro eretto, annusando il profumo dei fiori di pruno da vicino, direttamente dai rami alti degli alberi; i fiori gli accarezzano le guance, gli fanno il solletico sotto il naso, e lui ride.
E il riso è segno di gioia, ogni tanto.

L’unicità del deficit, la pluralità delle vite

Perché proponiamo un percorso intorno a scritti di persone che ad un punto della vita hanno incontrato il deficit?

Per tentare una risposta prendiamo in prestito dallo scrittore Javier Marias una riflessione: “Esiste un’enorme zona d’ombra in cui solo la letteratura e le arti in genere possono penetrare; di certo non per illuminarla o rischiararla, ma per percepirne l’immensità e la complessità: è come accendere una debole fiammella che perlomeno ci consenta di vedere che quella zona è lì, e di non dimenticarlo”(1).
La zona d’ombra data dalla malattia, dal deficit, dalla vicinanza con la morte, presenza ingombrante rispetto alla quale mettiamo in atto, per quanto più ci è possibile, meccanismi di rimozione, allontanamento, estraniamento. Sperimentiamo l’impossibile impresa di espungere dalla nostra quotidianità ogni rimando, nonostante, o forse in forza degli inevitabili richiami di cui la nostra stessa esperienza di vita e delle persone a noi vicine, è costellata.
Le testimonianze, in forma di racconti autobiografici, si offrono come ponte tra chi ha vissuto direttamente un’esperienza e si è sentito nel corso del tempo in grado di comunicarlo, raccontando, e chi è lontano da questo. La testimonianza è una strada forte, fondata sulle parole che non si propongono come modello; non vogliono parlare al posto di altri ma essere profondamente se stesse. Lontane da velleità rappresentative sono ancorate ad un quadro che è del particolare, di “quella donna e di quell’uomo” e che partendo dall’angolatura del punto di vista espresso costituiscono una rete di possibilità comunicative che si aprono verso l’esterno.
Il racconto autobiografico è uno fra gli spazi privilegiati del cammino intorno al proprio io, al dipanarsi dei fili di un’identità che non si sviluppa mai linearmente, piuttosto simile ad un grappolo di situazioni ed esprienze, emozioni ed accadimenti possibili e probabili, voluti o subiti.

Raccontare a partire dal deficit

I testi autobiografici di cui parliamo (vedi box a lato) sono estremamente diversi: scritti da uomini e donne, di età differenti, provenienti da contesti geografici, sociali e culturali eterogenei. Sono accomunati dalla tensione a ricostruire la trama della propria vita ponendo al centro del racconto la condizione di chi, per motivi anche qui assai diversificati, ha visto ledere in modo permanente o transitorio la capacità di vita autonoma ed è per questo passato attraverso la dipendenza dagli altri.
La presenza di un deficit tende a recidere i collegamenti tra le varie parti del se, ad invadere tutte le sfere che compongono l’identità. Occorre molto lavoro su di sé per riemergere come persona nella propria interezza che vive una determinata situazione, in cui il deficit esiste e persiste ma non riduce tutto a sé.
Nell’esperienza poi delle persone con un deficit acquisito questa riflessione amplifica un ulteriore significato legato al convivere con un deficit, significato che rivela la fatica di sentirsi ed essere recipiti come intelocutori validi, in grado di dire cose su di sè. Gli interventi sanitari mobilitano, soprattutto nella fase dell’emergenza, tutte le risorse. Il processo di medicalizzazione spesso supera gli ambiti di competenza e scandisce il ritmo della vita ordinaria. La persona diviene individuo incasellato o incasellabile in categorie che, prese in termini assoluti, non producono una reale conoscenza. “Possiamo dividere gli individui in categorie, e cercare di fare entrare, e corrispondere, le individualità in una definizione. Una volta introdotto un individuo in una definizione, il rischio è di perdere le sue caratteristiche individuali. Viene persa la possibilità di vivere secondo il proprio ritmo, i propri gusti, le proprie necessità”(2)
Raccontare la propria storia è uno dei modi con cui diventa possibile affermare che si è ancora persona portatrice di una identità al plurale che vuole continuare ad essere considerata.

“Ascoltare” la fonte diretta di un’esperienza difficile passa attraverso la fiducia reciproca: di poter essere accolti, di poter sopportare lo stare accanto. E’ dentro la trama di una storia raccontata che questo incontro viene facilitato; storia biografica che è insieme mezzo di comunicazione, ponte tra vite diverse , difesa.

La centralità dell’elemento tempo

Su come il tempo sia una fra le variabili centrali in questi testi facciamo esplicito riferimento al lavoro di Mariangela Giusti che ha approfondito il tema del rapporto fra narrazione e disabilità in un testo bello e ragionato dal titolo “Il desiderio di esistere.”(3) E’ a questa lettura che rimandiamo per gli approfondimenti del caso mentre utilizziamo ora una nostra rilettura sintetica delle differenti valenze attraverso cui il tempo si propone in questi testi, con quali sfumature diventa chiave interpretativa di ciò che è accaduto.
Nei brani presi in esame si evidenziano significati e valori con cui attraverso la forma tempo noi entriamo in contatto con le modalità di rielaborare il trauma avvenuto e le sue conseguenze:

c’è l’alternanza di tempo lento e tempo veloce, rispecchiamento del procedere ciclico di avvicinamento epresa di consapevolezza di quel che è accaduto (Huges De Montalembert Buio);
c’è un tempo delimitato che si dilata ad avvolgere tutto, corrispettivo del rivivere quel preciso momento che si fa viaggio nella propria vita ( Oliver Sacks Su una gamba sola);
il tempo tutto al presente, l’esperienza senza filtri che rivela il desiderio di condividere tratti di ciò che è proprio e che fa sentire diversi da tutti gli altri (Jean-Pierre Goetghebuer A nome di tutti i miei);
i salti temporali: è il tempo del presente (io qui in un letto di ospedale) che si raccorda al tempo passato (io là, bambina a correre nei prati ); è il tempo della memoria in cui la trama dei ricordi si divide il peso dell’affiorare di nuove , diverse possibilità ( Rosanna Benzi Il vizio di vivere);
il tempo rimandato: è il tempo necessario per dire, per trovare il modo e le parole con cui ricostruire l’esatto momento di quell’evento drammatico per buttarlo fuori e forse anche un po più lontano. ( Jean-DominiqueBauby Lo scafandro e la farfalla )

Elementi organizzativi della memoria

L’eterogeneità dei testi rende conto delle pluralità delle vite che vengono raccontate, non c’è omogeneità ma percorsi diversi di rielaborazione. In queste differenti piste di raccolta e ricostruzione dei fili biografici emergono però alcuni nodi tematici, elementi organizzatori delle memorie che scandiscono ed articolano il fluire del testo. E’ su alcune di questi che vogliamo proporre di ascoltare le voci dei protagonisti.

Il taglio , la frattura irreparabile fra prima e dopo

E’ il momento centrale della riflessione che si pone come terreno della consapevolezza, della presa di contatto con il limite e la finitudine. Accanto a questo trovano posto spiragli di invenzione del nuovo che seppur, in termini così drammatici, da qualche parte si intravede.

“Mi ritrovo coricato in una stanza e per tutta la notte un’infermiera dolcissima mi bagnerà gli occhi ogni mezz’ora. Non vedo più niente, Non soffro e il mio cervello continua ad anestizzarsi. Non penso. Giunge il mattino.
So già che sto andando verso qualcosa d’irrimediabile”- (Buio)

“Al Pronto Soccorso dell’ospedale fu una pena tirarmi giù dall’automobile. Il corpo di rifiutava di ubbidire ed io stessa lasciavo che fossero gli altri a muovermi. Assistetti come una spettatrice incredula all’affanno degli infermieri, allo spavento di mio padre mentre mi posavano sulla barella, mentre mi toglievano la coperta una volta entrati, mentre ragionavano sull’opportunità di lasciarmi il montgomery perché non prendessi troppo freddo.
Mi venne incontro un medico giovane. Capì al volo il problema. “Ti piaccio?” chiese. “se ti piaccio abbracciami”.
Accettai lo scherzo e alzai le braccia. Arrivai fino alle spalle, ma non riuscii a cingergli il collo. Il mio corpo mi abbandonava, questo lo capivo, ma più che altro ero confusa, intontita. Ad ogni minuto che passava scoprivo un nuovo gesto divenuto proibitivo, un nuovo muscolo insensibile ai miei sforzi di volontà” (Il vizio di vivere)

Il ricordo, il rimpianto, la speranza

Tutto quello che viene narrato diventa comunicabile sul filo della memoria. Nei testi aubiografici l’intreccio avviene tenendo insieme le strade del ricordo che è insieme rimpianto e della speranza , progetto e sogno per il futuro incerto davanti.

“Il fatto è che non sono attento al gioco. Un’ondata di malinconia mi ha invaso. Théophile, mio figlio, è seduto là, il viso a cinquanta centimetri dal mio, e io, suo padre, non ho il semplice diritto di passargli la mano tra i folti capelli, di pizzicargli la peluria della nuca, di stringere fino a soffocare il suo corpo morbido e tiepido. Come dirlo? E’ mostruoso, ingiusto, disgustoso o orribile? Improvvisamente ne sono spossato.” ( Lo scafandro e la farfalla)

“Sono contenta , lasciatemelo dire, orgogliosa, di non essermi fatta sconfiggere. Non ho rimpianti. Ripeto che sono felice di aver vissuto questi anni, e sono pronta, con serenità, a vivere gli altri. Serenità e allegria. L’allegria è fondamentale, quindi spero che questo non sia un libro triste. La gente non vuole leggere libri tristi, e ha ragione…
Forse un giorno in treno, con la corazza, visiterò Parigi. E poi vorrei andare da sola sulla spiaggia, in un pomeriggio d’autunno, sul tardi, e fare una lunga camminata sotto la pioggia” (Il vizio di vivere)

L’eccezionalità che entra nella quotidianità

C’è un momento in cui la presa di coscienza rispetto a ciò che così radicalmente muta la vita diventa parte della quotidianità, l’ ”evento eccezionale” perde i suoi primi contorni per assumere di volta in volta l’aspetto iperattivo e onnipresente o, invece, il sentire malinconico, l’assuefazione arrendevole in un alternarsi ciclico che rende conto del passare del tempo.

“Da quel giorno la mia vita è diventata una espressione continua di me stessa telefonando agli altri. Faccio e ricevo telefonate. Una telefonite acuta delirante che arriva a un tale grado di assurdità che non vedo più gli amici che vengono a trovarmi…La mia camera è diventata un vero ufficio di donna d’affari. Redigo documenti confidenziali, scrivo lettere di risposta a una corrispondenza voluminosa. Affronto le mie assicurazioni che, come sempre, non vogliono pagare. Un’occupazione sana, ma eccessiva. La sera, estenuata, sogno calma e tranquillità.
Questa attività febbrile è veramente positiva. Io mi apro agli altri, ai loro problemi. Ben lontana dal ripiegarmi su me stessa, l’esperienza della paralisi mi pone all’ascolto di tutti.

Tutta l’agitazione febbrile delle ultime settimane si è calmata per cedere il posto alla monotonia. Mi annoio. Non mi abituo alla mia nuova situazione, non mi sento al mio posto, come medico, in un letto d’ospedale.

Con il tempo, il dolore si diluisce in una specie di “malessere”continuo ma sopportabile. Giorno dopo giorno la mia salute migliora. Il mio corpo riprende forse il suo aspetto normale?” (Vita maledetta, ti amo)

Essere aiutati a raccontare la propria esperienza

Molti di questi testi nascono con un aiuto che è materiale e mentale ad un tempo. E’ un sostegno che si traduce nel rendere operativo il desiderio, poggiandosi su una relazione che rende possibile la vicinanza e la ricerca delle parole adeguate a raccontarsi. Il farsi del testo è frutto di una costruzione a più voci che prima di diventare prodotto pubblico è condivisione di spazio, tempo, fatica e piacere.

“Appoggiata sui gomiti alla piccola tavola semovente in formica, Claude rilegge questi testi che da due mesi pazientemente estraiamo dal vuoto ogni pomeriggio. Ho piacere nel ritrovare certe pagine. Altre ci deludono. Tutto questo fa un libro?
Ascoltandola, osservo i suoi capelli castani, le guance molto pallide che il sole e il vento hanno appena arrossato, le mani attraversate da lunghe vene bluastre e il copione che diventerà il ricordo di un’estate studiosa” ( Lo scafandro e la farfalla)

“Il polmone di acciaio è posto al centro di una cameretta con due pareti colme di quadri, una con due grandi finestre, ed una ricoperta dalle mensole della libreria cariche di volumi e soprammobili di ogni tipo e qualità. Ad un angolo il telvisore e, sotto, il giradischi.
In questa stanza abbiamo registrato il racconto di Rosanna, in un festoso e continuo andirivieni di amici e medici incuriositi, alcuni dei quali compaiono nel libro” ( Il vizio di vivere)

(1) Javier Marias, Un cuore così bianco,Einaudi Tascabili, 1999, Torino
(2) Gilberto Mussoni In prima persona. L’handicap: storie di vita, esperienze, testimonianze, prefazione di Andrea Canevaro, THEUT, 1995, Rimini
(3) Mariangela Giusti Il desiderio di esistere.Pedagogia della narrazione e disabilità, La Nuova Italia Editrice, 1999, Firenze

Cronaca di un’accoglienza

Giuliana

Prototipo di accoglienza:
al mattino sia che io arrivi da casa, sia che arrivi da un’altra scuola, dedico sempre un breve momento di rilassamento, anche solo un minuto per “staccare” prima di incontrarlo.
E’ un ragazzo di 19 anni con un handicap motorio e con gravi disturbi del linguaggio (handicap grave) non parla ma è in grado di capire e di esprimere i suoi desideri tramite gesti convenzionali.
Al momento dell’incontro io lo saluto, mi contraccambia il saluto (tramite un gesto convenzionale che lui usa per salutare). Gli chiedo se a casa i familiari stanno bene e lui mi spiega se c’è stato qualcosa di particolare oppure no.
A volte mi racconta di uscite fatte alla sera con l’obiettore oppure mi racconta del compleanno oppure, visto che è un tifoso accanito, mi racconta della sua squadra.
Io, prima lo ascolto e tramite quello che mi racconta cerco a mia volta di interessarmi di questi argomenti per riuscire a dialogare con lui, per avere un riscontro positivo. Poi in riferimento al programma scolastico gli chiedo se ha voglia di studiare, lavorare oppure di fare qualcosa; nelle risposte lui esita sempre; allora gli do un messaggio di questo tipo:
”Ti va bene ripassare o studiare chimica un’oretta e poi andare a fare merenda al bar della scuola?”
Lui acconsente sempre anche quando la materia che gli viene proposta è da lui detestata.
Da parte sua, c’è sempre un continuo volermi ringraziare (toccandomi la fronte) per ogni cosa che facciamo insieme. Come risposta a ciò, lo ringrazio anch’io, gli spiego che, se vedo che sono seguita nel lavoro, nelle cose che facciamo, oppure che apprende molto facilmente gli argomenti che trattiamo, io trovo molta soddisfazione nel lavorare e quindi sono motivata a proporre cose nuove.
Lui mi ringrazia molte volte, è un mezzo per comunicare attraverso il contatto fisico delle mani quasi una conferma dell’accettazione di sé, e a volte io mi sento impreparata a questo.

Margherita

Sono le otto del mattino, fa freddo e sono fuori, davanti al portone della scuola ad aspettare Andrea. Vedo arrivare la macchina a velocità sostenuta, frena di colpo sfiorando la colonna del portico. Intravedo Andrea che si tiene a stento con la mano sinistra, l’unica che può utilizzare, e noto il suo sguardo, tra il preoccupato e il divertito.
Mi scorge e vedo che mi saluta e mi sorride. Gli vado incontro con la carrozzina, apro lo sportello e lo aiuto a scendere.
Noto le sue gambe che sono sempre più lunghe ogni giorno che passa. Penso: ”Ormai è un ragazzo!”. Scambio alcune parole col papà, prendo lo zaino che mi sembra un macigno e mi sento uno sherpa.
Sconnessi della strada, mi infosso in un tombino, riemergo e scavalco il super-gradino del portone. Finalmente siamo a scuola!
Adesso saluto Andrea con più calma, gli sorrido, gli chiedo se ha studiato, se è preparato per il compito o l’interrogazione. Scherziamo un po’.
In alcuni giorni, sorridere mi pesa un po’ di più perché ho sonno o sono stanca o triste, ma cerco di non abbassare la guardia, perché mi piace pensare che a scuola Andrea si possa anche divertire.
Sì, a volte per lui divento anche un clown.

Anna

Quasi tutte le mattine accolgo Mattia, un bambino di nove anni, che frequenta la III elementare, arriva a scuola accompagnato dalla zia. Lo aspetto nell’aula di sostegno, Mattia arriva un po’ più tardi dei compagni e non entra in classe, è un bambino ipercinetico, generalmente entra nell’auletta correndo, la zia lo rincorre affannosamente, lo saluto, lui mi guarda, ma non risponde al mio saluto, mi fa immediatamente una richiesta del tipo:
”Giochiamo con i Re Magi?”
Io gli rispondo:
”Mi hai salutato?”
Dopo questa richiesta mi saluta, poi riprende a correre all’interno della stanza, oppure tenta di aprire gli armadi dove c’è il materiale per prendere quello che più lo attira in quel momento.
Tutto questo ha la durata di circa 5/10 minuti ossia il tempo necessario per scambiare quattro chiacchiere con la zia.
Quando la zia ci lascia riesco a controllare un po’ di più la situazione, riesco ad ottenere la sua attenzione facendolo sedere, parlandogli con calma e proponendogli un’attività.

Teresa

Giuliano arriva in macchina accompagnato dalla madre. Appena vedo arrivare la macchina esco e vado loro incontro, saluto entrambi con un “Buongiorno!” e con un sorriso. Aiuto la madre a sistemare Giuliano nella carrozzina e intanto gli chiedo come va e se c’è l’occasione gli faccio alcuni complimenti:
” Che bel vestito che hai stamattina; che bel cappellino!; fammi vedere il gioco nuovo ecc.”.
Poi ascolto la madre che certamente avrà da dirmi che cosa ha fatto Giuliano di speciale il giorno prima, o se quella mattina c’è stata baruffa: questo mi aiuta a capire di che umore è. Quindi rassicurata la madre, lei se ne va ed io a seconda di come lo sento e del suo umore gli parlo di quelle attività che si pensava di fare in quel giorno oppure se la luna è storta, gli propongo qualcosa che gli piace particolarmente.

Il lavoro di cura nella quotidianità

Il lavoro di cura si realizza in una relazione tra persone. Seguiamo il suo farsi e ci muoviamo verso il terreno della condivisione e della differenza. Vediamo all’opera ruoli diversi tra chi cura e chi è curato e bisogni soggettivi che si modificano incontrandosi ed allontanandosi.
Il lavoro di cura e di aiuto è ad un tempo profondamente radicato nella concretezza di un gesto, di un’azione, di un ambiente, ma anche intrinsecamente immateriali; diventano qualcosa di più e i diverso dall’insieme di tutti quei gesti, azioni, spazi perché attraversati dalla dinamiche relazionali che rivelano emozioni, prese di posizioni, orientamenti ideali.
In questo numero di HP presentiamo alcuni contributi tesi a raccontare il binomio materialità/immaterialità come uno degli indicatori più significativi del lavoro di cura e di aiuto al di là degli ambiti professionali dove esso si realizza ( il lavoro educativo con i bambini molto piccoli, il progetto terapeutico di un Ser.T…) dove ogni particolare “parla” di quella particolare relazione tra quotidianità ed straordinarietà.
L’uso degli spazi ( aperti o chiusi, pubblici o privati), l’utilizzo della corporeità come strumento di lavoro, i riti del tempo: tutto supporta il recupero del quotidiano in una “dimensione di raccoglimento e di relazione che consenta uno scambio, un dialogo, un abbraccio…in cui ci si possa prendere cura di sé, ri-prendersi in mano, vedersi, distanziarsi, comprendersi e riprogettarsi all’interno dei una relazione con un’altra persona, con se stessi”.

Operatori, familiari e il lavoro di cura

Le pagine dedicate all’approfondimento sul tema del lavoro di cura sono, per questo numero di HP, pagine d’archivio trattandosi, infatti, di due contributi apparsi sulle testate “Animazione sociale” e “Servizi Sociali” negli ultimi anni.
Sono due contributi che abbiamo ripreso in nome della loro validità e della capacità di centrare un elemento spesso trascurato quando si affronta una riflessione su che cosa è la cura, su chi da e riceve aiuto: la trasversalità del prendersi cura, la sua universalità, il suo porsi come elemento caratterizzante la potenzialità dell’agire umano, al di là di ogni specialismo e categoria.
Nel rapporto quotidiano con la sofferenza e il disagio, i familiari e gli operatori si trovano accomunati dall’esposizione ad un forte carico emozionale che né le conoscenze tecniche né la consuetudine sono sufficienti ad affrontare. L’aspetto relazionale è quello che ‘sostiene” il senso di un accompagnamento che, con particolare rilevanza nelle situazioni di gravità, tocca le sfere più intime e profonde della cura di sé.
Diventa necessario, per tutti coloro che sono coinvolti in una relazione di aiuto e cura, trovare spazi e tempi per dare parola alle emozioni e alle dinamiche di coinvolgimento, sempre presenti seppure il più delle volte in modo sotterraneo ed inconsapevole per tentare una rilettura che aiuti a ridefinire in senso positivo e rispettoso il progetto di vita che si va ad elaborare e a porre in essere.

Le separazioni

Stare accanto a chi vive una condizione di bisogno per un pezzo di strada: questo è il compito di chi svolge una funzione di aiuto nell’ambito di una relazione educativa.
L’accompagnare contiene quindi il seme della separazione. Come dice il poeta nel Congedo del viaggiatore cerimonioso “Amici, credo che sia /meglio per me cominciare/ a tirar giù la valigia.” perchè sviluppare percorsi il più possibile autonomi e consapevoli è una delle tensioni che attraversano l’agire educativo. Tensione che testimonia anche la doppia valenza che la separazione riveste all’interno delle relazione di aiuto. Da una parte, infatti, è essere consapevoli che ad un certo punto il proprio ruolo è proprio quello di andare dietro le quinte lasciando ad altri (persone e contesti) il compito di svolgere nuove funzioni, di dispiegare, se è possibile, diverse potenzialità. Dall’altra la separazione è anche momento di bilanci rispetto a ciò che si è dato, a ciò che si è ricevuto. Si vive, in questo caso, un vuoto, si sperimenta il senso del limite del proprio agire.
La faccia bifronte della separazione ci aiuta nel confronto, non semplice, con quanto di noi ha vissuto in quella relazione, dentro quello stare insieme quotidiano così tipico del lavoro educativo: il positivo, il negativo, le risorse, i limiti.

Primo incontro e fiducia nella relazione di cura

E’ un brano molto conosciuto quello che vi proponiamo, tratto dal libro "Il piccolo principe" esemplare come metafora dell’incontro con l’altro, primo ed ineludibile atto di ogni relazione di cura e di aiuto.
E’ sulla scena di questo incontro che vediamo già delinearsi molti degli elementi che strutturano la relazione interpersonale e che diventano, di volta in volta, maggiormente pregnanti.
Il momento del primo incontro è emblema, infatti, di tutte le aspettative che sono in gioco, di chi direttamente è dentro la dimensione relazionale e di chi ne è, almeno temporaneamente fuori, come la famiglia.
Per questo il momento dell’incontro ha bisogno di tempi e spazi definiti per questo e non per altro, tempi e spazi che costituiscono la struttura portante del rito. Attraverso l’uso sapiente del rito si lavora per costruire, con processi lenti e reciproci, legami di fiducia. La fiducia come legame significativo che unisce in un rapporto, base primaria di ogni acquisizione o apprendimento. Il lavoro di cura passa tra le condizioni che facilitano, e all’inverso ostacolano, la creazione di questi legami che trovano nei riti e nei ritmi della quoditianità il modo concreto di realizzarsi.

Il piccolo Principe (*)

In quel momento apparve la volpe. "Buon giorno", disse la volpe.
"Buon giorno", rispose gentilmente il piccolo principe, voltandosi: ma non vide nessuno. "Sono qui", dise la voce, "sotto al melo…" "Chi sei?" domandò il piccolo principe, "sei molto carino" "Sono una volpe", disse la volpe. "Vieni a giocare con me", le propose il piccolo principe, "sono così triste…"
"Non posso giocare con te", disse la volpe, "non sono addomesticata".
"Ah!scusa" fece il piccolo principe. Ma dopo un momento di riflessione soggiunse: "Che cosa vuol dire "addomesticare"? "Non sei di queste parti tu" disse la volpe. "Che cosa cerchi?"
"Cerco gli uomini" disse il piccolo principe. "Che cosa vuol dire "addomesticare"?
"Gli uomini" disse la volpe, "hanno dei fucili e cacciano. E’ molto noioso! Allevano anche delle galline. E’ il loro solo interesse. Tu cerchi delle galline?"
"No", disse il piccolo principe "Cerco degli amici. Che cosa vuol dire "addomesticare?"
"E’ una cosa da molto dimenticata. Vuol dire "creare dei legami"…."
"Creare dei legami?"
"Certo", disse la volpe "Tu, fino ad ora, per me, non sei che un ragazzino uguale a centomila ragazzini. E non ho bisogno di te. E neppure tu hai bisogno di me. Io non sono per te che una volpe uguale a centomila volpi. Ma se tu mi addomestichi, noi avremo bisogno l’uno dell’altro. Tu sarai per me unico al mondo e io sarò per te unica al mondo".
" Comincio a capire", disse il piccolo principe. "C’è un fiore…credo che mi abbia addomesticato…" "E’ possibile", disse la volpe. "Capita di tutto sulla Terra…"
"Oh! Non è sulla Terra", disse il piccolo principe..
La volpe sembrò perplessa:
"Su un altro pianeta?" "Sì"
"Ci sono dei cacciatori su questo pianeta?"
"No"
"Questo mi interessa! E delle galline?"No"
"Non c’è niente di perfetto", sospirò la volpe.
Ma la volpe ritornò alla sua idea:
"La mia vita è monotona. Io do la caccia alle galline, e gli uomini danno la caccia a me. Tutte le galline si assomigliano e tutti gli uomini si assomigliano. E io mi annoio perciò. Ma se tu mi addomestichi, la mia vita sarà come illuminata. Conoscerò un rumore di passi che sarà diverso da tutti gli altri. Gli altri passi mi fanno nascondere sotto terra. Il tuo, mi farà uscire dalla tana, come una musica. E poi guarda! Vedi laggiù in fondo, dei campi di grano? Io non mangio il pane e il grano per me è inutile. I campi di grano non mi ricordano nulla. E questo è triste! Ma tu hai dei capelli color dell’oro. Allora sarà meraviglioso quando mi avrai addomesticatop. Il grano, che è dorato, mi farà pensare a te. E amerò il rumore del vento nel grano…"
La volpe tacque e guardò a lungo il piccolo principe:
"Per favore…addomesticami", disse.
"Volentieri", rispose il piccolo principe, "ma non ho molto tempo, però. Ho da scoprire degli amici, e da conoscere molte cose."
" Non si conoscono che le cose che si addomesticano", disse la volpe "Gli uomini non hanno più tempo per conoscere nulla. Comprano dai mercanti le cose già fatte. Ma siccome non esistono mercanti di amici, gli uomini non hanno più amici. Se tu vuoi un amico addomesticami!"
"Che bisogna fare?" domandò il piccolo principe.
"Bisogna essere molto pazienti" rispose la volpe. "in principio tu ti siederai un po’ lontano da me, così, nell’erba. Io tiguarderò con la coda dell’occhio e tu non dirai nulla. Le parole sono una fonte di malintesi. Ma ogni giorno tu potrai sederti un po’ più vicino…"
Il piccolo principe ritornò l’indomani.
"Sarebbe stato meglio ritornare alla stessa ora", disse la volpe " Se tu vieni, per esempio, tutti i pomeriggi alle quattro, dalle tre io comincerò ad essere felice. Col passare dell’ora aumenterà la mia felicità! Ma se tu vieni non si sa quando, io non saprò mai a che ora prepararmi il cuore…Ci vogliono i riti".
" Che cos’è un rito?" disse il piccolo principe.
"Anche questa, è una cosa da tempo dimenticata", disse la volpe "E’ quello che fa un giorno diverso dagli altri giorni, un’ora dalle altre ore. C’è un rito, per esempio, presso i miei cacciatori. Il giovedì ballano con le ragazze del villaggio. Allora il giovedì è un giorno meraviglioso! Io mi spingo sino alla vigna. Se i cacciatori ballassero in un giorno qualsiasi, i giorni si assomiglierebbero tutti, e non avrei mai vacanza
Così il piccolo principe addomesticò la volpe. E quando l’ora della partenza fu vicina:
" Ah!" disse la volpe, "…piangerò"
"La colpa è tua" disse il piccolo principe, "io non ti volevo far del male, ma tu hai voluto che tiaddomesticassi…"
"E’ vero", disse la volpe
"Ma piangerai!" disse il piccolo principe
"E’ certo", disse la volpe
" Ma allora che ci guadagni?"
" Ci guadagno", disse la volpe, "il colore del grano"
Poi soggiunse: " Va’ a rivedere le rose. Capirai che la tua è unica al mondo. Quando ritornerai a dirmi addio, ti regalerò un segreto".
Il piccolo principe se ne andò a rivedere le rose.
" Voi non siete per niente simili alla mia rosa, voi non siete ancora niente", disse "Nessuno vi ha addomesticato, e voi non avete addomesticato nessuno. Voi siete come era la mia volpe. Non era che una volpe uguale a centomila altre. Ma ne ho fatto il mio amico ed ora è per me unica al mondo.
E le rose erano a disagio.
"Voi siete belle, ma siete vuote", disse ancora, "Non si può morire per voi. Certamente, un qualsiasi passante crederebbe che la mia rosa vi rassomigli, ma lei, lei sola, è più importante di tutte voi, perché è lei che ho innaffiata. Perché è lei che ho riparata col paravento. Perché su di lei ho uccisi i bruchi ( salvo i due o tre per le farfalle)". Perché è lei che ho ascoltato lamentarsi o vantarsi, o anche qualche volta tacere. Perché è la mia rosa".
E ritornò dalla volpe.
"Addio", disse
"Addio" disse la volpe "Ecco il mio segreto. E’ molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi"
"L’essenziale è invisibile agli occhi", ripetè il piccolo principe, per ricordarselo.
"E’ il tempo che tu hai perduto per la tua rosa che ha fatto la tua rosa così importante".
"E’ il tempo che ho perduto per la mia rosa…sussurrò il piccolo pirncipe per ricordarselo.
"Gli uomini hanno dimenticato questa verità. Ma tu non la devi dimenticare. Tu diventi responsabile per sempre di quello che hai addomesticato.
"Tu sei responsabile della tua rosa…"
"Io sono responsabile della mia rosa…"ripetè il piccolo principe per ricordarselo.

(*) tratto da Il Piccolo Principe, Antoine de Saint-Exupery, Edizioni Bompiani

Luoghi del documentare

Esiste un profondo intreccio tra i processi del documentare e i luoghi in cui questi processi prendono forma e si strutturano in servizi aperti alla collettività: i centri di documentazione.
La documentazione è un attività complessa, per certi aspetti sempre presente nelle organizzazioni umane ancora prima di una sua necessaria definizione come un mezzo privilegiato per conservare e gestire le informazioni utili.
Il bisogno di poggiare la ricerca del nuovo su elementi ( dati, conoscenze, notizie…) consolidati ha quindi continuamente attraversato le forme di sapere nelle diverse civiltà e tempi.
Detto questo, occorre riconoscere come fenomeno contemporaneo la nascita di strutture quali i centri di documentazione che, pur mostrando segni di parentela sia con il modello “Biblioteca” sia con il modello “Archivi”, se ne distinguono.
Un segnale di distinzione si rintraccia proprio nella difficoltà di individuare un modello di riferimento unitario per queste realtà. I centri di documentazione costituiscono un panorama che mal si adatta ad una lettura omogenea; distinti per “età anagrafica”, emanazione (pubblica o privata), tematiche di riferimento, pretendono un’ attenzione specifica, non generica.
Questa differenziazione non deve comunque far dimenticare alcuni livelli ricorrenti, ciò che si ritrova come dato trasversale e di continuità. I livelli a cui qui ci riferiamo hanno a che fare con le ragioni della nascita e dell’esistenza di queste strutture e con la loro ricerca di identità riconoscibile all’esterno e condivisa all’interno.

Le ragioni
Se riprendiamo il tema delle ragioni, alcune parole possono aiutarci a rendere maggiormente evidenti le radici, e quindi anche i significati e le motivazioni. Queste parole sono: memoria, sapere, risorsa.
La lotta contro l’evanescenza delle cose è stata da sempre una delle preoccupazioni umane, nel duplice senso di sostegno all’identità individuale e collettiva, “ricordo dunque sono”, e di possesso e manipolazione dei segni che la memoria lascia nel mondo. Grande è stato l’impegno nella ricerca di forme con cui la memoria può diventare trasmissibile e condivisa, almeno da certe categorie sociali determinate.
Disporre di forme adeguate: gioca un ruolo in questa intenzione anche l’idea del sapere, o meglio l’immaginario a cui facciamo riferimento. Lungo il corso del tempo si è affermata la tensione verso un luogo mitico, capace di raccogliere tutto il sapere prodotto. Un luogo che con l’avvento della scrittura sempre più si è mostrato come straordinario magazzino, individuale e collettivo, in cui si poteva conservare l’informazione che prima si dovevano conservare a mente.

I modelli di riferimento
Il modello concettuale di riferimento si è proposto quindi, in forma pubblica, con immagini facilmente identificabili ed incisive: dalla città ideale di Otlet, vera e propria formalizzazione di un sistema documentario centralizzato, al cervello mondiale di Well, “sistema organizzato di conoscenza adattabile all’uso degli utenti, alla crescita della comprensione e del sapere collettivo”, fino al villaggio/spazio virtuale metafora e simbolo delle attuali tecnologie comunicative (2).
Queste immagini utopiche rivelano nel tempo influenze riscontrabili oggi nelle identità possibili per una struttura come il centro di documentazione.
La documentazione, come scienza teorizzata e sistematizzata, può essere riletta anche come tentativo di costruire strutture globali in cui le strategie di trattamento e recupero delle informazioni permettano l’aumento di comunicazione e condivisione dei saperi in modo più stabile e maggiormente democratico. Si fanno infatti “più numerose le banche della conoscenza, in cui si accumulano informazioni per poterle ritrovare al momento in cui servono, con l’effetto di rendere finalmente stabile (se non altro per altro per via della ridondanza che così si crea) il capitale di conoscenza disponibile. Per avere un’idea di queste banche, pensiamo ai santuari in cui oggi viene conservato il sapere: archivi, biblioteche, banche dati ecc. Internet, accanto alla sua vocazione commerciale anche sfacciata, ha una poderosa propensione verso questa funzione: conservare informazioni e conoscenze, alle quali ci si può rivolgere in qualunque momento (anche quando le biblioteche fisiche sono chiuse o i giornali sono in sciopero) e da qualunque posto del pianeta”(1)

Passaggi
Ci sono allora nel panorama odierno rappresentato dai centri di documentazione alcune peculiarità ed è possibile rintracciare punti di convergenza ed ispirazioni comuni.
Ne sottolineiamo alcuni, per alcuni versi emblematici dei mutamenti avvenuti e dei nuovi inizi:
? il passaggio dalla concezione lineare alla concezione reticolare dei saperi, che implica l’organizzazione a rete delle informazioni rese disponibili e la richiesta all’utente di saper navigare in modo non gerarchico;

? il passaggio dalla fonte unica come sede di informazioni (il libro) alla pluralità delle fonti: la quotidianità entra nel centri di documentazione nelle sue produzioni informative e documentative (riviste, quotidiani, …); si incrementano le raccolte organizzate sui saperi popolari (musiche, canti, produzioni grafiche…) e nascono gli archivi della soggettività biografica e autobiografica. Esiste e viene riconosciuto “un bisogno d’interesse e rispetto per le soggettività, che va molto oltre la dimensione propriamente storiografica o addirittura ne prescinde ponendosi sul piano esistenziale”.(3) “Gli archivi autobiografici di questa seconda generazione inaugurano un sentire nuovo: danno la sensazione di entrare in un mondo dove la propria memoria è un eredità pubblica. Non più solo la famiglia, non solo la trasmissione generazionale fra coloro che hanno il nostro stesso sangue, una memoria autobiografica può servire a costruire i luoghi pubblici dove i ricordi entrano in rapporto fra loro, si parlano, ricominciano a esistere”.(4);

? Il passaggio dal possesso delle informazioni all’utilizzo: la documentazione diventa risorsa capace non solo di testimoniare ciò che è stato, ma di orientarne la rilettura. E’ questa “fatica” del documentare oggi più che mai necessaria per tenere in equilibrio la consistenza delle radici e la propensione “all’altro” che spesso solo intravediamo, senza troppo subire l’ossessione memorialistica e la tentazione della negazione.

(1)R.Simone La Terza Fase. Forme di sapere che stiamo perdendo,Editori Laterza, 2000

(2)A. Baldazzi La città e l’enciclopedia: le metafore della documentazione contemporanea. Dai progetti utopici alla comunicazione in rete

(3)M. Isneghi Intervento per la tavola rotonda, in: I luoghi della scrittura autobiografica popolare, Atti del Convegno, Mori (Tn), 1990

(4)L. Ricci Introduzione al catalogo generale dell’archivio diaristico di Pieve Santo Stefano, 2001

La guerra è guera – Introduzione

Il primo numero 2003 della rivista HP/Accaparlante è dedicato ai bambini e la guerra, tema che viene affrontato attraverso la proposta di una serie di percorsi bibliografici fra i testi rivolti al l’infanzia e all’adolescenza.

Ci sono alcune ragioni che sostengono questo nostro lavoro monografico; esplicitandole vorremmo rendere maggiormente evidente il senso che abbiamo attribuito a questa ricerca nella produzione editoriale degli ultimi anni.

La prima ragione potrebbe essere ben riassunta nella frase “La guerra è guerra e i bambini (non) lo sanno”. Sì, ma allora perché non troviamo mai modi e parole per parlarne con loro? Molti adulti indietreggiano di fronte a questioni che li riportano alle responsabilità di governo del mondo. E’ il mondo adulto che sceglie, è il mondo bambino che ne paga fin troppo le conseguenze. D’altra parte siamo anche noi confusi e spauriti di fronte ad eventi che incombono e ci sovrastano. Spesso è meglio il silenzio, il cambio di canale. Ma i bambini, quando ancora possono essere tali, domandano, chiedono anche solo con gli occhi, non vogliono (e non debbono) rimanere soli di fronte ai dubbi, alle domande, ai pensieri. È vitale dare spazio a questi interrogativi, non negandoli o facendo finta che non ci tocchino solo perché, a volte, sono altri paesi, altri popoli ad esserne direttamente coinvolti. I bambini “sentono” la guerra, la vivono emotivamente, senza pelle; così come percepiscono in modo totale tutti gli aspetti cruciali del vivere: l’amore, la morte, la malattia, l’amicizia. Dare parola a queste emozioni, permettere che escano allo scoperto è una strada che unisce i grandi e i piccoli in una trama che è fatta, alla fine, della stessa materia dei desideri, dei sogni e della paura di tutto ciò che li minaccia.

La seconda ragione riconduce all’idea che la guerra è un “handicap” per tutti. Questo percorso nasce all’interno di un luogo, l’Associazione Centro Documentazione Handicap, che vede fra i fondatori e i collaboratori più stretti persone cha hanno un deficit. Chiunque abbia un deficit sa che nell’incontro con gli ambienti di vita si possono generare delle situazioni handicappanti, di difficoltà e mancanza. All’inverso, quando il contesto è capace di accogliere ed integrare realmente le stesse situazioni di handicap non si producono necessariamente. La guerra è, invece, quella dimensione in cui tutti diventano vulnerabili, in cui pur non avendo nessun deficit molte persone vivono l’handicap della mancanza di cibo, di un rifugio sicuro, dell’allontanamento dalle persone care o dal luogo di origine. È una situazione devastante, che non permette a nessuno di crescere, perché viene minato il senso di sicurezza, la possibilità per i bambini di trovare una comunità adulta accogliente, perché gli stessi adulti sono spesso vittime spezzate ed indifese.

La terza ragione ha a che fare con la nostra idea di scuola e di servizio per i bambini e ragazzi in genere. Ci piace pensare che le scuole, le biblioteche, i centri di ritrovo vogliano e possano essere luoghi educativi prima di tutto. Luoghi in cui i bambini e le bambine, i ragazzi e le ragazze imparino l’ascolto e la parola di pensieri anche distanti e diversi dai propri, possano discutere aiutati dagli adulti di cose difficili, poco affrontate eppure sempre presenti nella nostra quotidianità. La possibilità di trovare un tempo, uno spazio, dei modi adeguati diventa così una questione di attenzione concreta ai bisogni dell’infanzia e dell’adolescenza: il bisogno di essere accolti in un percorso di crescita fatto di domande, di un’espressione possibile dei propri pensieri e delle proprie idee, di uno stare in silenzio condiviso. Per le questioni già accennate in precedenza non è semplice anche per un adulto disposto ad accompagnare i più giovani in una riflessione sul tema delle guerre fare ciò. Il ruolo dei libri e della lettura può essere un supporto significativo in questo senso: le storie accomunano, parlano con voce mediata ed incisiva, permettono di immaginare e comprendere. Il circolo virtuoso che si crea tra un adulto che legge o racconta e una cerchia di piccoli e giovani ascoltatori ed interlocutori è una condizione di fiducia reciproca, di voglia di venirsi incontro, di momenti di pace.

Le parole tra noi leggere

Parlare ai bambini di una nascita “diversa” non è facile, il linguaggio scientifico può essere troppo lontano, astratto. Il linguaggio letterario, con la sua capacità evocativa, l’uso di immagini simboliche, la personalizzazione degli eventi può essere una strada per avvicinare i giovani e giovanissimi a temi così difficili. Abbiamo scelto due testi, tra la produzione editoriale più recente, adatti a svolgere questa funzione di ponte comunicativo. Il primo narra, attraverso le parole in prima persona del ragazzino protagonista, dell’incontro con la sorellina appena nata, segnata in modo emblematico da una diversità tangibile: la piccola ha le ali! Il secondo, adatto anche ai piccoli lettori, ci racconta la storia di Dodo strano animaletto che in cerca della sua identità incontra le diversità altrui, che sono parte fondante e insostituibile della realtà. Come polli in un banco frigorifero La sorellina di Jon era nata con le ali. Jon lo vide con i suoi occhi. Piccolissime ali ossute con la pelle sottile in mezzo, piegate e rugose come le ali di un pipistrello. Nere. Di un nero marrone e granulose come la pelle delle zampe di un pollo. Anche sua madre e suo padre videro le ali. Non dissero niente. Il padre di Jon guardò fisso la parete dalle piastrelle lucide e verdi. La madre di Jon prese la sorellina e la tenne come se fosse un gatto che poteva mordere. Poi la rimise subito giù nella culla trasparente. In seguito, quando Jon pensava a quel giorno in ospedale, era soprattutto il silenzio che si ricordava. Si ricordava gli occhietti della sua sorellina, che lo guardavano, e mamma e papà zitti. Non erano passati cinque mesi quando la vendettero. La madre e il padre di Jon vendettero la sua sorellina, non volevano più tenerla. Non dissero mai che era a causa delle ali, ma Jon ne era sicuro. Era difficile. Non volevano qualcosa che complicasse le loro vite. “Almeno fossero state bianche!” disse la madre di Jon. Il padre di Jon tossì toccandosi il taschino della camicia dove c’erano le sigarette. Non era stato lui a volere un altro figlio. Prima di vederla, Jon non era molto contento del suo arrivo. Ma quando la tenne in braccio tutto cambiò. Lui era convinto che i neonati fossero grassi. La sua sorellina era leggera come una bambola. Un uccellino dalla pelle morbida, impacchettato in un vestitino di cotone troppo grande. Emise un piccolo grugnito e guardò Jon con i suoi occhi neri senza batter ciglio. Non batté ciglio nemmeno una volta, e non distolse lo sguardo da lui che stava lì seduto con lei in braccio sulla sedia d’ospedale. La sua pelle era così bianca. Era così trasparente, si riuscivano a vedere le arterie blu sotto la pelle. Era calda. Era come tenere un cagnolino. Jon sedeva immobile. Con l’indice disegnava cerchi sulla sua schiena, in mezzo alle due ali piegate. Le sentiva attraverso la stoffa. Erano sottili e ossute. Il padre di Jon dovette uscire a fumare una sigaretta. Poi rientrò e disse che era ora di tornare a casa. Erano appena arrivati, pensò Jon. La radio si accese a pieno volume quando il padre di Jon mise in moto l’automobile. Jon l’abbassò. “È carina, no?” disse. “Ha gli occhi neri come il carbone. Mi guardava fisso mentre la tenevo.” Il padre brontolò e suonò il clacson a un ciclista che stava per tagliar loro la strada. “A quell’età sembrano tutti polli in una cella frigorifera” disse, tossendo. “Chiamiamola Liv” disse Jon sottovoce, e questo fu il suo nome.

Tratto da Il ragazzo con il casco d’argento di Hanne Kvist, Milano, I Delfini Fabbri, 2000

Dodo

Patatrac! L’uovo si ruppe in mille pezzi e apparve Dodo, un animaletto molto strano con un espressione smarrita. “Cosa è successo?”, gli chiede il camaleonte. “Non lo so”, disse Dodo. “Io sono appena arrivato” “Chi sei?” “Non lo so. Me lo chiedo anch’io. Chi sono?” “Sembri uno strano uccello, uno strano animaletto”, risponde il camaleonte. “E tu, non sei strano, che cambi continuamente il colore della pelle? Ora ti saluto. Vado a scoprire chi sono”. E così Dodo si incamminò. Ma il camaleonte lo seguì. […] “Aiuto!”, gridò lo struzzo con la testa piantata per terra. “Qualcuno mi aiuti a tirare fuori la testa da questa buca!” Dodo passava di lì proprio in quel momento e accorse in suo aiuto. “Sai dirmi che animale sono?”, chiede Dodo allo struzzo. “Mmm… No. Non ho mai visto un animaletto più strano di te”, disse lo struzzo. “Io sì, invece. Ne ho appena conosciuto uno che nasconde la testa sotto la sabbia per non vedere quel che succede intorno, ma poi non riesce più a tirarla fuori e, per di più, chiama strano chi cerca di aiutarlo. Strano sarai tu!”

Tratto da Dodo di José Moran, Emilio Urberuaga, Paz Rodero, Padova, Bohem Press, 2003

I giorni condivisi

I centri diurni per disabili. Trent’anni fra conferme e nuove emergenze

Raccontiamo in questa parte monografica di HP-Accaparlante un pezzo di una storia importante per la realtà degli interventi sociali a favore dell’integrazione delle persone disabili in Italia, quella relativa ai Centri Diurni. Queste strutture, sorte in molte zone geografiche intorno agli anni ’70 e ’80, pur nei differenti modi di realizzazione, hanno sancito una prima forte apertura verso il territorio che, insieme all’esperienza di ingresso nella scuola di tutti, ha dato visibilità non solo ai problemi ma anche alle persone. Per ragionare e focalizzarne alcuni tratti si è attivata una forte                   collaborazione con la Cooperativa Sociale Labirinto di Pesaro, con cui da anni esiste un rapporto di scambio di idee e di progetti.
Gli educatori della Cooperativa Labirinto hanno accettato con disponibilità la nostra proposta di raccontarsi in modo condiviso e pubblico attraverso quattro momenti di lavoro assimilabili all’esperienza dei focus group.
La proposta di riunirsi intorno a un tavolo ha come motivazione di fondo la consapevolezza che una riflessione strutturata e condivisa sui nodi intorno a cui si articola un’esperienza sociale così lunga e complessa, può produrre saperi comunicabili e utilizzabili anche oltre il contesto che li ha generati, oltre a restituirli con maggior significato a chi ha contribuito direttamente a metterli a punto.
Questo percorso di riappropriazione e comunicazione di saperi professionali non avviene in modo spontaneo, ma ha bisogno di occasioni intenzionali intorno a cui strutturarsi.
La quotidianità vissuta accumula, infatti, nel suo percorso di incontro con i problemi e di tentativi per trovare risposte adeguate, una ricchezza di strategie e modalità di azione che va interrogata.
Per non perdere il significato delle scelte e delle azioni, per imparare davvero dalle
esperienze che si compiono, è utile e a volte necessario predisporre delle occasioni di incontro, racconto e ascolto sui pensieri e sulle pratiche professionali con lo scopo principale di rendere visibile il sapere implicito dell’esperienza individuale e dell’organizzazione a cui le persone fanno riferimento.
Sono stati individuati quattro temi specifici che, appuntamento dopo appuntamento, hanno orientato la discussione e hanno permesso di rileggere la quotidianità di ognuno e anche alcuni tratti della storia comune. Così questa pratica di discorso collettivo ha affrontato alcuni nuclei significativi e delicati quali il ruolo dell’educatore in un centro diurno, il mandato di questo servizio, il dato emergente dell’invecchiamento dell’utenza e della prolungata presenza presso il servizio, i cambiamenti di mercato e le sfide poste alla cooperazione sociale.
Alla rivisitazione dell’esperienza pesarese abbiamo voluto accostare un altro pezzo di storia, uno stralcio tratto da un libro che ripercorre e rivisita la nascita e lo sviluppo dei Centri Diurni per disabili del Distretto di Sassuolo. Un libro che cade a più di trenta anni dalla fondazione di queste strutture ha certo un valore anche celebrativo per dirsi e dire che “Si è percorso un bel pezzo di strada, accompagnando pezzi di vita di ragazzi e ragazze” ma diventa soprattutto un modo per ribadire, oggi, l’importanza e il significato di questo investimento. Come ci ricordano gli autori del testo “Un secondo motivo è costituito dall’importanza che i Centri Diurni rappresentano nella organizzazione delle politiche socio sanitarie. Un terzo motivo è che i centri sono diventati patrimonio consolidato nel panorama dei servizi socio-sanitari dei nostri Comuni. Esistono come le scuole, come le biblioteche, come i campi sportivi, sono cioè parte integrante della nostra comunità”. In questo modo la memoria si fa viva e parla non solo a chi, dall’interno e in modo diretto, è stato protagonista, ma a tutti coloro che hanno motivazione e curiosità per accoglierla.

Il ruolo dell’educatore in un centro educativo

La storia personale e il ruolo dell’educatore

Per me il lavoro che svolgo in un centro educativo per persone con deficit medio-grave ha significato e significa instaurare una relazione significativa con le persone che si incontrano perché attraverso questa relazione si può arrivare a un’interazione reciproca più pregna, più consistente. Fare l’educatrice si collega alla possibilità di dare delle opportunità formative ulteriori a chi, dopo il classico iter scolastico, arriva da noi. La scommessa è quella di far emergere e portare alla luce il più possibile le potenzialità che i ragazzi hanno e metterle in gioco sotto tutti gli aspetti, da quelli relazionali, alle autonomie, alle acquisizione di abilità. Spesso queste persone provengono da una storia di cui loro non sono mai stati soggetti e in cui gli altri hanno guardato loro con scarsa fiducia. Quasi sempre sono segnati da una disistima di sé. Riportare fuori, mettere in luce le potenzialità che ognuno di loro ha, trovare per ognuno di loro qual è il canale più congeniale, è uno dei significati più forti che attribuisco alla mia professione.
Non sempre si tratta di seguire delle attitudini ma anche di “provocare” dei nuovi interessi e delle capacità che non sono presenti, ancora. È importante non lasciare intentata un’offerta limitandoci a lavorare su ciò che è già è presente ed evidente in quella persona.
La professione educativa ha radici che nascono da noi, ha sempre a che fare con noi come persone, e sono forti i riferimenti con la nostra esperienza di studenti, con ciò che ci ha favorito o ciò che ci ha limitato.
È importante per noi educatori procedere con una capacità di autovalutazione per non finire con l’identificare la realtà con il nostro vissuto. C’è una dimensione soggettiva e una dimensione oggettiva per cui la distinzione va tenuta presente: ci vuole un atto di onestà nel guardare le situazioni per capire se faccio una cosa perché è legata a un mio vissuto o è un bisogno che riscontro nell’altro.
Per questo è importante il confronto con l’équipe per ridimensionare, se ce ne fosse bisogno, e dare equilibrio alle posizioni.
Sono entrato in cooperativa nell’87 e ho partecipato alla formazione con Rita Croci (*). Ho potuto notare la differenza cominciando a riflettere seriamente su quello che si stava facendo con il sostegno di un metodo e il riferimento all’esperienza di un’altra area geografica dove si era già partiti. Il vero inizio della mia attività educativa lo faccio coincidere con questa esperienza formativa. Per me ha segnato una differenza. In quegli anni costruire il ruolo dell’educatore ha significato costruire i servizi, strutturarli in un certo modo. Il ruolo dell’educatore era focalizzato sul costruire, sul prendere in mano gli strumenti, sul confrontarli. Poi c’è stata un’evoluzione perché tutto questo si è stratificato, oggi c’è nella struttura dei servizi qualcosa che è il frutto di quel lavoro. La richiesta che viene fatta oggi all’educatore, e che ne influenza il suo ruolo, viene dall’esterno. Sono le persone che dall’esterno chiedono “Che cosa è il centro?”. Una volta questa richiesta non c’era, forse perché eravamo agli albori della nostra storia, eravamo più concentrati su di noi, tutti impegnati a definirsi dall’interno. Storicamente questo passaggio è stato superato ma individualmente ogni educatore deve rifare questo percorso, deve prendere contatto con gli strumenti e confrontarsi con una realtà già esistente e con la storia degli educatori che prima di lui sono entrati nel centro per costruire, che è una cosa molto differente dal trovarselo già creato.
Quando sono entrato al centro Villa Vittoria c’era tutto un lavoro di spinta e ricerca per far nascere quel luogo; oggi che ho fatto tutto il percorso sento forte la richiesta dall’esterno che mi chiede “Chi sei?”, richiesta che fa emergere la necessità di comunicare cosa sono i centri e cosa è il nostro ruolo, all’esterno, non tra addetti ai lavori. Oggi è fondante acquisire strumenti di comunicazione e cioè di integrazione con l’esterno.

Il riconoscimento di uno specifico professionale
Nel periodo iniziale noi come educatori abbiamo anche assunto un ruolo politico molto importante perché eravamo noi che costruivamo i servizi nella città, servizi che prima non c’erano anche grazie alla classe politica che era interessata a confrontarsi. Questo connubio fra essere educatori che costruivano e stavano dando un’identità ai centri e presenza di un lavoro anche politico, visibile e con un valore collettivo, mi ha formata molto, è stato gratificante perché ha segnato un riconoscimento di questa allora “giovane” professione.
Oggi questo riconoscimento bisogna continuare a costruirlo attraverso una comunicazione di quello che siamo, di quello che è il nostro ruolo. Quello che mi pare importante allo stato attuale è la capacità per l’educatore di integrare in sé la capacità di “dire” all’esterno quello che fa e quello che è, coinvolgendo gli altri nella vita del centro in modo che ci possa essere uno scambio. Se prima l’energia era tutta nel costruire e impiantare i centri, oggi è importante comunicare cosa si fa lì dentro, e non è detto che noi abbiamo già chiari gli strumenti per fare questo.
Mi pare che questa competenza non sia molto diffusa oggi; siamo partiti da quando l’educatore doveva costruirsi il proprio servizio con un’attenzione molto forte verso l’interno, e adesso occorre ragionare molto di più verso l’esterno. La capacità di connettersi con altri servizi, con il territorio, dovrebbe far parte del ruolo dell’educatore. Questo vuol dire avere competenze per dialogare con un mondo che per molte situazioni è diverso, pone dei limiti, parla un’altra lingua. Trovo che l’educatore sia molto incentrato sul lavoro proprio all’interno del servizio, con il proprio utente tutt’al più con il proprio collega, anche andare a parlare con un collega di un altro servizio risulta difficile.
Forse questa incompetenza deriva da una non abitudine proprio perché veniamo da una storia tutta focalizzata sulla costruzione del nostro centro. Certo avevamo la necessità di essere capiti anche dall’esterno ma oggi questa necessità è ancora più indispensabile anche se più difficile.
Dalla mia esperienza posso dire che il ruolo dell’educatore è assolutamente polivalente. Sono arrivata alla scuola di viale Trieste per condurre l’attività motoria, ma all’interno di un centro che ospita venti persone e che ha diversificato tantissimo le proposte ho dovuto fare mille altre cose. Questa polivalenza si è amplificata tantissimo negli anni; la conduzione del momento delle attività è affiancata da mille altre cose che la quotidianità e l’organizzazione impongono. Quando questo elemento della poliedricità è organizzato, diventa una risorsa, se è solo un carico di tante cose mischiate allora c’è il senso di fatica e confusione.
Soffro il fatto di non essere sufficientemente riconosciuto nel mio specifico professionale. Sento ancora che siamo percepiti dall’esterno in un rapporto di sudditanza nei confronti di altre figure professionali come lo psicologo o l’assistente sociale.
L’educatore rimane una figura ancora in divenire, anche perché vent’anni di storia sono un niente rispetto ai tempi sociali.
Direi che spesso siamo noi educatori che abbiamo una tendenza a “piangerci” addosso, ci piace fare i martiri dicendo che nessuno ci riconosce; talvolta è un nostro atteggiamento quello di scaricare fuori delle responsabilità che certo ci sono ma che dipende molto anche da noi riuscire ad assumere e farle assumere. Dipende da quanto crediamo e ci sentiamo nel nostro ruolo, da quanto siamo capaci di giocarcelo all’esterno in modo forte, energico e vigoroso.
Forse questo succede perché il ruolo dell’educatore continua a essere poco chiaro; noi diamo per scontato che anche all’esterno sia facilmente comprensibile ciò che l’educatore fa in un centro diurno, ma non è sempre così.
Quando un ruolo è così poco chiaro, è difficile riconoscerlo e pensare che altri te lo riconoscano.
Oggi va fatto lo sforzo di impegnarsi seriamente per incontrare gli altri: insegnanti, psicologi, assistenti sociali che hanno un riconoscimento diverso dal nostro. In questo modo facciamo un passo avanti, accettiamo lo stimolo dato dal fatto che c’è l’esterno e che va incontrato. La fatica si alleggerisce se l’idea dell’incontro con l’esterno viene integrata nel ruolo professionale; non è un di più ma qualcosa che sta dentro il ruolo e che lo valorizza. Questo processo favorisce anche la chiarezza del nostro ruolo proprio quando incontriamo gli altri ruoli attraverso lo scambio e i differenti punti di vista. Ad esempio per altre figure educative come gli insegnanti cerchiamo di rimarcare il senso educativo del loro intervento e la qualità propriamente educativa della relazione con gli allievi.

Lo stato dell’arte: tra limiti e risorse
Sono arrivata a vivere l’esperienza dell’educatore in un centro socio-educativo come uno spazio in cui puoi sentirti protagonista in modo reciproco con le persone con cui vivi e lavori. In questo protagonismo hai degli spazi di espressione, di autodeterminazione; pur essendoci dei ruoli prestabiliti rispettati non c’è verticalità ma libertà, è un mettersi in gioco continuamente, l’educatore con l’utente, e anche l’educatore con le proprie incertezze.
Tra gli educatori che conosco o che ho conosciuto in questi anni vedo sempre meno entusiasmo.  All’università vedo molto entusiasmo ingenuo che non tiene conto della complessità; da parte degli educatori che fanno questo lavoro da più tempo vedo poco entusiasmo e passione.
Io credo che non sia un lavoro come tutti gli altri; richiede capacità e voglia di messa in gioco, di portare te stesso, saper stare con i ragazzi e le famiglie, saper reinventare il centro tutti i giorni. In più è un lavoro scarsamente riconosciuto e poco pagato. Forse questa complessità tende a spegnere l’entusiasmo che, invece, per me dovrebbe essere una componente fondamentale.
Questo, secondo me, riflette l’involuzione della società, in un qualche modo le persone riflettono i tempi che vivono. Lo spessore culturale e politico è diminuito, questo è un lavoro che fai se hai anche una spinta ideale di un certo tipo e questo manca ai giovani che arrivano ai nostri centri perché i modelli onnipresenti sono altri. Sicuramente c’è oggi una differenza tra le persone più anziane e le giovani leve. In questa professione è importante la scelta, se non si è scelto di fare l’educatore ma ci si è trovati, non si riesce a farlo per lungo tempo, dopo un po’ si è in cerca di qualcos’altro.
Però secondo me è sbagliato chiedere a tutti di fare tutto: dall’organizzazione delle attività ai rapporti con le famiglie, al discorso istituzionale politico. Tutti devono fare tutto e bene, se così non è allora si viene tacciati di non avere passione o di non fare le cose con impegno. Non è sempre così, anche i ruoli servono per aiutare a fare meglio le cose specifiche che competono.
La differenza che vedo fra noi educatori storici e i più giovani è che noi questo lavoro l’abbiamo proprio scelto; adesso, invece, spesso e volentieri è un momento di passaggio, un’esperienza, un modo per occupare un buco di tempo. La motivazione per molte delle nuove leve è completamente diversa dalla nostra.
Sul ruolo dell’educatore incide fortemente l’aspetto così concreto di una retribuzione bassa, che lede anche la possibilità di contribuire in modo adeguato al mantenimento personale e familiare. Così quando si arriva a maturare un’esperienza anche importante, di anni, ci si rende conto di non ricevere i mezzi economici sufficienti per poter continuare.
Non si può ragionare sul ruolo dell’educatore e sulla possibilità di riuscire a svolgerlo senza tener conto dell’aspetto economico, che pesa e contribuisce anche a determinare un’immagine debole di questa professione.
La nostra fragilità è data dal fatto che come educatori non siamo stati in grado ancora di elaborare un sapere codificato, noi agiamo sulla pratica e solo in qualche caso tiriamo fuori un sapere che è prodotto dall’esperienza. È un sapere dispersivo e disperso, concreto e reale, e difficilmente si traduce in un sapere che sia anche discorso sociale riconosciuto come forte e potente.
Siamo radicati nella quotidianità, lavoriamo sui tempi, vediamo le persone crescere, percorriamo le distanze. Il compito, rispetto ai nuovi, mi sembra proprio quello di trasmettere lo specifico “potere” fragile che abbiamo.

(*) Rita Croci è una pedagogista che collabora con il professor Andrea Canevaro. La Pedagogia Istituzionale è la Pedagogia a cui il gruppo ha sempre fatto riferimento già a partire dalla prima formazione, quella appunto del 1987.

Il mandato del Centro Diurno e la sua possibile evoluzione nel sistema attuale

Il vecchio e il nuovo mandato
All’inizio, alla nascita del centri diurni, negli anni ’70, il mandato poteva essere quello di far uscire la persona disabile da casa; la famiglia era l’involucro entro il quale stava la persona disabile, a volte in situazione di vergogna e di chiusura; 20-30 anni fa di persone disabili non se ne vedevano tante in giro, rimanevano per lo più “chiuse” in casa propria. All’epoca i centri diurni hanno avuto proprio la funzione di far uscire la persona disabile dalla famiglia, hanno avuto il compito di mettersi tra disabile e famiglia e far in modo che questa si aprisse alla società.
Molta strada è stata fatta in questa direzione. Questo tipo di ruolo è stato svolto. Oggi c’è più un ruolo di mediazione tra la realtà del centro educativo e la società. All’inizio il centro diurno è stato un po’ chiuso su se stesso, giustamente, per cercare di costruire un proprio percorso e una propria storia. Il centro diurno ha rappresentato anche un riconoscimento sociale, è stato il luogo dove ci si occupa delle persone disabili, un luogo che ha dato dignità sociale a una realtà umana che prima era nascosta.

Il rapporti con i genitori
Adesso la situazione è cambiata, questo riconoscimento sociale esiste. Questa differenza la si vede soprattutto nel rapporto con i genitori. Tempo fa ragionavamo sulla differenza tra i vecchi inserimenti e i nuovi inserimenti dei disabili nei centri diurni; i genitori della vecchia guardia vengono “con il cappello in mano”, è tutto un favore che si fa, hanno principalmente un atteggiamento di gratitudine nei nostri confronti.
I nuovi genitori invece arrivano al centro diurno con aspettative e domande molto diverse rispetto ai genitori più vecchi di loro; molti vedono il passaggio dalla scuola dell’obbligo al centro diurno come una regressione. In questo senso il lavoro da fare adesso per noi educatori è molto maggiore; dobbiamo creare nuovi percorsi, far capire il nostro ruolo.
Noi stessi come educatori abbiamo contribuito a cambiare questo atteggiamento dei genitori. Un genitore più richiedente per un aspetto e più fragile per un altro; soprattutto nel passaggio dalla scuola al centro. In generale questi ingressi diminuiscono dato che i genitori tendono a rimandare questo momento. Le famiglie vogliono che il proprio figlio rimanga a scuola o sia inserito nel mondo del lavoro.
Nel nostro lavoro quando dai delle autonomie significa che devi lavorare di più tu, dare ai genitori la consapevolezza dei diritti e delle risorse che ha il figlio, significa anche un aumento della nostra fatica, del lavoro da svolgere.

Mandato e mandanti
Non si può parlare di mandato senza parlare anche dei mandanti, l’ente pubblico e i politici, il privato sociale, le famiglie.
Rispetto all’ente pubblico, visto che facciamo un buon servizio e le famiglie sono contente, il mandato forte è quello di farsi conoscere, fare delle cose per incontrare la popolazione.
Per le famiglie il mandato riguarda soprattutto il benessere dei propri figli.
Per le cooperative, il privato sociale, il mandato è simile a quello dell’ente pubblico, ovvero che il centro abbia una visibilità, anzi il bisogno di visibilità è ancora maggiore in questo caso.
Ci sono nuove esigenze da parte dei genitori, che riguardano non solo l’orario del centro diurno, ma anche la questione del tempo libero per il genitore, aumentano le esigenze; non solo per il figlio, ma anche per se stessi vogliono una qualità di vita migliore. Questo però si scontra con tutta una serie di problemi economici, delle risorse destinate al centro.

La risposta del centri diurni e dei suoi operatori
È cambiata la richiesta dei genitori e noi abbiamo contribuito a questo cambiamento, ma noi siamo stati capaci di cambiare la risposta? È questa una domanda da farci, come centri diurni. È importante che i centri diurni ripensino alle risposte che devono dare di fronte a tutti questi cambiamenti. È difficile però dare una risposta a questo quesito.
Per prima cosa si può dire che rimane centrale il momento dell’aggiornamento nel nostro lavoro di educatori. Si può parlare anche di una diversa flessibilità nel trovare le risposte educative, nei progetti di vita di ciascun utente, di flessibilità esterna verso i mandanti. Flessibilità significa un progetto il più possibile individualizzato.
Preoccupante invece è la poca conoscenza da parte degli altri enti territoriali comprese le scuole, per cui si crea ad esempio una sorta di incomprensione tra centri diurni e le scuole.
La scuola non vive un rapporto di integrazione con noi. In generale si può dire che il processo di integrazione scolastica ha sconvolto i mandati sia della scuola che dei centri diurni, ha mischiato le carte.
Noi però dobbiamo essere educatori, mantenere questa caratteristica, questo sguardo specifico della nostra professione. Parte del nostro mandato dobbiamo farlo partire da noi stessi, parte del mandato l’abbiamo costruito noi. Anche per quanto riguarda la maggiore visibilità richiesta dal servizio pubblico o dal privato sociale, può essere in sintonia con il nostro lavoro educativo, ma questa visibilità sarà cercata con gli strumenti dell’educatore. Anche nel rapporto con i genitori deve rimanere questa specificità dell’educatore. Il mandato non deve provenire solo dall’esterno (pubblico, famiglia…) ma deve esserci anche il nostro contributo di educatori.

Perché cambiare?
Ma noi educatori siamo stati in grado di cambiare noi stessi?
Per cambiare abbiamo anche bisogno di un mandato istituzionale chiaro. Io posso creare un bisogno, sensibilizzare le persone, ma occorre anche che qualcun altro dia una risposta a questi bisogni: ad esempio se nasce un bisogno di tempo libero, chi deve far fronte a questo bisogno?
Il mandato è anche un assetto politico che deve essere dato con chiarezza, noi poi lo prendiamo in carico come educatori.
La nostra attenzione per le possibilità di visibilità esterna è aumentata; qui abbiamo fatto dei passi in avanti, siamo più tra le gente, all’esterno. Anche la gente ci accetta diversamente nei luoghi pubblici. C’è una differenza di mentalità dovuto anche in parte al nostro lavoro.
Il cambiamento è dovuto anche all’invecchiamento degli utenti che a una certa età chiedono una cosa, invecchiando un’altra. Sono problemi che stanno venendo fuori adesso.
Un altro elemento è dato dal fatto che sta aumentando la gravità degli utenti dei centri. Oggi abbiamo utenti con grave disabilità psicofisica. Cose che facevamo dieci anni fa adesso non le facciamo più: il laboratorio di disegno riproposto oggi non avrebbe senso ad esempio visto che abbiamo utenti che sono in un centro da 20 anni e altri appena entrati; oggi proponiamo cose diverse perché diversi sono gli obiettivi educativi che ci poniamo. Ci sono invece attività che quasi non facciamo più o che occupano molto meno tempo di quanto ne occupavano 20 anni fa, ad esempio dedichiamo poco tempo agli addobbi di natale perché, facendo un altro esempio, il lavoro di riciclo della carta che facciamo negli uffici comunali è molto più importante e adeguato agli interessi di persone che sono, appunto, diventate adulte.
Il cambiamento è partito dalle persone che abbiamo dentro al centro, dagli utenti. Non dobbiamo cambiare perché un operatore è da dieci anni nel centro e non ne può più (si può sostituire con: ed è solo sua personale l’esigenza di un cambiamento), ma dobbiamo cambiare perché la persona, l’utente ha avuto un cambiamento.