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autore: Autore: Giovanna Di Pasquale

8. La rete delle esperienze nella provincia di Bologna

Di Giovanna Di Pasquale

Nel territorio della provincia di Bologna sono presenti una pluralità di esperienze che, in forme e modi diversificati, si occupano di progetti di vita personalizzati e di percorsi di autonomia al cui interno trova spazio anche il tema del vivere fuori dal nucleo familiare di origine.
Nel 2013 si sono realizzati alcuni appuntamenti di incontro e riflessione sullo stato dell’arte fra cui segnaliamo i due appuntamenti che costituiscono idealmente una sorta di premessa a questa monografia.
Sabato 20 aprile 2013 presso la Casa per la Pace “La Filanda” Croce di Casalecchio di Reno (Bologna) su iniziativa di alcune associazioni, Associazione Centro Documentazione Handicap (CDH), CE.n.TR.O. 21 Onlus, CEPS Onlus Bologna, Associazione GRD Genitori ragazzi Down Onlus e Passo Passo Associazione per l’integrazione territoriale – Valli del Reno e del Setta, è stata organizzata una mattinata di confronto aperto, conoscitivo, propositivo con tutte quelle realtà che sul territorio sono impegnate su questo versante e che portano avanti iniziative nel merito.
Un’occasione, quindi per raccontare la propria esperienza, i propri punti di vista e gli eventuali progetti sul tema della vita indipendente e del futuro al di fuori della famiglia.
L’obiettivo è stato quello di avere l’esatta percezione delle possibilità che offre il territorio, per dare alla famiglia e alla persona con disabilità elementi concreti su cui poter ipotizzare un percorso che porti alla realizzazione di un personale progetto di vita senza i genitori, capace di tener conto di caratteristiche e aspirazioni.
Sabato 18 maggio 2013 si è tenuto, presso la Sala delle culture Casa della Conoscenza di Casalecchio di Reno (Bologna) un appuntamento seminariale dal titolo “Un futuro tutto per noi. Persone con disabilità: idee e progetti di residenzialità”. L’iniziativa è stata organizzata in collaborazione con l’Ufficio di Piano per la salute e il benessere sociale Distretto di Casalecchio di Reno e l’Istituzione Casalecchio delle culture del Comune di Casalecchio di Reno.
Una mattinata di lavoro per confrontarsi sul tema della “Vita indipendente” e delle possibilità abitative al di fuori della famiglia e per incontrare e conoscere alcune realtà che sul territorio nazionale sperimentano e progettano. Un’occasione dunque in cui si è cercato di fare il punto, esplorare possibilità, condividere progetti concreti.
Nel programma, dopo i saluti di Massimo Masetti, assessore alle Politiche sociali di Sasso Marconi, hanno trovato spazio i contributi di “La Casa al Sole, un’esperienza di autonomia abitativa” a cura di Pamela Franceschetto, assistente sociale, referente del progetto per l’Azienda Sanitaria 6 di Pordenone e Maria Luisa Montico, presidente Associazione Down Friuli Venezia Giulia; a seguire “Costruire la speranza per le Persone con disabilità: l’esperienza di Spes contra spem” a cura di Luigi Vittorio Berliri della Cooperativa sociale Spes contra spem Onlus; infine “Il Condominio Solidale di Bruzzano (Milano)” a cura di Marco Frigerio e della comunità psichiatrica “Mizar” Cooperativa Filo d’Arianna.
L’incontro è rientrato nelle attività del percorso di co-progettazione partecipata distrettuale Laboratori della solidarietà sociale, finanziato dalla legge regionale 3/2010.

Hanno partecipato al gruppo di lavoro di sabato 20 aprile 2013:
A.I.A.S. Bologna Condominio solidale
www.aiasbo.it
info@aiasbo.it
Condominio partecipato di via Bovi Campeggi 9 – Bologna
bovicampegginove@iperbole.bologna.it

ASL Distretto di Porretta Terme Bologna
www.ausl.bologna.it/asl-bologna/distretti/porretta

Cooperativa Libertas
www.libertasassistenza.it

Onlus sede di Bologna
www.centro21.org
centro21onlus@libero.it

C.E.P.S. Onlus Bologna (Centro Emiliano Problemi Sociali per la Trisomia 21)
www.ceps.it
ceps@ceps.it

Cooperativa C.A.D.I.A.I. Gruppo appartamento ABS Bologna
info@cadiai.it
www.cadiai.it

Fondazione “Dopo di noi” Bologna
info@dopodinoi.org
www.dopodinoi.org

Fondazione “Le Chiavi di Casa” Granarolo dell’Emilia (Bologna)
info@lechiavidicasa.org
www.lechiavidicasa.org

G.R.D. Associazione Genitori ragazzi Down Emilia Romagna
www.genitori-ragazzi-down.it

La Giostra Associazione famiglie di persone in situazione di handicap – Onlus Imola (Bologna)
ass.lagiostra@alice.it

Passo Passo Associazione per l’integrazione territoriale – Valli del Reno e del Setta
info@passopasso.it
www.passopasso.it

Volhand – Associazione volontari handicap Crespellano (Bologna)

Tuttinsieme – Progetto Casa aperta insieme Zola Predosa (Bologna)

colapaoli@casa-aperta-insieme.org

1. Introduzione

di Giovanna Di Pasquale

Le case sono fatte per viverci, non per essere guardate.
Francis Bacon

Per le persone con disabilità esiste oggi la possibilità concreta di abitare in modo autonomo fuori dalla famiglia di origine?
È una domanda complessa e impegnativa che non produce risposte omogenee.
Anche, e forse soprattutto, nell’ambito dei percorsi verso una residenzialità autonoma, la nostra realtà nazionale si disintegra in una molteplicità di situazioni particolari e assai distanti le une dalle altre che rendono difficoltosa un’azione di comparazione, e impossibile conclusioni uniformi.
Le esperienze che trovano spazio in queste pagine assomigliano per certi versi alla cima degli iceberg ma, al contrario di questi, nascondono sotto la superficie un sommerso costituito da materiali non assimilabili a ciò che si vede emergere.
Le esperienze si propongono, più che mai, non come un modello di replicabilità ma come testimonianze di processi e azioni utili a suggerire piste di lavoro, a evidenziare quali condizioni si sono rivelate necessarie per poter riuscire a realizzare ciò che si riteneva e si ritiene importante.
La possibilità per le persone disabili di vivere in “casa propria” non è oggi solo un pensiero ma, ad alcune condizioni, si è tradotto e si sta traducendo in realtà.
Certo, è una parte che non può essere presa per il tutto. Si tratta di situazioni limitate, sostenute da un grande impegno personale e da una presenza istituzionale non comune e mai scontata.
La domanda con cui abbiamo aperto queste note introduttive mette ben in evidenza la tendenza quasi schizofrenica del contesto sociale attuale, dove troviamo compresenti elementi che denotano la stagnazione, se non il regresso, dei processi di integrazione, ed elementi che, al contrario, indicano spinte di avanzamento che non toccano solo il livello di qualità della vita dei singoli ma costituiscono tappe ineludibili di civiltà sociale.
Crediamo sia sentire comune quello di vivere in un tempo affaticato, segnato dalla difficoltà di tenere aperta una progettualità ampia e fruttuosa non solo in termini di risultati ravvicinati ma di prospettive di lungo periodo. L’ascolto delle esperienze racconta, però, anche altro. Il tema che proponiamo in questo numero può essere interpretato, a nostro avviso, come uno di quei segnali di sviluppo evolutivo che emergono anche nei contesti di criticità diffusa e come un indicatore importante della ricaduta dei movimenti per l’integrazione, che hanno caratterizzato in modo forte tanti decenni della vita personale, familiare e sociale di questo nostro paese.
L’impegno e la presenza attiva di chi (persone con disabilità, famiglie, istituzioni) anche nei periodi di crisi e trasformazione, riesce a tradurre in azioni positive il riconoscimento di un’età adulta possibile per le persone disabili rende meno distruttiva la consapevolezza e l’evidenza del tanto, tantissimo che ancora resta da fare e fa luce sui sentieri da percorrere.

10. “Ma io il corpo lo uso?”

a cura di Giovanna Di Pasquale

Intervista ad Alessandro Bortolotti, ricercatore all’Università di Bologna dal 2007. Svolge le sue ricerche nell’ambito dell’Outdoor Education, della Prasseologia motoria e della Pedagogia speciale.

Rapporto fra corpo, identità, disabilità
Dal mio punto di vista fondamentalmente corpo e identità li identifico. Se così non fosse il rischio è che il corpo sia pensato come qualcosa fuori da noi, oggettivato. Parlo di qualcosa che non sono io ma il mio corpo. Se ci pensiamo, difficilmente io posso essere fuori dal mio corpo, succede, ci sono delle esperienze di questa natura ma sono eccezioni. Più spesso io sono il mio corpo che è un’altra maniera di dire quale è la mia identità. Su questo la disabilità innesca ulteriori riflessioni. Per quello che è il mio percorso, che viene dallo sport, ho per tanto tempo pensato che le persone si dovessero adattare alle proposte che venivano dal mondo, in questo caso sportivo. Su questo punto per me c’è stato un ribaltamento totale. Adesso penso che, pur non rinnegando quella parte che esiste nello stato di fatto, questo è un modello che diventa limitante se noi lo utilizziamo come chiave esclusiva per interpretare la realtà. Faccio un esempio: a parole lo sport di classe significa che bisogna fare sport nelle classi, questo un po’ mi spaventa perché pur essendo un modello interessante non può essere per tutti. Credo che noi dobbiamo pensare a ribaltare in modo totale l’approccio al movimento e all’educazione motoria. La questione è come far sì che il movimento sia adatto a tutti, e quindi è la mia proposta che si deve adeguare al soggetto e non più il soggetto che si deve attivare per rientrare a tutti i costi dentro una proposta. 

Quale approccio per un percorso intorno al tema del corpo e del movimento motorio a scuola
Parto dal concetto di uso del corpo e paradossalmente la prima riflessione che mi viene da fare è: ma io il corpo lo uso? O ancora una volta sono io che all’interno di un percorso cerco di trovare un senso? Il senso può anche essere che io sto fermo perché la percezione di me, il riflettere su di me, l’acquisire una consapevolezza avviene anche attraverso un’immobilità che non è imposta, ma è frutto di una scelta. Fare yoga o training autogeno o cose di questo tipo nell’immobilità, consapevole e scelta, possono dare di più di tante altre proposte di movimento che troviamo troppo spesso in modo automatico nelle scuole e nei gruppi. La parola chiave è consapevolezza, senso, cioè direzione della motivazione. Per questo è molto importante variare, fare tante proposte che abbiano al centro la dimensione della scelta. Proviamo a vedere nelle varie attività qual è la scelta che ti viene concessa e per fare cosa… È la scelta rispetto a un’azione oppure quella di entrare in relazione rispetto a un compagno? O ancora: è una scelta che fai tu o che viene da fuori? Questo ti mette di fronte a contesti, situazioni e condizioni diversi e, dal punto di vista educativo, stimolanti.
Cambiare le proposte allora per fare provare esperienze diverse e con criteri che esulano un po’ da quelli classici legati a un’educazione fisica tradizionale.
Su questo lo specialista sportivo può avere delle resistenze e fa fatica a rileggere le attività da un altro punto di vista, perché è stato impostato così e anche il mondo educativo spesso non ha tanta idea di quanto può essere stimolante, facilitante per le relazioni e l’apprendimento. Su questo non vedo una grande attenzione e forse neanche una grande preparazione di base. Io personalmente mi rifaccio a una scuola attiva, la prasseologia, che nasce in Francia e che in Italia è pressoché sconosciuta.

Collegamento fra gioco, sport e inclusione
Dal punto di vista dell’immagine sociale oggi il modello è quello delle Paraolimpiadi. Non è un modello sbagliato ma rischia di riprodurre in piccolo quello che avviene per tutti: c’è chi ce la fa e ha successo e gli altri che non ce la fanno.
Prendendo invece ad esempio i giochi di tradizione, ci si accorge che si può fare tanto altro e forse divertirsi molto di più. Bisogna uscire dal modello, non più solo il modello competitivo della vittoria, ma un modello che, pur presentando vittorie e sconfitte, non è così definitivo.
Difficilmente c’è un momento finale in cui si fanno le premiazioni perché si può sempre rimettere in discussione tutto, si può ripartire. È un modello molto più provvisorio, la vittoria e la sconfitta sono parziali. Poi ci sono tante altre possibilità, dalle attività espressive al rilassamento che hanno altre logiche. Anche nello sport ci sono le attività espressive ma, ancora una volta, sono ai fini della classifica e quindi diventano uno strumento per raggiungere qualcosa d’altro.
Nelle attività espressive il fine è proprio quello di esprimersi: mi esprimo per esprimermi.
Nel gioco autentico ti metti ed entri in gioco; se si è in quel livello si diventa davvero molto inclusivi perché le cose vengono fatte per il puro gusto di farle.

2. Sulla propria pelle: le ragioni di un laboratorio

a cura di Giovanna Di Pasquale

Intervista a Luca Cenci e Tristano Redeghieri

Come nasce il laboratorio
L’idea del laboratorio nasce dalla convinzione che il corpo sia uno dei maggiori strumenti per relazionarsi con gli altri. Essendo un insegnante Isef specializzato nell’attività motoria per bambini da 0 a 5 anni uso molto il corpo per relazionarmi con il bambino, proponendo giochi e attività attraverso il contatto fisico. Nel lavoro che svolgiamo qui in Cooperativa Accaparlante, l’obiettivo è quello di “portare fuori” la disabilità non solo con contenuti teorici, ma attraverso il protagonismo attivo delle persone disabili. In questo senso è fondamentale essere il più possibile consapevoli del rapporto che si ha con il proprio corpo che, spesso, nella persona disabile è un corpo non consono ai canoni riconosciuti e convenzionali. (T)
La consapevolezza poi è una conseguenza della conoscenza, senza conoscenza non si può parlare di consapevolezza né tanto meno di accettazione. Avevamo l’esigenza di capire, soprattutto per le persone più giovani (all’inizio il laboratorio era nato per loro) che rapporto avessero con il proprio corpo. Nel lavoro quotidiano infatti il corpo era nominato solo in funzione dell’attività di fisioterapia o per la gestione delle routines della vita quotidiana (lavarsi, vestirsi, mangiare..) (L)
La presentazione del percorso non è stata così difficile. Neanche noi sapevamo dove saremmo arrivati. Siamo partiti descrivendo l’idea di fare un laboratorio sul corpo, anche in modo blando. Con il prosieguo del lavoro, nel gruppo si è creato un clima di un certo tipo, un’intimità di un certo tipo che ha dato vita a un ambiente protetto che ha reso possibile lavorare in profondità su tutto il resto. In questo senso la presentazione non è stata una parte fondamentale perché siamo partiti sperimentando insieme a loro. Non abbiamo detto che avevamo già degli obiettivi definiti da raggiungere o standard a cui uniformarci, abbiamo solo detto: iniziamo raccontando il nostro corpo poi vediamo fino a dove possiamo spingerci.(L)
Abbiamo presentato questo percorso cercando di fare capire quanto è importante il corpo nella relazione, quanto si usa per relazionarsi con gli altri, facendo esempi tratti dalla quotidianità. Uno degli obiettivi era quello di fare acquisire maggiore consapevolezza del proprio corpo e di come lo si usa nei vari contesti, se e quanto lo si usa.
Il laboratorio sul corpo è stato inevitabilmente un laboratorio con il corpo, in cui giochi, situazioni, ecc. venivano provati sulla propria pelle. È stato una sorta di reincontro con il proprio corpo, corpo che – dalle parole delle persone coinvolte – non incontrano spesso.
Non l’incontrano né lo conoscono. (T)

Le aspettative
Non avevo delle aspettative già definite, il laboratorio è stato costruito in base all’andamento del percorso stesso, volta per volta decidevamo su cosa puntare cercando un collegamento fra gli incontri per dare continuità al percorso. Anche i partecipanti, per me, non si aspettavano niente di specifico però è emersa da subito una grande curiosità per dove si sarebbe arrivati. Per molti aspetti la stessa cosa vale per noi.
Quando ci rendevamo conto che saltava fuori qualcosa di interessante, abbiamo cercato di seguirlo sempre nel rispetto dei tempi delle persone e facendoci aiutare anche da esperti L’arma vincente di questo percorso è stato il tempo lungo in cui è stato articolato, tempo che è stato dilatato quando gli elementi che emergevamo avevano bisogno di essere ripresi e approfonditi. Non si è trattato di una lezione dopo l’altra, ma di nuclei tematici che si sono sviluppati per tutto il tempo che noi, ma anche i partecipanti, abbiamo ritenuto necessario in funzione della rielaborazione di quanto avveniva negli incontri. Essere in un luogo protetto ci ha permesso di lavorare anche sull’intimità del corpo. (T)
Le aspettative erano quelle che si hanno di solito quando cominciamo un laboratorio, perché quella sul corpo non è l’unica attività laboratoriale che la Cooperativa propone. I partecipanti quindi si aspettavano di fare al mercoledì attività incentrate sì sul corpo, ma sempre con lo stile e il metodo già sperimentati da loro stessi in tanti altri laboratori.
Di diverso c’era la curiosità verso una tematica totalmente sconosciuta soprattutto per le persone che abbiamo scelto di coinvolgere. La selezione non è stata casuale, abbiamo molto riflettuto su chi coinvolgere per il lavoro che andavamo ad affrontare. Conoscendo molto bene il gruppo, ci siamo orientati verso i più giovani e verso chi, tra i più maturi ci sembrava avere più blocchi in questa area.
Anche per quanto riguarda le mie aspettative mi sono sentito molto vicino a quelle del gruppo, ero molto curioso ma del tutto ignaro del potenziale che poteva avere un laboratorio di questo tipo e non mi aspettato certo di arrivare a trattare di temi personali, intimi e anche molto belli, che invece sono riusciti a emergere. (L)

Il percorso
Il laboratorio è stato realizzato su tre anni con l’obiettivo generale di lavorare sulla consapevolezza della percezione di sé. Conosco il mio corpo? Quanto lo conosco? Come lo uso nei vari contesti, se lo uso?
Per partire abbiamo chiesto aiuto a esperti, in particolare a un’amica psicologa. Con lei ci confrontavamo su quanto, volta per volta, veniva fuori dagli incontri per mirare meglio gli incontri successivi. Questo monitoraggio ha permesso di individuare anche obiettivi specifici legati alla reale immagine di sé, al ruolo dello sguardo degli altri come mediatore nell’immagine di sé. Ci siamo accorti che i più giovani riportavano nelle parole con cui si descrivevano molto della visione dei genitori che, in alcuni casi, era molto lontana da quanto si vedeva nello specchio. Altro obiettivo specifico è l’uso del corpo in un contesto di lavoro o di attività o nello sport.
Le persone con disabilità conoscevano molto bene il loro corpo dal punto di vista fisioterapico, cosa funziona, cosa non funziona ma non sapevano cosa fa piacere o non piacere sul loro corpo.
Il terzo anno abbiamo lavorato sul corpo come piacere e non piacere, come corpo capace di dare e ricevere piacere e benessere, per esempio attraverso il massaggio, il tocco con acqua calda e fredda, la memoria di gesti motori come “stirarsi” la schiena che possono essere rifatti anche nella quotidianità da soli o, se non si riesce, chiedendo aiuto a qualcuno.
Uno degli esperti che hanno collaborato con noi in questo terzo anno ha detto una frase: “È lecito che io non mi muova ma è lecito che qualcun altro mi muova, perché questo mi faccia stare bene”. Questa frase l’abbiamo poi ripresa tante volte nel corso del laboratorio.
È stato un percorso legato alla consapevolezza e di conseguenza anche all’autostima, perché il nostro corpo parla e non è solamente usato. Negli scritti delle persone disabili seguiti agli incontri dedicati al massaggio questo corpo parlava del benessere che avevano provato, delle emozioni belle e positive che avevano provato. (T)
Il primo anno si è trattato di giochi con il corpo: iniziamo giocando, proviamo a vedere come riesce a muoversi il nostro corpo, quello che possiamo fare e quello che non possiamo fare.
Il secondo anno è stato molto incentrato sulla conoscenza del sé, dei limiti e delle possibilità, ciò che il mio corpo può fare o non può fare, sa fare o non sa fare. Avere un limite non significa non poter fare niente, su questo abbiamo costruito la parte finale del percorso cercando strategie e adattamenti, costruendo anche piccoli ausili in maniera semplice e giocosa che potessero aiutare a compiere gesti come portare una tazzina di caffè. La cosa più difficile è stata per tutti riconoscere i limiti e le difficoltà. Una volta preso atto di ciò, si è potuto cominciare a ragionare su come si può fare per raggiungere un obiettivo in un altro modo, un aspetto questo centrale nella disabilità. Nel terzo anno abbiamo deciso di sperimentare ciò che piace al mio corpo e ciò che non piace, attraversando il tema del piacere e dei rapporti fra corporeità, emozionalità, sessualità. Spesso in famiglia o nelle strutture i momenti dedicati al corpo sono frettolosi o meccanicamente finalizzati al lavarsi, mentre noi sappiamo che una doccia, ad esempio, è anche un momento di rilassamento, benessere in cui scelgo quanto stare sotto l’acqua, la temperatura, ecc. Ecco queste scelte spesso non sono possibili per le persone disabili.
Questo ultimo anno è stato quello più delicato dal punto di vista emotivo perché parlando di piacere si è arrivati a parlare di cose molto personali in un clima intimo e protetto dove si poteva parlare senza la paura di essere giudicati. Un ragazzo che ha una disabilità acquisita, dopo alcuni massaggi ha cominciato a raccontare di quando da bambino ha iniziato a perdere l’uso delle gambe. È un avvenimento di tanto tempo fa e questo ragazzo che lavora con noi da parecchi anni non aveva mai parlato francamente di quel passaggio delicatissimo per lui. Un’altra ragazza per la prima volta ha voluto parlare della sua unica esperienza sessuale vissuta a vent’anni, questo per lei è stato non solo importante ma anche, sono le sue parole, “bellissimo che mi sia tornata in mente quell’emozione”.
C’era chi il primo anno faceva fatica ad accettare il contatto con noi ma anche il contatto con il proprio corpo, che in alcuni casi coincideva con la carrozzina. In un’attività fatta davanti allo specchio in cui descrivere il proprio corpo, molti parlavano di un tutto unico: io sono seduto sulla mia carrozzina, la carrozzina è il mio corpo. Fondamentale invece distinguere e separare, imparare e sperimentare che si hanno le gambe, la schiena, i piedi che per molti dei partecipanti erano parti del corpo completamente sconosciute.
Una delle ragazze più giovani che era venuta in Cooperativa con l’obiettivo di scrivere sui film, sull’arte, sulle cose che più la interessavano non voleva essere coinvolta in nessuna attività che comportasse il contatto corporeo. È entrata, quindi, in questo laboratorio con moltissime remore e preoccupazioni. L’ultimo anno era lei che richiedeva di essere tolta dalla carrozzina e messa a terra e aveva fiducia in come gli altri si avvicinavano a lei, anche perché la sua maggiore consapevolezza le permetteva di guidare e di indicare come fare gli spostamenti e i movimenti.
Questo anche in una prospettiva di vita adulta può significare essere capace di dare indicazioni a figure esterne alla famiglia su come gestire i momenti fondamentali della quotidianità. (L)

Il ruolo dei conduttori
Io ero molto in difficoltà nell’ultimo anno al momento della condivisione. Il livello di profondità toccato ha messo in moto in noi conduttori una sorta di attesa implicita di dover andare sempre più in profondità. Era come se non ci bastassero commenti generici ma avessimo bisogno di riflessioni e descrizioni sempre più dettagliate. Un’aspettativa sbagliata, come ho capito a posteriori, che andava a contrastare il rispetto dell’intimità di ciascuno, il nostro essere persone che hanno voluto condividere emozioni anche forti ma che hanno diritto di scegliere quando fermarsi, e di dire tanto ma non tutto. Questo limite rafforza e non indebolisce la qualità della relazione nel gruppo in quel contesto.
Per noi il ruolo dell’educatore è quello di proporre delle possibilità che si possono sperimentare anche fuori di qui, ma questo sta alla persona, alla sua famiglia, al contesto che c’è intorno, ai servizi. Soprattutto sta all’individuo andarsele a prendere queste possibilità. Ovviamente questo può spaventare anche molto, le famiglie in primis, ma anche le persone con disabilità stesse che vengono a chiedere: “Ma perché dobbiamo parlare del piacere del corpo quando fuori di qui questo piacere non lo sperimentiamo mai?”.
Questa è una delle parti che più mi ha messo in difficoltà. (L)
Io avevo un’aspettativa alta verso le persone “più vecchie” che vengono qui da più tempo, di loro non mi bastava il dire un sì o un no ma cercavo di tirare fuori le loro motivazioni sul fatto che una determinata cosa fosse bella o brutta, e per questo facevo a volte domande troppo dirette. La paura è stata quella di superare il limite nonostante pensassi molto prima di chiedere ancora. Mi rendo conto adesso che avevo bisogno di capire se questo percorso avesse smosso qualcosa in loro, perché a volte mi sembra che siano abituati a dire va tutto bene o va tutto male, ma faticano a esprimere i motivi interni di questo pensiero. Queste difficoltà sono state però anche quelle che hanno portato le maggiori soddisfazioni, sentire le persone contente ed emozionate per aver fatto emergere, anche attraverso l’aiuto delle domande che facevo, sensazioni nascoste o dimenticate mi ha dato una grande soddisfazione. Siamo riusciti perché ci siamo dati i giusti tempi per la rielaborazione e perché nessuno è stato mai obbligato a parlare. Abbiamo condiviso il tempo del silenzio e l’imbarazzo che spesso ne nasce. Anche questo per me è stato utile perché l’imbarazzo è un’emozione viva.
Un altro aspetto difficile per me è stato pensare che stavamo percorrendo un terreno di esperienze che fuori, nella vita di tutti i giorni, non trovano spazio o non vengono recepite. Mi sono domandato spesso “E adesso cosa succede? Fuori di qui cosa succede? Creo più frustrazione o più giovamento?”. E infatti questo è stato uno degli argomenti con i genitori, affinché non fosse un percorso solo fine a se stesso. (T)

Il coinvolgimento delle famiglie
Durante gli incontri del laboratorio le famiglie sapevano, ma non sono state direttamente coinvolte. Lo sapevano dalle richieste che facevamo loro rispetto all’abbigliamento più adatto o altre cose simili di tipo pratico, lo sapevano da quello che i loro figli raccontavano tornando a casa. Erano molto curiosi e quasi in attesa di sapere… Ci è sembrato giusto quindi coinvolgere in un qualche modo anche loro.
Alla fine c’è stato un momento, importante, di restituzione dell’esperienza nella globalità per comprendere meglio insieme cosa è stato questo percorso che ha fatto tornare a casa i loro figli a volte esaltati, sempre molto coinvolti emotivamente. Abbiamo raccontato loro cosa succedeva in quella stanza un po’ misteriosa dove il gruppo si trovava e lavorava per tre ore. Un racconto non semplice e non lineare perché dare voce ad attività che muovono sensazioni ed emozioni è molto difficile.
Nel laboratorio poi sono emersi ricordi e racconti molto intimi e anche dolorosi o emozionanti; questo è potuto accadere per il clima intimo e la promessa di riservatezza che era implicita. Nel raccontare ai genitori, quindi, abbiamo voluto rispettare questo tratto e abbiamo scelto insieme alle persone disabili cosa dire e restituire ai genitori, e anche a un pubblico più grande come possono essere i lettori di una rivista e cosa invece continuare a tenere protetto. Anche da parte dei genitori nell’ascolto delle parole dei loro figli o nella visione di alcuni spezzoni di attività c’è stato grande coinvolgimento e grande commozione, un rispetto direi, nell’impatto con un’immagine anche inedita delle persone che sono i loro figli. (L)
La scelta di non coinvolgere direttamente i genitori è stata anche dovuta dalla necessità di non farsi mettere dei paletti in maniera anticipata. Come già si è detto, per noi il ruolo di educatori è legato a costruire più occasioni possibili con e per le persone, una sorta di palestra dove provare direttamente in prima persona per poi, se si vuole e si riesce, continuare nella quotidianità.
Con questa scelta le persone con disabilità sono state protagoniste anche nel racconto con i propri genitori, hanno deciso se avevano voglia di raccontare e, quando lo hanno fatto, è stato con le loro parole. È stato anche un modo di rinnovare la relazione con i genitori con argomenti nuovi che toccano la dimensione del corpo e anche l’essere adulti, le scelte, gli imbarazzi, le emozioni. (T)

Pensieri per non concludere
Tempo e continuità: il tempo del laboratorio era sacro. Nonostante i mille altri impegni o richieste, il mercoledì mattina tutto il gruppo era al laboratorio, punto. Non esisteva niente che potesse intralciare. Non mettere pause in mezzo è stato fondamentale per non rompere quella sorta d’incantesimo costruito settimana per settimana.
Un percorso come questo tocca corde molto sensibili: è d’obbligo farsi aiutare da chi è esterno e da chi ha competenze più specifiche. Noi siamo educatori con una formazione di un certo tipo, dentro al laboratorio gli esperti non c’erano ed eravamo noi due a gestire questo turbinio di sensazioni ed emozioni. C’era paura, e c’era anche la voglia di poter dare risposte, ma noi non siamo tuttologi. Non è un’esperienza che puoi fare senza il supporto di altri più specializzati e senza una rete di confronto esterna data dai colleghi e dalla supervisione.
Noi come Cooperativa lavoriamo molto sul ruolo attivo della persona con disabilità. Ma il corpo ha veramente un ruolo quando io sono con me stesso e con gli altri? Ne parliamo tanto ma poi dobbiamo anche utilizzarlo questo corpo. Un’attività molto bella è stato quando nell’ultimo incontro le persone disabili hanno assunto il ruolo di massaggiatori e ci hanno massaggiato con tutte le loro difficoltà e con modi personalizzati per riuscire a farlo.
Dopo tre anni di percorso c’erano quelle condizioni di fiducia nell’altro e di confidenza nel proprio corpo per cui è stato possibile per le persone disabili assumere un ruolo attivo nel dare piacere agli altri e provare per questo grande soddisfazione. Anche il corpo disabile può avere un ruolo attivo nella relazione con gli altri, relazione che ci ha fatto vivere l’esperienza rara e preziosa di essere alla pari da un punto di vista esistenziale per il coinvolgimento emotivo che, al di là dei ruoli professionali e istituzionali, ha toccato tutti noi. (T) (L)

1. Introduzione

Ringraziamo Gianfranco Caramella e Luca Malvicini per l’aiuto nella redazione dei testi.
Ringraziamo anche tutti gli ospiti, i genitori, gli operatori per la collaborazione e l’accoglienza e il clima di convivialità che ha accompagnato il lavoro.
Un grazie speciale a nonna Rina per l’ospitalità e le prelibatezze con cui ci ha deliziato…
La prima volta che, anni fa, siamo entrati nella villa di Viale Teano a Quarto Genova, sensazioni diverse, tutte ugualmente forti, si sovrapponevano. Il luogo, splendido, la struttura molto provata da anni di abbandono, le persone accoglienti e vitali, forti di un “sogno”comune da realizzare, con convinzioni radicate e capacità di poggiare il sogno su un progetto per renderlo concreto: far diventare quella realtà una casa per i loro figli con disabilità.
Già nei primi racconti che accompagnavano la visita alla casa, ormai un cantiere aperto, emergeva proprio questo tratto caratterizzante: l’impegno a utilizzare la propria personale esperienza come molla propulsiva per pensare soluzioni comuni dentro a una visione politica, per riprendere una frase importante di Don Milani, che facilitasse il “sortirne insieme”.
La costituzione in associazione, Fa.Di.Vi. e Oltre (Associazione Famiglie Disabili Vidoni), è stato il primo passo di un percorso che ha portato in più di dieci anni a vivere la partenza reale della casa, dove le persone disabili, i figli e le figlie, vivono e dove i genitori sperimentano modalità per molti aspetti non consuete di collaborazione con gli operatori e la direzione.
Anni segnati certamente da un incessante lavorio per tenere le redini di un impegnativo lavoro di ricostruzione con i relativi corollari di intoppi burocratici, fatiche e soddisfazioni di un gruppo che cresceva, certo, ma anche cambiava.
Anni che sono serviti anche a esplicitare meglio quale idea di residenzialità era pensata e voluta e quali “strumenti” sono utili ai genitori per prepararsi all’uscita dei figli dalla famiglia, una volta che questa avviene non sull’onda di un’emergenza ma di un percorso condiviso.
Anni di amalgama per il gruppo, in cui si è venuto a definire quello che, almeno per chi come noi osserva da fuori, è una delle caratteristiche più forti dell’associazione e cioè la capacità di tenere uniti un pragmatismo attivo teso all’obiettivo con la convivialità accogliente che fa sentire gli ospiti amici e rende vitali e intensi gli scambi di idee quando si intrecciano coi momenti del vivere insieme il cibo o l’ombra degli alberi del magnifico parco.
Molte di queste riflessioni trovano posto sulle pagine di questo numero di “HP-Accaparlante”: le voci dei genitori, promotori e co-attori di questa avventura, le voci degli operatori e della direzione, espressione e richiamo alla gestione quotidiana della struttura, le riflessioni dei professionisti che con competenza e capacità empatica hanno accompagnato, attraverso gli spazi della formazione, una messa a fuoco dei temi di interesse e favorito un incontro di punti di vista diversi.
Voci che raccontano e riflettono e insieme costituiscono un’immagine dell’oggi, una sorta di fotografia scattata in un momento preciso e particolarmente interessante per essere fermato: il passaggio dall’aspettativa alla realtà, dalla prefigurazione di ciò che si desidera a quanto si vive nel concreto farsi.
Un piccolo, momentaneo bilancio per far emergere fili da riannodare per continuare a ri-partire…
Manca, in questa voce corale, quella delle persone con disabilità complessa che abitano la casa, e annotiamo questo dato non come nota a margine di una mancanza operativa ma come un’indicazione per tutti noi a lavorare con sempre più coraggio nella strada di dare espressione e voce diretta alle persone con disabilità, di riconoscere in modo autentico il loro essere adulti a prescindere dalla complessità e gravità del deficit; è un percorso oggi ancora molto embrionale ma, se siamo consapevoli dell’importanza, allora questa deve diventare un’area di investimento e impegno per il futuro.
Infine, abbiamo voluto accostare alla storia “genovese” una parte di uno scritto (la versione integrale la trovate sul sito www.accaparlante.it) di Chiara Buarelli, educatrice e coordinatrice di servizi per persone disabili a Pesaro. Storie diverse per nascita e sviluppo e molto simili per i nodi che affrontano: il senso dell’accompagnamento nelle diverse fasi della vita, la capacità di stare in ascolto e mostrare rispetto, il senso del limite dei propri interventi, il “servizio” come “casa”.
Per questo le abbiamo volute in dialogo e le proponiamo in una lettura intrecciata.

Un posto sicuro
Noi come gruppo siamo insieme dal 2000. Per tutti il pensiero era il domani. Mio figlio frequentava un centro diurno da quando aveva 16 anni ma il pensiero era sempre il domani. Quando è uscito questo progetto a me è sembrato rappresentare il futuro migliore per nostro figlio.
Piano piano è cresciuta anche un’amicizia tra noi, ho conosciuto delle persone che poi sono diventate mie amiche mentre prima ero sempre chiusa in casa.
Per me è sempre stata una festa venire in associazione.
Il futuro è questo, io adesso lo vedo. Dobbiamo pensare a come fare per migliorare, contribuendo anche noi nell’andamento della struttura perché questo è un periodo di rodaggio (è un anno che la casa è aperta) e anche se ci sono delle cose che vanno migliorate, delle questioni che vanno valutate, nell’insieme sono contentissima.
È una sensazione bella perché sappiamo che qualunque cosa possa succedere i nostri figli sono in un posto sicuro, anzi meglio: sono in una casa, perché questa è la loro casa non è una struttura.
Silvana, mamma di Brunetto

4. Volti e parole: le testimonianze del video

Riportiamo di seguito la sbobinatura del video “Mio fratello è figlio unico”.
La prima informazione non l’ho avuta dai miei genitori, assolutamente. Loro hanno fatto sempre in modo che Andrea fosse una persona normale, come me. Sinceramente per me Andrea era normale: era diverso da me, ma io non notavo la disabilità. Dormivamo nella stessa camera quindi i gesti anche più intimi come chiamare la mamma di notte perché avevamo bisogno o io o lui, il buongiorno, la buonanotte, l’andare a letto, lo svegliarsi alla mattina erano in comune e io non notavo assolutamente questa disabilità.
Ho iniziato a notarla dalla gente e soprattutto dai miei amici, quando ho iniziato ad andare a scuola. Mi ricordo benissimo nell’età in cui inizi a invitare le tue amiche a casa dopo scuola a fare i compiti oppure alla tua festa di compleanno… e quando venivano a casa mi ricordo che più di una volta trovavano una scusa e andavano via. E io lì ho iniziato a chiedermi il perché, devo dirti la verità l’ho capito più avanti nel tempo, forse prima ho dato molto adito al fatto che davvero avessero un impegno improvviso, e dopo invece ho capito che non era così. Io uscivo molto spesso con mio fratello e vedevo che la gente comunque si fermava a guardarlo, che lo guardava quasi impaurita, soprattutto gli adulti, non i bambini. Il bambino di solito è attirato dalla diversità, quindi quando si avvicinava a mio fratello il genitore arrivava molto preoccupato a tirarlo via, perché quella “cosa” sulla sedia a rotelle era strana e faceva dei gesti che facevano paura. Quindi ho scoperto la diversità di mio fratello dalla società. (Catia)

Quando lei è nata io avevo sei anni e non mi ricordo mai di essermi accorta inizialmente di Agnese con Sindrome di Down con qualcosa che non andava, perché Agnese per me è sempre stata mia sorella punto, come tutte le altre sorelle.
Non mi ricordo neanche “Sindrome di Down”, mi hanno sempre accennato al fatto che dovevo starle più vicino, che avrebbe avuto bisogno di aiuto in più. “Sindrome di Down” me lo ricordo da più grande, da bambina no. Mi ricordo dall’esterno persone che venivano a filmarla, a fotografarla e io mi chiedevo in realtà perché io no e lei sì, ma me lo sono sempre spiegata con il fatto che lei aveva bisogno di un aiuto in più. Mi divertivo in realtà perché filmavano poi anche me, riguardavamo i filmati tutti insieme, c’ero anch’io, la facevo giocare, la facevo ridere e mi divertivo, ero anche un po’ io protagonista… Perché poi quando è nata lei non dico che sono stata messa da parte, assolutamente no, però chiaramente erano tutti più concentrati su di lei. Mi sono sempre sentita protagonista perché mi hanno sempre detto che io dovevo esserci, che lei aveva bisogno di me; senza il mio aiuto forse non sarebbe andata come è andata, mi sono sentita anche importante per questo. (Elisa)

Ho l’impressione che non siano stati i miei genitori direttamente che me ne abbiano parlato, comunque l’ho saputo dopo la nascita; allora non c’era l’amniocentesi, non c’era possibilità di diagnosticare queste malattie genetiche precedentemente. Dopo il parto, dopo qualche giorno, la pediatra, un’amica di mia madre gliel’ha comunicato. Io non ricordo che siano stati direttamente i miei genitori a comunicarmi la cosa, mi ricordo però il modo: senza nessun tipo di tragedia si è parlato della problematica di Caterina paragonandola a quella di altre persone più grandi che avevano lo stesso problema e che avevo avuto l’occasione di conoscere. Quindi mi dissero “guarda, Caterina è nata con lo stesso problema di Alessandro”… Questo è stato il modo con cui ci è stata comunicata la cosa. Nell’altro caso, quello di Maria, visto che non si trattava di una problematica specifica quindi di una diagnosi fatta alla nascita, ma è stata una concatenazione di eventi, mi ricordo che improvvisamente mia madre ha dovuto partorire. Maria è nata, sapevamo che era nel reparto di neonatologia, nel reparto di terapia intensiva e mano a mano imparavamo le notizie quando mamma tornava a casa perché chiaramente cercava di restare là in pianta stabile e ci comunicava l’andamento delle cose per quello che allora poteva essere di nostra competenza.
Io allora avevo 17-18 anni quindi lei ci parlava, ci raccontava di come stavano le cose. Mi ricordo che c’erano questi momenti critici, non si sapeva se Maria sarebbe riuscita a superare quel determinato momento delicato fino a quando Maria è arrivata a casa, ma quando è arrivata a casa era una bambina assolutamente normale, un neonato, il ritardo si accumula nel tempo. Abbiamo
scoperto piano piano le sue problematiche, serie e gravi, ma quando era una bambina era una bambina molto bella, è una ragazzina molto bella tutt’ora. Era un neonato come gli altri, il suo ritardo l’abbiamo imparato a conoscere piano piano nel tempo. Sono due difficoltà molto diverse. (Francesco)

Io non mi ricordo, ero molto piccolo, sei anni, che i miei genitori mi avessero spiegato “Guarda che Francesca è Down, ha la Sindrome di Down che è dovuta alla Trisomia 21 e ha questa sintomatologia”. No, questo no, questo discorso sinceramente non me lo ricordo però diciamo che se disabilità vuol dire in qualche modo diversità, particolarità, questo era un discorso scontato con Francesca, essendo una delle disabilità più palesi che, appena vedi Francesca, la comprendi, la capisci, la percepisci: non era una disabilità psichica con cui fai più fatica a entrarci in contatto. Avere un disabile in famiglia non era vista come una cosa particolare cioè degna di particolare attenzione. (Filippo)

Ero molto emarginata anch’io a scuola, ero diventata emarginata è vero.
Non ne sono uscita, non ne sono uscita, io non so cosa sia giusto o sbagliato e non me lo sono neanche posto ma ho fatto quello che mi sono sentita e ho seguito comunque quello che era la mia persona, e comunque ciò che sentivo dentro: sono entrata io nel suo mondo.
Mi ricordo che alla fine i miei amici erano diventati i suoi amici anche se c’era una grande differenza di età. Io mi rendevo conto soprattutto nell’età dell’adolescenza che mi sentivo molto sola perché mamma doveva stare con Andrea tutto il giorno, soprattutto quando io studiavo e andavo a scuola e Andrea andava all’università e faceva filosofia che è stata la sua prima laurea. Tutti i giorni mamma stava in salotto con Andrea, leggeva e Andrea mnemonicamente riceveva tutte le informazioni del libro e studiavano così; però per Catia molte volte non c’era posto e io mi sentivo in effetti un po’ sola. Questo sì, e delle volte c’è stato questo conflitto in cui dicevo che Andrea era un po’ egoista perché aveva avuto molto mamma per sé. Adesso che siamo adulti ne parliamo tutt’ora e ne parliamo con molta tranquillità perché le cose erano quelle e non si potevano cambiare. Per papà era diverso, papà lavorava moltissimo, arrivava la sera tardi e la mattina presto ripartiva; era mamma che non lavorando per stare dietro ad Andrea era in casa ventiquattro ore su ventiquattro con lui. Per esempio quando uscivo da scuola vedevo che tutti i genitori andavano a prendere i propri figli mentre io ero stata responsabilizzata molto presto, dovevo prendere la mia cartella in spalla e andare a casa da sola, stare attenta a come si attraversava la strada, però andare a casa da sola E quindi sicuramente ho sentito la mancanza della mamma. (Catia)

La nonna, che viveva al piano di sopra, (magari è una mia sensazione) per me non c’è più stata, c’era solo Agnese perché Agnese aveva bisogno. Non era come i miei genitori che dicevano “Agnese ha bisogno, dai aiutala” e venivo coinvolta anche io, invece la nonna no, almeno io l’ho sentita molto questa cosa. Non l’ho raccontata neanche ai miei genitori, in realtà però secondo me io per questa nonna ormai ero grande, non avevo più bisogno della nonna, ne aveva bisogno lei e io ero un po’ messa da parte.
I miei genitori sono stati bravi, io mi sono sempre sentita responsabile, il mio compito era starle vicino, aiutarla e io mi sono impegnata per questo. (Elisa)

Io ho patito molto di più la nascita di mio fratello Andrea, il secondo piuttosto che la nascita delle mie sorelle a livello di attenzione. Quando è nata Caterina mia mamma ha fatto la scelta di rimanere a casa dal lavoro: non è stata sicuramente dettata soltanto da quella specifica situazione, i fattori sono tanti, non era neanche tanto un lavoro che la gratificasse a tal punto da dire “aspetta proviamo a…”. Sicuramente mia mamma è stata molto presente. A livello di attenzioni non ho sentito la mancanza, almeno questa è la mia percezione, o meglio avevo già patito emotivamente gli altri fratelli che mi avevano tolto dall’esclusiva rispetto ai miei genitori. Maria è nata quando io ormai ero quasi maggiorenne quindi a quel punto lì anche se l’attenzione dei miei genitori era meno assillante nei miei confronti tanto di guadagnato, perché è un’età in cui meno attenzioni ti danno meglio stai, perché sei proiettato verso altre cose, verso il fuori, quindi non ho sentito queste attenzioni in meno, se ci sono state le ho accettate di buon grado mi viene da dire, se ci sono stati momenti in cui dovessi avere notato una cosa del genere non me lo sono stigmatizzato addosso, se c’è stato l’ho accettato di buon grado perché sono convinto che in quel momento lì meritassero più attenzioni loro di me. (Francesco)

Io mi ricordo la prima volta che la vidi, lei stava in una stanza ed era per terra, non gattonava, strisciava con le mani, aveva gli occhiali, fu un incontro particolare, assolutamente perché comunque tu incontri un fratello e subito sai che questa persona entrerà nella tua famiglia e ti accompagnerà.
Rivisto a posteriori forse io fui molto titubante, anche perché lei è femmina e io sono maschio e anche perché lo sentivo un po’ come un’intromissione, un altro fratello nella mia famiglia, ai tempi c’eravamo io e Silvia, eravamo in due poi dopo arrivò Francesca adesso siamo tre maschi e tre femmine, siamo in tantissimi. Anche successivamente rispetto ai rapporti che si sono creati, io sono quello che all’interno del nucleo familiare ha la relazione meno intima con Francesca, invece Silvia ha il rapporto con il maggior feeling. Questo succede in tutte le famiglie numerose, non hai grandissimi rapporti e intimità con tutti i fratelli, con alcuni ci sono maggiori simpatie o affinità, con altri di meno. Con Francesca questo può essere dovuto a una sua caratteristica perché lei è una ragazza molto socievole, quando torna a casa, torna da lavorare, viene, mi saluta: “Ciao Pippo come stai?”, io invece sono un po’ orso e allora rispondo “Sì, Francesca, vai via”, come dire basta. (Filippo)

Molta responsabilità, ancora ne pago le conseguenze, perché io mi sento molto in colpa nei confronti di Andrea, qualsiasi cosa non riesca a fare mi colpevolizzo, perché io sapevo che i miei genitori contavano su di me anche per il futuro quando loro non ci sarebbero più stati, contavano su di me perché io giustamente avevo le gambe, avevo le braccia, tutto quanto quello che non poteva avere Andrea quindi contavano su di me per proteggerlo. Di ogni cosa che non riesco a fare o che non sono riuscita a fare me ne faccio molto carico.
Ho perso dei ragazzi. Mamma è morta che io avevo appena compiuto diciotto anni, si è ammalata che io ne avevo sedici per cui di adolescenza io ne ho avuta poco, io non avevo amiche, non uscivo. Io ero per Andrea, io dovevo sempre guardare Andrea. Lui è poi andato a vivere a Paderno quando avevo circa diciassette anni. E quando si usciva, si usciva per andare da Andrea e il primo ragazzino ovviamente non poteva accettare queste cose perché gli altri ragazzi andavano allora in discoteca, andavano al cinema, a mangiare una pizza, io invece quando uscivo dovevo andare da Andrea. Era una cosa che mi era stata imposta, sicuramente non ho seguito la Catia, ho seguito quello che avrebbero voluto i miei genitori per il bene di mio fratello; sono felicissima tra virgolette di averlo fatto. (Catia)

Con i ragazzi, i pochi che ho portato in casa c’era la paura prima, iniziale, “oddio come si comporterà, come la prenderà il mio ragazzo sapendo che io ho una sorella disabile, come la prenderà?”. Però sono sempre stati tutti “bravi”, l’hanno sempre accettata così, quindi una volta avviata la conoscenza dopo due, tre incontri la conoscono, sanno che è così e quindi non mi ha mai più dato problemi. (Elisa)

Io sono il fratellone maggiore di Caterina e quindi mi ascolta, mi ascolta parecchio. A me piace parlare per cui ogni tanto mi manda qualche messaggio, mi chiede qualche consiglio, le capita magari che guarda qualche film, le piace il pallone, è appassionata di Totti, guarda qualche film, penso a Sognando Beckham, mi chiede “Come posso diventare brava come lei?”. Sono il suo fratello maggiore ed è un rapporto molto bello. Con Maria la situazione è invece un pochino più difficile. Diciamo che il mio rapporto è più di cura per molti aspetti quando c’è questo bisogno. Una premessa è d’uopo, intanto io non vivo più con loro completamente, ho la mia famiglia; con Caterina c’è un rapporto fratello-sorella quando ci si ritrova insieme, con Maria avevo questo rapporto di cura prima che mi nascessero i bimbi quando una volta all’anno i miei genitori si prendevano un periodo per staccare la spina, si facevano una vacanza e chiedevano a me di tenere Maria e io avevo quelle due o tre settimane d’estate in cui c’era questo rapporto intenso con mia sorella, dal quale uscivo sfinito e dal quale mi accorgevo di che donna è mia madre. (Francesco)

Francesca non mi ha mai creato dei problemi con gli amici, mai. Forse perché abito e vivo in un contesto particolare, la Comunità Maranatha, e quindi è scontato che nella mia famiglia ci sono dei familiari particolari e forse anche perché io ho avuto una vita amicale che ha condiviso il mio vivere all’interno della comunità e della mia famiglia. I miei amici venivano a trovarmi spesso, i miei amici si fermavano a guardare un film, i miei amici venivano a mangiare la pizza quando c’erano delle feste oppure per il mio compleanno, e Francesca era presente e non mi ha mai creato un problema la sua presenza, anche perché non si è mai creata una conflittualità perché quando esco con i miei amici non viene anche Francesca. (Filippo)

Il futuro. Mi rendo conto che siamo talmente legati soprattutto io verso Andrea, ho talmente questa morbosità verso mio fratello che il futuro non lo penso perché ho solo una gran paura di perderlo. Spero di andarmene via prima io, lo dico sempre ma se un giorno dovesse andare via prima Andrea la vedo molto grigia per me, molto molto molto.
Il presente lo vivo con molti sensi di colpa perché io faccio un lavoro impegnativo, lavoro veramente tanto perché vivendo da sola comunque più posso lavorare meglio è per guadagnare, e il tempo che ho dato a lui negli anni trascorsi oggi non glielo sto dando. Certo io con lui ci sono sempre, siamo stati ricoverati l’anno scorso, siamo stati due settimane a Milano, qualunque cosa lui faccia a livello di salute ci voglio sempre essere e sempre ci sono. Lo vado a trovare spesso però sicuramente non più come prima.
Ho perso delle amicizie sicuramente futili, però quando sono cresciuta ho trovato delle amicizie che hanno accettato mio fratello senza nessun tipo di problema, quindi ho saltato quella fase in cui per un ragazzo che veniva dal di fuori era difficile accettare un disabile, dopo io sono subentrata subito nell’adulto e da adulto non ho assolutamente trovato dei problemi, anzi è la prima cosa che dico “andiamo a trovare mio fratello che te lo presento” e loro vogliono conoscerlo. (Catia)

Il mio futuro, mio, mio me lo immagino in una casa in campagna. Vorrei una casa in campagna e mio marito vorrebbe fare il contadino. Pensando a mia sorella questo futuro cambia. Finché ci sono i miei genitori in salute, speriamo fino a tanto, so che vogliono creare un ambiente particolare per lei e speriamo ci riescano. Se no, sicuramente con noi, perché di lasciarla completamente da sola non me la sento e non voglio proprio. Magari in una casina vicina, in un appartamento vicino a noi con degli aiuti. Non riesco ancora a immaginarmi, anche se i miei genitori vogliono prendere un appartamento per lei magari con aiuti di altro tipo, io non ce la vedo ancora, non riuscirei ancora, so che è giusto così ma probabilmente io non ci riuscirei. Me la immagino in una casona grande con magari un pezzo di casa per loro perché sicuramente sarà con Riccardo, il suo moroso, sono insieme da sette anni. (Elisa)

Senza che i genitori ci abbiano assolutamente inculcato questo senso di cura e di protezione rispetto alle nostre sorelle, c’è comunque un desiderio di cura. (Francesco)

Rispetto a Francesca sinceramente non ho una grande idea di cosa farà lei da grande e soprattutto di come saremo noi. Boh, forse il fatto che noi siamo in tanti in famiglia questo sicuramente facilita la cosa, essendo in tanti non è che io come singolo mi debba preoccupare del suo futuro, di quello che farà lei da grande oppure se me la sento sulle spalle. Assolutamente. Se io non la accoglierò in casa mia quando sarò sposato, non è che lei sarà sotto un ponte, no non penso questo. Penso che ci saranno dei rapporti che si creeranno nel tempo, delle opportunità in base a come ti strutturi come famiglia, in base all’ambiente che frequenti, in base anche a lei, a come crescerà. Non so un domani cosa farà Francesca, un domani lei potrebbe anche abitare da sola in un gruppo-appartamento, magari ci vediamo tutte le domeniche per mangiare insieme o durante la settimana e magari abita da un’altra parte oppure abita vicino a me. (Filippo)

Lui ha avuto un’influenza ma io non farei assolutamente a meno di lui. Penso di avere passato dei momenti veramente difficili però io rifarei tutto, completamente, completamente.
Se mi dicessero “Vuoi un fratello ‘normale’?”, perché poi bisogna vedere la parola normalità dove sta di casa, direi di sì per lui ma direi di no per me. (Catia)

Incontrare le storie, incontrare le persone:l’incontro con la persona disabile in classe

Di Giovanna Di Pasquale

L’uomo è un nodo di storie
(P. Bischel)

Le riflessioni che troverete in queste pagine fanno riferimento al lavoro sperimentato nel gruppo di approfondimento tematico su incontrare le storie, incontrare le persone, realizzato all’interno delle due giornate di studio&gioco “Storie di Calamai e altre Creature Straordinarie. Disabili come educatori nell’esperienza di integrazione a scuola”, svoltesi il 24 e 25 novembre 2006 presso l’Ex Convento di Santa Cristina a Bologna.
Le rappresentazioni interne e sociali della disabilità: le “storie” che abbiamo dentro
Quest’occasione di incontro e riflessione, nata intorno all’esperienza del Progetto Calamaio vuole affrontare e, per quanto possibile nel tempo che ci è dato, approfondire un aspetto centrale nell’esperienza di educazione, animazione, formazione “alla diversità” che in questi vent’anni il Centro Documentazione Handicap ha realizzato: il protagonismo della persona disabile e l’assunzione di un ruolo diretto attraverso l’uso della propria persona come vero e proprio strumento educativo.
Il fuoco dei contributi che sono stati portati durante il percorso di preparazione del laboratorio e dei pensieri che andiamo oggi a condividere sta nella convinzione che nel nostro lavoro e nella nostra vita siamo tutti impegnati a costruire una nuova e diversa immagine interna e sociale della persona con disabilità.
È questa una grande rivoluzione. Come già ricordava Carlo Lepri nel suo intervento sul tema della costruzione dell’identità adulta nella persona disabile: “Stiamo costruendo un’immagine nuova della persona disabile, un’immagine che in qualche modo la rappresenta come una persona, che ha innanzi tutto dei bisogni di normalità, prima che dei bisogni speciali, di riabilitazione”.
Il processo di cambiamento delle immagini mentali e sociali contiene in sé le potenzialità per un cambiamento significativo e stabile anche del ruolo delle persone disabili e pone le premesse per l’acquisizione del ruolo sociale riconosciuto.
Sono infatti queste immagini che presiedono e anticipano, almeno dentro di noi, l’incontro diretto con la persona reale. Abbiamo già incontrato le persone ancora prima di averle davanti.
Le rappresentazioni interne e sociali della disabilità, le “storie” che già possediamo delle persone disabili influiscono e per molti aspetti condizionano l’esperienza di conoscenza diretta.
Sempre, comunque, l’incontro passa attraverso il filtro dello sguardo interno, frutto di un percorso che non è solo rielaborato dai singoli ma agganciato fortemente alle strutture sociali e storiche dentro cui i singoli vivono.
L’immagine interiore e culturale della persona disabile è ciò che “pesa” dentro di noi nel giudizio-aspettativa dell’altro e sull’altro. Diventare maggiormente consapevoli di ciò permette di padroneggiare meglio questa dimensione interiore che per le sue implicazioni emotive agisce spesso sotto pelle in modo coinvolgente e, spesso, improvviso.
L’incontro diretto con la persona disabile
Abbiamo visto anche nella plenaria del convegno che l’incontro con la persona disabile viene utilizzato come un vero e proprio strumento educativo nel progetto Calamaio.
Vogliamo riprendere questa idea e rileggerla insieme per considerarne il valore e il rischio che come per tutti gli strumenti in educazione coesistono. È allora importante chiedersi: che tipo di “protagonismo”vogliamo realizzare?
Un protagonismo che è segno di testimonianza. Non modello pedagogico di come si fa a convivere con il deficit, ma presenza che è disponibile a uno svelamento alcune volte anche di ciò che non è facile da dire. Racconta Stefania Baiesi, animatrice disabile del progetto Calamaio: “Come ti sei sentita la prima volta che sei entrata in classe? Non sapevo come comportarmi mi sentivo a disagio, molto a disagio, doppio disagio. Da una parte mi sentivo a disagio proprio come fanno i bambini, né più né meno, non avevo idea di come sarebbe andata; ero nervosa e preoccupata perché sono dovuta andare a scatola chiusa, non avevo la benché minima idea di cosa sarei andata a dire. Di quello che sarei andate a fare. Durante tutto l’incontro vi era un’altra domanda che mi continuava a girare per la testa: che tipo di domande mi avrebbero fatto i bambini?
Come ho fatto poi a far fronte a questo tipo di domanda? Prima osservando, poi cercando di ascoltare, tentando di immaginare e di capire quello che avevo da dire ai ragazzi, quindi in base a questo ho capito e ho trovato le risposte che cercavo”.
Nell’incontro con una persona c’è l’incontro con la sua storia, con le sue storie.
Un protagonismo che diventa racconto di unicità e coralità a un tempo.
Lo strumento biografico è potente proprio quando riesce a coniugare l’esposizione del proprio mondo interiore con la volontà di mettersi in comunicazione con il mondo esterno, rendendo visibile l’identità della persona. È questa un tipo di visibilità ben diversa da quella mediatica: tanto quest’ultima recide i legami con il contesto per vivere di vita propria e si impone come protagonismo assoluto, quanto l’altra si alimenta di connessioni silenziose, di percorsi più sotterranei che arrivano in superficie dopo aver subito un profondo lavorio.
Si entra in classe
Il laboratorio è stata anche l’occasione per far conoscere e condividere il percorso di lavoro realizzato da Malvena Bengasini con i bambini della sua classe, 5 A della scuola “Lambruschini” di Perugia. Il progetto ha coinvolto, oltre agli alunni, anche i docenti della classe, i docenti del Circolo e la cittadinanza attraverso la realizzazione di un convegno finale dal titolo “Viaggio nel mondo della diversità tra favole e realtà”.

Struttura e articolazione dell’esperienza
Lettura in classe dei libri per bambini dell’autore disabile Claudio Imprudente: Re 33 e i suoi 33 bottoni d’oro e Il principe del lago.
Confronto e riflessioni in gruppo.
Corrispondenza con l’autore.
Rielaborazione di ciascun bambino nel proprio “Quaderno del Cuore” (strumento aperto di registrazione, lettura, relativamente a emozioni e stati d’animo).
Anche noi autori: invenzione, in piccoli gruppi, di storie sui pregiudizi (collaborazione volontari Croce Rossa).
L’autore in classe: un incontro… “Imprudente”.
Convegno pomeridiano “Viaggio nel mondo della diversità tra favole e realtà” con la partecipazione dei bambini e dell’associazione “Chefs in smoking” per festeggiare i 20 anni del “Progetto Calamaio”.

Gli obiettivi
Favorire una maggiore conoscenza di se stessi e degli altri.
Assumere la consapevolezza che ogni individuo è diverso dall’altro in quanto unico, speciale e irripetibile.
Favorire una riflessione critica su uguaglianza, diversità e giustizia.
Cogliere ricchezza e potenzialità nella differenza.
Riflettere criticamente sul concetto di pregiudizio.
Assumere consapevolezza dell’importanza dell’aiuto reciproco e della solidarietà.
Sensibilizzare il contesto verso il mondo del volontariato e verso la tematica della diversità.

La metodologia in classe
Modello nell’ottica sistemico-istituzionale:
• attenzione alla risposta e alla proposta dei bambini
• flessibilità e riorganizzazione
• apertura agli “imprevisti attesi”
• modulazioni e aggiustamenti in itinere
• lavoro di gruppo, cooperazione
• bambino soggetto attivo
• coinvolgimento delle famiglie

Collaborazione con il“Progetto Calamaio”. Perché?
La scelta è nata dalla convinzione che la specificità del “Progetto Calamaio”, il suo essere ideato, progettato e in parte gestito da persone disabili, sia elemento particolarmente efficace per veicolare la Cultura dell’Integrazione.
È la diversità stessa che testimonia in maniera concreta, immediata, forte il valore e le potenzialità che custodisce in sé, che può intaccare stereotipi e pregiudizi, spesso consolidati dallo sguardo troppo distratto, superficiale, veloce della “normalità”.
I bambini e genitori non erano al corrente della situazione fisica di Claudio Imprudente, l’autore del libro letto in classe. Attraverso conversazioni, confronto, riflessioni sul concetto di “pre-giudizio”, l’incontro diretto con Imprudente ha smascherato la differenza sostanziale tra parole e fatti, tra teoria e pratica. Ha messo bambini e adulti di fronte ai propri pregiudizi.
Ogni bambino ha intrapreso lo stesso viaggio di Giangi, il protagonista de Il Principe del lago, un viaggio di conoscenza verso se stessi e verso l’altro, che ha aiutato ciascuno a superare le proprie difficoltà, timori, paure che la diversità di Claudio ha inizialmente suscitato.

Cosa ha contribuito alla riuscita del progetto?
A livello organizzativo:
la disponibilità e i contatti frequenti con la referente del “Progetto Calamaio” di Bologna; l’assoluta sinergia e collaborazione tra docenti, associazione di volontariato e referente Cesvol del progetto “Volontariato e scuola”.
A livello educativo-formativo:
il clima relazionale che si è creato nel gruppo; il forte entusiasmo che ha animato docenti, bambini e volontari; la scelta delle insegnanti di non mettere al corrente bambini e genitori della condizione fisica dell’autore.
(Il laboratorio “Incontrare le storie, incontrare le persone: l’incontro con la persona disabile in classe” è stato coordinato da Giovanna Di Pasquale, Stefania Baiesi, Malvena Bengalini).

Il corpo dell’altro

Occuparsi dell’altro occupandosi anche , e in alcuni casi, soprattutto del corpo dell’altro.
Il lavoro sociale si declina in un incontro diretto tra corpi che , pur in una cornice professionale, devono ricercare un faticoso equilibrio fra autonomia e dipendenza, fra l’impossibilità di fare da soli e la capacità di dare e chiedere aiuto.
Occuparsi dell’altro è anche occuparsi di sé; "curare" il corpo altrui porta con sé il riprendere contatto con il proprio corpo e con la storia del nostro personale rapporto con esso. Quando si incontra la malattia, la vecchiaia , il deficit è prima di tutto un corpo malato, vecchio, handicappato ciò che ci viene incontro insieme alle immagini ed ai vissuti che per noi e in noi sono ad esso collegati.
La dimensione emotiva irrompe nelle relazioni quotidiane fra operatori ed "utenti"; spesso negata o ridotta ai minimi termini è, invece, parte essenziale di ciò che passa tra le persone.
Molto del linguaggio emotivo trova una sua concretezza nel linguaggio globale attraverso cui il corpo parla ed esprime comunicazione.
Nella pagine di HP abbiamo cercato di dare spazio ad una riflessione su questi punti, ascoltando la voce di chi vive un deficit in prima persona e di chi per professione si occupa di assistere persone anziane, ospiti di una struttura protetta o disabili.
Attraverso le loro parole emerge con forza il gioco di specchi che caratterizza gli incontri tra persone anche, come già accennato, all’interno di un contenitore professionale. Gioco di specchi che determina la disponibilità ad un rispecchiamento consapevole o l’attuarsi di una fuga, la voglia di negare elementi comuni o, invece, la possibilità di spazi di riconoscimento reciproco.

Corpo e relazione

Cosi’ fragile che l’anima traspare. (1)
Il corpo, dimensione scontata della quotidianità e porta di comunicazione con le emozioni. Ancorato al presente, ai suoi stimoli e portatore di ciclicità, insieme natura e mistero, che affonda nel tempo.
L’ambivalenza che lo caratterizza permette, se lo si utilizza come strumento di comprensione, di andare oltre l’evidenza e la letteralità del dato, aprendosi ad una più ampia ricerca di senso rispetto a ciò che accade, a ciò che mi accade.
E cosi’ il corpo riporta noi dentro noi stessi. A prendere contatto con le emozioni e i processi vitali che alimentano l’incontro con l’altro. Poichè dell’incontro, della relazione con l’altro il corpo è sostanza primaria.

E’ eco di una dimensione antica della persona, nascosta e a volte negata eppure presente e vincolante, richiamo all’essenzialità delle comunicazioni primarie. E’ con il corpo che si comunica e originariamente si sente, perché il legame simbolico con l’altro è in primo luogo radicato nella struttura stessa del sentire.(2)
Il corpo è terreno di un linguaggio globale, alimentato da una spinta, da un desiderio invisibile che trova un’espressione condivisa nella parola, non unica ma importante mediazione verso l’altro.
Nel suo rapporto con l’espressione verbale, collocata in un tempo e in uno spazio, la corporeità rivela ancora una volta il suo carattere di contraddittoria vitalità, di apparente e pur duratura fragilità.
Il corpo, membro totale di questo spazio, gli si oppone. Perché? Perché non si lascia smembrare, dividere in frammenti, privare dei suoi ritmi, ridurre a bisogni catalogati, a immagini e a funzioni specialistiche, senza almeno protestare. Irriducibile e sovversivo in mezzo allo spazio e ai discorsi dei Poteri, il corpo rifiuta la riproduzione di rapporti che lo tormentano e lo privano.(3)
Centrale diventa, allora, il ragionamento intorno al corpo, al suo linguaggio, a ciò che di dirompente produce all’interno del un quadro culturale e sociale contemporaneo che riduce la sua portata a presenza efficientista ed immagine mitizzata.
Di questi intendiamo occuparci sulle pagine di HP durante l’anno che si è appena aperto, avendo un’attenzione specifica a quanto del lavoro professionale passa attraverso la dimensione emotiva ed affettiva e a come sia indispensabile trovare modalità, adeguate e tipiche per ciascuna persona e contesto, per averne consapevolezza e rielaborarne le implicazioni.
E’ forse questa una possibilità di coniugare la dimensione dell’esperienza personale con le istanze istituzionali, legate al mandato che investe i ruoli professionali. Che diventa ricerca di possibili risposte intorno al senso del prendersi cura dell’altro, di un equilibrio tra coinvolgimento fusionale e irrigidita formalizzazione.

Note
(1) Cristina Campo, Lettera inedita indirizzata all’amica Margherita, Pieracci Harwell, di prossima pubblicazione.
(2) Franzini E., Vita estetica e formazione del sé, in "Adultità", n. 2/1995.
(3) H. Lefebvre, La vita quotidiana nel mondo moderno, Il Saggiatore, Milano, 1978.

Azioni comunicative

La comunicazione: alcuni spunti per cominciare.

. Lo sfondo comunicativo è il terreno su cui giochiamo le nostrepossibilità di riconoscersi e di essere riconosciuti nella nostra identità,frutto di storia, competenze, attitudini, e di condividere il senso diappartenenza ad una comune umanità
. Costruendo una trama di comunicazioni significative (ascolto e parola, pause eriprese) i genitori aiutano il bambino piccolo a conoscere, distinguere,collegare: a muoversi nel mondo fisico e sociale che lo circonda.
Comunicare è orientare l’altro rispetto al mio modo di interpretare la realtà,è un processo di messa in comune che, a partire da esperienze diverse, crea unarealtà nuova: la relazione comunicativa, ponte che stabilisce legami e apre viedi conoscenza reciproca.
La comunicazione è lo strumento principale delle professioni educative esociali, cioè di tutte quelle professioni che lavorano con e per la relazioneinterpersonale. Gli interventi di sostegno, educazione, cura passano attraversoi nodi comunicativi, esplorandone le possibilità e subendone le sconfitte.
Ogni processo di acquisizione di conoscenze per realizzarsi in modo maturo edurevole si deve poggiare su di un clima comunicativo che le persone sentonocome positivo; ogni progettazione educativa, con adulti e bambini, deve averealla base un atto comunicativo reale, che dimostri attenzione e ascoltoreciproco, pena il rischio di scollarsi radicalmente con il percorso di vita delsoggetto per cui era stato pensato.
Nel bagaglio professionale, di educatori, operatori sociali e sanitari,insegnanti l’attenzione alle pratiche comunicative diventa garanzia di qualitàper le azioni che si producono e disponibilità a costruire contesti diconversazione dove ogni soggetto può esprimere, con modalità proprie, lerelazioni che intesse col mondo.
Per tutti noi, donna o uomo, sano o malato, è vitale essere dentro ad una retedi comunicazioni che riescano a farci esprimere, assumere il ruolo diascoltatori attenti, di mediatori di significati, di soggetti realmentecoinvolti e considerati. Questo all’interno di un quadro dove risaltal’impossibilità di non comunicare e la complessità-molteplicità delle forme edei modi del comunicare.
Per ragionare su questi elementi abbiamo scelto alcuni punti di accesso, checostituiscono i temi di questo spazio per il 1996.
In sintesi sono queste le questioni che, almeno in parte, vogliamo mettere afuoco intorno al nucleo della comunicazione:
una partenza introduttiva che vuole mettere in rilievo, attraverso i contributidel pensiero di studiosi importanti, alcune linee di fondo rispetto allaqualità dell’azione comunicativa;
la mediazione culturale, strumento per favorire lo scambio nelle situazionidifficili, tra culture diverse;
le "parole" dell’adulto e le "parole" del bambino, comecomunicano i grandi e i piccoli, quali tracce, segnali, riscontri significativi;
educatori e racconto: comunicare l’esperienza della relazione. Accostarsi allastoria dell’altro nella reciprocità dell’incontro;
il clima di classe: le pratiche di comunicazione a scuola;
comunicazione globale: i media e la qualità del vivere sociale. Prospettive edomande aperte.

In prima persona

Dagli inizi degli anni ottanta sono arrivati in modo sistematico sulla scenaeditoriale libri scritti da persone handicappate e da loro famigliari. Segnaleimportante, seppur poco conosciuto e decifrato, provocato e valorizzato daiprocessi di inserimento e di integrazione sociale. Questi, aiutati da un fortestimolo legislativo, ed in primo luogo dalle norme che hanno determinatol’ingresso nella scuola dei bambini handicappati, hanno favorito una piùradicale presa di coscienza dei diritti di cittadinanza delle personehandicappate stesse, che ha attraversato sia gli anni settanta, segnati da unacultura a forte connotazione sociale che i successivi, quegli"indimenticabili anni ottanta", che hanno visto prevalere unadimensione fortemente personalistica e privatistica.
Le persone handicappate hanno continuato a scrivere; quei libri si sonoallontanati dal ruolo di primizia storica e costituiscono oggi un preziosocontributo per ragionare sugli snodi fondamentali di una vita collocata tra ildeficit e l’handicap.
In questo senso i libri prodotti sono frutto di un’ottica precisa e diretta,dichiarata e non anonima ed in questo senso va l’invito a intraprendere unpossibile percorso di studio e conoscenza della realtà che queste personehandicappate vivono, rifacendosi non solo a trattazioni concettuali ma attigendoalla rivisitazione consapevole della quotidiana convivenza con l’handicap, chein quanto consapevole assume lo status di un sapere parimenti degno, cheaffianca e integra quelli già maggiormente riconosciuti.
Invito raccolto da Gilberto Mussoni nel suo testo "In prima persona.L’handicap: storie di vita, esperienze, testimonianze" dic. 1995, RiminiEdizioni THEUT. Testo che è insieme tragitto personale per "trovaremodalità per mettermi nei panni di coloro che hanno vissuto determinateesperienze per avvicinarmi il più possibile al loro punto di vista, cercando didestrutturare un poco anche certi miei schemi interpretativi precedentementeacquisiti" e strumento di studio e ricerca, che assume la forma di unasorta di bibliografia ragionata su scritti – storie di vita, esperienze,testimonianze – di persone handicappate o di loro famigliari.
Mussoni, avvalendosi di un’organizzazione agile e di una presentazione dei libriattraverso schede, propone un percorso di ascolto delle esperienze che vuoleevitare il rischio dell’interpretazione e della valutazione, per fornire spuntidi concreto lavoro che partono da un libro per aprirsi a molte possibilità diapprofondimento.
Approfondimento che si rintraccia proprio nell’uso dello strumento scrittura.Questa assume, con accenti più o meno espliciti, una valenza originale: lascrittura è uno strumento riparatore che non allinea né ordina ma, simile adun sottilissimo ago da ricamo, intreccia i fili della memoria e rompe il calcodell’handicap per restituire significato all’originalità individuale.
Questi testi focalizzano persone handicappate che parlano come identità. Sononarrazioni di vita e per questo percorse da tensioni globali: toccano latotalità dei fatti accaduti, delle emozioni provate, delle idee nate e deicorpi sconosciuti, delle scelte, delle imposizioni, dei desideri.
La totalità non rinnega la specificità, i tratti distintivi di ogni storia: èvero, sono libri che parlano anche a nome di altri, di chi non ha voluto opotuto dire in modo pubblico, ma conservano intatto un forte segno personale,una volontà esplicita di esprimere se stessi, di affermare in prima persona"io sono". Come afferma Andrea Canevaro nella prefazione al libro"vivere la propria esperienza e raccontarla, significa in qualche modocondividerla, oltre che valorizzarla. Vuol dire che vi sarà chi ascolta olegge. In particolare la scrittura di un libro può voler dire che si ha fiduciain chi legge… Scrivere è poter dare un senso. E non farlo in maniera chiusain sé, né con la presunzione che sia l’unico senso possibile. Perché chiscrive sa, in qualche modo, che ogni lettore, ogni lettrice, troverà un propriosenso nella lettura. Forse ci saranno forti punti condivisi, e forse no. Nonsappiamo proprio dire cosa sia meglio".
Il percorso bibliografico messo a punto da Gilberto Mussoni ci aiuta adaccettare l’intreccio fra esperienze diverse, ad esserne incuriositi, a volerproseguire nella strada della lettura, dell’ascolto delle voci delle personehandicappate e dei loro genitori; voci che rendono più "relative" laconoscenza che ci proviene dalle fonti scientifiche. Relative e per questo piùutili per comprendere come il deficit si incrocia con la storia al singolare diuna particolare persona e come, in questo senso, la rende peculiare.

Prima Informazione

Editoriale

L’annuncio della nascita di un bambino di cui si constata o si sospetta la presenza di un deficit, può rimanere come una sorta di imprinting nelle storie di quel bambino e della sua famiglia, influenzando a volte inconsapevolmente molta parte delle relazioni che via via lo coinvolgeranno.
Un ricordo molto spesso incancellabile, che dura nel tempo, che si rinnova conla sua carica di dolore ogni volta che nuove situazioni scandiscono la vita riproponendo il confronto con gli altri e con la propria immagine.
Questo primo momento di incontro con una realtà non voluta, inaspettata, a volte segretamente temuta, sempre indesiderata, non è affatto qualcosa di neutrale ed ininfluente. I racconti delle madri e dei padri, a volte più di ogni altra considerazione e ricerca, sottolineano l’aspetto cruciale di queste affermazioni; soprattutto colpisce il grande scarto di opinioni tra chi ha vissuto, in qualità di genitore, la condizione di ricevere la notizia della nascita di un bambino ammalato o colpito da un deficit e chi, in veste dimedico, esprime il proprio parere sulle modalità e la qualità degliavvenimenti che tale evento ha comportato.
In questo numero monografico, dedicato appunto al tema della prima informazione, abbiamo voluto tentare una sorta di dialogo a più voci fra le parti coinvolte.
In questo senso il percorso di lettura parte dalla prima sezione relativa alle inchieste che presenta i risultati di due lavori, prodotti in tempi diversi, a Milano e Bologna che aiutano a fare un quadro dei problemi sul tappeto.
Abbiamo poi una seconda sezione dedicata alle testimonianze dei genitori, da cuiemerge tutta la gamma delle reazioni emotive messe in atto per lenire il dolore:la negazione, il rifiuto, la vergogna, l’angoscia, il senso profondo d’impotenzapossono attraversare la parte più profonda di una madre, di un padre…Forse una delle possibili strade che con fatica può avvicinare ad una nuova piacevolezza di vita passa anche attraverso l’opportunità di dare parola ad una realtà spesso ammutolita dal senso di distruzione e di colpa.
Infine, la terza parte illustra due esperienze condotte nei reparti ospedalieri per bambini nati gravemente prematuri dove si è praticata l’accoglienza del piccolo nato e della sua famiglia e dove si è provato un cambiamento. Farsi carico di portare la notizia ai genitori implica, da parte del personale sanitario, comprendere dentro la propria funzione quel coinvolgimento emotivoforte, esplosivo e dolorosamente reale, a cui non può sottrarsi ciascuno degli elementi che partecipa a tale comunicazione.
E’ possibile fare della prima informazione un contesto che, pur rimanendo difficile da calibrare, rivela anche delle prospettive per la famiglia, in cui cominciare ad intravedere dei possibili cambiamenti, a comprendere che anche la diagnosi di un deficit è un dato che non va assolutizzato ma che può avere una sua storia evolutiva.
Questo processo può essere maggiormente facilitato e può trovare modo diesprimersi se passa attraverso la consapevolezza interna che si è sempre dentro a una dimensione non unidirezionale bensì dentro un flusso comunicativo intrecciato e rialimentato.
La disponibilità a lavorare in questa direzione, ad innestare dei percorsi di comprensione delle dinamiche presenti, costituisce la trama essenziale su cui poggiare l’introduzione di innovazioni organizzative e di indicazioni comportamentali per migliorare una comunicazione reciproca basata in modo inestricabile sul tempo dell’ascolto e della parola reciproco.

Perché la letteratura?

Editoriale

La strada letteraria è una buona scelta per affrontare un percorso intorno al tema della diversità. Aiuta a visitare molti luoghi, attraversandoli come sappiamo e vogliamo fare.
La letteratura offre l’occasione di straordinari incontri con le narrazioni, è il luogo della rivisitazione delle storie della vita quotidiana e di una possibile riappropriazione.
Come ricorda lo scrittore Ferdinando Camon "che differenza c’è tra la vita e la storia? La prima si esprime come un racconto, la seconda si esprime come una scienza. La storia classifica, sistema e allontana; il racconto resuscita, rianima, attualizza".
È la vita a scrivere le storie e la letteratura rappresenta la lente che mette a fuoco queste storie.
È una lente particolare capace di produrre una forma di comprensione nell’esperienza degli altri, in particolare quando quest’ultima ha segni e tratti tali da costruirle intorno un recinto di diversità. La letteratura permette di trovare richiami e collegamenti, di ascoltare le voci del mondo.
È una strada forte perché indica una ricerca di senso dentro al fluire degli accadimenti e delle emozioni. Una sorta di riparo, rifugio seppur provvisorio che allevia la tensione del vivere e allontana la tentazione dell’oblio.
Il senso di una narrazione è anche quello di immetterci in una prospettiva di compiutezza possibile, di inizio e fine e poi di nuovo e ancora, in una dimensione ciclica che può essere pensata e detta e che ritroviamo così forte in quel legame saldo ed inconsueto che si forma tra un autore amato ed il suo lettore.
La letteratura è anche il campo di una prevedibilità rassicurante che si dipana con il ritmo del racconto, così avvincente nel suo contrasto ambivalente con le innumerevole e poco inquadrabili vicende umane. Le storie sono finite, la vita è in permanente costruzione. Ed è in questa ambiguità non risolvibile, "ambiguità preziosa al vivere", in questo incrocio di destini che risiede il richiamo perenne delle storie, perché , in fondo, interrogarsi sul senso delle storie significa interrogarsi sul nostro essere qui, sulla nostra solitudine e sull’incontro con gli altri. Su come si mettono insieme dei pezzi di noi e su come gli altri entrano in noi.

Quale idea di diversità

Lo spicchio di realtà riproposto attraverso i brani scelti ed i commenti che li accompagnano ci parla di molte questioni. Senza avere pretese di sistematicità, anzi in forza di una rilettura soggettiva, essi ci mettono in contatto con la pluralità connessa al termine diversità, che viene qui declinato in molte delle sue possibili varianti. C’è la diversità evidente, fisicamente tangibile così emblematicamente rappresentata dal Minotauro; c’è la diversità immaginata, fondata sulla paura di ciò che non si conosce e per questo respinta ed osteggiata fino a negare qualsiasi vicinanza e similitudine ( la sentinella ); c’è la diversità dichiarata, orgogliosamente esibita anche pagandone il prezzo più alto ( il giovane Holden).
C’è la diversità propria, il nostro sentirsi e viversi diversi non solo rispetto all’unicità che ogni essere umano porta con se ma anche alla difficoltà di convivere con le parti meno rassicuranti e gratificanti di noi.
Soprattutto ci sono i bambini, protagonisti quasi costanti di queste pagine. Che sono diversi perché prima di tutto sono soli, spesso nella maniera più brutale e dura ma anche nelle dimensioni più vicine e quotidiane. Gli adulti, tranne rarissime eccezioni, non sono capaci di averne cura e di sostenerli nell’impegno di diventare grandi. Gli adulti sono in crisi, a volte distanti e disattenti, in altre feroci e violenti. Ci sono anche i bambini che hanno subito violenza, vissuto l’esilio o la deportazione. Simboli di una diversità difficile anche solo da pensare, la diversità che rende diverso chi è più simile a noi, che ci ricorda ciò che noi siamo stati, che ci proietta nei sogni di vita futuri. Molti brani gettano un ponte verso queste situazioni estreme.

Il percorso attraverso il ponte

Il ponte. È un altra parole che torna. Ed è una parola importante nella sua semplicità e concretezza. Prospetta una via di collegamento ( tra chi educa e chi è educato, tra me e l’altro, tra i quartieri di una città o le fazioni di un popolo….) che deve essere però attraversata. L’immagine del ponte implica una scelta da fare ed un percorso da compiere. Sì, si può raggiungere l’altra sponda possibilmente a passi saldi e tranquilli perché il ponte ci possa riconoscere come viaggiatori desiderosi di capire e noi guardarci intorno godendo di quell’essere ancora per un poco lungo il cammino, "tra" il punto di partenza e la meta a cui tendiamo.
C’è molta fatica nelle pagine di letteratura che vi proponiamo ed anche acuto dolore. Intrecciate però a segnali di speranza. Ritrovata per caso, ricercata intenzionalmente ed accanitamente, conservata gelosamente. Ed emerge un legame tra questi spiragli e il senso della scrittura, occasione quest’ultima per "rintracciare trame sommerse oltre il tessuto troppo evidente" e per avvicinarsi e far avvicinare all’incandescente materia di cui sono fatti i desideri, le paure, i sogni delle donne e degli uomini.

Le facce della diversità nella letteratura infantile

Editoriale

Esplicitiamo il punto di vista da cui vorremmo cominciare per proporre questo numero monografico dedicato al rapporto tra le forme della diversità e la letteratura per bambini e ragazzi; tra le molti possibili chiavi di lettura con cui accostarsi a questo tema vorremmo privilegiare l’idea di una letteratura intesa come luogo di rivisitazione della vita quotidiana. Con quest’ultima la letteratura conserva legami diretti in quanto serbatoio di storie reali e potenziali che la creatività e l’immaginazione a volte riprendono, rivedono o stravolgono sempre comunque individuando nella dimensione quotidiana un punto di riferimento.

Ma che cosa è la quotidianità?

E’ qualcosa che ha a che fare con l’ordinarietà, la ripetizione, la routine. Tutta la nostra vita è intessuta di routines senza le quali diventerebbe impossibile vivere, pena reinventare, come novelli Robinson Crosue, le pratiche che contraddistinguono il passare dei giorni.
Quotidianità è la dimensione in cui siamo immersi, che attraversiamo, dentro cui agiamo e reagiamo. Per questa sua "naturalità ed ovvietà" è la dimensione con cui facciamo più fatica a confrontarci; la comprensione dei meccanismi che la sostengono è sotterranea, spesso non ricercata così come non è scontato il farli venire a galla.
Da molti punti di vista la quotidianità fatica ad affermarsi con valore, con senso e anche con piacere.
Spesso è la rottura che in un qualche modo ci fa riprendere contatto con il quotidiano, promuovendo una forma di consapevolezza maggiore.
Nella quotidianità noi conosciamo infatti anche la rottura dell’ordinario e del consueto: l’ignoto e la paura, la malattia e la morte, la nascita difficile e la convivenza con essa. Le forme di questa rottura si presentano a volte come evento inatteso e scioccante, a volte sotto il segno della cronicità e del non cambiamento e sono spiazzanti e difficili da interpretare.

Quale rapporto tra la quotidianità e la letteratura?

Partendo da queste riflessioni tra le molte valenze possibili, segnaliamo alcuni rimandi per noi particolarmente pertinenti rispetto al collegamento fra quotidianità e letteratura:

La letteratura come catalogo

Inventario del mondo che passa attraverso il rinominare le cose, il procedere alla conoscenza attraverso il linguaggio, il dare nome alle cose. E’ un rifarsi continuo a quel primo atto creativo che ricorre così forte in molti miti e testimonianze arcaiche e che rivediamo ogni volta che un bambino impara ad impadronirsi del linguaggio come processo sociale e socializzante, che ha bisogno dell’altro per compiersi.

La letteratura come mediazione verso la vicinanza con la propria e l’altrui esperienza

Molti di coloro che amano leggere ed ascoltare storie sentono ciò che così efficacemente uno scrittore importante come Proust affermava: "solo attraverso l’arte possiamo uscire da noi, sapere che cosa vede un altro di un universo che non è lo stesso nostro e i cui paesaggi rimarrebbero per noi non meno sconosciuti di quelli che possono esserci sulla luna. Grazie all’arte, anziché vedere un solo mondo, il nostro, lo vediamo moltiplicarsi…"
Quando il punto di vista, il mondo a cui l’altro ci introduce è di segno difficile, portatore di quella faccia della realtà con cui è più faticoso e pauroso tenere aperti i legami (la malattia, la morte, l’incapacità, la dipendenza) la letteratura amplifica la sua capacità di mediazione, di introdurre elementi di collegamento, di apertura, di forme di apprendimento attraverso le vie:
della vicinanza (sì, si può parlare anche di cose difficili, passaggi aspri);
della distanziazione ( attraverso il prendere le distanze per poter elaborare);
della triangolazione (oltre me stesso e la paura c’è il terzo elemento dato dalla storia)

La letteratura come dialogo

La quotidianità è il nostro vivere ma può rischiare di essere la nostra gabbia rimandandoci un’idea di forte separatezza ed incomunicabilità:. "Io dentro al mio quotidiano, tu dentro al tuo".
Su questo punto la letteratura spiazza, ci fa confrontare direttamente con l’incrocio di destini, il continuo rifarsi di una storia con l’altra.
La letteratura si propone come terreno di meticciato, intreccio di confluenze e stimoli. Nasce da un’ "impollinazione incrociata" , come si esprime Salan Rusdhie, e si pone come un forte messaggio di non autosufficienza e non autoreferenzialità, uno sprone al dialogo possibile.

La letteratura per bambini e ragazzi

"La letteratura è una prigione di cristallo" (1) scrive Carmen Martin Gaite nel libro La regina delle nevi. E’ qualcosa di separato dalla vita vera, è anche, può anche essere, un territorio riparato e protetto dove provarsi con gli snodi della vita.
E’ questa una delle funzioni più significative che la letteratura assolve nei confronti dei lettori più giovani: aiutare il confronto con le molteplici facce della realtà seguendo la strada della fantasia e dell’immaginazione.
"Un racconto, un romanzo, una narrazione qualsiasi- dal momento in cui conosciamo gli elementi di base, ossia da quando l’adulto ci introduce nel mondo della fiaba- ci permette di identificarci con la (o il) protagonista e con i fatti dei quali è partecipe. Rispetto al cinema o alla televisione la pagina scritta permette una più vasta possibilità di esercitare il fattore identificazione perché la mente non è sopraffatta dal forte plagio rappresentato dalle immagini"(2)
Questa identificazione funziona proprio perché supportata dalla separazione dettata dalla pagina scritta e dal ruolo attivo che l’oggetto libro impone al suo lettore. Interrompendo la lettura decidiamo di costruire spazi di riflessione che, partendo da uno stimolo definito, prendono poi strade proprie.
Perché un libro è senz’altro molto di più che un libro:
"Un libro è scritto da qualcuno, ha un titolo, è un oggetto che circola in più copie; non tutti i libri sono uguali e quindi non vanno usati tutti allo stesso modo; la lettura è una scelta, un modo per stare insieme, un pretesto per stabilire interazioni con gli adulti o con i pari, un’attività individuale ma regolata anche da vincoli sociali; leggere è essere membri di una comunità, è ascoltare parole che provengono da un testo scritto, è usare ciò che un libro dice per fare dell’altro; leggere è una componente saliente della vita quotidiana" (3)
Leggere è incontrare altre storie e altri destini in cui riconoscere somiglianze e differenze
Incontrare una storia che ha tra i protagonisti un bambino o una bambina con un deficit o in una situazione di difficoltà costituisce un opportunità di confronto con chi si presenta con tratti differenti; un confronto mediato che può indurre ad approfondire quanto il racconto propone attraverso il paragone con la propria esperienza di conoscenza diretta di chi quella condizione di deficit o difficoltà vive in prima persona
"I libri possono aiutare a crescere, incoraggiando e parlando di sé. Per questo sono utili libri che parlano di handicappati. I bambini handicappati nei libri possono essere chiamati "ammalati", e questo è un falso grave perché un bambino handicappato non ha una malattia da cui può guarire: ha un deficit permanente. Ma bisogna dirlo? E come? Quali libri dicono che un bambino è handicappato?(4)
Ci sono libri che aiutano un riconoscimento, che sostengono la fatica del percorso di identità, che trovano le parole ed i modi adeguati. Sono questi libri che pur rivolgendosi a lettori giovani, anche molto giovani, affrontano cose che possono far paura, temi importanti affinando le armi della curiosità, della metafora, della libera fantasia. Sono libri che propongono l’intera tavolozza dei colori vitali pur di fronte alla difficoltà e tristezza che tante situazioni raccontate propongono.

Di questo vorremmo parlare, proponendo due percorsi bibliografici che fanno riferimento al panorama editoriale italiano degli anni ’90.
Il primo affronta il tema della diversità con particolare attenzione a due fasce di lettori i piccoli e i ragazzi verso l’adolescenza. Il secondo presenta una serie di testi in cui lo stesso argomento -diversità- viene affrontato da un angolatura particolare: il rapporto tra generazioni e più precisamente fra nonni e nipoti. Da questo punto di vista i libri diventano occasione per inoltrarsi nel terreno della malattia, della mancanza di autonomia, del prendersi cura.
Accanto alla segnalazione dei testi trovano posto altri contributi:
– "C’è cavallo e cavallo" a cura di Lara Dattoli: pezzo sull’utilizzo del libro per bambini in classe come supporto fondamentale per affrontare anche con i più piccoli il tema della diversità;
– l’articolo "Educare alla differenza" della pedagogista Franca Mazzoli: attraverso la narrazione di storie si può avvicinarsi agli altri;
– il punto di vista di una case editrice, attraverso le parole della direttrice Arianna Papini, impegnata a curare la diffusione di molti testi che introducono alla riflessione sull’essere e sentirsi diversi;
– l’intervista ad un autore, Guido Quarzo, molto attento a questi temi;
– il contributo di Andrea Canevaro, docente di pedagogia speciale, dal titolo "Riduzione dell’handicap".

Note:

(1) Carmen Martin Gaite La Regina delle nevi Giunti Fi 1999

(2) Travolti da insolita passione di Roberto Denti in: LIBER Libri per bambini e ragazzi n.30 aprile-giugno 1996

(3)I bambini e la lettura. La cultura del libro dall’infanzia all’adolescenza a cura di Vanna Gherardi e Milena Manini 1999 Roma Carrocci Editore

(4)Handicap e lettura di Andrea Canevaro in : LIBER Libri per bambini e ragazzi n. 2, gennaio-marzo 1989 Comune di Campi Bisenzio Regione Toscana pp.26-30

Kalle, Mattia, Ivan… e i loro Nonni

Un percorso bibliografico sul rapporto fra nonni e nipoti

Roberto Piumini
Mattia e il nonno
Edizioni EL – 1993

Torna in questo bellissimo libro il tema della morte, affrontato con altissima poesia e il linguaggio più adatto a far sì che questo passaggio possa essere affrontato dai bambini nel modo migliore. La passeggiata di Mattia insieme al nonno è un percorso attraverso la vita e i sentimenti, è da un lato per Mattia un percorso di crescita, di cambiamento e dall’altro per il nonno un cammino di progressivo abbandono, di lenta rinuncia a tutto ciò che è apparenza. Ecco infatti che il nonno rinuncia al denaro, alla maglia di lana, al tabacco…diventando progressivamente sempre più piccolo fino alla bellissima soluzione finale, quando finisce dentro Mattia …un bambino è un bel posto per viverci.
Merita riportare questo brano che non ha bisogno di commenti.

Mattia sedette contro la sponda del ponte. Guardava il sole rosso nel cielo di fronte: era il tramonto.
– Alzami un po’, per favore – disse il nonno – Da qui non vedo bene.
– Vuoi stare sulla mia testa, nonno? – disse Mattia.
– Bella idea! Starò come in un prato! – disse il nonno.
Mattia lo mise delicatamente fra i capelli. Il nonno era alto una spanna, e forse meno.
Rimasero a guardare il tramonto.
– E’ bello, vero? – disse Mattia.
(…)
Mattia restò zitto, perché si chiedeva come fosse diventato il nonno. Non sentiva più il piccolo peso sulla testa.
– Ora dobbiamo andare – disse il nonno.
Mattia alzò una mano per prenderlo, ma non lo trovò.
– Dove sei? – disse.
– Sono qui: cercami piano.
Mattia, pianissimo, tastò fra i capelli: il nonno era grande come una mentina. Lo prese delicatamente e lo guardò, nella poca luce della sera. Lo vedeva appena, e lo sentiva come un prurito nel palmo della mano: come quel moscerino nella pineta.
– Come facciamo nonno? – disse Mattia – Ho paura di perderti, così piccolino. Ti metto in tasca?
– Meglio di no, Mattia.
– E allora?
– Aspettiamo ancora un po’ – disse il nonno – Per ora tienimi nel pugno chiuso, e andiamo a casa. Vedrai che troveremo la soluzione.
(…)
Mattia camminava, e non sentiva più niente nel pugno.
– Nonno? – disse.
– Sì, Mattia?
– Niente, volevo solo sentirti.
– Eccomi qui – disse il nonno – Tutto profumato di peperone!
Mattia si fermò di botto. Erano proprio sotto un lampione.
– Come hai detto? Profumato di peperone?
– Già – disse il nonno, dal pugno.
Mattia avvicinò la mano alla faccia e la aprì piano piano: non vide niente.
– Nonno – disse con voce leggera.
– Eccomi – disse il nonno, invisibile.
– Non ti vedo, nonno.
– E’ perché sono diventato ancora più piccolo. Sono qui.
– Ma cosa dicevi del peperone?
– Non senti l’odore?
– No.
– Davvero? Annusa bene, Mattia!
Mattia avvicinò il palmo della mano al naso.
– Non sento, nonno.
– Più forte – disse il nonno – Devi annusare più forte, come facevo io con il tabacco, ricordi?
Allora Mattia annusò fortissimo, e l’aria gli fischiò su per le narici.
– Non sento nessun odore di peperone, nonno – disse.
– Infatti non c’è – disse il nonno: ma la sua voce non veniva più dalla mano: era come intorno, o dentro Mattia.
– Che è successo, nonno? – chiese Mattia.
– Ho fatto un piccolo trucco, Mattia. Ti ho fatto annusare forte la mano per poter entrare dentro di te. Se ti avessi detto di mettermi in bocca, credo che non l’avresti fatto, o ti sarebbe molto dispiaciuto.
– Allora sei dentro di me, adesso?
– Sì.
– E questa è la tua voce?
– Sì, ma la senti solo tu, adesso.
– E come stai, nonno?
– Benissimo, Mattia. Un bambino è un bel posto per viverci.

Un libro che i bambini ameranno senz’altro, un libro da far leggere ai grandi che fanno tanta fatica ad affrontare certi temi e ad accettare la realtà della vita e della morte.

Ulf Stark
Sai fischiare Johanna?
Piemme, serie azzurra – 1997

La casa di riposo, la malattia, la morte…sono tutti temi difficili che si è restii ad affrontare con i bambini, soprattutto i più piccoli. E invece è proprio a loro che si rivolge questo bel libro che racconta di come Berra, che vorrebbe avere un nonno, lo trova in un anziano di una casa di riposo e stringe con lui un’affettuosa e intensa amicizia.
Il linguaggio è semplice, il racconto breve si snoda fra piccoli episodi apparentemente semplici: la prima visita e la felicità di essere nonno ma anche di essere nipote, la prima uscita in giardino
– Avevo quasi dimenticato che fosse così – dice (il nonno)
– Cosa? – chiede Berra.
– Li sentite gli uccelli? chiede il nonno.
– Sì – rispondiamo.
– Li sentite i profumi? – chiede ancora.
– Certamente – risponde Berra.
– Non dimenticate mai queste cose – dice il nonno.
la costruzione di un aquilone con lo scialle più bello della moglie e, al posto della coda, la sua migliore cravatta (che però non vola per mancanza di vento!); poi il nonno prova ad insegnare a Berra a fischiare (ma non è facile imparare!!) e infine la festa per il compleanno del nonno..
Il racconto denota grande attenzione e con molta delicatezza e poesia avvicina i bambini al momento in cui avverrà il distacco da una persona cara. Meritano di esser lette le ultime pagine in cui, con grande serenità, viene descritto il funerale del nonno
Quando cessa la musica, arriva un prete, che si mette a parlare. E’ un discorso abbastanza breve.
– Nils era un uomo allegro. Soprattutto alla fine – dice – Gli volevamo bene tutti. E così non ha mai dovuto sentirsi solo, anche se non aveva parenti.
A quel punto Berra alza la mano, e la muove finchè non lo guardano tutti.
– Veramente era il mio nonno – dice.
Poi tutti si avvicinano alla bara e ci mettiamo sopra dei fiori. Io e Berra ci andiamo per ultimi. Facciamo un inchino, e Berra appoggia la rosa di Gustavsson sopra tutti gli altri fiori.
Poi rimane lì, anche se io lo tiro per un braccio.
– Adesso devo fischiare! – dice – Sentirai come fischio bene.
Berra si mette a fischiare, tanto forte che si sente l’eco in tutta la cappella.
Fischietta "Sai fischiare, Johanna?"
– Come ti è sembrato? – chiede quando sono fuori.
– Perfetto – rispondo – Adesso puoi essere soddisfatto.
– Infatti lo sono – risponde Berra.
Restiamo in piedi nel vento a guardare la bara che viene portata nel carro funebre da un paio di uomini con i guanti neri.
– In fondo è stato bello – commenta Berra.
Poi il carro funebre se ne va.
Noi salutiamo con la mano finchè non sparisce dietro la curva.
– Adesso cosa facciamo? – chiedo io a quel punto.
– Proviamo l’aquilone – risponde Berra – perchè oggi si è alzato il vento.

Angela Nanetti
Mio nonno era un ciliegio
Einaudi ragazzi – 1998

Ancora un libro che parla dei nonni, o meglio del rapporto fra nonni e nipoti. Non solo, parla anche della morte dei nonni.
Divertente, trasgressivo e decisamente comprensivo nei confronti del nipote Tonino, il nonno Ottaviano ha una grande capacità di ascoltare le esigenze del nipote, anche se non espresse (…"se ascolti con attenzione e ti concentri puoi vedere un mucchio di cose"…) e gli trasmette un grande amore per la natura, partendo dal ciliegio Felice (…"ascolta il ciliegio che respira…) piantato dal nonno il giorno della nascita della sua unica figlia (la mamma di Tonino), cresciuto e curato con amore. Un amore trasmesso al nipote che proprio nel ciliegio riesce a "ritrovare" il nonno dopo la sua morte.
Le riflessioni sulla malattia e la morte percorrono un po’ tutto il libro e sono poste ai bambini con grande delicatezza ma senza nulla nascondere della realtà. Dopo la morte della nonna Linda, Tonino con l’aiuto del nonno, rimasto solo e un po’ triste, riesce a rielaborare il lutto e a dire:
"..se non si muore finchè uno ti vuole bene, come ha detto il nonno, visto che la persona morta non si vede, vuol dire che si trasforma. Perciò la nonna di sicuro era diventata un’oca.
(…).
– Anch’io ho pensato a qualcosa del genere sai? – disse il nonno – e io che cosa potrei diventare?
Non avevo nessun dubbio
– Un ciliegio – risposi.
– E tu?
– Non ci ho ancora pensato, ma forse mi piacerebbe diventare un uccello. Così verrei a farti compagnia e a mangiarti tutte le ciliegie.
Peccato che l’autrice non sia riuscita a mantenere l’equilibrio fra la parte dedicata al rapporto fra Tonino e il nonno e il resto. Infatti la famiglia di Tonino e i nonni paterni sono eccessivamente litigiosi, poco capaci di ascoltare, troppo concentrati su se stessi, insomma pieni di difetti.
Vengono rappresentati un po’ tutti i clichè, primo fra tutti quello che vuole il marito morbosamente legato ai suoi (noiosissimi) genitori e la moglie che non li può vedere. Ovviamente questo vale al contrario per i genitori di lei, causa di continui litigi che porteranno alla separazione fra i due.
Ma perchè appesantire di altri problemi (seri e ormai conosciuti e sperimentati da troppi bambini sulla propria pelle) un libro altrimenti così poetico e che comunque già affronta un argomento delicato e doloroso? E perchè poi, se quella è stata la linea scelta, l’autrice si "pente" e in un eccesso di buonismo e amore per il lieto fine fa tornare insieme i genitori che decidono di vivere in campagna, nella casa del nonno Ottaviano, lontano dai noiosi nonni paterni e addirittura decidono di avere un’altra bambina.
Questo piuttosto è un messaggio che manca di realismo, come a dire che tutte le storie sono a lieto fine. Ma molti bambini sanno purtroppo che non è affatto così.

Guus Kuijer
Graffi sul tavolo
Gli Istrici Salani – 1996

E’ proprio vero che la grande abilità di questo bravissimo scrittore è quella di "capire quei pensieri che i bambini non sanno esprimere a parole" come ci viene detto all’apertura del libro. Un libro semplice con una scrittura piana e lenta, dove non succede apparentemente niente di importante. Dove però i piccoli (o meno piccoli) lettori vengono delicatamente posti davanti ad alcuni temi difficili: la morte, la vecchiaia, l’incomprensione.
Attraverso la voce di Madelief, piccola protagonista che, come il piccolo principe, non rinuncia mai alle domande, e vuole sapere tutto quello che accade e quello che è accaduto, l’autore suggerisce che bisogna vincere la paura che può nascere dalle diversità, dalla differenza di età e di sentire; si può trovare la strada che porta al cuore delle persone anche di quelle più insopportabili e inavvicinabili. Dietro il muro alzato per difendersi c’è sempre una persona sola e affamata d’amore.

Peter Hartling
La mia nonna
P iemme, serie arancio oro – 1996

Kalle, rimasto senza genitori a cinque anni, va a vivere con la nonna e cresce con lei.
Il racconto si snoda fra piccoli episodi della vita di tutti i giorni visti dagli occhi del bambino ma anche da quelli della nonna che alla fine di ogni capitolo annota le sue riflessioni personali.
E’ un abile stratagemma che ci permette di vedere la stessa situazione anche dal punto di vista della nonna e quindi aiuta a capire che ci possono essere opinioni e reazioni diverse ma non per questo ci si deve allontanare.
Il linguaggio semplice ma realistico non nasconde nulla e con delicatezza mostra anche "cose brutte" della vecchiaia, quelle che, soprattutto ai più giovani, possono fare paura. Dopo una visita ad un’amica che vive in una casa di riposo, la nonna riassume tutte le paure del bambino (e anche le sue) in alcune frasi che, ci pare, non hanno bisogno di alcun commento:
Sono esattamente vecchia come quelli lì. Solo che io non vivo lì in mezzo, ma con te, con un bambino. Allora la vecchiaia ha un altro aspetto. La vecchiaia diventa terribile quando, a furia di vedere vecchi, si perde di vista la vita, sai. Ecco tutto. Ma il mondo ha paura dei vecchi. E tu pure, Kalle.
Il tema dell’istituzionalizzazione dei vecchi, della perdita dell’autonomia, così come il tema della morte, devono essere affrontati e non nascosti. E’ di nuovo la nonna che, al termine del racconto, prepara Kalle alla possibilità della sua stessa scomparsa e, dichiarando Ho in programma di vivere il più a lungo possibile, Kalle. Ma impegnarsi non basta, può solo contribuire, lo pone davanti alla realtà senza drammi, aiutandolo a crescere.

Anne Fine
Complotto di famiglia
Piemme, serie rossa – 1998

Davvero notevole e diverso dal solito questo libro di una delle più importanti scrittrici per ragazzi di lingua inglese. Le vicende della famiglia Harris (papà, mamma, quattro figli e una nonna non più del tutto autosufficiente e con un inizio di demenza senile) sono raccontate con un linguaggio insieme ironico, tenero e molto reale. Gli sforzi dei quattro ragazzini per evitare il ricovero della nonna in una casa di riposo portano ad un risultato surreale ma dai risvolti avvincenti ed estremamente incisivi e toccanti.
Durante la cena, Natasha annunciò ufficialmente che la nonna non sarebbe andata a vivere alla casa di riposo; Tanya e Nicholas fecero smorfie di trionfo e si congratularono con Ivan …
(…)
Ivan ha chiarito la sua posizione: la nonna deve essere accudita qui, in questa casa. Giusto? (…) Allora siamo d’accordo: vostra nonna continuerà a vivere qui e Ivan si occuperà di lei (…) Pulire, fare la spesa, darle da mangiare, prenderle la tazza e cambiare i canali della televisione, cambiare e lavare le lenzuola, pulire il bagno dopo che l’ha usato, darle le medicine, accompagnarla in bagno, rammendarle i vestiti, andarle a ritirare la pensione, comperarle le mentine, riempirle la borsa dell’acqua calda, ascoltare le sue preoccupazioni, organizzare le visite dal dottore, stare qui con lei dopo la scuola, di sera, nei fine settimana e durante le vacanze, tenere bene al caldo la sua stanza, accenderle la luce quando si fa buio, sistemarle la radio, sprimacciarle i cuscini, controllare che abbia sempre l’acqua nel bicchiere – le mani di Natasha danzavano allegre sui piatti – Cercarle gli occhiali, trovarle il libro, raccoglierle da terra lo scialle, aprirle e chiuderle la finestra, tirarle le tende, spedirle ogni Natale le sue ultime cartoline d’auguri, consolarla quando muore qualche sua amica, ricordarle di mangiare…
Stava elencando tutte quelle incombenze come se fossero cose da nulla e per niente impegnative, e come se negli ultimi anni non l’avessero tenuta impegnata per almeno metà del suo tempo.
– Decidete tra voi come fare, o lasciate pure che Ivan si occupi di tutto: a me non importa, io ho già fatto la mia parte, adesso tocca a lui.
Il ragazzino la fissò con gli occhi sbarrati.
Sophie esclamò:
– Cosa? Tutto?
– Tutto quello che vostro padre e io abbiamo fatto fino ad oggi.
– E voi? Che cosa farete voi due?
Svolgeremo i vostri lavori, naturalmente.
Quali lavori? – domandò Nicholas, sbalordito.
– Infilare ogni tanto la testa nella sua stanza, di solito quando l’altro televisore non funziona. Preoccuparsi all’idea che si trasferisca in un ospizio. Henry avrà qualche incubo riguardante sua madre. Io ho bisogno di dormire, e quindi potrei spolverare la sua chincaglieria sul cassettone il sabato mattina. Credo che sia tutto quello che avete fatto finora per lei. Ho forse dimenticato qualcosa?
L’autrice non nasconde dietro immagini edulcorate le "bruttezze" del diventar vecchi ma sa aiutare i ragazzi (parlando il loro linguaggio) a guardare negli occhi la vita che passa, affrontando le responsabilità che comporta il diventare grandi. Le vicissitudini dei quattro fratelli Harris alle prese con la nonna ci portano fino alla sua morte. Anche in questo caso l’autrice ha il coraggio di chiamare le cose con il loro nome e nel dialogo che si svolge al cimitero fra i due fratelli più grandi si può riassumere la sua grande capacità di mettersi nei panni dei più giovani, aprendogli gli occhi sulla realtà, sulle tristezze ma anche sulla speranza nel futuro.
(Sophie) Alzò gli occhi, e scrutò uno dopo l’altro i rami giganteschi, fino in cima.
– Ivan! – strillò, sconvolta – Ma non capisci cosa succederà? L’hanno seppellita qui sotto, a due metri di profondità. E’ la legge, devono aver fatto per forza così. Questo significa che adesso è tra le radici del tasso. Capisci cosa sta per accaderle? Verrà assorbita dalla pianta!
Ivan si sentì quasi male. Abbassò lo sguardo, per guadagnare tempo e controllare quanto gli aveva appena detto sua sorella, e poi lo rialzò. L’albero troneggiava su di loro, immenso, antico e magnifico, facendoli sembrare due creature minuscole. L’idea che il fragile corpo dell’anziana signora potesse in qualche modo opporsi a quella forza della natura era a dir poco ridicola.
Respirò a fondo per sconfiggere la nausea.
– Le farebbe piacere – disse, cercando di mostrarsi più calmo possibile.
– Piacere?
Ivan confortò sua sorella a proposito dell’albero così come lei lo aveva consolato per la storia della polmonite.
– Sono sicuro che ne sarebbe felice. Perché non dovrebbe? Una volta mi aveva detto che le piaceva pensare di far parte delle cose: sarebbe stata contenta di far parte di un albero.
– Lo credi davvero?
– Sì, certo.

Anke De Vries
Segatura in testa
I Criceti Salani – 1991

(I due bambini Trottano insieme attraverso il parco.
A un tratto vedono qualcosa per terra, fra l’erba. E’ una borsa marrone da ufficio.
Si avvicinano di corsa e la raccolgono.
– Di chi può essere? – domanda Frans.
Guardano dentro la borsa.
E’ piena di fotografie.
Vecchie fotografie.
(…)
– Ma questo è il signor Baas! – esclama Fransi, indicando un uomo nella fotografia.
– Il signor Baas? Lo conosci? – chiede Frans.
– Sì, abita a Villa delle Dune. E si dimentica tutto.
– Questo lo so – dice Frans – Stamattina girava nel parco. Si era dimenticato la strada. L’ho accompagnato io a Villa delle Dune.
– Lo faccio sempre anch’io – dice Fransi.
– Il signor Baas ha la segatura in testa. Un bel fastidio.
Molte persone anziane hanno "la segatura in testa", cioè dimenticano facilmente e confondono presente e passato. Appunto come il signor Baas, che vive in una casa di riposo e non riconosce nel signore stempiato che gli fa visita il figlio, una volta biondo e riccioluto.
L’incontro fra l’anziano signore e due bambini intraprendenti cambia tutto: con una trovata geniale i ragazzini riescono ad ottenere che la segatura abbandoni per un po’ la testa del signor Baas.
L’autrice ha scritto questo libro in memoria dei suoi genitori che in vecchiaia ricordavano solo episodi della loro gioventù. Il libro si rivolge ai bambini con un linguaggio semplice e, con grande delicatezza, li accosta al tema della demenza senile e del ricovero in casa di cura/riposo, presentandolo con realismo ma senza paure e senza spaventarli, aiutandoli a conoscere una "diversità" e a saperne cogliere gli aspetti positivi e di relazione.

Mino Milani
L’ultimo lupo
Piemme, serie rossa – 1993

Vale veramente la pena proporre questo libro ai ragazzi ma anche leggerlo ai loro fratelli più piccoli. Ci potranno trovare il rapporto fra le generazioni, la riscoperta dei valori veri, la capacità di ascoltare, l’incontro con la natura guidato da un vecchio: tutto questo attraverso gli occhi di Enzo, il piccolo protagonista, cittadino fino al midollo.
Prevenuto nei confronti del vecchio zio, scappato dalla casa di riposo (.."una bella casa per anziani, televisione, gioco delle bocce….hai un gran bravo nipote…) per tornare alla sua casa nei boschi, Enzo scopre che se uno scappa in quel modo …o in qualsiasi altro modo, qualche ragione ce la deve avere..".
Le sue riflessioni ci accompagnano lungo il percorso di conoscenza che lo porterà alla rivelazione sofferta dell’importanza del rispetto e della libertà. Arriverà quindi ad accettare le scelte dello zio, a comprenderle fino in fondo e a schierarsi dalla sua parte. Con un linguaggio poetico ma asciutto e senza falsi pietismi, l’autore ci propone la trasformazione di Enzo (salito in montagna, dallo zio, per aiutare i cacciatori a trovare e uccidere l’ultimo lupo della zona, il ragazzo li "tradirà" diventandone quindi il salvatore) come emblematica di una capacità di guardare le cose con occhi nuovi.

Brigitte Peskine
Risvegliarsi al tramonto
Edizioni EL, Ex libris – 1995

Scritto in prima persona da Nathalie, adolescente confusa e spaventata dalla propria crescita, in difficoltà con il resto del mondo (genitori, amiche, ragazzi…), questo libro tratteggia un bel rapporto fra nonna e nipote. Proprio per bocca di Nathalie dà vita alla paura della vecchiaia, della morte, della diversità e senza proporre soluzioni definitive né lieti finali zuccherosi indica alcune strade che possono aiutare a guardare la vita con maggiore serenità.

Carmen Martìn Gaite
Cappuccetto Rosso a Manhattan
Mondadori – 1999

Come nella famosa fiaba, Sara parte per portare una torta di fragole alla nonna che vive sola a Manhattan. Una riflessione sulla libertà che parla al cuore di tutti ma anche uno sguardo profondo ai rapporti fra nonni e nipoti. La particolarissima affinità fra Sara e la sua nonna Rebecca, un tempo cantante di music hall, è descritta in modo incisivo e mostra con grande semplicità, attraverso la penna magistrale di questa grande autrice, come i bambini siano in grado di andare oltre i pregiudizi, diritti al cuore dove sanno leggere i veri sentimenti delle persone, l’ansia di amore e la disperata solitudine di cui tante volte i vecchi di oggi sono circondati.

Anna Lavatelli
Tutti per una
Piemme, serie arancio – 1997

E’ una realtà molto romanzata, dove il lieto fine è obbligatorio, quella che viene descritta in questo libro che racconta le vicende di un gruppo di anziani di una casa di riposo. Eppure il suo pregio è proprio quello di descrivere, con gli occhi di chi ci deve poi passare il resto della vita, una realtà spesso sconosciuta e comunque temuta dai bambini. Le riflessioni che i protagonisti fanno fra di loro sul senso della vita, sulle aspettative verso il futuro, sulla capacità di essere ancora protagonisti attivi sono tutti inviti alla riflessione e ad una maggiore attenzione nei confronti degli altri.

Guus Kuijer
Ti perdi e trovi una nonna
I Criceti Salani – 1993
Guus Kuijer
L’isola Duegambe
I Criceti Salani – 1991

Segnaliamo questi libri che raccontano le avventure di Tin, intraprendente bambina di nove anni, del coetaneo Job e del piccolo Bas, per la presenza di Tilli, una vecchia signora cieca che Tin "adotta" come nonna. Difficoltà, strategie e soluzioni positive sono tratteggiate dalla penna di questo grande scrittore olandese che sa guardare il mondo dall’altezza dei bambini, sa portarli ad affrontare le realtà e le fatiche della vita vera con fantasia, ironia e tanta voglia di divertire.

Stepan Zavrel
Nonno Tommaso
Arka – 1992

Il libro ha tutti gli ingredienti per piacere ai bambini ma anche ai loro nonni!! L’ordinanza del sindaco che "per il loro bene" fa rinchiudere tutti i nonni in una casa di riposo con l’aiuto di squadre di acchiappanonni armati di ogni tipo di rete sarà vanificata proprio dai bambini che, soli, si accorgono che i nonni là hanno davvero di tutto ma nessuno di loro sorride.
Saranno i bambini, all’insaputa dei grandi (che tanto non si accorgono di niente) a liberare i nonni e a tenerli nascosti fino a quando anche i genitori non capiranno che il loro posto è lì, in famiglia, e che la loro presenza è preziosa per i bambini.

Anthony Horowitz
Nonnina
Junior +10 Mondadori -1996

Appartiene al filone dei "nonni cattivi" e della fantasia più sfrenata questo divertente romanzo che vede il piccolo protagonista alle prese con la vecchia, cattivissima nonna e le sue amiche che vogliono servirsi di lui per tornare giovani. Nonnina concentra in sé tutti i tratti negativi che vengono solitamente attribuiti ai vecchi (dalla dentiera alle rughe…) e non è possibile trovarle qualche aspetto positivo. I vecchi da eliminare? Verrebbe fatto di pensare di sì se non fosse per un personaggio, la tata del protagonista, che sa riportare le cose sulla terra e dichiara decisa agli interrogativi del ragazzino: La vecchiaia è come una lente di ingrandimento: prende il meglio e il peggio di ognuno e l’ingrandisce. Nonnina è stata egoista e crudele per tutta la vita. Ma non puoi prendertela con lei per essere vecchia.

Ulf Stark
Il paradiso dei matti
Feltrinelli kids – 1999

Pur essendo un libro che parla dell’adolescenza e di tutto quello che comporta, raccontando la storia di Simone (una ragazzina dallo splendido nome francese che però in svedese non esiste se non al maschile…). La storia, divertente, trasgressiva, delicata è per noi significativa anche per la figura del nonno (si potrebbe dire il miglior attore non protagonista…) con cui Simone ha un bellissimo rapporto fatto di confidenza, affetto e reciproca fiducia. Lo strampalato vecchietto, di cui inizialmente sappiamo solo che è ricoverato in un ospedale per lungo degenti, piomba a casa della figlia dichiarando
Sono venuto qui per morire (…) Lo so, lo so! Forse è sconveniente. Ma in quell’ospedale del cavolo non si può morire in pace. Non si fa in tempo, con tutti gli esami del sangue e i termometri che ti infilano dappertutto e le lenzuola che devono essere cambiate e le pillole che bisogna mandar giù e tutte le altre scemenze che si inventano!
Il nonno accompagna e sostiene Simone in tutte le sue peripezie alla ricerca di se stessa e quando viene il momento organizza una festa d’addio cui partecipa dal suo grande lettone dove morirà sereno accanto alla figlia e alla nipote mentre la festa e la vita continuano nella notte.
Un altro libro in cui la morte viene affrontata con realismo e tranquillità, senza nascondere niente e senza spaventare.

Karel Verleyen
Mio nonno domatore di leoni
Gli Istrici Salani – 1997

Divertente e surreale questo nonno, scomparso in Africa tanti tanti anni prima, ricompare all’improvviso e vorrebbe venire a vivere con il figlio che non l’ha mai conosciuto. E così la storia si snoda fra l’esigenza di riconoscimento da parte del nonno, il rifiuto del figlio che non sa affrontare il cambiamento e la piena, immediata accettazione invece da parte del nipotino per il quale il nonno ritrovato inventa avventure mirabolanti. Inevitabile il lieto fine (Ai nipoti può benissimo nascere un nonno! Ad alcuni almeno…E a me è successo!) per un libro che, tra le risate, ci ricorda comunque l’importanza degli affetti e delle figure familiari.

Anke de Vries
"Segatura in testa"
I Criceti Salani – 1991

Abbiamo scelto alcuni testi che aiutano in modo significativo ad entrare in contatto con temi difficili quale la malattia e la vicinanza con la morte scegliendo per fare questo la figura dei nonni come figura mediatrice.
Molti dei testi recuperano in modo positivo l’immagine di persona vecchia che si avvicina, più o meno consapevolmente, alla fine della propria vita. Mettere a fuoco questo tema fa inevitabilmente sfuocare il resto rendendo centrale il rapporto che si crea fra il nonno o la nonna e i bambini.
In alcuni racconti però questa centralità del rapporto disegna un’immagine di nonni sopra le righe, con caratteri di eccezionalità, distanti dai tratti reali.
I nonni spiccano anche perché dietro loro c’è il vuoto famigliare. Riempiono l’assenza delle altre figure, in particolare dei genitori che non sono rappresentati come adulti di riferimento, sono lontani ( e come tale vengono allontanati dagli autori con stratagemmi vari).
Questa resa del quadro familiare in termini di assenza dei genitori è contraddittoria e problematica; tende da un lato ad idealizzare le figure dei nonni presentandoli, appunto, come super nonni, dall’altro induce a domandarsi come i bambini leggano questo vuoto, che alcuni libri disegnano in termini così forti, appare altrettanto irreale al pari dei quadretti idilliaci di tanti spot pubblicitari.
"Un altro degli elementi considerato da molti proibito nei libri per ragazzi è la morte. Intendiamoci, la morte come elemento risolutivo dell’intreccio, è stata sempre usata con abbondanza. Mamme morte che producono utilissimi orfanelli, eroici tamburini sardi o scervellati monelli che giocano col fuoco, piccoli ebrei nei lager, malatini di AIDS o vittime di faide tribali in Bosnia o in Ruanda. La morte straziante è uno degli ingranaggi fondamentali per mettere in moto la macchina del patetico, così presente specie nella letteratura ottocentesca, e comunque in quella che vuole ammonire ed edificare. La morte come evento, come spettacolo, come dato di fatto che in genere ci fa sentire colpevoli di essere sopravvissuti. Mai o quasi mai la morte come problema filosofico.
Eppure tutti i bambini si interrogano al riguardo, nonostante le risposte evasive e depistanti degli adulti (…). Uno dei miei libri per preadolescenti più amato dalle lettrici è Principessa Laurentina dove ho cercato di raccontare in modo realistico la reazione della protagonista alla morte della madre, avvenuta per un imprevisto incidente proprio mentre era in corso un profondo dissidio con la figlia. Ho notato che a leggere libri di questo genere i bambini e i ragazzini provano un senso di sollievo, non perchè se ne ritrovino consolati, ma perchè si sono almeno liberati dal peso angoscioso del silenzio, del non detto, del rimosso". (Bianca Pitzorno, Storia delle mie storie, Pratiche Editrice, Parma, 1995, pp. 137-138)

Nonni – rapporti fra le generazioni – figure di riferimento nella crescita

Un filone ricco di titoli è quello che vede i nonni come figure adulte di riferimento, solide rassicuranti (o anche "negative" in quanto custodi delle tradizioni) ma spesso sole nella totale (o quasi) assenza dei genitori.
Citiamo fra i tanti:
Patricia MacLachlan – Album di famiglia – Junior Mondadori +10 – 1993
Margaret Shaw – Ieri e domani -Gaia Junior Mondadori – 1993
Rhea Beth Ross – Solo donne in famiglia – Gaia Junior Mondadori – 1993
Gail Giles – Il respiro del drago – Junior -10 Mondadori – 1999
Roberta Grazzani – Nonno Tano – Piemme serie azzurra – 1992
Silvana Gandolfi – Occhio al gatto! – Salani Gli Istrici – 1995
Matilde Lucchini – Per fortuna ci sono i dinosauri – Junior- 10 Mondadori – 1994