a cura di Giovanna Di Pasquale

Intervista ad Alessandro Bortolotti, ricercatore all’Università di Bologna dal 2007. Svolge le sue ricerche nell’ambito dell’Outdoor Education, della Prasseologia motoria e della Pedagogia speciale. 

Rapporto fra corpo, identità, disabilità
Dal mio punto di vista fondamentalmente corpo e identità li identifico. Se così non fosse il rischio è che il corpo sia pensato come qualcosa fuori da noi, oggettivato. Parlo di qualcosa che non sono io ma il mio corpo. Se ci pensiamo, difficilmente io posso essere fuori dal mio corpo, succede, ci sono delle esperienze di questa natura ma sono eccezioni. Più spesso io sono il mio corpo che è un’altra maniera di dire quale è la mia identità. Su questo la disabilità innesca ulteriori riflessioni. Per quello che è il mio percorso, che viene dallo sport, ho per tanto tempo pensato che le persone si dovessero adattare alle proposte che venivano dal mondo, in questo caso sportivo. Su questo punto per me c’è stato un ribaltamento totale. Adesso penso che, pur non rinnegando quella parte che esiste nello stato di fatto, questo è un modello che diventa limitante se noi lo utilizziamo come chiave esclusiva per interpretare la realtà. Faccio un esempio: a parole lo sport di classe significa che bisogna fare sport nelle classi, questo un po’ mi spaventa perché pur essendo un modello interessante non può essere per tutti. Credo che noi dobbiamo pensare a ribaltare in modo totale l’approccio al movimento e all’educazione motoria. La questione è come far sì che il movimento sia adatto a tutti, e quindi è la mia proposta che si deve adeguare al soggetto e non più il soggetto che si deve attivare per rientrare a tutti i costi dentro una proposta. 

Quale approccio per un percorso intorno al tema del corpo e del movimento motorio a scuola
Parto dal concetto di uso del corpo e paradossalmente la prima riflessione che mi viene da fare è: ma io il corpo lo uso? O ancora una volta sono io che all’interno di un percorso cerco di trovare un senso? Il senso può anche essere che io sto fermo perché la percezione di me, il riflettere su di me, l’acquisire una consapevolezza avviene anche attraverso un’immobilità che non è imposta, ma è frutto di una scelta. Fare yoga o training autogeno o cose di questo tipo nell’immobilità, consapevole e scelta, possono dare di più di tante altre proposte di movimento che troviamo troppo spesso in modo automatico nelle scuole e nei gruppi. La parola chiave è consapevolezza, senso, cioè direzione della motivazione. Per questo è molto importante variare, fare tante proposte che abbiano al centro la dimensione della scelta. Proviamo a vedere nelle varie attività qual è la scelta che ti viene concessa e per fare cosa… È la scelta rispetto a un’azione oppure quella di entrare in relazione rispetto a un compagno? O ancora: è una scelta che fai tu o che viene da fuori? Questo ti mette di fronte a contesti, situazioni e condizioni diversi e, dal punto di vista educativo, stimolanti.
Cambiare le proposte allora per fare provare esperienze diverse e con criteri che esulano un po’ da quelli classici legati a un’educazione fisica tradizionale.
Su questo lo specialista sportivo può avere delle resistenze e fa fatica a rileggere le attività da un altro punto di vista, perché è stato impostato così e anche il mondo educativo spesso non ha tanta idea di quanto può essere stimolante, facilitante per le relazioni e l’apprendimento. Su questo non vedo una grande attenzione e forse neanche una grande preparazione di base. Io personalmente mi rifaccio a una scuola attiva, la prasseologia, che nasce in Francia e che in Italia è pressoché sconosciuta.

Collegamento fra gioco, sport e inclusione
Dal punto di vista dell’immagine sociale oggi il modello è quello delle Paraolimpiadi. Non è un modello sbagliato ma rischia di riprodurre in piccolo quello che avviene per tutti: c’è chi ce la fa e ha successo e gli altri che non ce la fanno.
Prendendo invece ad esempio i giochi di tradizione, ci si accorge che si può fare tanto altro e forse divertirsi molto di più. Bisogna uscire dal modello, non più solo il modello competitivo della vittoria, ma un modello che, pur presentando vittorie e sconfitte, non è così definitivo.
Difficilmente c’è un momento finale in cui si fanno le premiazioni perché si può sempre rimettere in discussione tutto, si può ripartire. È un modello molto più provvisorio, la vittoria e la sconfitta sono parziali. Poi ci sono tante altre possibilità, dalle attività espressive al rilassamento che hanno altre logiche. Anche nello sport ci sono le attività espressive ma, ancora una volta, sono ai fini della classifica e quindi diventano uno strumento per raggiungere qualcosa d’altro.
Nelle attività espressive il fine è proprio quello di esprimersi: mi esprimo per esprimermi.
Nel gioco autentico ti metti ed entri in gioco; se si è in quel livello si diventa davvero molto inclusivi perché le cose vengono fatte per il puro gusto di farle.

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