Occuparsi dell’altro occupandosi anche , e in alcuni casi, soprattutto del corpo dell’altro.
Il lavoro sociale si declina in un incontro diretto tra corpi che , pur in una cornice professionale, devono ricercare un faticoso equilibrio fra autonomia e dipendenza, fra l’impossibilità di fare da soli e la capacità di dare e chiedere aiuto.
Occuparsi dell’altro è anche occuparsi di sé; "curare" il corpo altrui porta con sé il riprendere contatto con il proprio corpo e con la storia del nostro personale rapporto con esso. Quando si incontra la malattia, la vecchiaia , il deficit è prima di tutto un corpo malato, vecchio, handicappato ciò che ci viene incontro insieme alle immagini ed ai vissuti che per noi e in noi sono ad esso collegati.
La dimensione emotiva irrompe nelle relazioni quotidiane fra operatori ed "utenti"; spesso negata o ridotta ai minimi termini è, invece, parte essenziale di ciò che passa tra le persone.
Molto del linguaggio emotivo trova una sua concretezza nel linguaggio globale attraverso cui il corpo parla ed esprime comunicazione.
Nella pagine di HP abbiamo cercato di dare spazio ad una riflessione su questi punti, ascoltando la voce di chi vive un deficit in prima persona e di chi per professione si occupa di assistere persone anziane, ospiti di una struttura protetta o disabili.
Attraverso le loro parole emerge con forza il gioco di specchi che caratterizza gli incontri tra persone anche, come già accennato, all’interno di un contenitore professionale. Gioco di specchi che determina la disponibilità ad un rispecchiamento consapevole o l’attuarsi di una fuga, la voglia di negare elementi comuni o, invece, la possibilità di spazi di riconoscimento reciproco.

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