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autore: Autore: Martina Gerosa

Più Accessibilità Sensibilità Semplicità per l’inclusione di tutti

di Martina Gerosa

Con l’aumento del tempo libero nella società contemporanea – chiamata anche “civiltà del tempo libero” (Joffre Dumazedier) – e con l’incremento della consapevolezza di aver diritto di partecipazione alla vita sociale e culturale da parte delle persone in condizione di disabilità, si apre decisamente la sfida di rendere accessibili e fruibili Conoscenza, Cultura, Arte… da parte di tutti, eliminando non solo le barriere fisiche, ma anche quelle sensoriali.
Quando tra la gente comune si pensa alle barriere, è più facile focalizzare l’attenzione su gradini, pavimentazioni irregolari e su tutto ciò che può costituire un ostacolo a chi si muove sulle ruote. Più raramente si presta attenzione alle barriere invisibili contro cui va a sbattere chi non vede e/o non sente bene oppure chi vede e/o sente per nulla. O agli ostacoli che si possono incontrare nella comprensione di testi espressi con parole difficili e con uno stile complesso per chi ha delle limitazioni di linguaggio o di tipo cognitivo.
Nella platea di potenziali spettatori, fruitori, visitatori rientrano non solo le persone con disabilità e in modo particolare sensoriali, ma anche stranieri, anziani… L’accessibilità alla cultura e all’informazione, non solo la mobilità accessibile, è un diritto basilare sancito dalla Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità; è divenuta norma in oltre 150 Paesi del mondo, l’80% di quelli che fanno parte dell’ONU, in Italia è la legge numero 18 del 2009. Ci viene detto chiaramente negli articoli 9 e 30 che l’accessibilità è un principio ineludibile e che bisogna trasformare la realtà così che diventi inclusiva, accessibile a tutti, in ogni ambito del vivere collettivo: nella vita culturale e ricreativa, negli svaghi e nello sport. Che significa concretamente? Banalmente poter vedere un film o un video, andare a teatro, prendere parte a un convegno, accedere a un servizio pubblico, visitare un museo, usufruire delle informazioni da internet, partecipare alla vita sociale e anche politica…
Per eliminare le barriere sensoriali possono essere necessari interventi aggiuntivi come l’inserimento di strumenti e tecnologie o di particolari sistemi e applicazioni o, in altri casi, quando le tecnologie sono già previste nella dotazione di un determinato spazio (ad esempio una sala per spettacoli), basterebbe prestare cura e attenzione fin dalla fase di progetto e far supervisionare l’allestimento degli impianti tecnici da parte di esperti di accessibilità culturale, per far sì che siano adeguati allo scopo di rendere fruibile quello che vi accadrà.
In altri casi l’abbattimento delle barriere sensoriali richiede semplicemente un cambio di mentalità e di atteggiamento, come quando si comprende che non è sufficiente predisporre – in un qualsiasi URP, Ufficio Relazioni con il Pubblico – un tradizionale numero telefonico, ma che sia bene predisporre un sistema multimodale affinché il servizio sia accessibile attraverso canali comunicativi diversi. Già anni fa, un Comune alle porte di Milano introdusse la possibilità per ogni cittadino di scegliere la modalità che gli era più congeniale per rapportarsi alla Pubblica Amministrazione: fax, telefono, e-mail, sms, chat, video chat…
Un elemento che rende difficoltoso definire le soluzioni che consentano di rendere accessibili servizi, eventi e iniziative a tutte le persone e in particolare a quelle con disabilità sensoriali è legato al fatto che chi ha un deficit visivo e/o uditivo funziona in modo sempre particolare (a ben pensarci le differenze sono anche tra chi si muove sulle ruote: può essere o no autonomo nel dirigere la propria carrozzina). Così non è automaticamente garantita l’accessibilità di un convegno a tutte le persone con disabilità uditive se s’introduce un servizio di interpretariato di lingua dei segni piuttosto che un sistema di sottotitolazione in diretta: sarebbe bene garantire entrambi i sistemi di accessibilità. Ma di volta in volta, in presenza di risorse limitate, è da verificare cosa sia preferibile, rispondendo oltre che ai criteri dell’accessibilità universale, inclusiva diremmo, anche al principio, enunciato nella convenzione ONU, dell’accomodamento ragionevole, definito come l’“insieme delle modifiche e degli adattamenti necessari e appropriati che non impongano un onere sproporzionato o eccessivo, adottati ove ve ne sia necessità in casi particolari, per garantire alle persone con disabilità il godimento e l’esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali”.
Rendere accessibile uno spettacolo teatrale così come un percorso museale non è cosa banale. Perché tanti sono gli aspetti da tenere in considerazione, l’ottimale in questi casi è lavorare in team multidisciplinari, affinché sia garantita “una pluralità di modalità comunicative e un uso appropriato delle tecnologie, facendo ricorso alla multisensorialità, all’interattività degli strumenti” come recita il “Manifesto della cultura accessibile a tutti” formalizzato nel 2012 a Torino. Occorre raggiungere un equilibrio tra ridondanza e semplicità: entrambe necessarie se si punta a un’“accessibilità inclusiva” che consideri ogni forma di disabilità, in particolare quelle legate ai sensi ma anche altre come ad esempio quelle collegate alle sindromi autistiche e cognitive.
Di strada in questi anni se ne sta facendo, ma molta è ancora da fare.
Nel nostro Paese iniziative e percorsi culturali accessibili stanno sviluppandosi, ma si tratta di iniziative di cui chi potrebbe esserne interessato spesso e volentieri non ne viene a conoscenza… Così è stato creato PASSin (www.passin.it) uno spazio web dove si raccolgono informazioni su iniziative culturali accessibili alle persone con disabilità sensoriali, con difficoltà di vista e/o di udito, ma non solo. Si tratta di uno strumento per l’inclusione e la partecipazione di tutti in cui l’attenzione è focalizzata sui canali di accesso e non sulle tipologie di disabilità, con la consapevolezza che uno strumento o un approccio possa agevolare diverse categorie di persone, anche tra i cosiddetti “normodotati”.
L’idea di PASSin è nata dall’incontro di alcuni amici che nel 2014 si sono trovati, un giorno di novembre, in un teatro, per partecipare insieme a un bellissimo spettacolo accessibile alle persone con disabilità uditive grazie alla sottotitolazione e alla lingua dei segni.
PASSin ha visto la luce nell’anno di Expo 2015, grazie al Comune di Milano – Settore Politiche sociali che ha dato, tramite un bando finalizzato all’abbattimento delle barriere sensoriali, un finanziamento alla cooperativa Accaparlante per l’avvio del progetto sviluppato fin dal principio con il supporto dell’azienda BitCafè. Tale progetto è stato realizzato grazie a persone con competenze professionali diverse: un ingegnere, un informatico, una disability manager, un giornalista e un’artista. Attualmente il progetto PASSin è in via di sviluppo grazie al sostegno della fondazione Pio Istituto dei Sordi e si stanno ricercando nuovi fondi per implementarlo ulteriormente e renderlo interattivo.

Manifesto PASSin
PASSin si rivolge a chi è interessato alla Cultura e all’Arte senza barriere, per cercare di rispondere a un bisogno informativo di una parte sempre più ampia della popolazione.
PASSin è uno spazio del web dove si raccolgono informazioni su iniziative accessibili alle persone con disabilità sensoriali, con difficoltà di vista e/o di udito, ma non solo, per l’inclusione e la partecipazione di tutti.
PASSin nasce dalla conoscenza degli ostacoli invisibili come quelli che s’incontrano quando si va a vedere un film senza udire e capire le parole o a visitare un museo senza vedere quadri e sculture con gli occhi.
PASSin raccoglie le notizie relative agli eventi che accadono in area milanese, e non soltanto lì perché c’è da imparare dall’esperienza di chiunque lavora per rendere il mondo più accessibile e migliore per tutti.
PASSin scopre e valorizza i luoghi dove si sperimentano tecnologie straordinarie o a volte semplicemente sensibilità e atteggiamenti diversi, attenti a chi fa fatica a discriminare con le orecchie o a comprendere con la vista.
PASSin si realizza grazie a un laboratorio in cui si sono messe in gioco persone con competenze professionali diverse, in rete con esperti dedicati ai temi dell’accessibilità e dell’inclusione nella vita culturale e sociale, in ogni parte d’Italia.
PASSin è un cantiere aperto alla partecipazione di tutti coloro che sono interessati a sviluppare conoscenza e informazione su tutto quello che aiuta a supera- re le barriere della comunicazione attraverso la multisensorialità.

10. Silenzio, si gioca!

di Martina Gerosa con Fabrizio Carucci, Chiara Foschi, Ilaria Galbusera e Onoria Neri

Preparando il piccolo contributo per questa monografia, ho recuperato alcune foto della mia infanzia in cui gioco. È veramente emozionante rivedere queste immagini e pensare a quanti e quali giochi abbiano intessuto la trama della mia vita, sia da bambina che da adulta!
Rispetto al gioco e alla disabilità, a ben rifletterci, personalmente non ho percepito limitazioni di qualche tipo, anzi. Proprio nel gioco, fin da piccola, mi sentivo felice e libera, in grado di esprimermi creativamente. Per esser certa della mia memoria, ho chiesto a mia madre come mi ricorda nei momenti ludici dell’infanzia e mi ha confermato che nel gioco non sono mai stata handicappata. Penso che in fondo i miei genitori per primi non mi abbiano mai vista come svantaggiata, ma semplicemente con un problema superabile grazie a strumenti e accorgimenti, e oltre a vedere il mio deficit hanno sempre saputo valorizzare le risorse che ho dimostrato di avere fin da piccola.
C’erano anche alcuni giochi che – tramutando quello che sarebbe stato un duro esercizio in divertente esperienza ludica – mi supportavano nel percorso di apprendimento del linguaggio, come i quartetti e le tombole, permettendomi di estendere il mio vocabolario, visto che per apprendere parole nuove per me l’unico modo era di visualizzarle in forma scritta, esattamente come nel percorso di apprendimento logopedico con i “cartoncini di Martimuma” (in appendice al libro di Paola Magi, Il pianista che ascolta con le dita, Archivio Dedalus Edizioni – AccaparlantEdizioni è il racconto de “I cartoncini di Martimuma”).
Non c’è stato gioco che non abbia sperimentato, anche inventando con poco e niente, specialmente nelle lunghe estati trascorse all’aria aperta sui monti.
Quante ore trascorse a giocare a palla contro il muro o con un semplice elastico… Per una bambina con disabilità uditiva come me, il gioco era davvero lo spazio migliore di espressione in cui cadevano barriere che potevano esserci all’asilo, come poi a scuola, dove dovevo stare costantemente in comunicazione con gli altri, insegnanti e compagni che fossero, principalmente attraverso il canale uditivo, in modo da eseguire i compiti che venivano assegnati quasi sempre a voce… Meno male che all’asilo potei trascorrere ore e ore a disegnare: il disegno è stato infatti il mio primo modo di comunicare.
È ciò che succede, a ben pensarci, anche ai bambini stranieri nelle classi multietniche di oggi: nel fare giocando, se sussistono difficoltà di comunicazione, attraverso i processi imitativi – cogliendo in particolare i movimenti e le immagini oltre le parole – ogni ostacolo viene meno.
Mi son imbattuta recentemente nel metodo TPR – Total Phisical Response, messo a punto negli anni ’70 da James Asher, professore emerito di Psicologia presso la San José State University, scoprendo che è stato applicato a Milano da Arcangela Mastromarco e altri che hanno riscontrato come i bambini stranieri appena giunti in Italia apprendano la lingua italiana attraverso un approccio multimodale legato non solo alle parole, ma al movimento fisico e agli oggetti, come alle loro immagini.
Credo che in presenza di disabilità uditiva sia la sinestesia, una delle principali caratteristiche di quasi ogni gioco, a rendere il gioco accessibile anche se eventuali parole presenti non arrivano integre alle orecchie. Nel caso dei giochi in scatola tipo i quiz l’essenziale per me era non limitarmi ad ascoltare chi declamava le domande, ma prendere in mano le carte con i quesiti e leggerli!
Ho provato a rivolgere la domanda su cosa ricordassero dei loro giochi ad amici che come me hanno vissuto fin da piccoli con una disabilità uditiva.
Chiara Foschi mi ha detto: “Io cantavo e ballavo e lo faccio ancora adesso! E giocavo a fare la maestra con le bambole!”. Le ho risposto: “Che meraviglia, tu sì che andavi oltre ogni barriera! Nel cantare e ballare io invece son sempre stata bloccata… ma chissà – mi domando infatti sempre quanto di noi dipenda dai nostri limiti e quanto invece dal nostro modo di essere, dal carattere – non è che io abbia semplicemente preso dal papà che nel ballo è sempre stato un po’ un orso? Invece per quanto riguarda il cantare… beh la mia voce l’ho sempre sentita così strana e diversa e quando ero piccola avevo come la sensazione che uscisse da me con fatica… figuriamoci allora se cantavo!”. Chiara mi ha risposto: “Sono stonatissima ma me ne frego! Ah ah ah! Oppure cantavo e canto in playback!”.
Fabrizio Carucci ha scritto: “Con me invece sono stati più severi. Non mi hanno mai fatto giocare con macchinine e costruzioni in genere (o forse molto raramente), prediligevano giochi da tavolo o comunque che giocassi con qualcuno. In ogni caso mi ricordo più la mia infanzia studiando che giocando. Ho ripreso a giocare solo da più grande.
Colpita da questa risposta di Fabrizio gli ho domandato: “Hai idea del perché non ti facessero giocare con le macchinine e le costruzioni? Io stessa con i Lego e i cubi oltre che con le bambole ho giocato molto… Il fatto che tu ricordi di aver passato nella tua infanzia più tempo sui libri e a tavolino con i giochi in scatola non è che sia da collegare alla pratica della logopedia che si doveva svolgere in quello stesso modo?”.
Mi ha risposto il caro amico: “Può darsi, mia mamma quando vuole raggiungere un obiettivo (anche adesso) fa terra bruciata di tutto il resto. Quindi immagino che lei avesse come obiettivo prioritario, almeno nei primi anni, quello di insegnarmi a parlare e impediva a me e a mia sorella di giocare o perlomeno ci limitava molto. Ovvio che quando andavo all’asilo o a casa di altri potevo tranquillamente giocare. Ma non ho nitidi ricordi di giochi e divertimento da piccolo. Il primo ricordo di gioco è di quando eravamo in campagna dove giocavamo a nascondino, moscacieca, casa sull’albero, ma ero già grandicello, dovevo avere 8-9 anni. E comunque non ho mai potuto giocare a macchinine e tanti altri giochi per bambini, solo giochi da tavolo. Il paradosso è che adesso a me piacciono molto le macchinine!”.
Ilaria Galbusera ha raccontato: “Anch’io come te non ho avuto grossi limiti e mi ritrovo nelle tue esperienze. Nei giochi di gruppo sono sempre stata una bambina molto competitiva, volevo primeggiare in tutto a dimostrazione che la sordità non è un limite e non ti ostacola nel fare qualcosa (ammetto che questo spirito di competizione e di mettermi in gioco non manca tutt’oggi).
Ricordo di lezioni di logopedia e di musicoterapia fatte tutte sotto forma di gioco, su per giù fino ai 7/8 anni, considerando che ero una bambina molto vivace. Quindi la matematica erano i pezzi dei Lego che si sommavano o si sottraevano ad altri, la grammatica era la competizione con mio fratello (a cui devo tanto se sono quella che sono ora) a chi imparava più parole, l’italiano erano le corse a chi arrivava primo fino a un tabellone, che aveva le taschine e ciascuna era nominata con una lettera dell’alfabeto, in cui bisognava inserire la giusta immagine corrispondente.
Crescendo i giochi non sono mai stati un problema, lo erano invece i cartoni animati che allora non avevano i sottotitoli. La voglia di giocare e di competere poi si è tramutata nello sport”.
I libri sono infine un mondo favoloso e insostituibile, in cui moltissimi di noi, bambine e bambini con disabilità uditiva, ci siamo rifugiati per ore e ore per apprendere in modo rilassante e divertente, mentre un’altra amica, Onoria Neri, che è ipovedente dalla nascita, ha raccontato di come lei le limitazioni le avesse proprio più sui libri, preferendo i definiti contorni delle immagini di Braccio di Ferro e della Pimpa a quelle più confuse di Topolino.

A casa di Lorella
Con mia sorella da piccole giocavamo insieme, nel corridoio di casa, a pallavolo.
Usavamo però una strategia che mi permettesse di giocare insieme a lei: usavo dei palloncini di plastica gonfiabili, così non ci facevamo male.
Sempre in casa io e lei ballavamo il Rock acrobatico e io facevo la parte dell’uomo. Solo che lei mi faceva fare le volanti. Una volta non mi ha presa in tempo e sono caduta tra i nostri due letti in camera mia, mi sono rotta un dito e ho tenuto un mese di gesso.
Lorella
Testimonianza raccolta durante un incontro sul tema del gioco nell’équipe del Progetto Calamaio

Al ritorno da scuola
Stefania: Io vorrei giocare con te! Ci stai?
Paola: Sì!
Stefania: Davvero? A cosa giochiamo?
Paola: Ho un’idea: giochiamo a Tegamini?
Stefania: Ok!
Paola: Ma come?
Stefania: Aspetta un attimo bisogna che ci organizziamo! Buona domanda, infatti bisogna che ci organizziamo! Non si può fare subito! Ora tocca a me, ci devo arrivare io da sola, se non ci arrivo io non ci arriva nessuno! Se vuoi giocare con me devi aspettare che mi organizzi, non posso farlo adesso.
Paola: Perché?
Stefania: È troppo difficile! Non me la sento di affrontarlo adesso come se niente fosse ho bisogno di tempo! Devi sapere che se faccio le cose in fretta rischio di fare le cose fatte male e questo non mi va!
So che tu mi vorresti aiutare! C’è una cosa che devo dirti e vorrei dirti a proposto di questo, a proposito del come aiutarmi! Lascia che ti spieghi, se non ti spiego come fai tu a capire bene di cosa ho bisogno! Tu devi ancora crescere almeno quanto me se non di più, a quanto ne so tu sei anche brava e intelligente ma sei ancora piccola, non sei una cima, non sei neanche un indovino, sai cos’è che manca a te rispetto a me? La mia esperienza diretta! Tu non sei in carrozza come me! Se c’é qualcosa che non capisci, che non ti è molto chiaro, se hai qualche dubbio, se non mi lasci parlare… Già sono lunga io da sola se no ho paura di perdermi e dopo come faccio se perdo il filo del discorso?!
Sorella: Tu non mi hai ancora detto che cosa ti serve per giocare con me!
Stefania: mi serve un tavolino!
Stefania
Testimonianza raccolta durante un incontro sul tema del gioco nell’équipe del Progetto Calamaio

5. Libri: linfa e aria per crescere liberi

I libri nella mia vita hanno rappresentato un’àncora di salvezza. Le parole scritte e stampate sulla carta hanno consentito che da bambina non venissi inghiottita nel “mondo delle cose senza nome” (1), permettendomi di sviluppare il linguaggio. E, appreso il “gioco delle parole”, di esplorare infiniti e diversi mondi possibili.
Attraverso i libri ho viaggiato in lungo e in largo, dapprima con la fantasia e poi con l’intelligenza, attraverso molti diversi paesi, inventati e veri, incontrando esperienze e saperi, che le loro pagine racchiudono come tesori in uno scrigno.
Sono nata 44 anni fa, in una famiglia italo-tedesca: papà ingegnere e mamma casalinga che aveva studiato pedagogia speciale, una sorella e un fratello gemelli di tre anni più piccoli, preziosi compagni di giochi e di vita; una grande famiglia allargata sia in Italia che in Germania e tante amicizie.
Ero una bambina allegra e socievole. Non parlavo, ma ero molto comunicativa, in ascolto, capivo e mi facevo capire, al di là delle parole. Ho trovato due fotografie di quegli anni: nella prima sono seduta sul vasino con una copertina sulle gambe, intenta a sfogliare una grande rivista illustrata e nella seconda immagine, accomodata sul divano con papà, accanto all’albero di Natale, ascolto da lui una storia seguendola su un libro che stiamo sfogliando insieme. È evidente che il mio legame con i libri si sia sviluppato fin da piccolissima, grazie a genitori amanti dei libri e della lettura.
Proprio da papà ricordo di aver ricevuto in dono alcuni dei libri “pietre miliari” nel mio percorso di crescita, tra cui: Il Piccolo Principe di Saint Exupéry, e La famosa invasione degli orsi in Sicilia di Dino Buzzati con essenziali illustrazioni d’autore, Un sacchetto di biglie di Joseph Joffo e Poesie del fiume Wang di Wang Wei P’ei Ti,  un piccolo libriccino di liriche cinesi con gli ideogrammi a fronte.
La diagnosi della sordità grave-profonda, con cui convivo da quando sono nata, avvenne quando avevo quasi 4 anni. Ho indossato allora i miei primi apparecchi retroauricolari costruiti in serie, con i quali ho potuto accedere al mondo dei suoni e delle voci, ma erano piuttosto grossolani e la loro discriminazione non era immediata – come ho potuto ricostruire in seguito, indossati a trent’anni apparecchi endoauricolari personalizzati, grazie ai quali ho iniziato a percepire la naturalezza dei suoni e mi si è spalancato il paesaggio sonoro.
Dai quattro ai sette anni ho fatto un percorso riabilitativo secondo le indicazioni della logopedista, volando sulle ali della fantasia dei miei genitori, grazie all’originale percorso compiuto per imparare a parlare, con lo strumento dei “cartoncini” realizzati da mamma e papà (2). È così che si è sviluppato il mio amore per la parola scritta, vera e propria àncora di salvezza. Attraverso la lettura delle parole abbinate alle immagini che le rappresentavano (o forse, al contrario, sono le parole a rappresentare le immagini?), potevo apprendere vocaboli che attraverso il solo canale uditivo non mi giungevano integri, mentre il vederli scritti in chiare lettere mi consentiva di conoscere la loro forma esatta.
Sono diventata un’appassionata lettrice. Ricordo che da bambina mi capitava di svegliarmi nel buio e nel silenzio della notte, per accendere una lampadina e mettermi a leggere il libro che avevo infilato la sera prima in una nicchia del muro dietro il mio letto. Le prime letture importanti furono le Fiabe, non solo della tradizione: ricordo il grande divertimento che mi procuravano le Favole al telefono di Gianni Rodari.
Non appena inciampavo in un termine sconosciuto, ecco che il dizionario mi veniva in soccorso facendomi apprendere la radice stessa delle parole e le loro molteplici forme di utilizzo. Un vocabolario, che ho avuto tra le mani fin da piccola, è stato il meraviglioso Primo dizionario, nato dal genio pittorico e narrativo di Richard Scarry, in cui ogni parola è una storia in immagini e parole.
La carta scritta e stampata (e anche la lavagna) ha costituito poi un autentico sostegno a scuola e, arrivata infine al momento di dover decidere che percorso di studi universitari abbracciare, la scelta cadde su Architettura, corso di laurea in cui immagini e parole sono strettamente correlate… (focalizzo ora).
Le immagini hanno infatti sempre costituito per me una parte essenziale dei libri. Tra i miei primi libri – che tuttora custodisco gelosamente – un posto di rilievo l’assumevano i “libri senza parole”. Autentici capolavori variopinti o in bianco e nero li trovò la mamma in Germania facendo le sue ricerche per librerie. I grandi libri di sole immagini dell’illustratore Ali Mitgutsch con meravigliose scene di ambienti sia di città che di campagna, ricchissime di particolari, hanno contribuito a stimolare la mia naturale inclinazione a osservare dettagli della realtà circostante. Innumerevoli personaggi hanno animato “storie per immagini” – senza parole o con poche essenziali frasi, quasi didascalie come quelli dei bellissimi racconti di Attilio e Karen – che mi hanno aiutata a comprendere i nessi spazio-temporali-causali, lasciando al contempo aperti molti possibili sviluppi delle vicende, anche surreali.
Credo che la stessa modalità di percezione, dello snodarsi di una vicenda attraverso le sole immagini, una volta cresciuta, mi abbia consentito di apprezzare l’arte cinematografica, non solo il film muto come quello di Charlie Chaplin, Stanlio e Ollio, ecc. ma anche film di cui non riuscivo a cogliere alcuna parola (fino a che non ho potuto usufruire dei sottotitoli… ecco una forma moderna di “parola scritta”). Alcuni telefilm li ho goduti dopo aver letto i libri da cui erano tratti, come accadde con le fortunate serie televisive di Emil e Pippicalzelunghe, personaggi nati dalla penna della grande Astrid Lindgren. Ricordo ancora l’immensa emozione che provai nel vedere al cinema il film Dersu Uzala, il piccolo uomo delle grandi pianure dopo averne letto il libro.
Per me i libri e le parole scritte (godute pure attraverso la corrispondenza epistolare) sono stati – e lo sono tuttora – vitali, davvero essenziali nel percorso verso l’autonomia, formativi per il mio carattere, e profondamente arricchenti non solo sul piano dell’intelligenza, ma anche su quello dello spirito.
Incontrare e conoscere altrui esperienze, di chi come me ha dovuto fare i conti con un grave deficit uditivo, mi ha confermato l’importanza che i libri possono assumere per le persone con sordità dalla nascita. Ho raccolto le riflessioni di alcuni compagni di strada dell’Arcipelago Sordità (www.arcipelagosordita.it). Solo una persona, tra le nove che hanno risposto al mio appello, mi ha rivelato di non essersi mai avvicinata realmente al mondo dei libri, sviluppando altresì diverse modalità di comunicazione, praticando un mestiere nel campo delle immagini e della fotografia.
Quasi sempre (almeno nelle passate generazioni) chi doveva fare i conti con limitazioni uditive imparava a leggere durante il percorso di (ri)abilitazione al linguaggio prima dell’ingresso a scuola, fin dai 4-5 anni d’età, come raccontano diversi testimoni. Per la strada della lettura, che non presenta ostacoli se il senso della vista è integro, si può sviluppare la competenza linguistica, anche totalmente immersi nel mondo del silenzio.

I libri letti nel silenzio sono linfa e aria vitali
Giulia Intini, brillante signora di 85 anni, afferma: “I libri soddisfano la mia voglia di sapere molte cose”, oggi come ai tempi della scuola, quando studiò Scenografia ma più volentieri avrebbe studiato Architettura. Ha imparato ad amare i libri attraverso la storia dell’arte, cimentandosi poi con ogni genere di lettura. Monica Metalla, tecnico in un laboratorio di Genetica molecolare, vive nel mondo del silenzio, comunica con grandissima abilità sia con i segni (la Lingua dei segni è per lei lingua madre), che con le parole. Monica ama molto leggere: “I libri per me sono linfa! Ne ho sempre uno con me nella borsa. Scelgo il genere a seconda di cosa mi consiglia il mio cuore”. Consuelo Agnesi, architetto (del sociale, si autodefinisce) racconta: “Senza libri non vivo, senza libri non respiro… Ne ho sempre uno in borsa e se avessi tanti soldi ne comprerei uno al giorno!” e pensando al suo percorso di apprendimento dice: “È leggendo che ho imparato a parlare bene”.

I libri contribuiscono all’abbattimento di barriere della comunicazione e della solitudine
Paolo Durando, insegnante di lettere in un liceo e appassionato di scrittura creativa, che ha al suo attivo diversi riconoscimenti in premi letterari, spiega: “Penso che i miei coetanei abbiano ricevuto molte informazioni, senza doverle cercare, semplicemente sentendo la radio, la televisione o la gente parlare. I libri rappresentano per me la possibilità di non essere mai solo e di mettermi in contatto con il pensato e il vissuto di persone anche lontane nello spazio e, soprattutto, nel tempo”.
Lara Maggi, brillante studentessa di Liceo classico, percepisce anche lei i libri come fossero persone a cui prestare ascolto: “I libri per me sono come degli amici che mi raccontano storie di vario genere, persone che dicono il loro parere, che mostrano quello che hanno appreso nella vita”. Lara tra le storie predilige quelle fantastiche, affermando che: “Aprono la mente verso l’immaginazione”.

I libri rendono le persone integrate, informate e libere
Emiliano Mereghetti, ricercatore di storia, lingua e cultura sorda, profondo conoscitore e insegnante di Lingua dei segni che, lavorando in banca, riesce a guadagnarsi ciò che gli consente di vivere e acquistare i libri, afferma: “I libri per me rappresentano la libertà di comunicazione, che nel nostro caso è importante, è un modo per essere integrati. La cultura è importante per ogni individuo, l’ignoranza fa paura”. Federica Pea, psicologa specializzata sulla sordità, narra come i libri l’abbiano segnata fin da bambina: “In particolare le fiabe, in un’epoca in cui mi sentivo sola e isolata dal mondo. I libri erano il mio rifugio per sognare, per viaggiare a occhi aperti, per apprendere cose nuove”. Anna Lingiardi, laureata in Farmacia e specializzata in Master di Scienza&Tecnologia sul controllo qualità degli alimenti, è perentoria: “I libri rappresentano la possibilità più elevata che ha l’uomo per essere veramente libero”. E prosegue: “Non c’è limite alla creatività linguistica e pure io con la mia sordità posso averla scegliendo le parole con cura, in base al significante e al significato, e alla persona a cui le esprimo”.
Ho domandato infine ai miei compagni di strada dell’Arcipelago Sordità quali aggettivi userebbero per definire i libri; hanno snocciolato così questo elenco di bellissimi attributi. I libri possono essere: fragranti, pazienti, vissuti, avvincenti, necessari (2 volte), insostituibili, informativi, interessanti (2 volte), affascinanti, acculturanti, intensi, liberi, immortali, misteriosi, intriganti, magici, calmanti, esplorativi, curiosi.
Alla luce delle riflessioni sviluppate sin qui, attraverso i libri con le loro immagini e parole scritte, che peraltro oggi possono essere fissate su una pluralità di supporti – da quelli di tipo cartaceo a quelli informatici – nelle persone con sordità possono svilupparsi:

– il linguaggio verbale, sia sul piano del vocabolario che della sintassi;

– l’abilità di cogliere nell’ambiente dettagli anche secondari attraverso il canale visivo;

– la propensione a immaginare relazioni e nessi tra fatti e fra persone;

– l’apertura verso mondi possibili, oltre il dato e lo scontato.

Ai bambini con sordità credo che non possa esser fatto dono più grande di poter accedere a una montagna (!) di libri scelti con cura, volumi che racchiudano immagini che siano veramente belle e parole che corrispondano alla loro sete di apprendere, conoscere ed esplorare se stessi, gli altri e il mondo.